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La Specularità Inversa

 

 

 

MITO...   ZEN...   RAGIONE...

 

 

 

 

Sentinella divina

sul guardiacoste celeste

scruta imperturbabile gli eventi

 

cauto dissentire

di anime cangianti

nel divenire assoluto

di un nuovo domani

di un’altra era ancora

 

XXI° urlo

imponi il tuo stile

sei così diverso dall’ovvio

 

insiste voluttuoso

conficcando la penna con forza

nel cuore aperto

di una umanità disperata

il poeta gabbiere

 

 


 

 

Prefazione a La specularità inversa di PAOLO RUFFILLI

 

C’è una poesia del presente, di una realtà dichiarata in accadere: cumulo di oggetti, successione di luoghi, trafila di persone, in cui il tempo è bloccato sulla scena e dilatato a proporzioni estreme e in cui tutto avviene sempre per necessità. Una poesia in cui è assente la memoria o, per lo meno, latita e si cela, rientrando qualche volta all’improvviso per la finestra, in un participio passato o in un flash-back all’imperfetto (raro e subito dissimulato).

È la poesia che, affidandosi preferibilmente all’uso del presente, punta e rischia sulla tenuta lunga, su un eterno magari fatto «di infiniti battiti d’ali»; quella, insomma, per cui si pone la tenuta nel tempo delle cose e della vita. La poesia che, pur dissimulando (nel ribaltamento delle prospettive, nel ricorso al puro peso degli oggetti), cede al progetto segreto di salvare nella limpida misura delle parole l’evanescenza e la corruttibilità del mondo.

È in questa prospettiva che Sante De Pasquale mette a punto, tra diverse suggestioni, la sua lucida rappresentazione della realtà, senza semplificarne la complessa stratificazione e senza rinunciare affatto ai sogni e alle visioni. In una chiave di sovrapposizione e di interazione dinamica tra le varie componenti.

Uno dei titoli di sezione, La specularità inversa, è indicativo, nel felice abbinamento di due termini divaricati, dei poli entro i quali si muove la poesia di De Pasquale. Da una parte, c’è «specularità» e tutto ciò che questo nome significa: luce, solarità, specchiabilità, armonia simmetrica; e, dall’altra, c’è «inversa», cioè rovesciamento, opposizione, contrasto. Come dire, insomma, una splendida realtà vista all’incontrario e, dunque, se non imperfetta almeno deformata; nella sua sagoma che è, insieme, prova e ricordo, testimonianza e indizio, perché legata comunque a una sfasatura magari frutto della vista e della coscienza («perduto ordine interiore», evoca a un certo punto l’autore).

Del resto arriva, dalla realtà stessa, un sia pur intermittente messaggio che l’uomo coglie e cerca di decifrare («Casta luce interiore /segno innaturale/del vasto mondo sconosciuto»). È lo stimolo a una risposta positiva, costruttiva, che resta consapevole dei limiti e delle contraddizioni («Campo visivo dimezzato»), ma che non rinuncia al «desiderio d’immortalità» e accetta lo scontro con il rischio del vuoto («Lontana/invisibile coscienza dell’altro/negato all’io vertigine/dal vuoto sguardo ignaro»).

La duplicità della poesia di De Pasquale è ascrivibile, del resto, all’antitesi tra ideale e quotidiano. Antitesi che è rappresentata, qui, nella contraddizione secondo cui si è costretti a vivere e, tenendo presente la quale, si è costretti a scegliere; non tuttavia in funzione di giustificativo e di assoluzione ai tanti piccoli compromessi quotidiani, anzi come specchio della rivolta e del rifiuto («ma scende lento nel buio/un sentimento cosciente/ribellione…»), dell’aspirazione e del traguardo («dirotta altrove il tuo sguardo/sogno stralunato…»).

Il «desiderio della luce» è una bussola attendibile e affidabile; riesce a guidarci perfino nel più confuso stato di disordine, quello in cui si precipita in perdita di senso («mentre confuso/il mare invade gli altri astri»). Ma non c’è, ripeto, rassegnazione neppure di fronte all’evidenza di una condizione da «naufrago veliero/in un mare/privo di approdi/destinato a scogli/pronti a rendere il nulla/nell’abbraccio finale». Per quanto possa apparire «sterile», la ricerca continua; anche se «monta insana/sfiducia cosciente». E il «rifiuto/del plateale inganno» si giustifica per se stesso, senza bisogno di altre giustificazioni; come tenace, premeditata resistenza al vuoto.

Capita spesso di sottolineare l’effetto produttivo dell’ambiguità in poesia, la forza evocativa di certa polisemia il più delle volte indotta e inconsapevole. È il caso, nella poesia di De Pasquale, di certi accostamenti e tratti verbali (in bilico spesso tra un verso e l’altro), in martellanti annotazioni di reperti, in fitti elenchi di gesti e di intenzioni, in rapide sequenze di profili, in minimi ragguagli, in cui si impone la duplice sembianza che dicevo sopra, dell’essere e dell’apparire, della luce e del buio, del volere e del potere, dell’aspirazione e della caduta, del credere e del negare, dell’errore e della ripresa. Un esempio calzante? Eccolo: «coda di un’idea/senza veli/ingenua e stupida/ma pulita/ nel moto perpetuo/del chiaro liquido/giace esangue/l’anima mia».

