Una maestosa faraona

Sì lo so a Natale sono stata cattiva: non ho postato neppure una ricettina. Ma, credetemi, mi trovavo in altre faccende (lavorative) affaccendata e quasi non ho avuto il tempo di pensare a cosa avrei messo sulla mia, quella reale (non virtuale!) tavola di Natale.

Alla fine, a pochi giorni dalla data fatidica (noi si fa cena la Vigilia, e siccome è l’unico pranzo di festa in famiglia, sorvoliamo sul menu di magro) sono andata in cerca di qualcosa da fare e mi sono rivolta con fiducia alla mia “fonte” preferita, che è La Cucina Italiana (chi mi conosce, sa perché!), con l’idea di fare un rotolo di faraona. La ricetta ha ben 15 anni (è stata pubblicata nel dicembre del ’96) ma non li dimostra affatto, a riprova che un buon piatto è sempre un evergreen. Di contro, io 15 anni fa ero “incastrata” nel mio famoso tacchino ripieno, che ha allietato la nostra mensa per un decennio, riproponendosi in più vesti – scaldato al forno, scaldato al microonde, congelato, spolpato, fatto in insalata, macinato in polpette – almeno fino alla Befana. Solo negli ultimi anni me ne sono liberata. E dopo un paio di tentativi tutt’altro che indimenticabili (tipo un rollè di vitello col ripieno del tacchino, un’anatra al miele che ha rischiato di bruciare e qualche altro esperimento di cui non vado troppo fiera), quest’anno devo dire di aver fatto centro. Tutto è perfettibile. O, meglio, personalizzabile. Noi non si aveva il tartufo nero ma un burro al tartufo (e però la prossima volta almeno uno scorzone me lo procuro), e il ripieno di solo vitello ci è sembrato eccessivamente delicato, forse si potrà arricchire di salsiccia e qualche tocco di spezie (io adoravo la Saporita Bertolini ma non la fanno più, sigh!), ma la ricetta è una gran ricetta. A patto di avere un grande macellaio (come il mio, Piran di Venegono Superiore) che ha disossato la faraona alla perfezione: lo vedete nella foto in cui è bella stesa in attesa del ripieno, senza la più piccola lacerazione. La ricetta la vedete anche lei nella foto, oppure la trovate qui. Per la precisione, la mia faraona pesava, intera, un chilo e 800, la carne del ripieno erano quasi 6 etti, il resto tutto dosato come da originale. Consigliatissima.

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La posta del cuore – (I)Pera Attiva

Cara Francesca, sono più o meno felicemente sposata da un quarto di secolo. Il mio, anzi il nostro, problema è comune
a molti: c’è poca sintonia sul fronte tempo libero. Io, per intenderci, vorrei sempre uscire, lui è più pantofolaio. Cerco
di risolvere la questione ritagliandomi degli spazi miei, uscendo con le amiche o frequentando dei corsi. Però non mi basta: vorrei, come dire, speziare un po’ di più questa relazione, ritrovando il piacere di fare cose insieme. Consigli?
(I)Pera Attiva

Cara (I)Pera, sveglia! O meglio, risveglia. I sensi, tutti e cinque, tuoi e del pantofolaio. Dopo tanto, tanto, tanto (!) tempo insieme, per dare la scossa al vostro rapporto non serve stare lui sul divano e tu a bere il tè con le amiche. Piuttosto, come suggerisci tu stessa, occorre dare al vostro ménage un tocco “speziato” che movimenti un po’ le cose.
Naturalmente i miei consigli, non essendo questa la posta della sessuologa, ma della cuoca, non si praticano tra le lenzuola (dove comunque coi cinque sensi ci si può divertire un bel po’!) ma in cucina e a tavola. Luoghi che, tuttavia, possono essere
un ottimo preludio ad altre “condivisioni”. Si gioca seguendo una sola regola,
ma rigorosa: occorre essere in due dall’inizio alla fine, dai fornelli al tête-à-tête. Cucinare insieme è un ottimo modo per ritrovare la complicità. Ah, dimenticavo: dovete anche spegnere i telefoni, abbassare le luci e mettere su la vostra musica preferita
(figli? fuori dalle scatole).
Ecco allora, senso per senso, una carrellata di spezie che possono fare il miracolo. A te la scelta di come impiegarle tenendo presente che le pietanze che meglio si sposano con le spezie sono, ovviamente, quelle esotiche, dai risi pilaf ai sauté di carne, pesce e verdure, dai legumi fino alle zuppette orientali. Senza dimenticare i dolci, soprattutto macedonie, creme e gelati.

