Già vice presidente del Sindacato Mercanti D' Arte Antica di Genova e Provincia per dieci anni, membro del F.I.M.A. e del CINOA, perito antiquario iscritto alla C.C.I.A.A. al n. 1902, Consulente tecnico per i beni d' antiquariato del Tribunale di Genova. Mercante D' Arte Antica, iscritto al collegio dei Periti e degli esperti e consulenti di Genova n. 731
Nelle sue “Vite de’ pittori , scultori ed architetti genovesi” del Soprani stampato nel 1674 si legge che il pittore genovese Giuseppe Badaracco ( 1588-1657 ) ebbe quattro figli di cui due furono pittori, uno a Roma e l’altro a Genova, “…..quest’ultimo ha nome di Gio Raffaello, giovine, che per la bell’indole fua ci fa fperare un’ottima riuscita, e nell’intraprendere la profeffione , e in ogni altro genere di virtù”. Il Nostro, allievo prima di Andrea Ansaldo e poi di Bernardo Strozzi, ricevette probabilmente i primi rudimenti sulla pittura dal padre che però morì quando lui aveva solo 9 anni, essendo nato a Genova nel 1645 dovette faticare parecchio per affermarsi come acclarato artista in una città dove la bottega di “Piola” la faceva da padrone, sia per le opere laiche come per quelle a tema religioso, tanto che Gio Raffaele , per far emergere il proprio talento, dovette andare a Roma, dove nella bottega del Maratta e di Pietro da Cortona raggiunse la sua maturità artistica, il “cortonismo” resta indubbiamente una componente del suo stile che non abbandonerà mai più e che lo contraddistingue dallo stile dei suoi contemporanei genovesi. Quello di Gio Raffaele é uno stile barocco elegante e non chiassoso secondo la Orlando , sa essere didascalico quando serve, ma sa anche dar prova di un brio pittorico sostenuto da un solido mestiere. Il dipinto rappresentato nella fotografia rappresentante un’ Estasi di santa Teresa d’Avila, olio su tela avente dimensioni di cm. 145 x c. 107,5 fu dipinto probabilmente intorno al 1685 quando Badaracco fu incaricato di realizzare il ciclo dei dipinti dell’oratorio di Coronata. L’opera, facente parte d’una prestigiosa collezione privata genovese, é in vendita, se interessati all’acquisto potete andarlo a vedere a Genova nell’ atelier di restauro di Nino Silvestri in Santa Maria in via Lata. Mauro Silvio Burlando
Ho già scritto del quartiere genovese d’ Albaro, il cui toponimo deriva dal fatto che essendo posto ad est rispetto al centro storico di Genova, gode per primo delle luci dell’ “alba” ; alcuni storici come il Poggi ipotizzarono invece che il nome in lingua genovese Arbà derivavi dalla parola “raibà ” che significa insenatura, poi italianizzato in Albaro, per altri ancora il sito avrebbe preso il nome dalla famiglia degli Albaro provenienti dalla Riviera di Ponente, noti sin dal secolo XI, ma, a mio avviso, é più credibile che questi abbiano preso il loro nome da questo territorio e non viceversa. Sino alla prima metà del XIX secolo non esisteva una strada attraversante il quartiere d’Albaro che era scarsamente popolato sebbene impreziosito da stupende ville fatte costruire tra il XVI ed il XVIII secolo da potenti famiglie facenti parte della oligarchia genovese, chiamarle ville mi pare riduttivo, siamo di fronte a splendidi palazzi di villeggiatura molti dei quali ancora esistenti. Tra queste avite dimore si distingue la villa Saluzzo/Bombrini detta ” Il Paradiso ” che con l’edificio costruito sul retro detto ” Paradisetto ” costituisce uno dei più fulgidi esempi di architettura tardo manierista. Artefice di questa meraviglia fu Andrea Ceresola detto ” Il Vannone ” (1575 -1627 ) che la realizzò nell’ultimo decennio del XVI secolo, fu chiamata “Paradiso”, non tanto per la splendida costruzione, ma per i giardini che la circondavano immortalati dal celeberrimo pittore Alessandro Magnasco ( Genova 1667 – 1749 ) nel suo dipinto ” trattenimento in un giardino d’Albaro ” realizzato nel 1735 e facente parte delle collezioni del museo di Palazzo Bianco a Genova in via Garibaldi.
