Scrivere di cucina (e scrivere ricette) è fare la giornalista?

glocalHo partecipato al Festival Glocal News, il festival del giornalismo digitale (e non solo) organizzato da Varesenews.
È stata l’occasione per riflettere sulla professione, mia e di tanti altri “enogastrocosi“, come mi diverte chiamare i colleghi che si occupano di cibo, cucina, vini e affini.
Il mio intervento, condotto insieme all’amica Anna Prandoni, si intitolava: “Da Cenerentole della comunicazione a influencer, oggi i food writer non possono trascurare le regole classiche del giornalismo: fonti attendibili, lavoro di ricerca, esposizione chiara, scrittura corretta. Persino di una ricetta, fedele ricostruzione di un fatto”.
Roba seria, insomma. E come tale l’abbiamo trattata. Io, persino costruendo una scaletta, che è stato l’inizio del mio discorso e che qui vi riporto per sommi capi, sia mai che qualcuno se la fosse persa o non avesse preso appunti 😉

1. Perché ho bisogno di una scaletta?
Perché per raccontare qualcosa si deve procedere con ordine logico.
Così come quando si spiega una ricetta, partendo dalle operazioni preliminari per poi arrivare alla presentazione del piatto: i “precedentemente” non valgono!

Se arrivate al momento di mettere al forno il tacchino di Natale (che è stato il goloso esempio portato avanti durante la nostra chiacchierata) e leggete: “Spennellatelo con il burro precedentemente fuso a fuoco dolce con uno scalogno sbucciato e diviso a spicchi e qualche foglia di salvia pulita e spezzettata con le mani”, ma voi non avete neppure tirato lo scalogno fuori dal frigo, la ricetta è stata scritta male, e voi avete un problema.

Le cose che avete da dire vanno scritte nel giusto ordine.
Consiglio banale? Forse. Da ricordare? Sempre.

2. E come la faccio, la scaletta?
Qui ci si sposta dalla ricetta a un qualunque altro genere di post o articolo.
Quale che sia l’argomento del vostro scrivere, partite dall’enunciazione dell’argomento (il titolo) che sarà l’incipit al pezzo.
Poi, dividetelo in punti, che saranno lo svolgimento.
Infine, tirate le conclusioni, la chiusa del pezzo.

3. Quali vantaggi ho?
Se fate una scaletta, il 70 per cento del vostro articolo o post è praticamente già fatto.
Esempio: la mia serie dei “5 errori” su Dissapore.
Qui, scelto un argomento, individuo e metto su carta i 5 errori di cui parlerò. Mentre li seleziono, ragiono già su come raccontarli e, quando mi accingo a scrivere, il pezzo (almeno nella mia testa!) è già fatto: una bella cosa, no?

4. Fonti attendibili: cosa sono e dove le trovo?
Procediamo con l’analisi della seconda parte dell’enunciato: “I food writer non possono trascurare le regole classiche del giornalismo: fonti attendibili, lavoro di ricerca, esposizione chiara, scrittura corretta. Persino di una ricetta, fedele ricostruzione di un fatto”.

Chi scrive di nera va al commissariato, chi fa cronaca parlamentare si affida agli uffici stampa di politici e ministeri, e così via. Va bene ascoltare i rumors, ma poi occorre verificarli e, quando necessario, sentire le due campane.
Perché scrivendo di cibo dovrebbe essere diverso?

Le fonti per chi si occupa di alimentazione e ricette devono essere cuochi, produttori, se serve medici nutrizionisti e, soprattutto per le ricette e le recensioni, anche esperienza personale, se l’avete.

NB: Sì, l’esperienza personale prevede anche gli assaggi, ma solo se si è capaci di assaggiare. Ovvero, se si ha il palato, si conoscono i prodotti, le tecniche e anche la storia professionale del cuoco che ha cucinato per noi.
Altrimenti, limitandosi alla “cronaca” non si sbaglia mai.

5. Lavoro di ricerca: NON si fa su internet!
La rete può essere un primo spunto, soprattutto per chi si trova ad affrontare un argomento che non conosce.
Ma non può essere l’unico serbatoio da cui attingere.