 

 

                                                                PAOLO RUFFILLI

 


 

 

Postfazione a La specularità inversa di MAURIZIO GREGORINI

 

«Lentamente scompare/ciò che era ieri/mentre confuso il mare/invade gli astri.» Versi disattesi, che mai ci aspetteremmo da un autore oggi. E ancora: «XXI urlo/imponi il tuo stile/se sei così diverso dall’ovvio…»; anche qui Sante De Pasquale annuncia la personale dichiarazione di una diversità linguistica (ma di disuguale in realtà, nella poesia, non v’è mai nulla: i veri poeti parlano sempre delle stesse cose che si riducono all’amore, la morte, la vita e il cosmo) che deve, pur in qualche bizzarro modo, spezzare le barriere che ci ricollegano. Qui, di inedito e sconosciuto, vi è soprattutto lo slancio di dover mutare, con la rivolta di una inedita lingua, il (o un) mondo che cresce e prende forma intorno a noi. Si ascolti: «Non paga/il seme dell’originale/il desiderio di luce/dirotta altrove lo sguardo/sogno stralunato/di cane randagio». Torna a noi la cosmica solitudine del poeta, di nuovo ecco il miraggio infrangersi nel vuoto di un liquido dell’universo che tutto riporta all’origine delle cose eterne: passione, fuoco, tormento, distacco; la poesia va a chiudersi in un già detto o non rivelato che è nella essenza di ogni forma di vita. Credo che già altrove Ungaretti disse che il poeta altro non è che un bambino meravigliato delle cose che in lui accadono divenuto adulto. Ecco, dal mio umile modo di sentire la poesia, credo che Sante De Pasquale sia un uomo e un poeta a cui visceralmente è dato vivere un qualcosa dell’infanzia senza ombra di termine alcuno e da qui egli tragga la sua forza di debolezza e di smarrimento a tal punto da farmi percepire la sua vita poetica maggiormente problematica rispetto a quella dei suoi coetanei (De Pasquale ha da poco passato i trent’anni), uno, cioè, che in qualche strano e misterioso modo può (e, sono sicuro, potrà in futuro) dare nuova luce nel senso della vita degli altri esseri umani.  Ma è pur vero che non sto parlando, ora, di eccezionalità linguistica o verbale, proprio perché sì, i versi hanno forte presa, ma è reale che ciò che in essi è contenuto non è per nulla raro. Di qui parte però una fluidità della parola che conserva ogni eccesso dell’esordio, con un ardimento tipico di colui che è propenso a toni sapienziali, con un che di barbarico e selvaggio che ci fa sentire  ad orecchio questi canti: «Casta luce interiore/innaturale segno/del vasto mondo sconosciuto/nel mare agitato/di un sonno ubriaco.» E ancora: «Eppure unici/nel susseguirsi irripetibile/di gesti inconsueti/ma noti.» Da questi pochi versi si può capire in quale maniera, ora, la poesia dell’autore in questione abbia rotto i suoi argini invadendo la terra di una possibile prosa capace di una espressione artistica fortemente legata alla condizione dell’uomo moderno. Intendo dire, che queste poche parole, che la poesia del De Pasquale tenta di sfuggire ad un senso di inutilità spesso vissuto dagli attuali cantori, soprattutto perché nella sua opera – come accennavo poco sopra, ancor non di dominio pubblico – si avverte uno spasmodico e isterico (ma sottomesso) urlo di recuperare il mondo e la vita degli altri per poi dare una  nuova forma (restituendogli origine) alla consistenza di una nuova espressione. Non so dire se il De Pasquale intuisca il suo respiro e lo viva come una fiaba, perché nei suoi versi v’è un gioco verbale tutto votato ad una barocca febbre d’universo che è anche inquietudine e rilassatezza, sacralità dell’istinto e dissacrazione tecnologica, come se il poeta tentasse di prendere con mano novecentesca un Ottocento classico il cui desiderio altro non è che quello di poter nuovamente nascondersi dentro il grembo di una parola/natura sì coscienziosa dell’assenza giovanile di un amore, ma che ignora morte, romanticismo e silenzio di una ragione di arte che ai più può apparire illogica, improvvisa e mostruosa. Non so se vi sarà un pur minimo nemico di questi versi (dove non c’è vera poesia v’è invidia), so però che nella doverosa ingenuità di alcune parole dal De Pasquale utilizzate, v’è un’alta immagine di carica e di violenza espressiva che finisce per divenire dramma e rovina. Quale sia il futuro di questo nuovo lirico a me non è dato sapere, ma mi auguro che il suo non anomalo grido dell’umana condizione (che infastidirà non pochi) trovi il modo di sfuggire l’ordine e il senso delle cose, abbracciando una selvaggità che non sia soltanto verbale, ma che sappia (nella vita del De Pasquale come in quella di tutti noi) restituire grazia ad uno stato d’animo che non potrà non spegnersi che nell’abbandono e solitudine se il poeta potrà, nei giorni a venire, ancora centrare il punto focale di immagini putrescenti che non solo gli appartengono, ma che sono panni di una nuova lingua capace di rientrare in quello che la poesia fatalmente regala e fa accadere.

 

    MAURIZIO GREGORINI