A Genova, superata piazza Manin ed imboccato corso Armellini, ad un certo punto si arriva alla chiesa di San Bartolomeo degli Armeni, fondata nel 1308 da monaci provenienti dalla Montagna Nera in Armenia da cui erano fuggiti per evitare d’essere uccisi dai turchi ottomani. Questa chiesa custodisce da secoli il cosiddetto ” Santo Mandillo ” di cui ho raccontato la storia in un post da me scritto parecchi anni or sono. Questo tempio si riconosce per il suo basso campanile e non per altro, avendo la sua facciata nascosta da una costruzione del XIX secolo che la fa sembrare una casa come tante altre. L’interno, ad un’unica navata, é impreziosito da importanti dipinti tra i quali una tavola realizzata ad olio dal pittore Luca Cambiaso da Moneglia ( Moneglia 1527 – El Escorial 1585 ) che raffigura la Resurrezione di Cristo. Con questa bella immagine auguro una buona Pasqua a tutti voi. Mauro Silvio Burlando
Ai miei quattro lettori, che mi seguono da tanti anni con affetto, vorrei raccontare una storia che comincia nei primi anni 50 del secolo scorso, essendo orfano di padre, vivevo con la nonna materna e con mia madre che per per sbarcare il lunario, come talvolta si dice, lavorava dalla mattina alla sera e ben poco tempo poteva dedicarmi, ma la domenica, nelle settimane antecedenti le festività natalizie, mio zio Ettore mi accompagnava ai cosiddetti “Baracconi ” un luna Park che sino a poco tempo fa veniva montato dai giostrai alla foce del Bisagno, proprio di fronte al mare, prima però, per tradizione, mi portava al “Poggio della Giovine Italia ” un giardino di modeste proporzioni ( circa 1500 mq) originariamente dedicato ai martiri del nostro risorgimento mi pare nel 1898, sopraelevato rispetto alle strade limitrofe consente di godere d’ una bellissima vista panoramica. Lì in mezzo ai palmeti é posto un basamento d’ un monumento che a quel tempo non c’era più e mio zio si divertiva a mettermici sopra ed a fotografarmi in auliche pose. Sono passati tanti anni da quei giorni e un po’ per evitare malinconie ed anche perché avevo timore che il presente avrebbe rovinato il ricordo che portavo dentro me di questo posto magico non ci sono più andato, se non che, pochi giorni fa, arrivato alla fine di via Corsica nel quartiere di Carignano, come in una nota canzone del Festival di San Remo, le mie scarpe mi hanno condotto lì. l’area era interdetta al pubblico perché tutta sottosopra, c’erano ancora le palme e sul basamento del monumento era stato posto un fascio littorio sostenente un elmetto d’un soldato della prima guerra mondiale piantato sopra una pietra del monte Grappa dove avvenne una delle più cruente battaglie contro gli austriaci nel 1918, c’ é anche una targa che la ricorda posta nella ricorrenza del 150° anniversario dell’unità d’ Italia, tutto intorno ruspe, autocarri e transenne, segno, mi auguro d’un restauro che in un prossimo futuro dia a questo piccolo pezzo di paradiso la magia che aveva tanti anni fa.,
Il civico n. 2 di Campetto costruito nel 1586 su commissione del nobile Ottavio Imperiale fu poi acquistato dai marchesi Sauli ed a metà del ‘600 dai De Mari e poi dai Casareto, ma al di là di tutti questi passaggi di proprietà che hanno lasciato preziose testimonianze all’interno del palazzo, già nel XVII secolo l’edificio fu conosciuto come il ” Palazzo del Melograno ” ed ancor più nota fu la sua profezia. Circa 400 anni or sono un piccolo seme di melograno si posò fra il frontone triangolare del portone d’ingresso del palazzo ed il balcone del primo piano, lì , incredibilmente, trovò un ambiente favorevole e crebbe anno dopo anno sino a trasformarsi in un alberello. Nel 2024 quel melograno esiste ancora, ha sfidato il tempo, l’incuria degli uomini, la decadenza della città che da ” Superba “, come la definì il Petrarca, fu assoggettata al regno del Piemonte e Sardegna e più tardi al Regno d’Italia senza che fosse fatto alcun plebiscito, sopravvisse anche a due guerre mondiali, nessuno ha mai osato estirpare quella pianta, perché una profezia tramandata attraverso i secoli afferma : ” sinché vivrà il melograno Genova potrà continuare a crescere e prosperare, ma se la pianta dovesse morire, anche la città cesserà d’esistere.