Cinque sensi e le loro spezie
Tatto.
Qualcosa da manipolare. Dei grani di anice stellato o dei semi di curcuma da estrarre dai loro baccelli. Una stecca di vaniglia da aprire e raschiare. Un pezzetto di zenzero da pelare e grattugiare. Tra l’altro, toccandole, le spezie lasceranno un ricordo del loro profumo sulle vostre mani, stuzzicando l’odorato.
Vista.
Colore, colore, colore. A patto di riuscire a dosare il sapore. Quindi, spezie dalle tinte forti ma dal gusto tutto sommato discreto. Come la paprica dolce, rossa ma non focosa, o la curcuma dorata ed esotica. Senza dimenticare lo zafferano, nato apposta per essere guardato, oltre che annusato.
Udito. Qualcosa che scrocchia sotto i denti. Bacche solo leggermente frantumate di pepe rosa o coriandolo. Piccoli semi tostati di sesamo o di papavero. Se poi completate
i piatti con un pizzicone di sale in fiocchi, la colonna sonora è perfetta.
Odorato
. Le spezie sono profumate per definizione. Se però volete tuffare il vostro naso in una cacofonia inebriante, scegliete le miscele. Come il curry e il garam masala indiani, o le 5 spezie cinesi. E giocate a chi riconosce il maggior numero di ingredienti (vietato sbirciare l’etichetta!).
Gusto.
Me lo sono tenuto per ultimo. Perché è il re dei sensi a tavola e perché sa essere la miccia che accende il dopocena… L’aggettivo da ricercare è “pungente”. Come il peperoncino e il pepe nero, naturalmente. O, secondo il vostro gusto, come qualità meno intense, ma altrettanto stuzzicanti: il pepe verde, il pimento, lo zenzero, la noce moscata, il chiodo di garofano.

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La posta del cuore – Cuoco pasticcione

Inizia la rubrica (che spero diventi fissa!) di posta del cuore: avete un problema con lui o con lei e volete risolverlo a tavola? Volete stupire con effetti speciali per conquistare la vostra anima gemella? O, semplicemente, cacciare i bambini
a letto, spegnere il computer e la tivù, accendere le candele
e fare i romantici come una volta?
Scrivetemi a conviviare@gmail.com: troverò la soluzione culinaria che fa per voi!

Dite sempre che l’uomo che cucina per la sua donna è sexy, ma quando provo a sorprendere la mia fidanzata facendole trovare la cena pronta finisce che mi sgrida per le briciole spiaccicate sul pavimento, gli schizzi di sugo sul muro, i tre elettrodomestici lasciati da lavare e le incrostazioni di cibo sul fornello. Ogni volta, finito di cenare si mette a ripulire tutto, mentre io mi abbiocco sul divano… Non so davvero come cucinare senza fare casino in giro. Forse potrei passare in rosticceria?
Cuoco pasticcione

Caro Cuoco pasticcione, la rosticceria no, per favore! Fa troppo anni Settanta, nove su dieci lasagne, crocchette, pollo arrosto e baccalà fritto sono troppo unti, li riscaldi e sanno – appunto – di riscaldato e poi, quelle orribili vaschette d’alluminio… A meno di non fare i tuoi acquisti nella miglior gastronomia della città, e solo se ci abiti sopra e hai poca strada da fare (più tempo passa dalla vetrina del negozio a casa, più i cibi preparati raffreddandosi si sciupano), la scarterei con decisione. Piuttosto, ordina delivery. Non so in che città abiti, ma se metti su Google parole tipo “food” “delivery” “online” e il nome della tua città qualcosa viene fuori sicuramente.