Bisogna, invece, tornare alle fonti. Quindi approfondire con cuochi, produttori e LIBRI.

6. Esposizione chiara e scrittura corretta
È davvero necessario dirlo? Da quello che si legge sui giornali e, soprattutto, in rete, sì, purtroppo.
Quello dell’esposizione chiara e della scrittura corretta dovrebbe essere il mantra di chi scrive, doppiamente di chi scrive online, dove si tende a usare un tono più informale, e soprattutto di chi tiene un blog. La formula “diario personale” non deve far dimenticare che si sta scrivendo per i lettori.
Scrivere bene in italiano ed esporre gli argomenti in modo comprensibile è la prima forma di rispetto nei loro confronti.
La seconda è, naturalmente, dare informazioni utili, verificate e quindi corrette. E torniamo alle fonti.

Piccolo corollario: scrivere in modo personale (come è fortunatamente possibile fare sui nuovi media) NON significa abbondare in aggettivi e avverbi, mettere punti esclamativi e puntini di sospensione come fossero prezzemolo sul sauté di vongole, usare vezzeggiativi e forme colloquiali a profusione.

Nella bella scrittura, less is more.

7. Conclusione
Che sia una recensione, la storia di un prodotto, il racconto di un evento o la recensione di un locale, tutto si deve trattare come fosse un fatto di cronaca o una nota politica, ovvero, fare una “fedele ricostruzione di un fatto”.

Quindi, sì: scrivere di cucina e scrivere ricette è fare la giornalista.

Bene. Depongo la penna da maestrina e torno in cucina, a mettere su il brodo, cosa che mi si confà maggiormente.
Non senza, prima, aver ringraziato chi mi ha invitata a parlare e chi ha avuto la cortesia di seguirmi. Alla prossima: sarà #glocal16?

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Dal mare alla tavola, passando per vento e sale

Ci sono prodotti che sanno raccontare una storia, hanno alle spalle secoli di tradizioni e conservano un’artigianalità le cui radici si perdono nel tempo. Fra tanti, ho sempre trovato affascinanti i prodotti del mare. Specialità che, oggi come ieri, deliziano i buongustai e arrivano sulle tavole grazie a una concomitanza di fattori naturali e intraprendenza umana.
Vester_Day2_019Penso alla calda corrente del Golfo che passa accanto alle Isole Lofoten, in Norvegia, dove si pescano i merluzzi che, da marzo a giugno, passano proprio in quel tratto di mare, e dove il vento che soffia nei mesi successivi favorisce la loro lenta, inesorabile essiccazione, appesi sulle rastrelliere, trasformandoli in delizioso stoccafisso. Un pesce secco preparato nello stesso modo sin dal Medioevo, e forse anche prima.
Una storia altrettanto antica è quella delle acciughe del Mar Cantabrico, che, nello stesso periodo dell’anno (marzo-giugno) nuotano al largo delle coste del nordovest della Penisola Iberica. È in questi mesi che avviene la pesca detta “della campagna di primavera”, quella in cui nelle reti (mai a strascico) finiscono le acciughe più grandi, fino a 37 per chilo: pesci gustosi al naturale e famosi in tutto il mondo in forma di conserve, sotto sale e sott’olio.
L’acciuga dei Paesi Baschi è talmente pregiata da fregiarsi di un marchio di garanzia (Anchovia del Cantabrico del Pais Vasco) che ne assicura provenienza e luogo di trasformazione. Anche gli artigiani e le aziende che lavorano il pesce sono riuniti in un’associazione (Conserveros Artesanos de la Costa Vasca) a tutela della qualità.
Fra loro, Conservas Nardin, dai primi del Novecento nome di spicco dell’industria conserviera basca, di cui ho seguito un piacevolo (e goloso) educational insieme a Longino&Cardenal, che li distribuisce in Italia. Ecco cosa ho imparato.
Seguendo tempi e ritmi immutati nel tempo, dalla pesca al sale passano solo poche ore. Le acciughe, private di teste e interiora (lavorate a mano), sono allineate come tanti soldatini nelle latte, alternate al sale, e lì lasciate maturare per 9-10 mesi.
Solo le più grandi sono destinate a essere vendute in questa forma, mentre le più piccine, pulite e sfilettate, andranno a chiudersi nelle lattine.
0_aperturaLe prime, le latte, hanno tutte lo stesso diametro di 22 cm: una misura che, nel caso di pesci di grandi dimensioni, è colma con 10-11 acciughe pulite. Poi, si lavora in altezza: il formato mignon (si fa per dire) è quello da 3 chili, in recipienti alti 7 cm; quello standard è da 5 chili, in 12 cm di altezza che contengono 10 strati. Sì, contato bene: 160 acciughe sotto sale, pronte da essere lavate, sfilettate e gustate su un crostino di pane e burro.
2_sottolioPeccato solo che tali quantità siano (era facile immaginarlo) riservate alla ristorazione. Noi comuni gourmet possiamo accontentarci delle acciughe sott’olio.
Che poi, è un bell’accontentarsi, no?

