Susegana

alla memoria

Il cimitero di Susegana

Nella storia delle comunità umane, il cimitero, la sepoltura, il luogo che conserva i resti e custodisce la memoria di chi se n’è andato per sempre, è un imprescindibile punto di riferimento culturale e sociale.

A chi visita la piccola sezione archeologica dei Musei Civici di Belluno, non passa inosservata la sepoltura di un cacciatore, rinvenuta in Val Cismon e databile alla fine del Paleolitico Superiore (12.000 anni fa), la cui fossa era ricoperta da pietre, alcune dipinte in ocra rossa. Accanto al corpo, la comunità pose una sacca con alcuni strumenti litici, un piccolo corredo funerario per accompagnare il defunto oltre la morte.

Quello di Belluno è uno degli innumerevoli esempi di come l’uomo abbia avuto, fin dall’antichità, un rapporto stretto col distacco dalla vita terrena.

Molte delle informazioni conosciute sulle passate civiltà provengono dallo studio delle sepolture, dagli oggetti in esse conservati, dalle decorazioni presenti e dall’esame delle ossa umane lì presenti.

Il culto dei morti come rito di prolungamento della vita, come conservazione del ricordo di chi non c’è più, viene rappresentato, nella sua fisicità, dalla tomba, sia essa una povera sepoltura o un edificato monumentale.

La tomba è il punto di riferimento attraverso il quale è possibile cercare di placare il dolore per la perdita di una persona cara, è il simbolo che ci permette di conservare un rapporto con i propri defunti, ai quali questo sentimento di vicinanza viene manifestato con le visite, con i fiori, con l’accensione di un lume, col mantenimento del decoro.

Il dolore profondo di non avere una tomba dove qualcuno possa giungere a versare le sue lacrime, è raccolto negli ultimi versi della poesia “A Zacinto”, composta da Ugo Foscolo nel periodo a cavallo tra il 1802 e il 1803: “Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi predisse il fato illacrimata sepoltura”.

Quella delle sepolture è una prerogativa rimasta, per secoli, di pertinenza della Chiesa. Dal XVIII Secolo l’istituzione pubblica comincia a interessarsi del problema, soprattutto per questioni di igiene, promulgando leggi e specifici regolamenti per le inumazioni.

Dal 1762, la legge diviene più stringente nella separazione dei ruoli, prevedendo un custode per ogni cimitero e demandando alla Chiesa la sola funzione religiosa.

Con l’editto di Saint-Cloud (12 giugno 1804) Napoleone Bonaparte regola definitivamente, anche in Italia, la pratica delle sepolture e sancisce la nascita del moderno cimitero, non più situato nel “campo santo”, a ridosso della chiesa.

Nell’editto si specifica il divieto di seppellire i morti all’interno degli edifici sacri, interrompendo, almeno in parte, il costume delle nobili famiglie di dare il riposo eterno ai propri cari dentro le chiese, il più vicino possibile all’altare, in misura dell’importanza del defunto. Si decreta che i cimiteri devono essere edificati lontano dai centri abitati e fuori dalle mura delle città, stabilendo così un distanziamento fisico tra vivi e morti, necessario, in particolare, durante le epidemie, piuttosto frequenti nei secoli passati. Inoltre c’è, per tutti, l’obbligo della sepoltura individuale, anche per gli indigenti, del cui funerale deve occuparsi l’istituzione pubblica. Un modo per dare dignità e uguaglianza a ciascun individuo, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza.

 

La costruzione di nuovi campisanti, fuori dai nuclei abitati, sviluppa il modello del moderno cimitero-giardino, con un’architettura propria, con alberi e siepi, aiuole e monumentali tombe di famiglia, previste fin dall’emanazione dell’editto di Saint-Cloud, in cambio di somme di denaro da destinare ai poveri o agli ospedali.

La composizione del cimitero-giardino è lasciata alla libertà individuale di ciascuno, che può scegliere il tipo di lapide, il tipo di pianta o di fiore con cui decorare la tomba, mettere dei lumini votivi, simbolo di un perpetuo ricordo di chi non c’è più.

