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Giovedì santo – cena del Signore

Maestro Guglielmo, Ultima Cena : Cattura di Cristo (1199 circa) – Cripta della Cattedrale di San Zeno (Pistoia).jpg

Maestro Guglielmo, Ultima cena / Arresto di Gesù, Cripta Cattedrale Pistoia – 1199

Omelia

“Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano: lo mangerete in fretta. E’ la Pasqua del Signore”

Giovedì santo: memoria della pasqua. E’ la pasqua lontana del popolo di Israele che ci parla di una partenza improvvisa, di una notte di liberazione. E’ una storia rimasta impressa nella memoria e che è divenuta rito per rivivere nel presente l’esperienza di quella notte, l’incontro con il Dio che fa uscire.

Celebrare è vivere il tempo in modo nuovo, scorgere che il nostro tempo è legato insieme ad altri tempi. Il rito, quest’esperienza umana che interrompe il tempo ci provoca a ricordare, a scorgere quanto sta dentro e quanto sta oltre il nostro tempo C’è uno spessore del tempo da scoprire. Questo tempo è un tempo visitato, è spazio di un incontro di alleanza, di storia con Dio.

“mangerete l’agnello con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano…”

Uomini, donne bambini, anziani in questi giorni si stanno mettendo in cammino, sono bloccati nel loro cammino da muri e barriere. Sono stati spinti dal non poter sostenere più la schiavitù, da una ricerca di libertà, attratti da una promessa che fa loro intravedere luce nel buio e nella desolazione del loro presente. E’ la vicenda dell’esodo di popoli che continua e si ripete.

Oggi viviamo questo rito, legati al popolo d’Israele, e legati a tutti i popoli che nel tempo si sono messi in cammino, a quelli che sono ora in cammino, a tutti coloro che sperano di uscire da schiavitù, da violenza, dalla paura. Celebriamo la pasqua per ricordarci che Dio che ha chiamato Israele è Dio di ogni cammino di liberazione, Dio che fa partire, i fianchi cinti, il bastone in mano… In questa storia è nascosta una memoria di compagnia, di promessa, di speranza.

Pasqua è memoria che provoca la vita. E’ ricordo di un cammino da intraprendere, di un passaggio sempre da compiere. Non c’è da sostare, bisogna partire e ripartire. I fianchi cinti, i sandali ai piedi: sono i segni di chi si mette in viaggio e si apre ad una novità, ad un rischio, ad una speranza. Il partire di tanti oggi, il cammino di chi fugge dalla guerra, dalla fame, dalla distruzione, è domanda aperta per noi, è vita che ci rinvia a quel partire nella notte, ad un esodo da condividere, oltre i confini di sistemi religiosi in cui abbiamo rinchiuso il volto del Dio vivente, che vuole libertà e vita, salvezza, per ogni uomo e donna. La chiamata di Dio sta fuori, si fa presente nella vita di chi è oppresso, nei percorsi di chi sogna liberazione.

Ascoltare gli esodi di questo tempo, vivere la pasqua come memoria che ci raggiunge nella vita è provocazione ad vivere la fede come cammino, senza garanzie, senza sicurezze. Si può rimanere chiusi, ripiegati sul proprio passato, invecchiati a ripetere le stesse cose, prigionieri della propria storia e della propria virtù. Chi parte guarda lontano, sa guardare oltre.

I sandali, le scarpe, sono indispensabili per chi cammina. C’è un partire fisico e c’è un partire del cuore. Ci sono sandali da indossare sandali da togliersi davanti al cammino di chi giunge con i sandali consumati.

I fianchi cinti sono il vestito di chi non ha una casa propria, sicurezze di attività ma vive la sincerità di scoprirsi inerme e vulnerabile, capace di rivolgere la parola, di dialogare, di chi vive una leggerezza buona rispetto alle cose. Solo chi non ha tutto e sa accontentarsi di poco può apprezzare le cose le cose più semplici, può provare gioia: l’acqua, un riparo, il cibo, il lavoro, gli incontri. E’ questa la grazia del deserto, del cammino.

3402241555_df61d26799.jpgAffresco Lavanda dei piedi – s.Angelo in Formis 1080 ca.

“Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio se lo cinse attorno alla vita…

Anche Gesù ha vissuto la pasqua con i fianchi cinti: lui che è presentato dai vangeli sempre in cammino, che sulla via ha istruito i suoi discepoli, che sulla strada ha compiuto i suoi gesti più belli, che ha aperto la possibilità di vedere a quel cieco che poi si mise a seguirlo proprio sulla strada. Lui che sulla strada trovava i luoghi della sosta e del riposo e dell’incontro. Ed erano luoghi di parola, di amicizia, di fraternità.

Quand’era a tavola si alzò: non dovrebbero essere così anche le nostre comunità? luogo di fraternità, dove ci si può ristorare durante il cammino, dove attorno alla tavola ci si accoglie, luogo dove si può passare (fare pasqua, appunto) scoprendo apertura di condivisione? Sono domande aperte per la chiesa, per le chiese, ma anche per le nostre case, per le nostre comunità. E avvertiamo la distanza, il tradimento di cui noi siamo responsabili.

Gesù ha vissuto la pasqua con i fianchi cinti. Se li è cinti con un asciugatoio nel gesto del servo, di chinarsi e lavare i piedi. Ci ha raccontato così, nel silenzio di gesto, il senso della sua esistenza.

I discepoli dei saggi indiani si chinano per toccarne i piedi, e con questo gesto dicono la loro inferiorità. In molte culture vi è usanza che i figli si inchinino ai piedi dei genitori e toccandoli esprimano il loro rispetto.

Gesù pone un gesto che esce da questi significati. Non lava nemmeno i piedi ai poveri come si fa oggi nelle celebrazioni. Lava i piedi a poveri come lui, a uomini come lui, ai discepoli. Lava i piedi agli amici. Facendo questo non pone un gesto di ossequio e nemmeno di umiliazione. Impedisce d’ora in avanti di essere omaggiato come i maestri. I suoi discepoli sono maestri come lui. Per questo tale gesto rinvia ad una reciprocità e apertura. Si pone un’interruzione dell’inchino dei sudditi, della sottomissione a gerarchie di ruoli e di meriti.