A Milano, Bacchetteforchette ti porta a casa trenta cucine diverse (dalla jap alla spagnola, dalla russa all’italiana) di altrettanti ristoranti cittadini, GustòKitchen
menu di stagione, chilometro zero e bio, Tramezzino Itì tramezzini, appunto, ma anche risi&grani in insalata (perfetti per un brunch romantico). Per dire i primi tre che mi sono venuti in mente. E poi, arrivano tutti in confezioni carine, ben conservati e ben trasportati, spesso anche sufficientemente caldi, altrimenti con tutte le istruzioni per “rigenerarli” correttamente. Prevedi un aperitivo per l’eventuale attesa: in genere, la consegna è “dalle-alle”, magari vi tocca aspettare un po’. Finita la cena, non avrai che da mettere (tu!) i piatti in lavastoviglie, buttare gli incarti e farti ringraziare per il pensiero carino…

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Calamaretti nel coccio

Sono i molluschi più semplici e veloci da cucinare. Sempre teneri e delicati. Insomma, una bontà. Da non coprire con ricette elaborate ma esaltare con una cottura rapida
e pochi condimenti. Fate come me.
Ho pulito e lavato 3 etti circa (li mangiavo solo io) di calamaretti, ricordandomi di passarli a lungo sotto l’acqua corrente perché tentacoli e sacche possono trattenere un po’ di sabbia, e la sabbia sotto ai denti non si può sentire.
Man mano che li sciacquavo li mettevo, ancora gocciolanti, nel mio tegamino di coccio monodose. Riuniti tutti in pentola, ho aggiunto un filo d’olio, uno spicchio d’aglio vestito, una spolverata di peperoncino macinato, prezzemolo tritato e pochissimo sale (si può anche non mettere: i molluschi rilasciano acqua sempre piuttosto sapida, in caso contrario si può correggere alla fine).
Sul fuoco, rigorosamente separato da una retina spargifiamma, e con il coperchio,
avrò atteso al massimo una ventina di minuti, calcolando che il coccio per scaldarsi ci mette un po’, prima di scoperchiare e scoprire che i miei calamaretti erano diventati rosa e teneri, i ciuffi di tentacoli delicatamente arricciati, il sughetto abbondante e colorato.

Io li ho mangiati così, ma si possono usare per condire gli spaghetti (meglio però in questo caso tagliare le sacche ad anelli) o anche per farne una zuppetta su crostoni di pane tostati o, meglio ancora, fritti nell’olio. Tutto semplicissimo. Tutto buonissimo.