Dal cumulo di pietre, usato nell’antichità per ricoprire il corpo del defunto in una fossa poco profonda, fino alle opere di architettura classica, come quelle del cimitero monumentale di Verona, o moderna, come la tomba Brion, realizzata dall’architetto Carlo Scarpa a San Vito di Altivole, in provincia di Treviso: credere che ci sia ancora vita oltre la morte, credere che la morte non rappresenti una sconfitta definitiva o, forse, che ci sia un luogo ove si conserva quella continuità di affetti e dialogo con coloro che sono stati parte della nostra esistenza e che la morte ha interrotto.

A ispirare i manufatti funerari è la convinzione che debba esserci uno spazio privilegiato dove il rimpianto per la perdita di una persona cara e la devozione verso Dio possano rappresentare sintesi spirituale e fisica. Un luogo di incontro con il proprio caro non più in vita, che ne rinnova la memoria e ne perpetua il ricordo, ma anche un luogo di dialogo col divino, che induce una pacata riflessione sull’esistenza, sul mistero della morte e sul destino dell’uomo. Un luogo che conserva l’esperienza umana di chi ha già vissuto, con la quale potersi confrontare nell’elaborazione del ricordo, per trarre insegnamento o monito, e riprogrammare il proprio vivere.

A Susegana, alcune delle numerose chiese, presenti dentro e fuori le mura del castello di San Salvatore, hanno ospitato i resti mortali dei più noti rappresentanti della famiglia Collalto. Il conte Rambaldo VIII, forse il più famoso nobiluomo del casato, passato a miglior vita nel 1324, aveva posto come condizione testamentale quella di essere sepolto in un’arca monumentale, nella Cappella Vecchia, la chiesa dedicata a San Salvatore, che per prima era stata edificata, nel XIII Secolo, dentro l’omonimo castello.

La piccola chiesa di San Gaetano, addossata alla Cappella Vecchia, ancora oggi conserva le spoglie mortali di alcuni nobili della famiglia Collalto, come anche, fino al secondo dopoguerra, la chiesa del Carmine, posta poco fuori le mura del castello.

La cappella di San Gaetano, detta anche di San Filippo Neri, venne fatta costruire dal conte Giacomo II per conservare i resti mortali della giovane moglie, Lucrezia Pia di Savoia, venuta a mancare a soli ventuno anni. Lo stesso conte vi trovò sepoltura nel 1621.

Nell’ultimo anno della Grande Guerra, gli occupanti austroungarici devastarono alcune tombe collocate sul pavimento della chiesa del Carmine, nella speranza di trovarvi improbabili tesori.

Manfredo Collalto (1868-1940), padre e tutore del giovanissimo conte ereditario Rambaldo (1908-1992), ufficiale austriaco della riserva, era riparato in Austria. Mentre si trovava a Staatz ricevette una telefonata che lo informava dei bombardamenti cui erano sottoposti i castelli di Collalto e San Salvatore. Ottenne dall’imperatore un salvacondotto per recarsi a Susegana e cercare di salvare il salvabile. Manfredo salì a piedi la strada che conduce al castello e una volta giunto davanti alla chiesa del Carmine vi entrò per far visita alle tombe dei suoi genitori e del fratello Rambaldo (1868-1913). Le trovò scoperchiate e devastate. Proseguì poi per il castello, che era stato pesantemente bombardato, saccheggiato e distrutto da numerosi incendi, prima di fare mesto ritorno in Austria.

La piccola chiesa di San Gaetano, addossata alla Cappella Vecchia, ancora oggi conserva le spoglie mortali di alcuni nobili della famiglia Collalto, come anche, fino al secondo dopoguerra, la chiesa del Carmine, posta poco fuori le mura del castello.
Anche a Susegana, un po’ come in tutte le parrocchie, il camposanto si trovava nella terra benedetta a ridosso della chiesa. Dopo l’editto napoleonico venne spostato alcune centinaia di metri più a monte, lontano dalla chiesa e dal centro abitato.

Nel 1928 (anno VI° dell’era fascista), come recita un’iscrizione ivi presente, a Susegana viene inaugurata una nuova ala del cimitero, posta a valle del preesistente camposanto.

Di taglio monumentale, un po’ come quelli concepiti all’inizio del XIX Secolo nei principali centri urbani del Lombardo-Veneto, il cimitero è collocato su due piani sfalsati. Lo spazio architettonico funerario è circondato da mura spesse, con ai lati delle colonne a base quadrata, sormontate da croci. È di gusto neoclassico, ma evidenzia elementi chiaramente ispirati alla corrente modernista che ha caratterizzato un po’ tutti gli edifici di epoca fascista.

