“Metà di un sole giallo”, di Chimamanda Ngozi Adichie | Recensione

Ci sono eventi politici, bellici, sommosse e persecuzioni, che non conosciamo neppure. O li conosciamo a brandelli, per accenni. In questi casi, le più infami tragedie si consumano sotto il silenzio di un mondo, se non inerme, inattivo, l’opinione pubblica inconsapevole o semplicemente distratta. Il merito dei romanzi come questo è di sensibilizzare le coscienze globali su queste tragedie, di farle conoscere. Fare in modo che non siano solo foto o reportage ma assumano il significato, il ruolo che devono avere: episodi fattivi, eccidi dove la gente muore a migliaia nelle peggiori condizioni.

Metà di un sole giallo è ambientato negli anni Sessanta nel territorio Igbo del sud est nigeriano, dove una guerra ha imperversato per tre anni, fino alla resa della regione del Biafra che rivendicava la propria indipendenza dalla Nigeria.  
La narrazione comincia, in un periodo di pace, dal punto di vista di Ugwu, un giovane di etnia Igbo che inizia a lavorare presso la casa di Odenigbo, stimato professore di matematica della città di Nsukka e uomo dalla mentalità estremamente progressista, tanto che qualcuno lo chiama “rivoluzionario”. Ugwu arriva dai villaggi tribali e non sa niente di modernità, progresso e tecnologia. Grazie a “Padrone” (come lui chiama Odenigbo), impara giorno dopo giorno a conoscerne gli aspetti pratici – come usare il frigorifero, la radio – e costruendosi poco alla volta nel ruolo di domestico, si lancia con fierezza in imprese culinarie eroiche; all’inizio anche preparare il riso fritto era una di queste.

In questo scorrere quotidiano conosciamo gli altri protagonisti della storia: Olanna, la compagna di Odenigbo, è la figlia di ricchi imprenditori di Lagos, capitale della Nigeria, formatasi accademicamente a Londra, che decide di raggiungerlo a Nsukka, la città universitaria polverosa e caotica dove abita; sua sorella gemella Kainene, misteriosa e indipendente; il compagno di lei Richard, un inglese in Africa per studiare l’arte locale.

Iniziano ad arrivare le voci delle prime sommosse secessioniste e di un primo colpo di stato, poi nel 1967, anno in cui il Biafra proclama la propria indipendenza dalla Nigeria, esplode la guerra. Si avverte ovunque, dapprima sotto forma di rumori lontani di sirene, esplosioni, bagliori che illuminano il cielo notturno, voci di truppe che si avvicinano e conquistano città. Con i suoi orrori, gradualmente la guerra si impadronisce delle vite dei protagonisti. Sono costretti a spostarsi, cambiare città e vita. Abbandonare i cari che non ne vogliono sapere di lasciare la propria casa. Un velo straziante cala sul loro mondo e ogni loro azione è immersa in un ventre flaccido e orrido fatto di escamotage e compromessi per la sopravvivenza ai soprusi, alle privazioni, alle violenze, che diventano una realtà nuova con cui fare i conti, giorno dopo giorno. Diffidare del vicino, che può essere un sabotatore, una spia del nemico, accettare barbarie indicibili, stupri e massacri, con la sola idea che finirà, tutto questo finirà. Un limbo quasi surreale, se non fosse che i parenti uccisi, la fame, le malattie, le esecuzioni sommarie, le decapitazioni, le montagne di cadaveri ammassati dietro le case sono realtà.

Ci sono cose talmente imperdonabili da rendere perdonabile tutto il resto.

Capita che qualcuno sia arruolato a forza e costretto a combattere, su un campo di battaglia che non è un vero campo di battaglia perché è composto dai luoghi della vita di tutti i giorni, del resto della vita, quando la guerra non c’era, e che adesso invece soffocano sotto la coltre terrificante del conflitto. Capita che quel qualcuno, sotto le armi, si trasformi nel peggio di quanto possa affiorare dalla sua essenza profonda di essere umano.
Fa tutto parte di una guerra sanguinosa di cui il resto del mondo pare non essersi preoccupato.

I personaggi, che all’inizio, prima dello scoppio delle ostilità, animavano una quotidianità fatta di routine – lavoro, amici, cibo, amori, famiglie, scappatelle, sport, salotti intellettuali, feste – vengono improvvisamente proiettati nel cuore della guerra, tempo e spazio in cui ogni cosa sembra perdere i connotati. Osserviamo i loro sforzi per mantenere un’umanità, le fatiche di chi vuole assumere una forma nuova, adattata alla situazione, reinventandosi ove possibile, reinterpretandosi quando necessario.