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Il decalogo dell’aglio

Ero lì, con la mia macchinetta fotografica posata sul bancone, in cucina, mentre preparavo non ricordo cosa. Mi occorreva uno spicchio d’aglio. Ho preso una testa intera, l’ho aperta. E l’ho trovata magnifica, le sfoglie sottili e fragili, il color crema screziato di rosa, gli spicchi che si aprivano a corolla sprigionando un profumo delicato ma persistente.
Ecco, il profumo ve lo dovete immaginare. Per il resto, ho scattato una fotina e pensato… mumble mumble… che dire di questo piccolo, semplice, portentoso ingrediente?
La prima riflessione che mi è venuta in mente è che tutti hanno un’opinione sull’aglio.
In genere, il mondo si divide tra coloro che lo amano, coloro che lo odiano e coloro che lo amano “a patto che”. Per questi ultimi (i primi non hanno bisogno di sotterfugi, i secondi non si convinceranno mai della sua commestibilità) ecco un po’ di trucchetti, noti e meno noti. Il decalogo dell’aglio.
1. Quale che sia l’uso che volete farne, tagliate lo spicchio a metà per il lungo e se al centro si distingue il germoglio, bianco o verde che sia, sottile o gonfio, eliminatelo: è un vero concentrato di “aglitudine”, difficoltà di digestione compresa.
2. Per arrosti, patate al forno e cotture lunghe in genere (anche nella pentola dei fagioli, per dire) usatelo “vestito”, ovvero non sbucciato: diffonderà un sentore più discreto.
3. Qualunque ricetta in cui si consiglia l’aglio tritato viene altrettanto bene se mettete
lo spicchio tagliato a metà, così poi lo potete togliere. Qualcuno infilza i mezzi spicchi
con un paio di stecchini, per poi poterli afferrare ed eliminare facilmente (e distinguere, magari, in mezzo ad altri ingredienti).
4. Alternative all’aglio tritato sono l’aglio grattugiato (usate grattugine piccole, ce ne sono di apposite in legno o ceramica) e quello spremuto con l’utensile detto, appunto, spremiaglio. Quest’ultimo ha il grande pregio di trattenere tutte le pellicine fibrose (in pratica, il ricavato è una poltiglia succosa), che sono la parte più indigesta (sapete, vero, che le fibre sono per definizione indigeribili?). Vedete entrambi nella fotina – così sapete di che parlo.
5. Per le salse, tipo allioli o aïoli che dir si voglia, ma anche – oserei – per una bagna cauda non troppo assassina, per una salsa di noci soft e sempre e comunque per il pesto (almeno, a parer mio), l’aglio si addolcisce scottandolo da una a tre volte in acqua o latte bollenti, da cambiare ogni volta. Più sono le volte che lo tuffate nel liquido bollente (per due, tre minuti a volta), più perderà il gusto acre. Il latte addolcisce più dell’acqua. L’aglio addolcito e passato allo spremiaglio è il top del delicato.
6. Strofinarlo è sempre una buona idea. Non solo sulla classica bruschetta, ma anche all’interno di una terrina in cui andrete a condire una pasta, un’insalata, una panzanella, o di una ciotolina in cui emulsionare una vinaigrette.
7. Mai e poi mai permettere all’aglio di bruciarsi: diventa terribilmente forte, acre, amaro, ed emana un odore tremendo (che, per inciso, ci mette giorni ad andare via di casa), rovinando qualunque piatto.
8. Ora non è il momento. Ma, se avrete pazienza, tornerà la primavera e porterà l’aglio fresco. Che si mangia e si digerisce che è una meraviglia. Parola di una che l’aglio non lo tollererebbe e invece, da aprile-maggio a luglio (che è più o meno il periodo in cui si trova facilmente) se ne fa belle scorpacciate.
9. Avrete sentito dire che l’aglio ha proprietà disinfettanti e antibiotiche, che è un antipertensivo naturale e che scaccia i vampiri. È tutto vero.
10. A proposito di abbinamenti, inutile dire quanto stia bene con la carne di maiale, insieme a finocchietto, rosmarino, salvia e timo, con il pollo arrosto e le già citate patate, con le salse di pomodoro (secondo me, meglio ancora se ben ristrette), con pesce, frutti di mare e prezzemolo. Ma se proprio devo scegliere, la morte sua è con il burro. E ti pareva!

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Cucinare e amare, non necessariamente in quest’ordine

 