Crediti foto: Tom Haga Norwegian Seafood Council, Altissimo Ceto

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Finalmente un ritratto che mi rappresenta!

10154603_10202469369028102_1947418414_nFelicità è un piatto cucinato da Claudio Sadler
ph. Brambilla Serrani

 

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Unije e la salvia (o dell’esigenza di scrivere post)

salvia unijeC’è una piccola isola magica nell’arcipelago di Lussino, in Croazia. Un’isola che si dice popolata di lepri, fagiani e galli cedroni. Verdeggiante di una fittissima macchia mediterranea. Un villaggetto arroccato su un ripido pendio, alle spalle del porticciolo. Un paio di taverne. Le barche dei pescatori tirate in secca sulla spiaggia. Sul lato est, una baia stretta e lunga, Maracol, con gavitelli per l’ormeggio, acqua cristallina, decine di pescetti argentei che nuotano veloci. Dal piccolo molo, un sentiero sale e sale fino a una chiesina, poi scende giù giù fino in paese. Se lo percorri, magari di mattina presto, quando l’aria è fresca e profumata di rugiada, guardati intorno. Oltre il finocchio selvatico, oltre i rovi bassi e pungenti, scorgerai ciuffi e ciuffi di salvia selvatica, dalle foglie piccole e incredibilmente fragranti. Coglile, portale in barca, lascia che il sole le asciughi, poi riponile delicatamente in un sacchetto di carta e portale a casa. Capiterà anche a te, in pieno inverno, svitando il tappo del vasetto in cui le conservi, ormai essiccate, di sognare l’estate, il caldo, il mare di Unije.

(Ho scritto questo post perché scrivo troppo poco, perché qualcuno sui miei social promette e/o mantiene la promessa di scrivere di più, mentre io – coda di paglia –
so bene di non farlo e mi dico sempre: lo faccio domani. L’ho fatto oggi)

 

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Il buono dell’autunno

tartufi piccolaNon amo l’autunno. La bruma mi arriccia i capelli. L’aria umida mi fa venire mal di gola. Le giornate che si accorciano mi mettono malinconia. Per fortuna, c’è il tartufo, quello bianco! In presenza di questo raro e nobile frutto della terra, avvolta dal suo sublime aroma, incantata dalla pioggia di scaglie, persino la sottoscritta può tornare a sorridere. E sorrisi ce ne sono stati tanti alla serata #piemontetartufo organizzata allo Sheraton Malpensa, deus ex machina di tanta bontà ed eleganza l’impareggiabile Carlo Vischi, partner Regione Piemonte e Centro Nazionale Studi Tartufo a presentare a stampa e blogger Le Fiere del Tartufo (dal 6 ottobre al 1 dicembre in una ventina di comuni fra Cuneo, Asti, Alessandria, Torino). Accolti da un’interminabile teoria di appetizer e finger food (su tutti indimenticabili il Castelmagno a scaglie e il tonno di coniglio al ginepro), siamo stati accompagnati per mano ai piatti forti della serata, rigorosamente guarniti da scaglie, scaglie e scaglie di tartufo bianco: dall’immancabile battuta di fassona al delizioso uovo cotto a bassa temperatura, dai cardi gobbi con fonduta alla zucca intera al forno, e poi raviolini, risotto, il brasato con la polenta e per finire, ci fosse stato ancora un angolino, gianduiotti come se non ci fosse un domani. Un menu di grande tradizione ed esecuzione impeccabile grazie alla maestria di Enrico Fiorentini, chef residente, e degli ospiti Walter Ferretto (Il Cascinalenuovo, Isola d’Asti) e Bruno Cingolani (Scuderie del Castello di Govone, CN).