Un bel testo di Erri De Luca dal titolo Elogio dei piedi, ci ricorda l’importanza dei piedi:

Perché reggono l’intero peso.
Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi.
Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare.
Perché portano via.
Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali.
Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica.
Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare.
Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura.
Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Pushkin.
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante.
Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio.
Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo.
Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.
Perché non sanno accusare e non impugnano armi.
Perché sono stati crocefissi.
Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio.
Perché, come le capre, amano il sale.
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.

Gesù ci ha raccontato che si vive pasqua quando la vita è cammino, nella scoperta di sé, della propria identità più vera in relazione con gli altri. Si è chinato, l’opposto dell’innalzarsi. E in questo chinarsi sta racchiusa la sua storia, la via del suo abbassamento, contro ogni pretesa di grandezza.

Viviamo una religiosità fatta da un lato fatta di devozioni, osservanze, dall’altro relegata in costruzioni intellettuali oppure in un fare preoccupato del proprio io, del proprio apparire. E nel contempo stesso ci scopriamo capaci di ripiegamenti di egoismo, di indifferenza e cattiveria fino alla violenza contro l’altro, la violenza del disprezzo, del disinteresse, dell’esclusione.

Forse proprio per questo, davanti ad una comunità che aveva perso il senso dello spezzare il pane l’autore del IV vangelo pone una provocazione: nel momento della cena ricorda che la sera di pasqua Gesù aveva compiuto un gesto sconvolgente, inatteso. Il maestro ha compiuto il gesto dello schiavo si è messo a lavare i piedi ai discepoli.

Con l’asciugatoio attorno ai fianchi ci ha detto anche che questo cammino non è di solitudini, ma di incontri, e di servizio. Con i più vicini, con i più lontani. Gesù iniziò a lavare i piedi ai suoi e chiese proprio a loro di continuare a fare questo: sta qui il senso profondo del gesto che le prime comunità chiamavano lo spezzare il pane. Spezzare il pane, memoria di una vita condivisa. Scorgere che spezzare il pane rinvia ad intendere la vita come cammino in cui scoprire il servizio, l’accogliere l’altro: perché lavare i piedi è gesto del servo ma è anche segno bello dell’ospitalità. La prima mossa di lavare i piedi all’ospite è quella di Abramo che alle querce di Mambre accoglie tre ospiti sconosciuti e per prima cosa offe loro ombra per ristorarsi e acqua per lavarsi i piedi (Gen 18,4).

Celebrare la pasqua è occasione per fermarci e fare nostra la domanda di Pietro. ‘Signore, tu lavi i piedi a me?’ Non è già la scoperta che questo dovrò farlo anch’io, che dovremo seguire l’esempio di Gesù, che dovremo lavare i piedi agli altri… questo è forse troppo.

Forse celebrare è scoprire questa profondità della nostra vita: non un agitarci per tante cose, ma un lasciarci incontrare. Possiamo solo fermarci a vivere lo sconcerto perché… ‘tu, proprio tu, lavi i piedi a me’. e la meraviglia perché quei fianchi cinti per partire sono i tuoi fianchi… e la gratitudine perché quei fianchi sono cinti con il grembiule della cura, dell’attenzione. Le sue pieghe racchiudono quella tenerezza e quella misericordia che è cosa rara oggi: tanto predicata quanto lontana dal nostro presente.

E tutti noi siamo coinvolti in questo tuo lavare i piedi. E questo forse è già tutto nel tramonto di questo giorno in cui ci troviamo a ripetere ‘Rimani con noi, in mezzo a noi, perché si fa sera…’

Alessandro Cortesi op

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Sieger Köder, Ultima cena

Cene ultime (III parte) – Cenacoli fiorentini del Quattrocento

(in rapporto ad una visita ai Cenacoli del ‘400 di Firenze – 31 marzo 2012)

“Venuta la sera si mise a tavola con i dodici. Mentre mangiavano disse : ‘In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà’. Ed essi profondamente rattristati cominciarono ciascuno a domandargli: ‘Sono forse io Signore?’. Ed egli rispose: ‘Colui che ha messo con me la mano nel piatto è quello che mi tradirà. Il figlio dell’uomo se ne va , come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato”  (Mt 26, 21-24).

Dopo che Gesù nell’ultima cena ha comunicato ai suoi la tragica parola che riguarda il tradimento, la narrazione evangelica non si attarda a descrivere il clima di quel momento. Ma proprio questo attimo è colto dagli artisti come tempo da fissare cercando di esprimere nel ritratto dei volti di Gesù e degli apostoli e nella loro gestualità i sentimenti, le reazioni, i pensieri e tutto quanto era contenuto nel cuore di ognuno dei presenti e nell’ambiente del cencaolo.

Questo momento fu così scelto da grandi artisti del Quattrocento fiorentino per decorare la parete di fondo dei grandi refettori conventuali. Secondo la tradizione monastica il momento del pranzo comune doveva essere vissuto in silenzio e nella meditazione. Esso costituiva un tempo per collegare il momento del nutrimento al mistero del dono dell’eucaristia e all’ultima cena di Gesù con gli apostoli.

Durante il Trecento la scena dell’Ultima Cena aveva costituito uno dei momenti ripresi nei cicli di affreschi riguardanti la vita di Gesù e la sua passione in particolare.  A Firenze l’esempio trecentesco di ultima cena si può trovare nel refettorio dei francescani di santa Croce. Di fatto l’ultima cena costituisce uno degli elementi dell’affresco dell’intera parete che risulta coperta  interamente da diverse immagini che rinviano tra l’altro alla vita di san Francesco e di san Bonaventura. Siamo nel 1340 circa e l’opera è di Taddeo Gaddi. L’ultima cena è rappresentata alla base di una grande croce che affonda le radici proprio sulla mensa eucaristica. La croce ha i caratteri del lignum vitae, l’albero che genera frutti di vita. Così ai piedi della croce sono raffigurati san Francesco e san Bonaventura, l’iniziatore del movimento francescano e colui che ne diede organizzzazione. Francesco e Bonaventura sono proposti come esempi dis antità ce trae la sua linfa dal dono di vita di Cristo nell’eucaristia.

Agli inizi del Quattrocento, l’invenzione della prospettiva offre un potente strumento per poter raffigurare la cena secondo modalità nuove e la cena diviene motivo considerato a sé stante e dipinto in modo da occupare l’intera parete di fondo dei refettori.