Il titolo di questo post è la frase che ho scelto
“about me” quando, nei profili pubblici, ti viene chiesto di sintetizzare chi sei, o cosa fai.
Potrei aggiungere anche “scrivere”, visto che di recente, a chi mi chiedeva “Cosa fai quando non cucini o non scrivi?”, non ho saputo cosa rispondere.
Per dirla tutta, faccio dell’altro, ovvero condividere
il mio cucinare e il mio amare – e da quando
ho questo blog anche il mio scrivere – con altri.
Ora, non voglio essere riduttiva. Come tutti leggo romanzi e riviste, guardo film e tv, vado a fare qualche viaggetto e qualche scampagnata, e a volte vinco la mia pigrizia a favore di una corsetta. Ma nulla di tutto ciò mi descrive quanto i miei due verbi preferiti. Che hanno affinità, analogie e differenze.
Affinità: cucinare e amare hanno tutt’e due a che fare con la passione, con i sensi, con
il benessere, a volte persino con la felicità. Soprattutto se entrambe le azioni si svolgono nel medesimo tempo: cucinare per chi ami (e con chi ami, aggiungerei), ma anche amare ciò che cucini.
Analogie: sia amare che cucinare vengono meglio se hanno un oggetto. Amare un fidanzato o un figlio, cucinare un pollo arrosto o una torta. Che non significa mettere sullo stesso piano fidanzato e pollo arrosto, naturalmente!
Viceversa, è possibile “cucinare in assoluto”, senza uno specifico oggetto: del resto, negli ultimi otto anni, “io cucino” è stata per me, prima ancora che una dichiarazione di intenti, una realtà lavorativa – come ben sa qualcuno dei frequentatori di questo blog.
Per gli altri, spiego brevemente: io cucino è stata la testata che ho ideato, diretto e realizzato per tanti anni, e fino a pochi mesi fa.
Ai tempi del progetto, mi trovai a scrivere il mio primo editoriale per il numero zero. Dopo un simpatico bla bla sul come e sul perché stesse nascendo un nuovo giornale
di cucina, in cerca di una chiusura per il mio pezzo scrissi:
“Perché io cucino. E mi diverto a farlo”.
Oggi continuo a divertirmi. Sarà per questo che amo farlo.

Ps: la foto del post è stata fatta dal mio figliolo adolescente

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Esperimenti di olive fresche

È successo che qualche tempo fa sono andata al mercato di Benedetto Marcello.
Come mercato non è che mi sia piaciuto granché: troppa confusione, troppo disordine, molta fuffa. Però ci sono un sacco di ortolani stranieri che vendono prodotti inusuali, almeno per Milano. In particolare, diversi banchetti di nordafricani proponevano le olive verdi fresche. Peccato che nessuno mi sapesse dire che farmene.
I più intraprendenti mi spiegavano, a gesti, che si mangiavano (!). Un tale, per convincermi, ha insistito che ne assaggiassi una e… beh, avete in mente la cosa più amara che abbiate mai assaggiato e, insieme, quella che più lega la bocca? Ecco: un’oliva fresca.
Eppure, via via che procedevo, sulle bancarelle ce ne erano a cassette, addirittura a montagne: possibile che ci fossero così tante olive in vendita e nessuno mi sapesse dire come fare a renderle commestibili? Alla fine, ho trovato un ambulante maghrebino che sosteneva di essere un biologo e che, in un italiano un po’ approssimativo, mi ha spiegato che dovevo lasciarle a bagno in acqua e bicarbonato, per un certo numero non meglio precisato di giorni, poi metterle in salamoia. Mentre spiegava, ne aggiungeva a manciate in un sacchetto, che poi mi ha messo in mano chiedendomi la bellezza di 75 centesimi (per mezzo chilo di olive). Ho pagato e pensato che, se non avessi ottenuto nulla di buono, comunque avrei sprecato pochi soldi.
Per perfezionare le mie conoscenze, ho proseguito finché sono arrivata dagli italiani che, al posto di quelle verdi, ne avevano di nere. Chi mi ha venduto quest’altro tipo (un paio d’etti, il prezzo non lo ricordo, più alto delle altre ma comunque nulla di che), dopo una rapida consultazione con il vicino di bancarella mi ha detto di friggerle con olio e sale e mangiarle, e che non aveva idea di come trattare le verdi.

