Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’eclissi del pensiero critico

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Viviamo in un’epoca frenetica, dove tutto muta, senza riferimenti, sicurezze, punti d’incontro, un’epoca dove non è più importante distinguersi dal gruppo, ma omologarsi ad esso. Ogni individuo è un soggetto unico e irripetibile, ma oggi sembra che tutti siano uguali, non tanto nel modo di pensare o di condividere determinate ideologie, quanto nel modo di apparire. Il nostro è un mondo che ogni giorno di più assume un’unica forma di pensare, di sentire e di esistere.

Un mondo che non tollera differenze, un mondo omologato che non accetta modi di pensare non omologati, subito liquidati come inaccettabili. Viene chiamata uguaglianza quella che dovrebbe essere chiamata indifferenziazione, nella quale trionfa incontrastata la disuguaglianza.

Non stiamo vivendo il trionfo della libertà, ma una fuga alienante verso l’omologazione di massa, verso le mode consumistiche, che promettendo a tutti le stesse cose, generano una forma di livellamento mediante una finta diversificazione. L’uomo ha la sensazione di esercitare una sua piena libertà, ma si attiene, invece, all’indifferenza.

L’indifferenza è il modo più rassicurante di convivere con l’alterità e la diversità. Nella società del benessere la libertà si è ripiegata su sé stessa fino a diventare autoreferenziale ed esente da responsabilità. La tendenza all’individualismo, all’edonismo, alla creazione di una barriera protezionistica verso il prossimo hanno permesso il trionfo dell’indifferenza. L’uomo contemporaneo tende a rinunciare a un’idea grande di libertà per garantirsi piccole felicità, dimenticando che alla base della vera libertà vi è l’uguaglianza, che considera determinante il valore delle differenze che fanno di ciascuna persona un individuo diverso da tutti gli altri.

Il consumismo sociale

Il mercato globale ha ridotto gli uomini a consumatori svuotati di ogni identità.

Il consumismo ha portato gli individui a guardare in un’unica direzione: quella del voler avere sempre di più, anche quando non ce lo si può permettere. Bauman afferma che l’esclusione sociale non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. L’uomo cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi e vedersi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano.

Fromm considera l’uomo contemporaneo alienato, rinchiuso all’interno di una soffocante routine in cui anche il lavoro ha perso la sua capacità di fornire un senso all’individuo. L’uomo finisce, secondo Fromm, per identificare il proprio essere con il proprio avere, dove esperienze, cultura e relazioni vengono consumate con il medesimo atteggiamento che si ha verso gli oggetti materiali, in un’atmosfera in cui tutto può essere usato in modo indifferente. Il consumatore di oggi non è più solo avido di cose da esibire per ostentare il proprio status sociale per compensare i propri complessi di inferiorità, ma ha fatto del consumo stesso un elemento fondamentale della propria vita. L’uomo moderno è intrappolato in un frenetico movimento, smanioso di provare sensazioni sempre più intense, distratto da tutto e da niente, cerca l’ebrezza compulsiva del nuovo, cambia freneticamente le cose, nella speranza, spesso delusa, di cambiare la sua stessa vita.

 Questa cultura sembra essere riuscita ad anestetizzare, a stordire l’uomo al fine di allontanarlo dalla consapevolezza del proprio malessere interiore. L’uomo di oggi deve poter cominciare ad essere depresso per poter trovare nel consumo la propria cura illusoria. In un mondo in cui tutto è possibile e dove essere felici è eretto a valore massimo diventando quasi un dovere, può risultare traumatico fallire in un compito così importante. L’individuo contemporaneo, nei suoi tentativi di apparire sempre felice, rivela tutta la gravità della propria disperazione quotidiana.

Ogni conquista verso la libertà rappresenta per l’uomo un dono ambiguo, in quanto nel diventare sempre più un individuo egli deve farsi carico della responsabilità di scegliere e di separarsi da ciò che non lo caratterizza, con l’inevitabile rischio di perdere sicurezze e certezze. Si rivendica un’assoluta libertà da tutto e tutti, confondendo la libertà con l’affrancamento da ogni legame, si aspira a rendersi totalmente autosufficienti per poi non riuscire a sopportare neanche sé stessi e la solitudine che tanto si è pretesa. La libertà ha reso l’uomo isolato e impotente in un deserto relazionale, in un contesto di disimpegno emotivo in cui non è rimasta che l’indifferenza.

Il paradosso è che l’individuo, nella sua ricerca spasmodica di libertà, finisce per trovare nel consumo l’unico mezzo per sentirsi veramente sé stesso, inconsapevolmente finisce per essere conformista e omologato al consumo.