Un secolo più tardi rispetto al cenacolo di Taddeo Gaddi, nel 1447, nel refettorio dell’antico monatsero delle benedettine di sant’Apollonia, Andrea del Castagno affresca con l’immagine dell’ultima cena la parete di fondo, ad ovest e si rifà all’impostazione di Taddeo Gaddi. In questo refettorio anche qui la cena è posta al di sotto di una fascia superiore in cui vengono presentati i momenti della crocifissione, della risurrezione di Cristo e della deposizione nel sepolcro. Nella scena della risurrezione Andrea Del Castagno presenta un Cristo dal volto imberbe che esce dalla tomba portando un vessillo di vittoria, in una raffigurazione che sottolinea la freschezza giovanile di una nuova vita che ha vinto i lacci della morte.

Andrea Del Castagno riprende l’impostazione che già Giotto aveva dato alla sua raffigurazione della cena nella Cappella degli Scrovegni, già ripresa da Taddeo Gaddi, ed utilizza la prospettiva per dare profondità allo spazio che appare quasi schiacciato. Arricchisce poi di una nuova luce l’intero ambiente. Il cenacolo appare come una scatola aperta da un lato, una quinta teatrale al cui interno è in atto il dramma dell’ultima cena. Si tratta di una esecuzione pitorica secondo le regole della prospettiva che Filippo Brunelleschi aveva individuato e che trovò accoglienza negli artisti del primo Quattrocento a Firenze.

La scena della cena è inserita in un ambiente coperto da un tetto di cui è visibile un versante della copertura in coppi ed embrici alternati e con un soffitto a travicelli. Andrea descrive la sala del cenacolo adorna di marmi preziosi. Alle pareti sono infatti visibili pannelli con lastre di marmo policromo. Gli apostoli sono seduti su un sedile marmoreo e alle loro spalle è visibile un arazzo ornato con fiori. Sopra i riquadri marmorei delle pareti un intreccio di trentatré occhielli e mezzo con una raffinata allusione all’età di Cristo al momento della morte.

Le figure degli apostoli sono presentate in una monumentalità che ne esalta i tratti psicologici di ognuno. Con intensa penetrazione dei sentimenti e dei caratteri infatti Andrea esprime nella raffigurazione dei volti le reazioni di fronte all’annuncio del tradimento da parte di Gesù. La scena è attraversata da un forte movimento e da una partecipzione di emozioni. Gesù al centro ha lo sguardo rivolto a Giovanni che è reclinato con il capo sulla tavola, appoggiato al braccio destro.

Pietro appare  stupito e interrogativo e volge lo sguardo preoccupato verso Gesù. Alla sua destra Giacomo tiene un bicchiere tra le due manied è come immobile pensieroso. Accanto a lui Tommaso appare raffigurato in atteggiamento di chiaro scetticismo, con il capo rivolto verso l’alto e la mano sul mento a sostenerlo.

Tommaso è l’apostolo che nel IV vangelo afferma la sua esigenza di vedere per credere anche dopo che gli altri gli riferiscono ‘Abbiamo visto il Signore’. “Se non vedo nelle sue mani il legno dei chodi e non metto la mia mano nel suo fianco , io non credo” (Gv 20,25). All’estremità sinistra della tavola Filippo sta discutendo con il vicino seduto alla sua destra. Così dalla parte opposta si riconosce Andrea con la folta capigliatura bianca riccioluta e la barba che discende abbondante  come cascata si rivolge ad incontrare lo sguardo rattristato e intimidito di Bartolomeo che forse pone a se stesso la domanda se non sia lui in qualche modo il traditore del maestro. Accanto a lui Taddeo sembra quasi voler allontanare con il gesto delle mani questo annuncio che a lui appare un peso troppo grande da sopportare. E all’estremità destra della tavola Simone si copre la faccia con la mano in un gesto sconsolato quasi a dire l’impossibilità di quanto sta per avvenire. E l’ultimo apostolo a destra ha il volto con uno sguardo quasi impietrito. Giuda appare distaccato dagli altri, l’unico senza il disco dorato dell’aureola sul capo, posto davanti  a Gesù, con la chioma nera e la barba scura, lo sguardo penetrante e  e il naso adunco.

Circa trent’anni più tardi, nel 1476, Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio, riprende i motivi di Taddeo Gaddi e di Andrea del Castagno nella raffigurazione dell’Ultima cena nella badia di Passignano. La sua opera doveva rimanere entro vincoli stabiliti dal momento che la parete era già affrescata con le scene della cacciata dal paradiso terrestre e con l’episodio dell’omicidio di Caino. In questo refettorio dei monaci vallombrosani  Ghirlandaio raffigura l’ultima cena come  momento di rinnovata offerta dell’alleanza rotta nel peccato dei progenitori e nella violenza fratricida di Caino. Gesù, nuovo Abele, donando se stesso, conferma che Dio non viene meno al dono della sua alleanza che vince anche la violenza e il peccato.

A Firenze Ghirlandaio dipinge altri due refettori: il primo è quello del refettorio di Ognissanti il secondo nel complesso conventuale di san Marco. Egli esegue queste due opere attorno al 1480. I due cenacoli sono assai simili e tuttavia forse, proprio in un confronto dalle differenze si possono riscontrare come essi intendano raffigurare momenti diversi seppur vicini dell’ultima cena.

Nella Cena del refettorio di Ognissanti si rende palpabile il senso dell’agitazione e il movimento dinamico dei corpi, espressione dell’agitazione dei sentimenti, nel momento immediatamente successivo alla parola di Gesù sul tradimento. In questo cenacolo un elemento è proprio e caratteristico. Sulla sinistra in basso vi sono due brocche e sulla destra un bacile: allusione alla lavanda dei piedi e ricordo di questo momento fondamentale della cena. La mensa appare apparecchiata con cura e l’uso della prospettiva consente di far notare allo spettatore i cibi (pane, formaggio, frutta), le ampolle  e le stoviglie sulla tavola.