Tornata a casa con il mio bottino, ho fatto un giro in rete: anche se in genere non do particolare credito a questo tipo di ricerche, su un argomento tanto nebuloso volevo raccogliere più nozioni possibile. Da tutto quello che ho letto, ho elaborato un piano, messo in pratica nel mio esperimento.
Prima ho pestato quelle verdi con un martelletto di legno, per spaccarle.
Quelle nere no, perché inizialmente pensavo di saltarle in padella come mi era stato suggerito. Ma a un primo assaggio risultavano anche loro troppo forti.
Sicché, sono finite entrambe a bagno, in due bacinelle separate: le olive verdi con acqua e bicarbonato, quelle nere solo con acqua.
I primi giorni sono stata diligente e ho cambiato il bagno più volte (diciamo, tre o quattro al dì). Poi mi sono un po’ stufata e ho eseguito l’operazione due o una sola volta al giorno, e mi sono anche stufata del bicarbonato: chissà se avevo capito bene.
Anche perché ogni tanto facevo la prova di assaggiarle ed erano sempre immangiabili, quindi non ero convinta valessero lo sforzo.
Poi, dopo circa due settimane di ammollo, magicamente ne ho provata una e non era più cattiva.
Il momento era dunque giunto. Ecco che ho fatto. Ho messo le nere in una teglia con pezzetti di scorza d’arancia, le ho salate in abbondanza e le ho infornate, diciamo a 150°, per un paio d’ore. A un certo punto le ho sforacchiate qua e là con uno stecchino, perché volevo che si asciugassero e venissero grinzose come quelle che si comprano.
Tolte dal forno e raffreddate, le ho condite con olio e scorza d’arancia nuova.
Le verdi le ho trattate in due modi diversi. Un po’ le ho semplicemente messe nei vasetti e coperte con salamoia preparata sciogliendo 100 grammi di sale per litro d’acqua e facendola raffreddare prima di riempire i vasi. Altre le ho condite con sale, origano, peperoncino, spicchietti d’aglio interi e olio.
Ora, da ieri sono tutte nel mio frigo. Dovranno restarci un po’, immagino, a insaporirsi. Ma l’aspetto è invitante, il profumo buono. Il sapore? Vi dirò.

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Un pizzico di sale

È l’ingrediente imprescindibile. Non, banalmente, perché sala. Ma perché esalta gli altri sapori, in molti casi li tira letteralmente fuori, li estrae da cibi che altrimenti non ne avrebbero. Certo, occorre dosarlo bene. Il sale è il responsabile della maggior parte degli errori in cucina. E se aver tenuto la mano leggera è un difetto che si può facilmente correggere (non sempre però: se l’acqua della pasta è sciapa, la pasta resta sciocca anche se rovesci la saliera sul piatto), viceversa se ci vai giù pesante son fatti tuoi.
Puoi solo che scusarti.
Mi spiace non avere il trucco che insegni come quantificare esattamente quel pizzico che dà gusto, diversamente dal pizzicone che, come diceva la mia nonna, fa addirittura amaro. L’unica regoletta (assai scolastica) è 10 grammi per litro d’acqua per etto di pasta.

Fin qui, inutile bla bla. Ma ora viene il bello. Perché sì, vi racconto i miei, di sali.
A cominciare dal pluricitato sale Maldon, che nella foto di gruppo in cima al post biancheggia al centro degli altri mucchietti.
Maldon è un distretto dell’Essex, nel sudest dell’Inghilterra. Il sale che viene da lì è in fiocchi, in pratica fior di sale ovvero la parte più pregiata che affiora in cristalli sottilissimi e croccanti.
E qui mi vien subito da dire: scegliere un sale piuttosto che l’altro è questione di consistenza, di aspetto e di gusto, ed ecco perché i sali per così dire “particolari” si usano solo al momento di servire e, possibilmente, non su ingredienti eccessivamente “succosi” che li scioglierebbero più o meno all’istante.
Il sale Maldon su un fritto o su una frittata, su una jacket potato (tanto per rimanere in GB) o su una coscetta di pollo arrostita, su una tartare o una tagliata, è bello da vedere per la sua tridimensionalità (certi fiocchi hanno forma di prisma) e dà un delizioso effetto “crunchy”.