L’uomo è fragile e vulnerabile, smanioso di essere ascoltato, rassicurato, in preda a un’ansia costante. L’incertezza del domani ha portato ad esaltare l’oggi, il presente come esaudimento immediato al desiderio, dato che in tale situazione di precarietà e assenza di scopi, nulla più è meritevole di sforzi, sacrifici e investimenti a lungo termine. Ogni cosa oggi viene banalizzata. L’individuo è disperso in un’infinità di stimoli, possibilità, bisogni fittizi e fugge da ogni possibile appartenenza in grado di definirlo, perdendo la sua identità. L’uomo diventa incapace di discernere realtà e illusione. Si pone la necessità di aprire le porte a quel vuoto e a quelle sofferenze che si cercano di anestetizzare ad ogni costo, perché la   società di oggi è permeata in ogni suo aspetto dal terrore del dolore.

Il dolore non è più compatibile con le elevate prestazioni richieste in ogni ambito della vita. La società si preoccupa di ricercare una positività che bandisca tutto ciò che è negativo e doloroso, impedendo al dolore di farsi linguaggio, di farsi verità, dimenticando che il dolore costituisce la forza di gravità dell’esistenza umana.

L’uomo contemporaneo deve cercare di riprendere la crescita interrotta per riscattarsi dalla propria situazione, cominciando proprio dalla crisi, affinché egli possa utilizzarla in maniera trasformativa invece che subirla. Questo richiede fatica, tempo, sacrifici e la capacità di tollerare il conflitto, navigando nell’incertezza e nel dubbio.

 In una cultura dominata dalla ricerca ossessiva dell’esser visti, riconosciuti e ammirati ad ogni costo, questo fenomeno ha raggiunto l’apice con i social che hanno democratizzato la possibilità da parte di tutti di avere un proprio pubblico, i followers, per comunicare con l’intento di esprimere qualcosa di sé. 

I Social network come specchio

La pervasività dei social è tale che non ci rendiamo conto della continua pressione a comportarci ed essere qualcuno che non siamo. Veniamo bombardati da una marea di informazioni, ci dicono come ci dobbiamo vestire, che cosa dobbiamo consumare, quali sono i film da vedere o la musica da ascoltare, tanto che la nostra esistenza è quasi totalmente falsa.  Attraverso i mezzi di comunicazione di massa è possibile manipolare la vita di milioni di persone. Conoscersi è veloce, una visione dei post, delle stories ci permette di conoscere di qualcuno e della sua quotidianità tutto quello che c’è da conoscere, le sue passioni, le sue preferenze, tutto ciò che rappresenta la superficie di un individuo.

Adeguarsi a quello che fan tutti gli altri in un contesto sociale per essere considerati alla pari è omologazione di massa. In tale stato la massa è tutta uguale, veste, parla, si atteggia, compra gli stessi beni, frequenta gli stessi luoghi, adattandosi come delle controfigure, rinunciando ad una propria personalità unica e speciale per preferire quella del gruppo, sentendosi così accolti. Tale adattamento se da una parte dà il vantaggio dell’accoglimento, dall’altra parte annienta l’unicità dell’uomo, che si spegne per inseguire un disegno ambizioso più ampio.

L’uomo che ha paura della solitudine è disposto a non avere più un pensiero ed uno stile proprio. Una scelta di comodo che ha come risvolto quello di rinunciare ad essere veramente sé stesso. Alla base di questo meccanismo c’è un’arcaica paura dell’essere umano, talmente radicata da influenzare ogni sua scelta. Si tratta della paura di rimanere solo, emarginato dal resto del mondo. Il senso di ogni esistenza è individuale, ogni vita ha un significato unico che si può trovare solo dentro di sé. Più ci allontaniamo dagli standard e dagli stereotipi che ci vengono proposti dall’esterno e più riusciamo ad intravedere le cose più essenziali.

Ciò che evidente è la mancanza assoluta di ogni spirito critico individuale che possa guidare le proprie scelte di vita, plasmate da usi e costumi precostituiti.

Un’azione o un pensiero si definiscono omologati quando sono conformi a una norma che risiede nelle consuetudini ad usi che sono stati stabiliti dal gruppo e che richiedono osservanza assoluta per essere accolti, pena la denigrazione, l’emarginazione e l’allontanamento dal gruppo. Affinché questo conformarsi non dia l’impressione di spersonalizzare l’individuo, ma di arricchirlo, l’adattamento non viene avvertito come una coercizione, come un’imposizione, ma come qualcosa che eleva la persona, che la rende migliore degli altri.

Andare contro corrente richiede molto coraggio, non bisogna aver paura del giudizio degli altri, solo gli audaci dimostrano un desiderio di sopravvivenza del proprio essere, che va al di là dello stile di vita, che diviene uno stile di pensiero.