Il camposanto sfrutta la pendenza del colle e collega, attraverso una scalinata, le due aree cimiteriali che lungo i muri perimetrali conservano delle vecchie lapidi in marmo, numerose in memoria di soldati caduti in guerra, alcune con le incisioni ormai cancellate dal tempo.

Lungo il muro posto a est, ci sono due lapidi in marmo che ricordano, con parole toccanti, due morti premature.

Ginevra Rossetti di Giuseppe, di anni 18, morta il 29 febbraio del 1892: “Giglio reciso dalla terra del pianto, manda ai tuoi cari dal celeste soggiorno i benedetti effluvi della tua fragranza”. E Maria Rossetti, di Pietro, morta all’età di 9 anni, il 2 marzo del 1892: “Buona, intelligente in collegio, in casa, era un tesoro, un angelo, non per la terra ma per la patria degli eletti in cielo”.

Nella parte bassa del vecchio cimitero, al centro del quale spicca una colonna sormontata da una croce, un doppio peristilio accoglie un sistema colombario di pregio, delimitato da grosse catene in ferro, impreziosito da alte colonne circolari e da lampade votive di valore. Lì riposano i morti di alcune delle “vecchie” famiglie benestanti del paese: Rossetti, Roman, Vazzoler, Dal Pozzo, Maccari, Barro, Bornia.

Sulla facciata che separa i due piani del cimitero, quattro colombari verticali da dodici lapidi, sono sovrastati da timpani con elementi decorativi tipici dell’architettura fascista, separati da ampie balaustre colonnate.

Lo spazio sacro del cimitero di Susegana poggia su uno spesso strato di argilla, che, per la sua impermeabilità, rallenta fortemente il processo di decomposizione. Questo, se da un lato rende problematico il necessario avvicendamento delle sepolture, dall’altro permette di conservare la memoria di persone scomparse da tanti anni, per la gran parte nella prima metà del Novecento.

Vagando tra le lapidi affiorano le immagini di volti dalla patina antica e iscrizioni oggi desuete, che conservano però il loro originale valore di testimonianza.

Se si osservano con attenzione i volti dei defunti, in bianco e nero, talvolta sbiaditi, racchiusi negli ovali in ceramica, inevitabilmente il ricordo va a un passato fatto di duro lavoro e sofferenza. Ma da quei volti traspaiono anche grande dignità e compostezza nell’affrontare un momento storico qual era la realizzazione di un ritratto fotografico.

Se invece si guardano le date di nascita e di morte impresse sulle tombe si evince che la vita di un tempo era molto più irta di insidie e si viveva assai meno di oggi.

 

Scavando nella memoria vengono alla mente le file di angioletti bianchi che contrassegnavano le tombe dei bambini nati morti o deceduti in tenera età. A Susegana i cippi con sopra i piccoli angeli, alcuni in marmo, altri in cemento dipinto di bianco, occupavano una vasta area del vecchio cimitero.

Vicino all’ingresso principale aveva trovato temporanea sepoltura gran parte degli oltre cento uomini delle Brigate Nere e giovani cadetti della Scuola Allievi Ufficiali della G.N.R., prelevati dal palazzo Brandolini Rota di Oderzo e fucilati dai partigiani sulle rive del Piave a Ponte della Priula, nel maggio del 1945. Quei morti ora riposano in una tomba monumentale lungo il perimetro ovest del cimitero. Poco distante, un piccolo sacrario conserva il ricordo, e per alcuni anche le spoglie, dei combattenti suseganesi caduti, o dichiarati dispersi, durante i conflitti del Novecento, in Russia, in Africa e in Europa.

Il dovere di custodire la memoria di quei caduti in guerra è affidato a una scritta a caratteri di bronzo, che suona quasi a monito per chi visita il cimitero: “Questo sacrario è un altare, non dimenticateci”.

Di tenore analogo è l’epitaffio che appare sulla tomba del partigiano Giovanni (Barba) Morandin, classe 1924, morto a soli 21 anni: “Trucidato il 6 febbraio 1945 dai nazifascisti. Ricorda per sempre o Italiano i patrioti che nulla hanno chiesto e tutto alla Patria hanno dato”.