A dire il vero, su tartare e tagliate il più bello in assoluto è il sale nero delle Hawaii (non lo avevo da fotografare, però), a granelli di media grandezza che fanno un contrasto meraviglioso sul rosso della carne al sangue. Unico difetto: coi succhi della carne il nero (sostanze vulcaniche aggiunte durante l’essiccazione) si slava via e il sale torna bianco. Ma, almeno al momento di portare in tavola, l’effetto è assicurato.
Alle Hawaii sembrano avere una certa tradizione per la lavorazione del sale colorato perché da qui arriva anche il rosso (nella mia foto, in basso a sinistra) dai granellini piccini e tondeggianti (ma esiste anche grosso) che devono il loro colore all’aggiunta di argilla naturale. Leggermente aromatico e, direi, di sapore “secco”, sta cromaticamente bene con qualcosa di bianco o rosa chiaro: orata o branzino, pollo o tacchino, filetto di maiale o salmone.
Proseguiamo in senso orario e troviamo, in alto a sinistra, il sale Chardonnay della California. Che è un fleur de sel che deve il suo aroma al fumo prodotto con botti di vino, Chardonnay per l’appunto. In questo caso, il fumo è un retrogusto preciso di cui tenere conto quando si aggiunge questo sale su carne e pesce.
Stesso discorso per il vichingo affumicato, in alto a destra, con larghi fiocchi croccanti e aromatici (l’affumicatura è fatta con legno di pino e pepe nero), a dispetto di quel che si potrebbe pensare non eccessivamente “barbaro”, anzi piuttosto discreto.
È invece una vera sinfonia di profumi e sapori il sale Halen Mon affumicato, altro inglese di pregio (che esiste anche bianco, così come il Maldon esiste anche affumicato). Profumato al legno di quercia (barricato, insomma!) e venato da un’intrigante dolcezza, sprigiona il meglio di sé su carni alla griglia, sulla selvaggina e, per esempio, sulle quaglie, che ormai sono tutte d’allevamento ma conservano quel certo sentore selvatico che si sposa bene al carattere di questo sale.

Fermiamoci qui. Anche se ci sarebbero da dire ancora un sacco di cose. Sui sali francesi, su quelli siciliani, sul sale di Cervia. E poi, tutto il discorso sugli aromatizzati, che però a me non convincono. Ne ho provati agli agrumi, persino alle olive nere, ma nonostante il sale sia un conservante naturale, finivano per sviluppare un sentore rancido leggero ma fastidioso.
Concluderò dicendo che quelli della foto sono finiti, mescolati, in una scatolina dando vita a un personalissimo blend. Il mio sale.

Ps: i sali fotografati, eccetto il Maldon, e alcune delle notizie che ho dato arrivano da Bembo, che ne ha più di 90, tutti da scoprire.

il mio sale blended

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Cucino gli avanzi: la frittata di gnocchi

In sole due settimane da quando ho iniziato questo mio blog, mi sono già resa conto che non è facile tenerlo aggiornato e avere ogni volta qualcosa di buono da sfornare per chi ha la gentilezza di seguirmi.
Sicché, non avendo nulla di nuovo da raccontare, oggi vi tocca quel che ho fatto ieri. Ovvero, una ricetta del giorno dopo: la frittata di gnocchi (al gorgonzola).
Ecco com’è nata.
Ieri sera per cena ho fatto, appunto, gli gnocchi al gorgonzola. Niente di impegnativo. Mezzo chilo di gnocchi di patate vere scodellati in una pignatta in cui avevo fatto fondere a fuoco dolcissimo quattro, cinque cucchiaiate di gorgonzola (di quello buono, dono del mio fratellone che sta dalle parti di Novara), un filino d’olio e un goccio di latte.
Erano deliziosi ma, in due, non li abbiamo finiti: diciamo che ne è rimasta una porzione scarsa. Così oggi, a pranzo, è scattata l’operazione frittata.
Operazione che a casa mia scatta molto spesso con la pasta del giorno prima, con gli avanzi di caponate, peperonate e contorni vari e praticamente sempre quando faccio gli spaetzle burro, salvia e pancetta (sì, la prima volta che capita ve li racconto pure questi!), che cucino apposta un po’ di più.
Con gli gnocchi non avevo mai provato, ma rifarò. È bastato sbattere un paio di uova (a proposito, lo sapete che per le frittate le uova non vanno sbattute troppo a lungo, sennò in cottura diventano chewingum?) con poco sale e una grattugiata di noce moscata e mescolarvi gli gnocchi (scaldati appena un attimo, una manciata di secondi, giusto perché il formaggio tornasse fluido). Ho scaldato una padella con un’idea di burro chiarificato, ci ho versato uova e gnocchi, ho portato su fiamma media, girato dopo 4-5 minuti e terminato di cuocere. Tocco finale, irrinunciabile sulle mie frittate, un pizzicone di sale Maldon. Volete sapere com’era? Rovente, doratina e croccantina fuori (grazie anche ai fiocchi di sale), morbidissima dentro e filante di formaggio.
Non male per essere un avanzo!