Il pensiero critico come antidoto all’omologazione

La società tecnologica soffre la carenza di pensiero critico, è una società indifferente all’analisi e all’approfondimento, in cui vi è un sovraccarico informativo che confonde. L’unico antidoto all’omologazione di massa è quello di pensare con la propria mente, è un’impresa ardua, in un mondo dove la direzione intrapresa è quella verso gli interessi di pochi. Non è una società per esseri pensanti, ma è una società che diverte, che diverge rispetto al verso vero dell’esistenza, dove non ci si pone domande e quelle poche che appaiono nella mente trovano delle risposte già confezionate da altri.

Non c’è solo il mondo che ci circonda, c’è anche un mondo che è dentro di noi, anch’esso sconosciuto, perché mai pensato, ma reale. Chi pensa analizza e riflette setaccia il proprio mondo interiore.

 Uno sviluppo elevato delle capacità di pensiero ti permette di prendere consapevolezza del pensiero degli altri, per pesarlo, prendere le distanze o approfondirlo, superarlo o trasformarlo. Chi ha la facoltà di pensiero è una persona capace di maneggiare pensieri, suoi o altrui e quando si raggiunge questa padronanza di pensiero si inizia a mettere ordine dentro di sé. Pensare è un lavoro costante.

L’omologazione ha come scopo quello di annichilire il pensiero critico.

La globalizzazione porta alla ribalta quello che viene definito pensiero unico, una mentalità pronta ad etichettare chi non si allinea. Alla base del pensiero unico c’è l’idea di condizionare il linguaggio, stabilendo quali termini siano consoni e quali invece no. La guerra ai termini è una guerra alla libertà di pensiero e di espressione, è il trionfo del politicamente corretto, dove si presta più attenzione ai modi di manifestazione del pensiero, piuttosto che agli aspetti reali del pensare.

 Il politicamente corretto è diventato una nuova forma di conformismo e comporta la soppressione di espressioni linguistiche preesistenti con corrispondenti nuove locuzioni al fine di evitare modi di dire che possano ferire determinati classi di soggetti, ad esempio noto è il termine invalido sostituito con disabile e poi diversamente abile, cieco con non vedente, nero con persona di colore, bidello con operatore scolastico e tanti altri. Oppure la rimozione del crocifisso dalle scuole per non offendere chi ha un’altra religione. Il politicamente corretto tenta di edulcorare il linguaggio.

Ciò che conta non sono più gli enti reali, ma le parole dell’uomo, si rischia così di perdere ogni contatto con la realtà, non si affrontano i grandi problemi, ma si dà prevalenza a ciò che gli altri pensano di noi, secondo la logica del conformismo di una società subito pronta a incasellare le persone all’interno di categorie stereotipate.

La società delle immagini sembra prediligere l’assenza del pensiero critico, preferendo fornire l’illusione di essere liberi di pensare, perché una società di automi appare più controllabile. Come si può credere di essere liberi, quando siamo così visibilmente simili in tutto, dal modo di vestire a quello di pensare?

È una società popolata da una massa uniforme che si muove all’unisono, condividendo desideri, opinioni e pensieri che rientrano in un catalogo dalle limitate possibilità, imposto da coloro che della manipolazione sanno farne buon uso. Per dissimulare le limitazioni il sistema si occupa di soddisfare ogni richiesta indotta nei consumatori e la momentanea felicità che ne deriva sembra la scelta prediletta da tutti coloro che credono nell’illusione della libertà.

 La logica dell’utile e del successo giocano a favore dei media e internet che si propongono quali salvatori, dispensando soluzioni a qualsiasi problema, asservendo la popolazione ad una schiavitù volontaria. La società delle immagini gioca con le illusioni, induce comportamenti prestabiliti, ci suggerisce cosa fare, cosa dire, a cosa pensare, garantendoci l’illusione di essere noi i liberi artefici di quanto facciamo, diciamo e pensiamo; e grazie a tale illusione, ci sottrae la voglia di metterci in discussione, di provare a dubitare delle nostre convinzioni, perché ci rende arroganti e presuntuosi.

La comunicazione ha progressivamente semplificato le dinamiche del pensiero, non solo nella facilitazione della fruibilità delle informazioni, quanto piuttosto nel tentativo di svalutare il pensiero critico, nel rinforzare l’attitudine a non confrontarsi con problemi complessi, prediligendo un atteggiamento superficiale e acritico.

Quotidianamente veniamo inondati dalle informazioni, ma ciò non comporta un conseguente aumento delle nostre conoscenze, in quanto quello che manca è il pensiero critico, ovvero la capacità di discernere le informazioni vere da quelle false e di analizzarle. Sono molti gli individui che provano una grande soddisfazione nel proclamarsi grandi conoscitori di qualsiasi cosa di cui abbiano solo poche nozioni di base. Paradossalmente nonostante questa sovrabbondanza di notizie, diffuse da fonti più o meno autorevoli, siamo incapaci di distinguere quelle attendibili e quelle che non lo sono.