 

La tovaglia di lino è ricamata con ricami propri della tradizione di tessitura perugina. La tovaglia stesa sulla tavola allude al lenzuolo su cui Gesù viene avvolto nella sepoltura. Sulla mensa sino visibili pani e ampolle che contengono acqua e vino rosso. Anche questo elemento può essere un riferimento alla morte e al fiotto di sangue e acqua dal costato di Gesù dopo la sua morte (Gv 19,34). L’acqua è anche simbolo dell’umanità. Cipriano di Cartagine già nel III secolo così scriveva parlando dell’eucaristia: “quando el calice si mescola l’acqua al vino, il popolo è raccolto intorno a Cristo e la folla dei credenti è riunita e congiunta a colui nel quale ha fede. Questa unione e congiunzione di acqua e vino si realizza mescolandoli nel calice del Signore, in modo che quell’altra mescolanza non si possa scindere, così come la chiesa non può essere divisa e separata da Cristo” (Epistulae 63).

Un ulteriore elemento carico di simbolismi è costituito dalla presenza di frutti di varie specie sulla mensa. A sinistra si riconoscono due mele, poi numerose ciliegie disseminate su tutta la tavola e sull’estremità destra due arance. Si può tentare di collegare questi frutti ad una simbologia racchiusa in essi. Le mele rinviano al peccato, le ciliegie alle gocce di sangue rosso di Cristo, le arance sono simbolo del paradiso. Così pure la raffigurazione della vegetazione che compare dietro la sala del cenacolo, all’esterno, rinvia al giardino lussurreggiante, all’hortus conclusus, lo spazio riferito a Maria ma anche al cuore dei religiosi che nella loro interiorità sono invitati a ritrovare la dimensione di riconciliazione propria dell’Eden. Non sfugge a chi osserva anche la presenza di volatili. In particolare un pavone raffigurato sulla destra ed una pernice sul davanzale della finesta alla sinistra: ancora è qui da cogliere un simbolismo secondo il quale il pavone rinvia all’immortalità ed è simbolo della risurrezione. Mentre la pernice reca in sè un riferimento negativo, connesso alla stoltezza ed alla furbizia. Nel simbolismo racchiuso in questo affrontarsi di pavone e pernice nel cenacolo di Ognissanti si può cogliere l’affrontamento di bene e male. Il pavone in modo simbolico già evoca la risurrezione, mentre la pernice richiama e si collega al gesto di Giuda. Così anche le scene di caccia, con la presenza di uccelli come le anatre o i falconi, sono evocazione della lotta tra bene e male, dello scontro tra malvagità e bontà. Ma la presenza delle quaglie è anche riferimento al miracolo della manna nel deserto, quando al popolo che mormorava Dio inviò la manna come cibo inatteso e gratuitamente donato. Un rinvio all’eucaristia e al gesto di Gesù nell’ultima cena.


Anche il  cenacolo di san Marco è opera del Ghirlandaio. Rispetto a quello di Ognissanti l’atmosfera appare più pacificata, quasi che il momento fissato nell’affresco sia l’attimo in cui dopo l’annuncio del traditore ognuno si ferma , più pensoso a riflettere e a interiorizzare quanto sta per accadere.

Elemento originale e tipico di questo cenacolo è la scritta che appare sulla fascia superiore rispetto alla spalliera dove sono seduti gli apostoli: Ecce dispono vobis sicut disposuit mihi Pater meus regnum ut edatis et bibatis super mensam meam in regno meo.

E’ citazione di Luca 22,29-30: “io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno”. E’ importante questa iscrizione perché rinvia al cuore dell’annuncio di Gesù che concerne il regno, secondo il disegno del Padre, e invita i dodici ad una speranza nel regno che si compirà nella dimensione escatologica. La cena di Gesù è ultima ma rinvia ad un futuro in cui si potrà ancora mangiare e bere insieme: sarà un mangiare e bere insieme con lui, nel regno che è dono del Padre. Questa espressione pone tutta la figurazione dell’ultima cena nel segno del compimento del regno, ed è espressione della speranza di Gesù e della certezza della fedeltà del Padre anche di fronte alla morte. In questo cenacolo compare la figura per certi aspetti enigmatica del gatto che si volge verso lo spettatore, forse rinvio alla figura dell’eretico, forse evocazione della presenza di una forza maligna e del peccato che ha preso Giuda.

Una celebre ultima cena del Quattrocento fiorentino è quella del refettorio delle terziarie francescane legato alla regola della beata Angela da Foligno, opera attribuita al Pietro Vannucci detto il Perugino, attorno al 1485. E’ detto perciò cenacolo del Foligno.

L’atmosfera di questa cena è soffusa di una tenerezza che esprime da un lato attesa e dall’altro di misericordia. Giuda, nella sua posiziome distaccata dalgi altri, davanti a Gesù, si volge guardando a chi osserva, mentre lo sguardo di Gesù raggiunge lui. Quello di Giuda è forse un tentativo di dialogo, un’apertura interrogativa sul dramma che la sua vicenda  rappresenta. Il suo atteggiamento è quasi di ricerca di soccorso nel non sapere uscire dalla spirale del male e  del tradimento. Lamano destra abbandonata sulla tavola la sinistra che regge in mano il sacchetto con il denaro. Lo raggiunge, anche se Giuda non lo incrocia, perché è voltato, lo sguardo di Gesù. Gli comunica solo la tenerezza della compassione e della misericordia, il perdono ancora offerto, senza alcune venatura d’ira e di tensione, ma solo pervaso di nostalgia di amicizia.


Un altro esempio di cenacolo fiorentino è quello affrescato da Andrea Del Sarto (1486-1530) nel refettorio  di San Salvi a Firenze. L’antica chiesa dell’abbazia fondata da san Giovanni Gualberto fu costruita attorno al 1048, in aperta campagna fuori le mura di Firenze. Il convento ospitò la comunità dei monaci vallombrosani. San Salvi era stato vescovo di Amiens nel VII sec. Era questa una tappa nel pellegrinaggio che conduceva in città di Firenze e all’Annunziata. Ai primi anni del ‘500 il convento fu ampliato e furono costruiti il refettorio, lavabo e cucine.

L’affresco fu realizzato tra il 1511 e il 1525 sulla parete di fondo del refettorio davanti all’entrata. Fu compiuto in 64 giornate e combina nello stile elementi dell’arte rinascimentale con spunti del manierismo. La parte iniziata per prima riguarda le pitture del sottarco che inquadra l’Ultima Cena; su di esso sono dipinti 5 medaglioni con rappresentati (da sinistra): San Giovanni Gualberto, San Salvi, la Trinità al centro al posto della più tradizionale Crocifissione, San Bernardino degli Uberti e San Benedetto.