Chimamanda Ngozi Adichie

L’autrice Chimamanda Ngozi Adichie, cresciuta in Nigeria e impegnata attivamente sui temi dei neri americani, delle ingiustizie di razza e di genere, ci regala un testo dallo stile pulito e scorrevole, che guarda in faccia realtà abominevoli e le racconta senza filtri, senza sconti, restituendo un ritratto spietato e feroce di una guerra combattuta a colpi di machete, grappoli di bombe e armi automatiche, senza morale né regole.

Descrisse gli abiti vagamente riconoscibili sui corpi decapitati in cortile, un dito di Zio Mbazi che ancora si muoveva, gli occhi rovesciati all’indietro nella testa della bambina dentro la zucca calabash e lo strano colore della pelle di tutti i cadaveri sparsi nell’aia: un grigio spento, come di lavagna pulita male.

Pur conservando un nucleo di poesia e purezza.

Non sapeva che le spinte di un uomo potessero sospendere la memoria, che fosse possibile ritrovarsi in un luogo dove non era concepibile pensare né ricordare, ma solo esistere nei sensi.

I personaggi sono vivi e completi. Olanna, ad esempio, altera portatrice di un simbolico femminile, nativo e originale, che permea e significa ogni suo gesto, dal più banale e futile al più alto e coraggioso. Una forza che scaturisce, inonda e trascina con sé il lettore, quella di Olanna, vera protagonista del libro.

Ho riscontrato un aspetto interessante, dal punto di vista della scrittura immersiva. Nel suo celebre manuale On Writing, Stephen King parla della scrittura come di una sorta di contatto telepatico con il lettore: l’autore scrive di un luogo, per dire, e il lettore è trasportato (anni dopo, magari) nello stesso luogo, e tutto avviene nella mente, in un contatto quasi telepatico. Perciò nei testi le descrizioni non devono essere appesantite, sovraccariche di elementi e di particolari; ne bastano pochissimi, ma incisivi e significativi, in grado cioè di piantare il seme che, nella mente del lettore, avrà la libertà di germogliare e crescere quanto e come vuole, a seconda dei vissuti e della conoscenza del lettore stesso. Per esempio, se l’autore scrive che un personaggio è in casa e indossa una camicia marrone, sarà il lettore a completare il puzzle, decidendo la tonalità del marrone, il materiale e la qualità della camicia. E pure l’arredo della casa, se non meglio specificato. Questo succede quando luoghi e oggetti appartengono alla stessa cultura di origine dell’autore e del lettore, quando cioè entrambe le fonti di questa comunicazione – emittente e ricevente – sono aggregate dall’ambiente culturale.
Ecco, in Metà di un sole giallo mi è capitato di non recepire subito luoghi, vestiti ecc., di non figurarmeli con immediatezza e di rimanere, durante alcune scene, “al buio”. Riacciuffando nella memoria queste scene, le ricordo senza sfondo, poco delineate a livello estetico e formale. Questo perché non sapevo cosa fosse un obi akwa (prima di andare a cercare su wikipedia), non sapevo immaginare un compound di Nsukka, che Achidie descrive solo chiamandolo così, “compound”, non potevo immaginare cosa fossero quei cibi tanto ricorrenti: il vino di palma, la noce di cola, il garri o il riso jollof. Tutte cose che qualsiasi africano probabilmente dà per scontate e che di conseguenza Adichie non sente il bisogno di descrivere, cose però che io, non recependole con immediatezza, non riesco a figurarmi.
Interessante notare come invece uno scrittore americano – penso a Hemingway, per esempio, nei suoi racconti La breve vita felice di Francis Macomber o Le nevi del Chilimangiaro – riesca a trasmettere maggiormente l’immagine estetica dell’Africa (paesaggi, luoghi, oggetti e personaggi) a chi in Africa non ci ha mai messo piede, proprio per il fatto che racconta qualcosa che non dà per scontato, che riconosce come estraneo e sa che lo è anche per il lettore.

Un plauso anche per la traduttrice Susanna Basso che ha reso il testo in italiano con la cura e la sensibilità a cui, in questi anni, ci ha abituato – sue le traduzioni di autori come Ian McEwan, Jane Austen, Alice Munro, Paul Auster, per citarne alcuni. Sempre attenta a utilizzare un lessico vicino alla nostra tradizione e cultura, ha conservato lo spirito e il significato invisibile del testo, rispettando lo stile delicato e senza eccessive enfatizzazioni di Adichie.

Metà di un sole giallo è un romanzo che mi ha colpito e che consiglio; un libro per cui forse ci vuole il momento giusto ma che una volta iniziato inghiotte il lettore e lo sputa fuori all’ultima pagina, pregno di emozioni, considerazioni, curiosità e voglia di approfondimento.

L’autrice nel suo celebre e interessantissimo discorso “The danger of a single story”.

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