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(photo Luigi Manzione)

(da qualche parte, in banlieue..)

Ho guardato a lungo, di sera, dentro le finestre dei pavillons, quelle che davano al pianterreno, con tende merlettate e riflessi di luci improbabili, calde o gelide tracce di un’esistenza domestica (con baguettes ed annesse “tartes du dimanche”, poggiate con apparente noncuranza sul tavolo della cucina). Ho immaginato, in preda alla rêverie, le differenze e le ripetizioni di queste vite di banlieue. Non da sociologo; neanche, forse, da architetto: da semplice osservatore, con gli occhi di una pietas che è anzitutto – in etimo – partecipazione.

Il mio occhio è en voyeur (inevitabile controfaccia della pietas). Osservo dunque. Mi identifico e, nel contempo, mantengo forte la distanza. Compongo qualche pezzo del puzzle di un’altra vita possibile. Mi immergo in questo possibile (pur rimanendo comunque un corpo al di là di esso). Abitare la periferia, questa periferia: attesa, dolore, soddisfazione, rimpianto, tranquillità, torpore, violenza, felicità, televisione perennemente accesa (come in una fotografia di Lee Friedlander), automobili lavate la domenica mattina nel giardino, ricordi spettrali di un sabato notte al ritorno da non-so-più-dove, traiettorie da/verso le bocche attraenti del consumo (con annesso trasporto, ad esempio, in RER, destinazione “Les Halles”, folla di conformismi d’apparenza, walkman-technohouse-et-lunettes-avvolgenti-da-sole).

Non basterebbe resuscitare Georges Perec per farne un atlante, anche solo un poco esauriente. Ma è pur questo il compito, una volta che l’occhio da voyeur scivola nella tentazione dell’analisi e del commento. Si cercherà, allora, più ragionevolmente, di estrarne un elenco fluido…

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(ph. L.M.)

I. Assenza, fuori dal luogo

Se ci si allontana dal centro verso la periferia, la città si eclissa progressivamente. Una formazione ancora nebulosa nella forma, come nella percezione che se ne ha, sostituisce la città intesa nell’accezione tradizionale: una formazione dispersa, senza qualità, priva – ad un primo sguardo – di identità e di relazioni. Un continuum senza ordine assume le sembianze proliferanti di reti punteggiate da frammenti alla scala variabile tra architettura e infrastruttura (aereoporti, autostrade, stazioni, shopping malls). Al luogo, inteso come qualità centrale (morfologica e concettuale) della città consolidata, si oppone qui il non-luogo della metropoli diffusa e della città immateriale delle reti, secondo la nozione antropologica introdotta da Marc Augé[1]. I non-luoghi rappresentano lo scenario essenziale della sur-modernità. Essi si sovrappongono alle hétérotopies (di cui parlava Michel Foucault)[2]: realtà de-territorializzate, legate al transito piuttosto che alla presenza. Luoghi nomadi, se questa espressione ha un senso.

Alla “perdita del centro” si affianca la comparsa di nuovi tipi di centralità. Non si tratta, però, di un fenomeno recente: recente è piuttosto la consapevolezza che ne abbiamo, la “scoperta” che lentamente si è venuta imponendo ai nostri occhi. Le nuove centralità rifiutano il centro; si snodano nei segmenti di raccordo della rete dell’urbanizzato, lungo gli assi delle infrastrutture, del commercio e della residenza. Perciò, costituiscono centralità non stanziali, instabili e tendenzialmente nomadi (che si attestano, appunto, sulle distanze, più che nei punti dell’insediamento durevole). Privilegiano la dimensione della breve durata, ammettono (anzi richiedono, per la loro stessa sopravvivenza) la trasformazione rapida, l’obsolescenza accelerata, il deperimento e l’abbandono, ma non ignorano strategie di adattamento e riconversione spontanea. Ciò è quanto abbracciamo con lo sguardo non appena lasciamo alle spalle la città, dirigendoci verso ciò che una volta era l’altrove. Ciò è quanto produce in noi, ancora, un senso di spaesamento e, talvolta, di incredulità (o di indifferenza).