Il padre di Andrea era sarto. da qui l’attributo Del Sarto riferito a Andrea che fu allievo di Piero di Cosimo e poi divenne un artista rinomato che nella sua pittura affianca elementi dello stile di Raffaello, Michelangelo e Leonardo. Nel contempo inaugura la nuova “maniera”. Andrea Del Sarto supera la tradizione  a lui precedente. Innerva tuta la scena di una luminosità che rinvia all’arte di Michelangelo. Offre nel suo tratteggiare le figure una intensa penetrazione psicologica.


Influenzato dal cenacolo di leonardo a Milano risulta Firenze la pittura del Franciabigio nel Cenacolo della Calza mentre Alessandro Allori è autore della raffigurazione della cena nel cenacolo di santa Maria del Carmine ormai nella seconda metà del ‘500

Per approfondimenti:

Cristina Acidini Luchinat, Rosanna Caterina Proto Pisani (edd.), La tradizione fiorentina dei cenacoli, Firenze 1997

Rosanna Caterina Proto Pisani, Il Cenacolo di sant’Apollonia, ed. Sillabe Livorno 2002.

Rosanna Caterina Proto Pisani, Il cenacolo di ‘Fuligno’ a Firenze, ed. Sillabe Livorno 2009.

Luca Frigerio, Cene ultime, ed. Ancora Milano 2011.

Alessandro Cortesi op

Cene ultime nell’arte (parte II)

Un affresco famoso dell’ultima cena si ritrova nella Cappella degli Scrovegni a Padova, cappella fatta costruire da Enrico Scrovegni, figlio di quel Rinaldo che Dante colloca nel girone infernale degli usurai. A scopo di ‘salvarsi l’anima’ e di non esporsi a quel destino che Dante aveva indicato per il padre, Enrico chiamò i più grandi artisti di quell’inizio del secolo XIV, Giotto per la pittura e Giovanni Pisano per la scultura, ad adornare una cappella che aveva fatto erigere.

Giotto affresca l’ultima cena in una posizione particolare nel quadro del programma iconografico che struttura la cappella. La colloca infatti nel primo riquadro in basso sulla parete destra, in una posizione vicina all’altare dove veniva celebrata la Messa. Ma era anche una posizione particolare perché si apriva allo sguardo di chi entrava passando per la piccola porta di accesso situata sulla parete sinistra proprio di fronte.

Gesù e i dodici sono presentati raccolti all’interno di un ambiente incorniciato da una architettura che fa intravedere l’esterno, il cielo blu e attraverso le finestre fa giungere un chiarore che pervade tuta la stanza del cenacolo. Ancora il momento della cena fissato nell’immagine è quello in cui Gesù dice “colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradità” (Mt 26,23; Mc 14,17-20). Giuda è rappresentato di spalle vestito di giallo mentre Giovanni è reclinato sul petto di Gesù con gli occhi chiusi.

Accanto a Giovanni c’è Pietro, poi un discepolo con il manto azzurro e accanto a lui un altro discepolo con la barba, forse Giacomo il minore, ‘il fratello di Gesù’, raffigurato come a lui somigliante nel profilo del volto.

E’ interessante come Giotto in questo affresco risolva il problema di raffigurare gli apostoli di spalle con le aureole rovesciate raffigurate davanti al capo. A questa immagine  è strettamente legato l’affresco della lavanda dei piedi, qui – a differenza di altri esempi e scostandosi dalla narrazione  evangelica – situato dopo il momento della manifestazione del tradimento. E’ anche da notare che sopra la cena è situata la formella della nascita di Gesù , mentre la lavanda è sormontata dall’adorazione dei magi. Forse in questa collocazione delle immagini sta un messaggio che può esser eletto come invito a cogliere la profonda unità tra mistero dell’incarnazione e mistero dell’eucaristia. Il dono da parte di Dio Padre del Figlio che si è fatto uomo trova corrispondenza nel dono di Gesù che fa della sua vita, del suo corpo, un dono da condividere. Così pure la lavanda dei piedi diviene in rapporto all’adorazione dei magi una sorta di epifania, di manifestazione dell’amore di Dio che si rende vicino e concreto nel gesto di Gesù e raggiunge tutti oltre ogni limite: infatti Giotto anche al momento della lavanda raffigura la presenza di Giuda insieme agli altri apostoli.

Giuda nel ciclo giottesco ha un ruolo non indifferente e viene raffigurato con il mantello color giallo che lo caratterizza nel segno del colore dell’inganno e del tradimento. L’importanza dei colori e il loro simbolismo è un elemento di grande importanza in tutta l’arte medioevale. Anche in altri riquadri come ad esempio al momento dell’incontro con i sacerdoti e nella notte all’orto degli ulivi nel gesto del bacio Giuda è riconoscibile per il mantello giallo (mantello del medesimo colore è indossato da Pietro al momento della lavanda dei piedi, forse un indicazione del suo tradimento che si attua come rinnegamento di Gesù al momento della passione). Giuda e Pietro accostati e posti in parallelo, a sottolineare che non c’è capacità umana di salvezza ma la salvezza può provenire solamente dall’accoglienza del dono gratuito di misericordia di Gesù stesso.

Nella scena dell’incontro con i sacerdoti da cui Giuda riceve la borsa con i trenta denari in cambio del suo tradimento i profili dei personaggi evocano la perfidia e il complotto per uccidere l’inncoente. Giotto suggerisce la somiglianza del profilo di Giuda con la figura nera di un diavolo presente alle sue spalle che poggia una mano sul suo braccio destro quasi a guidarlo.

Nel riquadro della scena dell’arresto nell’orto degli olivi Giotto sottolinea lo sguardo di Gesù che ancora una volta si fissa su Giuda con la tenerezza dell’amicizia e con l’interrogativo che scaturisce dalla sorpresa di questo gesto. Anche in questo momento movimentato e drammatico, segnato dalla violenza a cui Gesù si oppone consegnandosi liberamente, l’incontro degli sguardi tra Gesù e Giuda evoca l’atteggiamento di amore che Gesù aveva verso coloro che incontrava. Sembra quasi che Giotto dia immagine all’espressione presente in Marco 10,21: “Gesù, fissatolo, lo amò…”.