Cose che sapevo sul tartufo…
Il tartufo non è, come molti credono, un tubero (come la patata), né una radice (come la carota), ma un fungo ipogeo, ovvero sotterraneo, che cresce in simbiosi con diverse piante da cui trae nutrimento.
Un tempo i cercatori usavano le scrofe, anziché i cani, attirate dai fitormoni prodotti dal tartufo, di composizione chimica affine a quella degli ormoni di richiamo sessuale dei maiali maschi.
Il tartufo nero cresce anche in Francia, ma il bianco nasce solo sul suolo d’Italia.

…e cose che ho imparato
Secondo la mitologia, è stato il caro vecchio Zeus a fertilizzare la terra e… zot! ecco nascere i tartufi.
Il colore della scaglia può variare dal beige al bianco candido a seconda della pianta con cui il tartufo è cresciuto in simbiosi, dalla quercia al pioppo, dal tiglio al faggio.
Le venature rossastre, che a volte percorrono la polpa, sono dovute alla presenza di un microrganismo “buono”: non solo nel senso che non fa male ma, letteralmente, perché spesso intensifica il profumo del tartufo.
I cani migliori hanno le zampe corte: altrimenti, scaverebbero troppo a fondo e potrebbero “rompere” il tesoro appena scovato – oltre che papparselo e scappare a gambe levate!

A gambe levate sarei scappata anch’io, rubata una trifola dal trionfo che troneggiava sul tavolo dei cuochi: ah, non fosse stato per i tacchi alti!

 

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Cosa combino? Cucino, e mi diverto a insegnarlo!

io a cibotondoUna scuola di cucina! Erano mesi e mesi che la sognavo, la studiavo, la immaginavo. Prima ancora di “rompermi” avevo già trovato il posto, sentito consulenti, stilato un piano. Mi ci è voluto un po’ per riprendermi e riprendere in mano (è il caso di dirlo!) il progetto. Ma finalmente posso annunciare con orgoglio la nascita di Cibotondo: scuola e laboratorio di cucina, cooking nights, spazio eventi e chi più ne ha più ne metta, all’insegna di mangi, bevi, impari e ti diverti! Io, a ben guardare la foto (thanks to @giosava), mi diverto un sacco! Voi seguitemi sul blog, provate le mie ricette e, naturalmente, iscrivetevi numerosi: il calendario dei corsi è sempre aggiornato.
Ps: Cibotondo è anche su Facebook e su Twitter: likate e followate 😉

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Peccato non aver conosciuto lo chef!