Assistiamo, oggi, alla diffusione virtualmente infinita dei non-luoghi. Essi vivono non più, come quelli della città consolidata, nella loro fisica presenza e identità, ma nel tempo (effimero) della percezione, dell’uso e del consumo da parte di un fruitore più o meno occasionale, anonimo ‘homo metropolitanus’. Sono luoghi non abituali, non permanenti ma, come qualsiasi oggetto di consumo, destinati a seguire il mutare periodico e l’esaurirsi delle tendenze collettive. Sono oggetti sottoposti alla logica della moda, alla sovraesposizione mediatica, alla fruizione “mordi e fuggi” che lascia, insieme, un senso di pienezza e di vuoto. Oggetti che hanno perduto l’aura del vissuto per allontanarsi, come diceva Guy Debord, nella pura “rappresentazione”, tipica della società dello spettacolo.[3]

Alla centralità classica della città consolidata si contrappone, quindi, la nuova centralità dello spazio infrastrutturale della periferia. E’ proprio questo spazio delle infrastrutture il referente e, insieme, il fondamento dell’identità della periferia come territorio dell’atopia. È qui che si deve cercare l’identità del non luogo. Ciò che è mutato si trova in questa distesa senza nome. Il risultato è che oggi non sappiamo più che cosa voglia dire esattamente il termine città, né in che cosa consista quel “senza nome” con cui si è definito, per inclusiva esclusione, la periferia. Alla struttura organizzata e organica della “città di pietra”, con il degradare dei suoi luoghi centrali, le differenze morfologiche e socio-economiche tra i suoi diversi quartieri (come già nel primo ventennio del ‘900 la “scuola ecologica” nord-americana di Park e Burgess[4] poneva in evidenza negli studi su Chicago), si sostituisce un nuovo paesaggio della dispersione.

Reti infrastrutturali, diffusione metropolitana, ipercittà/non-città, spazi atopici, modelli di crescita di tipo frattale, destrutturazione formale e sociale, processi di autocostruzione/modificabilità/adattabilità, ibridazione: sono queste alcune delle parole-chiave che denotano la diffusione degli insediamenti sul territorio. Grandi centri commerciali all’ingresso delle città, grandi infrastrutture, grandi strade-mercato, grandi estensioni di “connettivo”, tessuti misti e, ancora, edilizia residenziale spontanea disseminata (una versione parossistica dell’habitat pavillonaire della banlieue francese), in generale grandi “macchine ibride”, tipologie atopiche, depositate come frammenti fluttuanti in un mare di indefinito. La categoria del “grande”, declinata in diverse forme di fuori-scala, unifica l’eterogeneità dominante di questa dispersione insediativa. Inoltre, nella profonda diversità delle dinamiche in atto, esiste alla base un comune denominatore: l’inclinazione al superamento della forma consueta della città tradizionale, ossia la tendenza alla disseminazione insediativa che fa tabula rasa dei confini – ma non dei conflitti – sociali, spaziali, etnici e culturali.

La concentrazione delle qualità, a partire dalla quale era possibile definire la città, ha trovato, dunque, in tempi recenti una radicale de-territorializzazione. Sembra dissolversi progressivamente la centralità di tipo monadico, legata all’individualità di una singola città – salvo poi recuperarla ostinatamente sul versante del turismo e del loisir, mediante la fabbricazione, spesso ai limiti del verosimile, di specificità e valori locali, grazie ad operazioni di marketing urbano e territoriale (nei centri storici, nelle periferie industriali in via di dismissione, nel paesaggio agrario) – mentre diviene sempre più evidente la confederazione, più o meno spontanea, di centralità, il saldarsi di città e di insediamenti, secondo forme e lungo direzioni variabili. Ritorna di rinnovata attualità il concetto di “conurbazione” che Patrick Geddes coniava circa un secolo fa.

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(ph. L.M.)

II. Incognito: l’altrove come problema

Alla pluralità delle accezioni terminologiche – “città diffusa” (dispersed city), “exurbia”, “urban field”, “outer cities”, “non place urban realms”, “ex-city”, etc. – corrisponde in fondo la ricorrenza di una processo che si avvia, forse, ad assumere una dimensione epocale: ciò che era il monumento per la città, catalizzatore di paesaggi, eventi, memorie, lo è l’infrastruttura per la periferia. Ciò che era il “punto”, come unità topologica fondamentale, per il monumento (luogo dell’aggregazione), è adesso il “percorso” (o meglio la “rete” di percorsi) per l’infrastruttura (luogo del passaggio e, insieme, di nuove forme di aggregazione). La rottura, più o meno epistemologica, nei modi di vivere, interpretare e trasformare la periferia deve necessariamente situarsi nella presa d’atto di questo processo.[5]