 

Una raffigurazione di tipo assai diverso rispetto a quella di Giotto è quella che si può osservare nel convento di san Marco, affrescato da fra Giovanni da Fiesole – Guido era il suo nome di battesimo – detto il beato Angelico, negli anni tra il 1438 e il 1446. Gli affreschi del beato Angelico a san Marco hanno la funzione di accompagnamento della meditazione dei frati e sono collocati all’interno delle piccole celle del complesso conventuale. Questo era stato anticamente era dei monaci silvestrini e fu fatto restaurare da Cosimo de Medici perché vi prendesse residenza la comunità dei domenicani, presenti a Firenze sin dal 1219, e in cui era in atto un movimento di rinnovamento e di nuovo slancio per opera di Giovanni Dominici nel convento di san Domenico di Fiesole nella prima metà del XIV secolo.

L’affresco del beato Angelico che richiama la cena di Gesù è collocato nella cella 35 del corridoio a nord, quello destinato ai fratelli cooperatori e agli ospiti, il corridoio in cui erano situate anche le stanze riservate per Cosimo de’ Medici.

Si tratta di una figurazione originale che riprende un motivo poco presente nella tradizione occidentale ma assai sviluppato invece nella tradizione orientale. E’ peraltro un motivo che ricorre anche in altre opere del beato Angelico, come in uno dei riquadri dell’armadio degli argenti conservato presso il museo di san Marco

Si tratta del motivo della comunione degli apostoli. Otto apostoli sono raffigurati in piedi attorno ad una tavola a ‘elle’, altri quattro, lasciati gli sgabelli liberi presso la tavola, sono disposti in ginocchio sul destra. Al centro Gesù distribuisce l’eucaristia ai discepoli. Questa immagine è pervasa da un’atmosfera che ben lungi dall’essere di tensione e agitazione, comunica invece una profonda serenità e commozione interiore. I volti sono espressivi di un senso di pace  e di accoglienza devota. Tra i quattro discepoli disposti in ginocchio sulla destra  l’Angelico inserisce anche la figura di Giuda, riconoscibile solamente dall’aureola che non ha il colore dorato come gli altri, ma è scura, così come scura è la sua capigliatura e la barba che gli attornia il volto. Ma anche il suo sguardo appare preso in un atteggiamento di adorazione. Il contesto in cui la scena si svolge richiama l’inserimento nel quadro concreto  della vita dei frati che lì vivevano. Dalle finestre si intravedono le architetture che richiamano la struttura del convento di san Marco appunto, alla cui ristrutturazione era stato chiamato dai Medici l’architetto Michelozzo, e sulla destra si intravede anche il pozzo  che stava al centro del chiostro con la carrucola e il secchio pronto per attingere l’acqua. Quasi un richiamo alla quotidianità come luogo di incontro con Cristo e a quella continuità tra l’esperienza degli apostoli e la vita della comunità. Ma è qui anche suggerita una considerazione dell’esperienza della fede come un rivivere il cammino degli apostoli nel proprio tempo. Il messaggio di fondo di questa immagine può essere sintetizzato nella cifra della pace: pace per i vicini che accolgono la comunione con Gesù e pace e misericordia anche per chi come Giuda, nonostante il suo tradimento, rimane accolto e compreso nell’amore di Dio.

Sulla tavola non appare alcun cibo, solamente il profilo tracciato di alcune tazze di cui è rimasta traccia graffita ma che non sono state colorate. Forse una allusione al fatto che il cibo della vita è Cristo stesso che nel gesto dell’eucaristia dona se stesso come pane della vita eterna per la vita del mondo (Gv 6,35).

Originale anche e proprio di questa immagine è la raffigurazione di Maria sulla sinistra, un passo avanti rispetto agli apostoli, in ginocchio e in atteggiamento meditativo, a richiamare una presenza femminile all’ultima cena, e insieme la presenza femminile come cuore della vita della chiesa e della comunità in atto di accoglienza del dono di amicizia e presenza di Gesù.

Il motivo della comunione degli apostoli è tema presente nella tradizione bizantina, si ritrova nel Codex purpureus

Si ritrova anche in mosaici orientali, ad es. nella fascia sottostante del grande mosaico della Vergine orante nella chiesa di santa Sofia a  Kiev dell’XI secolo.

nella chiesa della Vergine di  Gracanica  nella chiesa di Nagoricino in Macedonia (rinvio anche ad altre immagini visibili cliccando qui).

In Occidente per la prima volta attorno al 1340 a Ravenna in un affresco di santa Maria del Porto, e dopo il beato Angelico nella pala di Giusto di Gand, dipinta a Urbino per incarico del duca Federico da Montefeltro, commissionata attorno al 1473 per il palazzo ducale di Urbino. E’ questa una tavola che presenta la cena nel contesto dell’architettura  di una chiesa gotica. La tavola della cena si confonde con l’altare al centro della chiesa sul quale è posto un calice dorato.  Più che una riproposizione narrativa dell’ultima cena questa immagine reinterpreta l’evento accentuando la dimensione del rito eucaristico che ad esso si collega e lo fa rivivere.

Oltre ai personaggi della parte sinistra del dipinto fra cui si può riconoscere Giuda in atteggiamento di estraneità rispetto alla scena, è interessante la parte destra della tavola, Sono riconoscibili alcuni personaggi dell’epoca, tra cui Federico da Montefeltro duca di Urbino con il caratteristico naso adunco in atto di discutere con un misterioso personaggio  di fronte a lui. Forse dietro a questa espressione di dialogo sta il riferimento ad alcuni eventi che  avevano segnato il secolo XV. nel 1439 si era tenuto a Ferrara e Firenze un Concilio in cui le tradizioni di Oriente e Occidente si erano incontrate nel tentativo di una riconciliazione. Poi nel 1453 Costantinopoli era stata conquistata da parte dei Turchi.Forse nell’immagine dell’ignoto personaggio sta un riferimento al cardinal Basilio Bessarione, arcivescovo ortodosso di Nicea – e vicino alla famiglia dei Montefeltro – creato cardinale romano in virtù del suo impegno per la riconciliazione delle chiese. La ripresa del motivo caro alla tradizione orientale e bizantina della comunione  degli apostoli si collocherebbe in questa sottolineatura della Eucaristia come sacramento di una unità intesa come riconciliazione secondo la volontà e la preghiera di Gesù Cristo “che tutti siano una cosa sola” (Gv 17,11). Nella luce di questa linea interpretativa della tavola l’apostolo che è sul punto di ricevere l’eucaristia potrebbe essere identificato con Andrea. Proprio nel 1461 uno degli ultimi rappresentanti della famiglia imperiale bizantina Tommaso Paleologo recò in dono a Pio II la reliquia assai venerata in oriente dell’apostolo Andrea. Giusto di Gand avrebbe così ripreso questo motivo di incontro e di unione delle chiese attorno al tema dell’ultima cena di Gesù come comunione.