terrina di polpo croccante

la terrina di polpo croccante

Provare nuovi ristoranti è divertente! Incuriosita da questa recensione, ho deciso di sperimentare L’Alchimista, aperto da tre settimane appena in via Carlo Maria Maggi a Milano. Premessa: non sono una critica gastronomica, al ristorante ordino e mangio senza lambiccarmi troppo il cervello. Poi ti posso dire se mi è piaciuto oppure no, ma il mio resta un giudizio personale senza alcuna velleità di verità assoluta. Detto questo, a me e alla mia nuova compagna di merende, che mi ha accompagnata, l’esperimento è piaciuto. Il locale è carino, il dehor davvero piacevole (nonostante il caldo folle!), grande la cordialità. La scelta dei piatti è stata condizionata dall’afa e al motto “ordiniamo qualcosa di fresco” abbiamo assaggiato la panzanella, il carpaccio di palamita con burrata, la terrina di polpo, il soufflé au citron e la macedonia al basilico. Qualche piccolo difetto (fatto presente): la panzanella un po’ scomoda da mangiare, per via dei dadi di pane che scappavano di qua e di là, e il polpo che avrebbe voluto un giro d’olio crudo in più. Ma non sono mancate le note positive. L’amuse-bouche con una cozza alla vaniglia ci ha ben predisposte agli assaggi successivi: il pesce crudo con la burrata, un accostamento che non si discute (magari, giusto una punta di acidità in più?), l’insalata con i lamponi, che accompagnava il secondo ed era un concentrato di sapore e freschezza, e il polpo stesso, che aveva perso la sua viscosità a favore della croccantezza, in una interpretazione decisamente interessante, che ho molto apprezzato. Deliziosi i dessert, in particolare la consistenza della brunoise (dadolatina fine) di frutta della mia macedonia, ma anche la salsa che accompagnava il soufflé era qualcosa! Un’onesta Ribolla gialla scolata fino all’ultima goccia, un limoncello da sciampiste a fine cena per far finta di essere in vacanza, ciao-ciao-a-presto-tornate-a-trovarci. Tutto perfetto, insomma. Peccato solo non aver conosciuto lo chef Misha Sukyas: vi lascio con le foto dei suoi piatti, fatte dal mio iPhone.

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La tartare di Colombo (al profumo di asparagi)

tartare

Quando mi ero imbattuta nella tartare di Andrea Berton (la prima volta fu qui), ero rimasta piacevolmente colpita dalla variante tuorlo sodo al posto del classico tuorlo crudo. Non certo per una questione igienica: è vero che le uova crude fan correre dei rischi, ma è anche vero che in commercio arrivano prodotti supercontrollati e non ho quindi alcuna remora a fare una maionese, una carbonara o una crema al mascarpone. Però non tutti amano la consistenza viscosa che il tuorlo liquido dà alla carne cruda, togliendole in un certo modo la freschezza che dovrebbe contraddistinguere questo piatto. Il tuorlo sodo è, quindi, l’idea semplice ma a suo modo geniale che risolve il problema, perché lega senza appesantire: il tuorlo di Colombo, insomma.
Sicché, avevo a suo tempo con entusiasmo fatta mia la tecnica. Che ho di recente perfezionato con l’aggiunta di un paio di ingredienti inaspettati. Ma andiamo con ordine.
Ho scoperto una nuova linea di sali aromatizzati (li produce Sale & Sali) piuttosto particolari perché “ricettati”, con l’aggiunta di altri ingredienti, così da diventare veri e propri insaporitori. Incuriosita, ho comperato il “Bismarck”, miscela composta, come da etichetta, da Salgemma Viola Kala Namak, di provenienza indiana, e asparago essiccato in polvere. La particolarità del sale Kala Namak è l’aroma “sulfureo”, ovvero di uova. Sicché, l’abbinamento con l’asparago ci sta proprio come il cacio sui maccheroni
(a proposito, ho comprato anche un vasetto che si chiama “Cacio e Pepe”: vi dirò).
Da qui alla tartare è stato un attimo. Complice un ottimo taglio magro di English Beef, battuto al coltello. Ecco dunque come ho fatto (dosi per una porzione), accompagnando la tartare con un’insalatina di crudité.
150 g di polpa di manzo o vitellone (filetto, controfiletto, scamone, magatello)
1 uovo sodo
4 asparagi piccoli e freschissimi
50 g di cimette di broccolo
sale Bismarck
olio extravergine d’oliva
succo di limone (facoltativo)
sale fino, pepe
Ho tagliato a rondelle sottili (2-3 mm) la parte finale tenera dei gambi degli asparagi, conservando intatte le punte. Ho tagliato a tocchetti le cimette di broccolo (tranne un paio per decorare). Ho condito le 2 verdure crude (tenendo da parte 1/4 di rondelle di asparagi) con olio, sale e pepe. Ho sgusciato l’uovo sodo separando tuorlo e albume.
Ho tagliato a dadolini l’albume e l’ho unito alle crudité. Ho affettato la carne sottile, poi ho ridotto le fettine a striscioline, quindi le striscioline a dadini e infine ho battuto tutto al coltello (per la “grana” della tartare vedete voi, a me piace un po’ grossolana).
Ho passato al setaccio il tuorlo sodo facendolo cadere sulla carne, raccolta in una terrina con le rondelline di asparagi tenute da parte. Ho condito con sale Bismarck (una bella spolverata), regolato con sale fino, pepato e completato con un filo d’olio.
Volendo, si può spruzzare di succo di limone, ma poco poco e servendo immediatamente in tavola, perché non c’è nulla di peggio di una tartare grigiastra cotta dall’acidità del limone. Ho lavorato gli ingredienti a mano e li ho trasferiti nel piatto con l’insalatina di crudité e albume. Se avessi voluto esagerare avrei usato un coppapasta per dare una forma carina alla tartare, ma non vedevo l’ora di mangiarla!
Giusto il tempo di guarnire con le punte degli asparagi e le cimette di broccolo intere e scattare una fotina, e ho potuto assecondare la mia golosità.