In tale contesto si colloca la genealogia (e la geografia) dei “non-luoghi” contemporanei. Vi ritroviamo le origini plurali di quelle che sono state definite le figure della trasformazione, e dei paesaggi insediativi che ad esse si associano. Ma qual è l’identità di questi luoghi/non-luoghi? In relazione a queste “figure”[6] sono state introdotte alcune categorie di descrizione e classificazione: l’atopia (l’indifferenza al sito, lo spaesamento dell’oggetto architettonico in un contesto estraneo); il fuori-scala (le grandi strutture dimensionalmente estranee rispetto all’intorno); gli spazi aperti di relazione (i vuoti neutri della metropoli diffusa: aree di sosta, parcheggi, zone a destinazione indefinita); la nuova monumentalità degli anti-luoghi del commercio e del ‘loisir’.[7]

Sul tema della formazione del paesaggio atopico della periferia contemporanea, in apparenza caotico ed informale – ma sorretto, in fondo, da principi, regole e dinamiche insediative ancora sfuggenti e sui quali occorre concentrare il nostro sguardo – si è andata sviluppando in Europa una tradizione di ricerca particolarmente vivace durante gli anni ’90. Tradizione che si inserisce, tuttavia, in un filone già attivo nei due precedenti decenni: diverse esperienze, infatti, sono state compiute sull’indagine e la rappresentazione dei fenomeni urbani e territoriali, in particolare su quelli relativi alle situazioni in mutazione. Questi studi hanno senza dubbio contribuito alla costituzione di nuove modalità di osservazione e di descrizione.[8] Ma molto resta ancora da fare, e da scoprire…

Un primo interrogativo, tuttavia, si può porre: è possibile la ricerca di un’interpretazione della periferia non in senso oppositivo, ma direttamente connotativo. Non in opposizione alla città (del tipo: è periferia ciò che non è città), ma intendendo la periferia come formazione avente identità e caratteri propri? Nelle società a mutazione accelerata, dove le dimensioni degli habitat contemporanei sono di gran lunga superiori a quelle dei tessuti storici – si veda, ad esempio, la realtà dei paesi del sud-est asiatico e di quelli sudamericani – la periferia assume un valore e una potenzialità spesso preminenti in rapporto al contesto dell’agglomerazione nel suo insieme. Occorre partire da questa constatazione per uscire allo scoperto su territori concettuali ancora inesplorati.

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(ph. L.M.)

III. Altri sguardi: anticipazioni dell’atopico

“Tutto questo paesaggio periferico, immerso nel frastuono dei veicoli che sembravano essersi riuniti qui da tutte le direzioni del mondo, gli appariva confortevole come quel paese di confine dei sogni, dove uno poteva sostare, a differenza di qualsiasi altra parte nell’interno del paese. Sentiva il desiderio di dimorare in una di quelle baracche sparse, con un giardino posteriore che dava direttamente sulla steppa, oppure lì sopra il deposito, dove un paralume appena acceso, diffondeva un riflesso giallo. Matite; un tavolo; una sedia. Dalle zone periferiche emanavano freschezza e forza, come in una perenne epoca di pionieri”.[9]

(Peter Handke)

(Talvolta bisognerebbe non solo rivolgersi altrove, ma anche dimenticare ciò che hanno fatto, detto e scritto gli urbanisti e gli architetti per cercare al di là delle apparenze. Fare un buon uso dell’oblio, così come, tradizionalmente, ci si è educati a fare un buon uso della memoria…)

“Dalle zone periferiche emanavano freschezza e forza, come in una perenne epoca di pionieri”, dunque. Dal torpore dello sguardo ordinario, abituale, si è condotti allo spaesamento e, insieme, ad un nuovo sentimento della familiarità. Ad un guardare con occhi più attenti e, insieme, più stupiti, nell’assenza di codici conosciuti. “Ogni osservazione – scrive Gianni Celati – ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.”[10]