Non si può accettare e assorbire le informazioni in modo passivo, ma sarebbe opportuno imparare a mettere in dubbio ciò che viene proposto, perché il dubbio è ciò che porta a mettere in discussione, a capire e ricercare la verità.

Se ci si lascia sommergere da un mare di informazioni, si rischia di diventare succubi di una moderna forma di censura. Appare evidente come l’assenza del pensiero critico costringe a subire l’illusione dell’informazione, che porta a credere di essere consapevoli. Per riuscire ad ottenere tali risultati è necessario manipolare le menti degli individui quando ancora sono facilmente plasmabili. Un giovane che presenta una mancanza di pensiero critico diventa il soggetto perfetto, il modello di adulto a cui aspira una società del genere.

Genitori e insegnanti dovrebbero educare a confrontarsi con visioni opposte della realtà con spirito critico, privo di pregiudizi e condizionamenti. Ma abbiamo una scuola che concepisce la cultura come insieme di conoscenze, che scadono nello sterile nozionismo di un apprendimento scandito in tempi e spazi ben definiti, mentre apprendere significa cambiare il modo di pensare, di agire, di essere.

Rilevante è l’importanza che riveste l’insegnante nella formazione dei ragazzi, perché il suo compito non si esaurisce nella pura trasmissione, ma riveste il ruolo di guida lungo il percorso dell’acquisizione e della conoscenza di sé e del mondo.

Se la scuola non vuole più essere un luogo dove si trasmette solo un sapere consolidato, ma un luogo dove si imparano anche abilità e dove si sviluppa il pensiero critico, dovrebbe preoccuparsi di insegnare a esercitare la propria capacità di pensare con metodo e di insegnare come pensare piuttosto che cosa pensare. Inoltre, dovrebbe essere il luogo in cui si impara ad apprezzare il valore della convivenza e quindi del rispetto dell’altro e delle sue opinioni, che non significa essere ipocritamente tolleranti.

Eppure, oggi il sistema scolastico favorisce lo sviluppo di intelligenze convergenti.

Banalizzare e semplificare le conoscenze sono i risultati più ambiti per il sistema, al fine di rendere ogni concetto di più facile comprensione.

L’esaltazione delle intelligenze convergenti, improntate ad accumulare il sapere, mortifica quelle divergenti, in grado di disporre di un’attitudine a trattare problemi senza seguire un percorso di risoluzione preimpostato. Una tale intelligenza sarebbe auspicabile in quanto capace di sorpassare la frammentazione delle conoscenze e favorire la loro interconnessione. È indubbia l’importanza dei contenuti dei saperi, ma sono altresì necessari i processi di apprendimento, di riflessione e organizzazione del pensiero.

 La capacità di ragionare non è una dote naturale, innata, ma è un’arte e come tutte le arti va appresa, mettendo gli studenti in situazioni da scontrarsi con i limiti del proprio apparato cognitivo, fornendo strumenti per cercare di supportare la propria mente nell’impostare e proporre soluzioni ai problemi.

 La scuola deve tornare ad essere luogo privilegiato in cui nasce il futuro di una persona, deve assumersi la grande responsabilità di prendere in carico degli esseri umani, deve diventare luogo accogliente nel quale riconoscersi, in cui ciascuno con la propria individualità e la propria rete di relazioni, sia stimolato e  sostenuto nella ricerca di significato del proprio pensare e agire; dove si riesca ancora ad attuare un’interpretazione che valorizzi le differenze, ponendosi in ascolto delle esigenze di ognuno, dove la differenza non sia avvertita come un limite da superare, ma come una valore, una risorsa da cui acquisire una nuova coscienza.

La scuola non deve delegare ad altri il suo compito di educare.

Educare non significa condizionare, manipolare, ma aiutare ad essere critici, esaminare ciò che viene proposto ed acquisire una libertà che porti all’autorealizzazione.

L’educazione è questo processo di liberazione che permette di sviluppare un pensiero critico, giudicante, autonomo, non asservito ai condizionamenti.

La libertà si realizza quando non si è più fruitori passivi di conoscenze, quando non si accoglie il sapere, ma lo si elabora superando stereotipi e pregiudizi.

Il pensiero critico è imprescindibile per non incedere verso l’omologazione e il totale conformismo, in una società in cui i giovani vengono istruiti per diventare gli automi di domani.

 Bisognerebbe invece esaltare la formazione di una disposizione mentale aperta, dialogica e tollerante, in cui l’acquisizione delle conoscenze porti ad avere capacità critiche e logiche, che permettano di formulare un’opinione personale in merito ad un argomento, di dare un giudizio obiettivo senza condizionamenti derivanti da pregiudizi o da ciò che il senso comune suggerisce di pensare.

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