 

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Ho inventato la pasta e patate affumicata

4_piatto

Come ci si inventa una ricetta? Il meccanismo è, secondo me, simile a quello che accade in “Una donna in carriera”. Melanie Griffith legge casualmente una dopo l’altra due notizie: una di gossip sull’imminente matrimonio della figlia di un magnate della finanza, una sulla possibile cessione di un gruppo radiofonico. E voilà, decide di convincere il magnate a comprare la radio (e già che c’è di conquistare Harrison Ford a scapito di culo secco Sigourney Weaver). Il classico uno più uno, insomma. Hai un’idea che ti frulla per la testa, poi un’altra, poi magari una terza: a un tratto, come per magia, le metti insieme e il gioco (nel mio caso il piatto) è fatto.
Così è nata la mia ultima creazione. Uno: avevo voglia di pasta e patate, un piatto che mi è sempre piaciuto in barba a quelli che dicono che amido più amido non si fa. Due: sfogliando l’ultima fatica letteraria di Cracco (“Se vuoi fare il figo eccetera eccetera”) mi è caduto l’occhio sulla scheda dedicata all’affumicatura. Tre: a Taste of Milano assaggio una meravigliosa crema di baccalà e patate dei fratelli Costardi, poi girellando tra gli stand mi imbatto nei sali di Cipro in fiocchi Falksalt (distribuiti da Degù cibi scelti), innamorandomi all’istante della varietà affumicata con peperoncino Chipotle.
Il più è fatto: passa qualche giorno (le buone idee devono sempre decantare un po’) e perfeziono quella che sarà la ricetta finale cercando di combinare la sostanza (la pasta e le patate), l’aroma (il fumo) e la freschezza (la otterrò con l’aggiunta di scorza di limone e dadolata di pomodoro crudo).
E insomma, se mi avete seguita fin qui, meritate la ricetta, per 3 persone.
250 g di maccheroncini freschi all’uovo
1 patata (circa 180 g)
6 mini San Marzano
1 mazzetto di rosmarino
latte, burro
1 cucchiaino colmo di panna acida
la scorza di 1/2 limone
fiocchi di sale affumicato al peperoncino Chipotle
sale e pepe
1_patate da affumicareHo lessato la patata, intera e con la buccia, in acqua salata. L’ho scolata, l’ho spezzettata e messa in un vecchio cestello per cuocere a vapore. Ho rivestito una pentola con 2-3 fogli di alluminio, ho sparso sul fondo i rametti di rosmarino divisi a ciuffi e gli ho dato fuoco con alcuni spiedini di legno (ma la prossima volta uso il cannello per la crème brûlée). Ho messo il cestello nella pentola, ho chiuso col coperchio e ho lasciato affumicare la patata per 10-15 minuti (per ovvi motivi, è meglio se eseguite l’affumicatura in terrazzo
o, almeno, sul davanzale della finestra aperta). 2_purè
Ho passato la patata affumicata allo schiacciapatate e l’ho mescolata qualche minuto su fuoco dolce con latte a filo (circa 1 tazzina), una noce di burro, la scorza di limone e una macinata di pepe (poco, il Chipotle è piccante assai), fino a ottenere un purè molto fluido. 3_salsaFuori dal fuoco ho unito la panna acida e un giro d’olio crudo, regolando di sale. Intanto, ho lessato la pasta e tagliato a dadini i pomodori. Scolata la pasta, l’ho condita con la crema, diluita con circa una tazzina di acqua di cottura (tenetela da parte prima di scolare i maccheroncini: può servire aggiungerne anche un po’ di più, secondo la qualità della patata). Ho impiattato completando con la dadolata di pomodoro, ancora un filino d’olio e un pizzicone di fiocchi di sale affumicato.

