Anselmo Grotti

Il concetto di “analfabetismo” cambia con il mutare della complessità della società nella quale si vive. Al momento dell’unità d’Italia (1861) “analfabeta” era colui che non sapeva neppure scrivere il proprio nome. La media di analfabeti era del 78%, distribuita in modo diseguale tra le regioni. Nel 1951 si considera “analfabeta” chi non sa leggere e scrivere (le percentuali regionali variano tra l’1% del Trentino e il 32% della Calabria). Nel 2001 gli analfabeti erano l’11%, contro il 7,5% dei laureati. 20 milioni di persone (il 36,5% della popolazione sopra i sei anni) risultavano “illetterati”.

Oggi ci sono 2 milioni di analfabeti totali, 13 milioni di semianalfabeti (sanno firmare ma non capiscono ciò che leggono), altri 13 milioni di analfabeti di ritorno (persone che hanno perso l’uso fluido della scrittura e della lettura). Fanno 28 milioni di italiani, su 55 totali (escludiamo qui gli stranieri per ovvi motivi). Più della metà della popolazione italica non ha le competenze minime di comunicazione scritta.

Secondo l’Ocse il 47% della popolazione si informa, vota e lavora “seguendo soltanto una capacità di analisi elementare”. C’è un motivo per cui il controllo delle televisioni è così ambito dai potenti di turno. Questa situazione non provoca solo deficit democratico, ma ha anche un costo economico, quantificabile in 50 miliardi di dollari.

Forse dovremmo fare qualcosa di più per la scuola e la formazione. Sia per la crescita umana e civile degli italiani, sia per la nostra economia.