“Quei giorni perduti a rincorrere il vento”

La nostra insicurezza ci pone dinnanzi ad un tormento senza fine che Fabrizio De André riassunse in un quesito semplice e asciutto: “Come potrò dire a mia madre che ho paura?”
Ecco, dentro a questa frase che culmina con un lancinante punto interrogativo è condensata l’amletica e sempiterna drammaticità della questione morale, etica e generazionale. Vi risiede il seme della discordia verso se stessi, la contrapposizione tra l’Io insicuro e l’Io risoluto, l’Io laico e contemporaneo contro l’Io bigotto e conservatore; l’ipocrisia verso lo scandalo; la certezza di non saper niente; l’immanenza del rapporto genitoriale; la fiducia materna che si incrina nel momento stesso in cui si ha “paura di aver paura”.
Con che faccia confrontarsi con il mondo?
Fabrizio De André, che ci ha lasciati proprio l’undici Gennaio, nel 1999, poneva sempre l’ascoltatore davanti ad una scelta: in ogni suo verso ci insegnava il senso di responsabilità.
Confessore di se stesso, giudice senza giudicare, egli incarnava il gesto poetico con l’ardore di un rivoluzionario.
Si autodefiniva soltanto “cantautore” perché, ricordando le parole di Benedetto Croce, “fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi, rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore” , ma ciò non impedisce a chi oggi ascolta ogni parola, frase, brano, battuta, riflessione di Faber, di capire quanto si sbagliava per un eccesso di umiltà che l’ha caratterizzato fin da giovanissimo, fin dai tempi della detestata “carriera scolastica” negli istituti privati del padre, fin dalle prime esibizioni tragicomiche e caustiche con l’amico di una vita, Paolo Villaggio.
Paolo, che gli disse quanto era stronzo a porsi come un turbolento e volgare ragazzo arrabbiato col mondo. Paolo, che gli consigliava di misurarsi davanti al pubblico di merda che gli stava davanti. Paolo, che per primo fu al suo funerale, perché fra merdacce si capivano bene.
Perché anche la vita di De André era poesia, o forse lo è per tutti ma solo un poeta può cogliere certe analogie, certe figure, certe suggestioni, e rendere tutto lirico, un omaggio all’esistenza.
Come i poeti latinoamericani del Novecento: Neruda, Huidobro, De Rokha, i creazionisti, la vita di Fabrizio fu un’avanguardia poetica che celebrava la poesia dovunque, anche per la strada e nella miseria umana, la sua ambientazione preferita.
Mentre le sue canzoni, avvolte in un linguaggio superbo e dal sapore antico, erano permeate da un’ideologia e una potenza politica da andare oltre alla politica stessa.
Faber era anarchico, non è mai stato un segreto.
Eppure era spirituale, autentico, agreste, classicista, esteta, impaziente, individualista, libertario, scomodo, infedele, egocentrico e realista.
E’ una cosa possibile? Ma certo, se sei De André, naturalmente. Chiunque altro sarebbe soltanto uno sputtanato inconcludente e poco consapevole.
Se la canzone italiana ha un qualche valore, una certa cifra artistica, è indubbiamente merito della generazione di cantautori “arrabbiati” che hanno calcato le scene dalla metà degli anni sessanta fino alla fine degli anni di piombo; la coincidenza storica tra il grande casino sessantottino, le stragi, l’inquietudine, gli scioperi, i compromessi più o meno storici, e l’arte.
Pasolini, Pannella, Berlinguer, Pazienza, Fellini, Malerba, Zanzotti, Calvino, Pinelli, Fo, Volonté, eccetera, eccetera, eccetera…poeti, scrittori, registi, attori, saggisti, attivisti; si aggiunsero, come accadeva in tutto il resto del mondo, anche i cantautori. O meglio sorsero, perché prima, caso curioso, non c’erano. C’erano i menestrelli, gli aedi, i cantori di strada, gli interpreti, i poeti, ma non sussisteva la categoria.
Fu così che spuntarono, tra Genova, Bologna, Milano e Roma: Dalla, Guccini, Bertoli, Graziani, Lauzi, Battiato, De Gregori, Venditti, Vecchioni, Paoli e il diversissimo Fabrizio De André.
Perché le sue battaglie erano intime. Perché i suoi spettacoli erano trasversali. Perché le sue giornate erano su un trattore, in Sardegna, lontano da tutto e da tutti.
Perché la sua situazione era spinosa, scomoda, una vita fatta di un vissuto che permeava tutto se stesso, anche tutto ciò che scriveva. Soprattutto ciò che scriveva.
Fabrizio era anarchico dalla mattina alla sera, dalla veglia al sonno, probabilmente anche mentre sognava.
La differenza sta tutta lì.
E oggi, la sua mancanza è un baratro così grande da risultare incolmabile e ogni giorno abbiamo un disperato bisogno di ascoltare le sue parole, per la necessaria condizione umana che in questo torpore manca terribilmente: REAGIRE.

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