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Il mio primo involtino primavera

involtino fritto

Proseguono gli esperimenti di cucina cinese. Questa volta con un classico, sebbene gli involtini primavera siano “più famosi in Occidente che non in Cina”, come scrive come cucinare cineseAntonella Palazzi nella mia piccola “bibbia” personale, Come cucinare cinese, volumetto edito da Sonzogno del lontano 1987 (se lo trovate online, o su una bancarella, compratelo al volo!), salvo poi metterli in copertina insieme al riso alla cantonese, ai ravioli al vapore (chiao-tzu), al maiale in agrodolce, che si sa che questi fagottini fritti piacciono sempre a tutti!
Dico subito che non ho seguito la ricetta dell’Antonella ma mi sono avvalsa dei comodi Spring Roll Wrappers Save (si trovano, anche di altre marche, nei supermercati un po’ evoluti): cialde di farina di riso che si ammorbidiscono in un panno umido e si avvolgono con gran facilità. Anche il ripieno, essendo un prototipo in singola copia,
è stato un po’ improvvisato. Ma andiamo con ordine, elencando gli ingredienti del mio involtino primavera ai gamberetti (voi  moltiplicate per quanti ne volete).
1 cialda di risowrappers
1 manciatina (meno di 20 g) di germogli di soia
1/2 cipollotto
6 gamberetti freschi sgusciati
olio di sesamo e olio di semi di arachide
salsa di soia, sakè
Ho marinato i gamberetti con un cucchiaino di salsa di soia e uno di sakè. Ho tagliato il cipollotto a julienne e l’ho rosolato in padella con un filino di olio di semi e qualche goccia di quello di sesamo. Ho aggiunto i germogli e ho fatto saltare un minuto, ho spruzzato di soia e, dopo un altro minuto, ho spento: badate che il fondo risulti asciutto, altrimenti durante la frittura cola fuori e schizza che è una bellezza. Mentre le involtino crudo bisverdure saltavano, ho ammorbidito la cialda: ho bagnato d’acqua un telo, l’ho strizzato bene, l’ho steso sul tagliere, ho messo al centro la cialda, l’ho ricoperta con i lembi del telo e l’ho lasciata riposare un paio di minuti. Ho messo al centro della cialda le verdure e sopra ho disposto i gamberetti (scolateli dalla marinata, se fosse troppa). Ho piegato i due lembi laterali della cialda sopra al ripieno e ho arrotolato il tutto, ottenendo l’involtino.
Non è restato che scaldare 4 dita di olio di semi in un piccolo wok e tuffare l’involtino, prima dalla parte chiusa: bastano pochi istanti perché diventi dorato, poi si gira (attenzione, comunque, agli schizzi!) e si finisce di friggere ancora un minuto o giù di lì, scolando poi su carta da cucina. Aspettate un pochino prima di addentarlo
(io l’ho pucciato in una tazzina di soia), perché l’interno è rovente!

Ps: il ripieno tradizionale, come riportato dall’Antonella, prevede una julienne sottilissima di maiale, cavolo cinese, funghi cinesi, bambù e peperone verde, nella versione (credo) vienamita l’ho mangiato con carne macinata, verdurine e spaghettini di soia, e vedo che i ristoranti di cucina cinese creativa ne fanno un involucro per le farciture più svariate: mi sbizzarrirò anch’io!

 

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