 

Poco distante dalla tomba di Morandin c’è anche la colonna spezzata di Leopoldo Camillo, classe 1922, altro martire suseganese della Resistenza, ucciso dai fascisti per rappresaglia a Ponte della Priula il 4 agosto 1944. Ai piedi della colonna, un libro aperto con una scritta semplice, carica di pietà umana: “I fratelli hanno ucciso i fratelli”.

In terra benedetta riposa anche Carlo Grava (1891-1977), ufficiale militare della Grande Guerra, indimenticato medico condotto, attivo a Susegana fino agli anni Sessanta. Accanto a lui, in una tomba di uguale fattura, riposa la moglie Amalia Alghisi.

Lungo il lato ovest del perimetro cimiteriale spicca la tomba della famiglia Vazzoler, di taglio moderno e di buon pregio architettonico, dove riposa anche Piero, ventenne ragioniere che lavorava alla concessionaria Fiat di Conegliano e che, a ridosso della Pasqua del 1958, moriva a causa di un incidente con la sua moto, in una serata buia e piovosa.

La tomba della famiglia Vazzoler, composta da due parallelepipedi costruiti con grandi lastre di pietra sbozzata e da un ampio arco che racchiude una croce, ancora oggi conserva un’eleganza austera e una grande modernità formale.

Di pregevole taglio monumentale è anche la tomba della famiglia Fossa e, sempre seguendo il lato ovest del vecchio cimitero, la cappella della famiglia Nani Mocenigo, che sulla facciata riporta il blasone della nobile casata veneta. Al centro della cappella un piccolo altare con dei banchi, mentre ai lati, nei colombari, sono tumulati i corpi di alcuni “patrizi veneti”, componenti della famiglia.

Se, nell’apposita area del cimitero, assistiamo oggi allo scavo di una fossa per una inumazione in terra, vediamo un piccolo escavatore lavorare con precisione, manovrato da un operatore.

 

A chi, oggi, ha già i capelli bianchi può tornare alla mente la figura di Monica Pompeo, vedova di Settimo Roccon, addetto al cimitero di Susegana, oltre che sacrestano della chiesa parrocchiale, scomparso prematuramente nel 1969, a sessantasei anni.

Ancor prima della morte del marito, quando questi era dovuto emigrare per poter mandare avanti decorosamente la famiglia, Monica aveva chiesto e, non senza fatica, ottenuto l’impiego di addetto alle operazioni cimiteriali, tra lo sbigottimento degli amministratori comunali, che mai avrebbero affidato a una donna quel “lavoro da uomini”.

Ottenuto l’incarico (lavoro in accollo), Monica, madre di quattro figli, si era subito rimboccata le maniche e si era dedicata alla nuova occupazione, con zelo e impegno, garantendo sempre un servizio puntuale, fatto a regola d’arte.

Non di rado, a chi si recava in cimitero, capitava di vedere continue palate di terra uscire da una buca dove Monica, donna esile e di bassa statura, era completamente immersa, con pala e piccone. Del resto lo scavo doveva avere una lunghezza di due metri e venti, una larghezza di ottanta centimetri e una profondità di due metri. Un lavoro molto impegnativo che però Monica Pompeo portava a termine senza mai lamentarsi. Erano i tempi del lavoro e della fatica, ma anche della caparbietà e del coraggio di donne e uomini che sacrificavano l’intera vita per la famiglia e per garantire ai figli un futuro migliore.

Ora Monica riposa in una tomba collocata proprio di fronte alla cella mortuaria dove, con umana pietà, ha ricomposto e vestito con gli abiti della festa tante persone morte in circostanze difficili, come negli incidenti stradali o sul lavoro. Nella stessa tomba riposano anche il marito e il figlio Antonio, morto a soli tre anni nel 1933.

 

Il camposanto è luogo di civiltà e di memoria. Tenere vivo il ricordo dei propri cari è un sentimento che percorre, in maniera trasversale, tutte le culture del pianeta. È un sentimento che ognuno porta principalmente dentro di sé, ma che ha anche il profondo bisogno di riferirsi a un luogo dove questa emozione si possa materializzare, diventare altare di preghiera, di riflessione personale e di dialogo con chi ci ha lasciato, nella cristiana certezza che, dopo la morte, ci si potrà ricongiungere con coloro che ci hanno preceduto.

 

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