La scrittura letteraria offre, spesso, delle anticipazioni di ciò che i saperi disciplinari “scoprono” solo più tardi. La riflessione sui non luoghi e sulla condizione atopica in architettura ha avuto inizio, come si è detto, all’inizio degli anni ’90, influenzata da autori come Augé, Virilio, Foucault, Baudrillard, etc. Ma, se ci rivolgiamo al romanzo, ad esempio, scopriamo che con diversi decenni di anticipo Vladimir Nabokov (in Lolita del 1955) ci presenta descrizioni straordinariamente acute ed anticipatrici della “terra incognita” e dei non-luoghi nordamericani. Da Nabokov, che può essere considerato, a mio avviso, uno dei “pionieri” in assoluto, si diparte una genealogia di autori, tra loro molto diversi, che hanno “insegnato” a vedere la grande provincia americana con occhi diversi (genealogia che arriva fino a Jonathan Franzen, ed oltre). Senza confinarci, però, alla sola scrittura letteraria, potremo cogliere questo sguardo “premonitore” anche nel cinema (penso, ad esempio, a Wim Wenders) e nella fotografia (penso soprattutto a Robert Frank, Lee Friedlander, William Klein). Si tratta di visioni diverse dell’atopico come figura dell’assenza e dell’incognito, verso la quale gli strumenti dell’osservazione e della comprensione si mostrano spesso inadeguati. L’America, quella di Jean Baudrillard,[11] ha tracciato il cammino; poi l’Europa, come sempre, ha seguito…

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(ph. L.M.)

IV. Osservare e descrivere l’atopia

Concentrare lo sguardo sui paesaggi periferici significa, dal punto di vista disciplinare dell’architetto, mettere a fuoco anzitutto i caratteri visibili delle profonde mutazioni del territorio prodotte dalla dispersione insediativa. Di qui il tentativo di operare una descrizione delle nuove forme di tali paesaggi. Descrivere, da questo punto di vista, è – nel senso indicato da Italo Calvino – porre un “problema da risolvere”, ossia tentare una esperienza conoscitiva che apra nuove prospettive operazionali. Ma è anche, come ci ha ricordato Georges Perec, “tentative d’épuisement”,[12] tentativo di esaurire un tema, di descriverne le componenti e le articolazioni. Nel nostro caso, in ciò che è stato definito in modi diversissimi e spesso contradditori (da “città diffusa” a “urban sprawl”, da “rurbanisation” a “campagna urbanizzata”), la principale posta in gioco è cercare di leggere, interpretare – talvolta decifrare – tipologie, morfologie, aggregazioni che appaiono, ad un primo sguardo, prive di ogni logica.

È necessario, però, ribaltare il punto di osservazione. Occorre, cioè, una inversione metodologica nella posizione del problema: non sono, infatti, queste formazioni recenti ad essere prive in se stesse di una logica insediativa, ma è piuttosto la nostra difficoltà a leggerle, descriverle, interpretarle che ce la fa apparire come caotiche ed informi. La città tradizionale ci è apparsa come una entità stabile ed organizzata, con una precisa dinamica di formazione storica – ossia conoscibile – proprio grazie al fatto che la lettura di essa si è affinata sulla base di una metodologia consolidata nel tempo, grazie al contributo dei geografi urbani, degli storici, dei sociologi, degli economisti, degli urbanisti, etc.

L’ordine della “città di pietra”, rimanda metaforicamente ad una sorta di scrittura stabile, ad un testo esplicito; nella periferia contemporanea, al contrario, saltano tutte le relazioni “logiche” di cui si è nutrita la costruzione della città nel corso del tempo. Saltano, tuttavia, delle relazioni “storiche”, dunque relative e non assolute. Il testo si fa qui precario, a tratti ermetico, ma di grande ricchezza e complessità. La sfida, oggi, risiede proprio nel leggere ed interpretare questo testo. La questione che si pone è allora, in primo luogo, di verificare se, ed in quali forme, è possibile definire un approccio efficace alla osservazione e descrizione della periferia, della città informale, dello sprawl e dell’atopia. Non si tratta più di “rilevare” semplicemente l’esistente – quale esistente, del resto, dal momento che ciò che esiste è in continuo movimento e mutamento? – per definire strategie congruenti di interpretazione e di modificazione.

Si tratta, semmai, di rilevare la periferia per costruire delle strategie che siano di conoscenza e, insieme, di progetto, nelle quali non necessariamente l’analisi e la trasformazione si susseguono come un “prima” e un “dopo”, ma piuttosto interagiscono reciprocamente per produrre discorsi e pratiche a partire da figure. Si tratta, quindi, di collocare l’operazione dell’osservare a monte di modificazioni, teoriche e concrete, spesso complesse e intrinsecamente “caotiche” e “indeterminate”, nelle quali i problemi formali assumono meno valore in se stessi che nelle relazioni con gli aspetti sociali, culturali, etnici.