Alessandro Cortesi op      (2. continua)

Cene ultime nell’arte (parte I)

Fractio panis – catacombe di Priscilla – Roma

La testimonianza dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli è giunta a noi in varie versioni: Paolo nella prima lettera ai Corinzi al cap. 11 offre la più antica testimonianza della cena che riporta le parole di Gesù sul pane e sul calice. Successivamente Marco Matteo e Luca nei loro vangeli fanno riferimento alla cena nella narrazione della passione di Gesù. Il IV vangelo, il vangelo ‘altro’, presenta una prospettiva propria diversa nel suo racconto della cena: in questo non compare il riferimento esplicito alle parole sul pane e sul calice – evocate nel discorso del cap. 6 sul pane di vita – ma è riferito il gesto compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli: la lavanda dei piedi .

Tutti e  quattro i vangeli canonici riportano durante la cena l’annuncio da parte di Gesù l’annuncio del tradimento di Giuda: “Allora cominciarono a rattristarsi e a dirgli uno dopo l’altro: ‘sono forse io?. E egli disse loro: ‘Uno dei dodici, colui che intinge con me nel piatto” (Mc 14,19-20)

Sono questi elementi che hanno ispirato lungo i secoli gli artisti che hanno cercato di tradurre in immagini l’ultima cena di Gesù con i suoi, quel momento di comunione profonda, di dono totale e di amore che ha incontrato il rifiuto e il tradimento.

L’ultima cena non fu raffigurata da principio. Nelle catacombe si ritrovano immagini di banchetto, come la fractio panis delle catacombe di san Callisto con sette persone sdraiate. A destra sta la raffigurazione del sacrificio di Isacco e a sinistra un’immagine di due figure in piedi accanto ad una tavola con due pesci. Una allusione all’agape, alla cena eucaristica delle prime comunità. Così pure nelle catacombe di Priscilla.

I cinque pesci e le sette ceste di pane, rinviano al segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, unito alla promessa di un pane che non viene meno: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv.6). Nei sarcofagi cristiani è presente la raffigurazione del miracolo dei pani come allusione cibo dell’Eucaristia per indicare la fede e la speranza in Cristo.

Una delle prime espressioni per indicare la cena eucaristica fu infatti l’espressione  fractio panis con rinvio al gesto dello “spezzare il pane” compiuto da Gesù nell’ultima cena.Nel II secolo sono testimonianze la Didachè, Ignazio di Antiochia, e Giustino che, nella sua Prima Apologia all’imperatore Antonino Pio, descrive lo svolgimento dell’eucaristia nelle riunioni cristiane della domenica. Troviamo una testimonianza delle assemblee nel giorno di domenica nel 112, quando Plinio il Giovane, scrivendo all’imperatore Traiano a proposito dei cristiani scrove: “Hanno abitudine di riunirsi in un giorno stabilito, prima del levar del sole e di cantare inni a Cristo come se si trattasse di un dio”(Ep.10,96)

fractio panis – catacombe di san Callisto

La raffigurazione dell’ultima cena nella storia dell’arte vede un primo esempio nei mosaici della basilica di sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, databili agli inizi del VI secolo

In questo mosaico in cui si mescolano elementi dell’arte romana, di stile bizantino e elementi propri delle popolazioni barbariche del Nordeuropa Cristo è raffigurato insieme con i dodici apostoli attorno ad una tavola a ferro di cavallo, un vero e proprio triclinium romano, dove si mangiava distesi. Gesù è raffigurato con la barba e vestito di una tunica e di pallio color porpora.Il nimbo sopra il suo capo è segnato da una croce è argenteo a distinguerlo in modo particolare. Sembra che qui l’artista abbia seguito la versione di Matteo nel momento in cui Gesù annuncia il tradimento di Giuda. Matteo infatti riporta a questo momento un dialogo drammatico tra Giuda e Gesù: “Giuda il traditore disse: ‘Rabbi, Sono forse io?’ Gli rispose ‘Tu l’hai detto’ (Mt 26,20-25). Gesù nel mosaico ravennate è rappresentato con la mano alzata quasi stia confermando la risposta di Giuda. I discepoli più vicini a Gesù hanno uno sguardo smarrito. Gli altri si volgono verso Giuda rappresentato all’estrema destra, il volto incorniciato da una barba, in una posizione tesa, con le spalle verso Gesù e pronto ad uscire. Si identificano alcune figure Pietro con barba e capelli bianchi, Andrea con la folta chioma. Sulla tavola si distinguono pani e pesci: i pesci sono due, molto grandi e visibili, al centro. E’ questo forse un rinvio al riquadro del mosaico in cui è raffigurata la moltiplicazione dei pani e dei pesci, con la presenza anche lì di Pietro e Andrea.

E’ da notare che nel mosaico della moltiplicazione i pani sono quattro, mentre l’episodio del vangelo parla di cinque pani e due pesci (Mc 6,38): dietro a questa raffigurazione c’è il rinvio a riconoscere in Gesù stesso il pane della vita, in rapporto appunto all’Eucaristia. Gesù nel mosaico appare raffigurato in una posizione particolare con le braccia a forma di croce, con il nimbo sul capo crociato e tempestato di gemme e con il pallio purpureo della gloria. Con questi elementi simbolici l’artista ha inteso indicare la sua identità di crocifisso risorto che è il pane della vita, per la vita del mondo. L’episodio nel complesso dei mosaici della basilica sta proprio di fronte al riquadro dell’ultima cena con un rinvio reciproco tra le due immagini. Sulla tavola i pani sono sette, numero simbolico indice di una pienezza: il significato racchiuso in questo numero è così l’universalità del dono della vita di Gesù: il pane donato, in cui egli sintetizza il senso di tutta la sua vita è dato ‘per le moltitudini’ – con un implicito rinvio alla figura del servo di Jahwè di Is 53 –  cioè dato per tutti.