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Trippa, garofano e cannella

Detta così, sembra il titolo di un film osé anni Settanta.
Invece, è una delle mie ricette più semplici e preferite.
Ma, soprattutto è il mio primo post a richiesta: ordinato, scritto e consegnato nel giro di ventiquattr’ore a una blogger molto più esperta della sottoscritta (e molto simpatica, ma qui non faccio paragoni!), la signorina Fiamma, alter ego (o si dice avatar?) di Ilaria Mazzarotta di Due cuori e un fornello.

Partiamo da un assunto: la trippa è un ingrediente difficile.
Non è nobile come un muscolo della coscia, o come un tenero filetto dorsale. Se ne sta nascosta da qualche parte (i più preferiscono non indagare dove di preciso) insieme ad altre cose altrettanto plebee, chiamate interiora o frattaglie, due termini decisamente poco allettanti e vagamente pulp.
Invece la trippa non è affatto pulp, almeno nell’aspetto che assume qui al Nord, dove è bianca, candida direi, perché i macellai prima di vendertela la sbiancano e la cuociono, rendendola quasi asettica.
Da Firenze in giù è un’altra cosa, meno manipolata, di un colore grigiastro ben poco invitante – ma così saporita!
Fatto sta che ho sempre avuto l’impressione che le ricette con la trippa tendessero a nasconderla, il più delle volte affogata in sughi di pomodoro e confusa tra fagioli, carote, sedano… Qualunque cosa pur di non far vedere troppo bene quelle striscette carnose.
Finché un giorno mi sono detta: se ingrediente dev’essere, che sia la primadonna.
E ho cominciato a togliere. Prima i fagioli. Poi il pomodoro. Poi le verdure, che non ho levato del tutto ma usato intere, in forma di aromi. A quel punto, però, era diventata troppo basic, e quindi ho pensato di aggiungere un qualcosa di discreto, che nel risultato finale sparisse lasciando solo il sentore di sé. Spezie, insomma.

Così è nata la mia trippa lessata con cannella e chiodi di garofano.
La parte che preferisco è l’omaso (o foiolo, o millefoglie, o centopelli). Tagliata a striscioline sottili (mezzo centimetro, o anche meno). La sciacquo e ancora grondante la metto in pentola. Aggiungo una carota intera e una costa di sedano intera anch’essa.
Una scaglia di cannella (diciamo un paio di centimetri), uno o due chiodi di garofano. Verso acqua fino a metà della trippa, aggiungo una presa di sale grosso (poco)
e porto sul fuoco. In genere, uso la pentola a pressione (amo la mia pentola a pressione!) e faccio cuocere un quarto d’ora o poco più dal sibilo, perché se è troppo cotta a me non piace. In pentola normale, si può calcolare circa il doppio del tempo, ma è facile assaggiarla per testare il grado di cottura.
Quando sono soddisfatta della cottura, sgocciolo la trippa con il mestolo forato, scarto le spezie e la metto nel cestello per il vapore. Infilo nuovamente nella pentola e lascio per un po’ sul vapore, così resta calda ma perde il brodino rimasto tra le pieghe (no, il brodo di trippa non è tanto buono).
È il momento di scodellarla. La condisco con una presa di sale Maldon (ecco perché poco sale in cottura) e un filo d’olio buono. Oppure, se sono in vena di follie, con salsa verde o con salsa di rafano, che è forse la mia versione preferita. Contorno di patate bollite. E d’estate (sì, la faccio anche d’estate) tiepida, con pomodorini croccanti spaccati a metà.
A proposito: io da sola sono capace di mangiarmene due etti e mezzo. È buona, promesso!

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