Il mito dell’autonomia disciplinare, così ascetico e rassicurante, non può non fare i conti con il flusso ed il mutamento delle pratiche sociali, dei comportamenti e degli immaginari. Di fronte a tutto questo, l’autonomia disciplinare diviene una mitologia conservativa. Ma quale rilievo per il caos e l’indeterminazione? In tali situazioni, il rilievo non può limitarsi alla costruzione di atlanti di pure morfologie e tipologie. Esso deve farsi, per usare un’espressione di Jean-François Lyotard, “corpo conduttore”: deve aprirsi ad altri vettori di analisi e di comunicazione, e da essi lasciarsi attraversare; accogliere altre modalità di descrizione, abbracciare altri sguardi. Deve diventare, piuttosto, matrice di elenchi fluidi, ricognizioni flessibili ed aperte.

La periferia è lì, vicino a noi, eppure distante. Un “altro” rilievo deve aprirsi, allora, ad una dimensione conoscitiva, anche sensibile, non univoca e generalizzante, ma fondata tanto sulla logica, quanto sulla creatività e l’invenzione (intese come logiche con-fuse). Per cercare di cogliere il senso dell’urbano (in tutti i suoi aspetti e le sue scale) occorre disporsi all’ascolto di altri “racconti”, di altre immagini della città. Il punto di fuga è, forse, nel limite tra l’oggettivo e il soggettivo, tra quanto la rappresentazione dell’urbano esibisce come evidenza e segno innegabili, riproduzione conforme dell’esistente, e quanto essa invece suggerisce, o evoca.

In altri termini, occorre situare l’osservazione e la descrizione nel solco di un doppio registro: quello del modello e quello del processo o, come scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari,[13] dell’ “albero-radice” e del “rizoma-canale”, dove “l’uno agisce come modello e come calco trascendente, anche se ingenera le proprie fughe; l’altro agisce come processo immanente che rovescia il modello e abbozza una carta, anche se costituisce le proprie gerarchie, anche se suscita un canale dispotico”. E’ in questo andare e venire tra l’ “albero-radice” e il “rizoma-canale” che si gioca, ancora, la possibilità di educare lo sguardo. Di dare un senso a ciò che osserviamo al di là delle apparenze consolidate, di trasformare lo spaesamento che ci coglie di fronte all’atopico in lettura consapevole, premessa imprescindibile di ogni trasformazione.

Luigi Manzione

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[1] Cfr. Marc AUGÉ, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1992.
[2] Cfr. la conferenza, ripubblicata su ATOPIA.
[3] Guy DEBORD, La société du spectacle, Paris, Gallimard, 1967.
[4] Robert E. PARK, Ernest W. BURGESS, Roderick D. MCKENZIE, La città, Milano, 1979 (ed. orig.: The City, Chicago, The University of Chicago Press, 1925)..
[5] Per una panoramica del contesto culturale in cui si situa tale presa d’atto, v., tra gli altri, David HARVEY, The Condition of Postmodernity, Oxford, Basil Blackwell, 1990; Marshall BERMAN, All that solid melts into air. The experience of modernity, New York, 1982; Tomàs MALDONADO, Il futuro della modernità, Milano, Feltrinelli, 1987. Si veda anche Massimo ILARDI (ed.), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Genova, Costa&Nolan, 1990.
[6] Cfr. Mosé RICCI (ed.), Figure della trasformazione, Pescara, Ed. D’Architettura, 1996.
[7] Si veda, per rimanere in ambito europeo, oltre il volume collettivo curato da M. Ricci citato nella nota precedente, la riflessione di André Corboz; di Bernardo Secchi, Franco Purini, Stefano Boeri, Rosario Pavia, Paolo Desideri, in Italia; di François Ascher, Cinthya Gorra-Gobin, Paul Veltz, in Francia..
[8] Intendo “figura” nel senso indicato da Franco Rella, in quanto “pensiero che transita attraverso le ‘immagini’ letterarie e i concetti, che tiene insieme (…) la massima astrazione del concetto e la massima forza di ciò che è stato via via definito mito, sragione, analogia, immagine”. (Miti e figure del moderno, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 10).
[9] Peter Handke, Pomeriggio di uno scrittore, Parma, Guanda, 1987, p. 52.
[10] Gianni CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989..
[11] Jean BAUDRILLARD, Amérique, Paris, Grasset, 1986.
[12]Georges PEREC, Tentative d’épuisement d’un lieu parisien, Paris, Bourgois, 1975.
[13] Gilles DELEUZE, Félix GUATTARI, Rizoma, Parma-Lucca, Pratiche, 1977 (ed. orig.: Rhizome (Introduction), Paris, Ed. de Minuit, 1976).

[testo pubblicato sulla rivista Atopia, aprile 2004]