Anche il pesce è un simbolo presente sin dagli affreschi delle catacombe: ‘ichtus’ (il termine greco per ‘pesce’) è infatti un nome che racchiude nelle sue iniziali il rinvia a ‘Gesù Cristo figlio di Dio salvatore’.

 

Un’immagine simile al mosaico di sant’Apollinare nuovo è quella riscontrabile in un codice conservato nel museo diocesano di Rossano in provincia di Cosenza. Si tratta del Codex purpureus

Questo manoscritto composto con probabilità in Siria e risalente al VI secolo e che contiene il testo dei vangeli di Matteo e di Marco, è composto di fogli di pergamena tinti di un colore purpureo, segno della dignità di questo antico codice, un codice da utilizzare in liturgie solenni di 188 fogli con 14 miniature. Tra queste una pagina riporta la miniatura dell’ultima cena e accanto ad essa la lavanda dei piedi

Sulla tavola c’è solo una grande coppa. Gesù e i dodici sono accomodati su un triclinio dorato con alcune figure di uccelli (forse rinvio a animali utilizzati per i sacrifici di espiazione). Tra gli apostoli si riconoscono le fisionomie di Pietro e di Andrea con la folta capigliatura bianca. Giuda non è ritratto in modo diverso. Si distingue dagli altri solamente per il gesto di intingere la mano nella coppa a forma di calice e per il suo sguardo che  non è rivolto a Gesù.

Una raffigurazione che riprende questi moduli di raffigurazione della cena risalenti al VI secolo, può essere ritrovata nella chiesa di sant’Angelo in Formis presso Capua, che risale ad un’epoca successiva (1080 circa), affresco espressione dell’influsso dei bizantini in un territorio che dipendeva dall’abbazia di Montecassino. Gesù con i dodici è attorno ad una tavola a mezzaluna ma ora la scena è inquadrata in un contesto di architettura  e con sullo sfondo alcuni edifici, una casa alta a sinistra (non visibile in quest’immagine) e un tempio sulla destra. Anche qui l’affresco fissa il momento in cui Giuda intinge la mano nel piatto e si fa riconoscere come il traditore. In questo affresco Pietro è sulla destra, con una gamba distesa, quasi pronto alla lavanda dei piedi.

Al centro della tavola è visibile una grande coppa che reca un agnello arrosto: un richiamo alla Pasqua ebraica (di cui però non c’è riferimento esplicito nei testi dei vangeli). Nel IV vangelo Gesù è indicato sin da subito nel suo incontro con il Battista come ‘l’agnello di Dio’ e il IV vangelo darà una particolare risonanza a questo motivo: Gesù secondo la cronologia del IV vangelo infatti muore sulla croce proprio mentre nel Tempio di Gerusalemme venivano sacrificati gli agnelli per la festa della Pasqua. Gesù viene accostato quindi all’agnello come compimento della Pasqua in riferimento a Es 12. Sulla tavola a mezzaluna dell’affresco di sant’Angelo in Formis oltre all’agnello sono visibili dodici pani e alcuni frammenti di pane, forse un riferimento al pane spezzato che è la vita stessa di Gesù.

Nel Duomo di Modena un secolo dopo Wiligelmo grande scultore della facciata e dei portali, i maestri campionesi provenienti dalla zona di Campione e dei laghi della Lombardia tra metà XII e fine del  XIV secolo, guidati da Anselmo scolpiscono alcune lastre collocate sul pontile

Queste lastre smontate nel XVI secolo, murate lungo le pareti poi risistemate agli inizi del sec. XX, vedono la raffigurazione dell’ultima cena inserita accanto al pulpito e alla lavanda dei piedi.

Gli apostoli raffigurati frontalmente nella lastra sono presentati a coppie in dialogo l’uno con l’altro. Forse un mezzo espressivo per rendere non ripetitiva la presentazione dei dodici, ma anche forse il rinvio a quel momento della cena in cui dopo le parole di Gesù “si guardarono gli uni gli altri non sapendo di chi parlasse” (Gv 13,22)

Originale in questo rilievo è il gesto di Gesù che offre il boccone a Giuda: si tratta di un gesto di amore che giunge fino alla fine. Il richiamo è forte alla liturgia eucaristica che si svolgeva lì sotto, come anche il calice tenuto da Gesù nell’altra mano.

E’ interessante in questa disposizione delle lastre del pontile di Modena il rapporto che viene instaurato tra la Parola di Dio contenuta nella Scrittura e la cena ultima. La raffigurazione è collocata infatti accanto al pulpito con le raffigurazioni degli evangelisti e inoltre nella scultura della lavanda dei piedi i discepoli tengono ciascuno in mano un libro. Il cuore del vangelo e il messaggio di fondo della Parola si comunica e si sintetizza nel gesto di Gesù che fa della sua vita un pane spezzato e donato.

L’ambone del duomo di Volterra, databile alla metà del XII secolo, opera di maestro Guglielmo di scuola pisana, presenta su di un lato un bassorilievo marmoreo dell’ultima cena in cui Gesù non è più al centro, ma al lato sinistro della tavola. Giovanni appoggia il suo capo sul petto di Gesù, Matteo è l’unico che non guarda verso Gesù ma si volge dall’altra parte. Giuda non è raffigurato accanto agli altri, ma al di sotto, in una posizione nuova, inginocchiato a ricevere il boccone da Gesù stesso.  Questo modulo inizia una collocazione di Giuda che vedrà sviluppi nell’arte dei secoli successivi.

Giuda porge la mano sinistra per ricevere il cibo – sulla tavola sono ben visibili pani e pesci – e Gesù con la mano destra allunga a Giuda un pane. Dietro al traditore  si scorge il volto di un mostro con i denti aguzzi e le orecchie appuntite, con il corpo alato e una coda che termina in un serpente: una figura demoniaca secondo l’immaginario medioevale. Giuda inizia ad essere raffigurato separato dagli altri, come è visibile anche in una delle 48 formelle bronzee del portale  della basilica di san Zeno a Verona, probabilmente risalente alla prima metà del secolo XII.

 

Per approfondire:

Pierre Prigent, L’arte dei primi cristiani. L’eredità culturale e la nuova fede, ed. Arkeios 1997

Luca Frigerio, Cene ultime. Dai mosaici di Ravenna al cenacolo di Leonardo, ed. Ancora 2011

 

Alessandro Cortesi op  (1. continua)

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