Nella stupenda cattedrale di San Lorenzo a Genova, la cui facciata é stata recentemente restaurata, è il battistero detto di san Giovanni “il Vecchio”, si chiama così perché nel ‘500 venne edificata la nuova cappella di san Giovanni Battista nella navata sinistra della cattedrale e per questo chiamata san Giovanni “il Nuovo “. Circondata da dipinti di insigni pittori quali Luca Cambiaso, Domenico Fiasella, i Semino ed il Baiardo é posta una grande vasca battesimale ottagonale in marmo bianco realizzata da un ignoto scultore nel tardo XV° secolo, come tutte le vasche battesimali tardo-medioevali é concepita ad immersione, “Battesimo ” deriva dalla parola greca “baptisma” che significa ” immersione ” ed anticamente il sacramento veniva celebrato con la vera e propria immersione del battezzando in una vasca d’acqua, usanza che i cristiani “Ortodossi” portano avanti anche al giorno d’oggi.
Quando parliamo di pietanze nella cucina ligure dobbiamo sempre e comunque ispirarci alla mentalità diciamo parsimoniosa dei genovesi, per esempio alla fine dell’inverno soprattutto nelle campagne alle spalle della città di Genova, si festeggiava l’inizio del ciclo riproduttivo delle galline, dato che le uova erano l’ingrediente principale per fare preparazioni semplici e veloci come per esempio le frittate. Nel XIX secolo, dato che gli orti all’inizio della primavera non producevano ancora verdure adatte per fare le frittate, si ricorreva ad erbe selvatiche come la vitalba e le ortiche, a stagione più avanzata si poteva fare la frità de succhin ( la frittata di zucchini ) che ha il vantaggio d’esser buona sia calda che fredda e quindi, se avanzata, si può consumare anche il giorno dopo la sua cottura, che può essere fatta in padella ( io la preferisco così) o anche al forno. Paolo Spadoni nel suo “Lettere odeporiche sulle montagne Ligustiche ” scritto a Bologna nel1793 scrive che al suo arrivo a Montobbio ( Montoggio ) fu accolto dagli abitanti, dall’Arciprete e dai suoi domestici con una grossa frittata e con vin generoso….quindi si può supporre che la frittata era considerata un cibo apprezzatissimo anche per dare il benvenuto a personalità d’alto ceto.(*)
(°) vedi la cucina tradizionale di Enrichetta Trucco a cura di Emanuela Profumo
La basilica di Nostra Signora delle Vigne ha una storia che si perde nella notte dei tempi, era chiamata così perché in sito erano numerosi vigneti che letteralmente circondavano il tempio sacro, una prima cappella risalirebbe al VI secolo dopo Cristo, mentre, secondo Jacopo da Varagine (Varazze) analista e vescovo della città nel XIII secolo, la chiesa attuale risalirebbe all’anno 991. La maestosa torre nolare in stile romanico-gotico posta a cavallo tra il chiostro ed i muri perimetrali della chiesa sarebbe l’unica parte conservata intatta nel tempo della sua ricostruzione risalente alla metà del XII secolo. La torre ha una base quadrata culminante con una cuspide ottagonale con i caratteristici quattro pinnacoli agli angoli presenti in altre torri della nostra città, la costruzione svetta verso il cielo alzandosi per ben 56 metri dal livello stradale, la parte alta ingentilita da coppie di bifore e di pentafore. Una sua caratteristica peculiare é che per consentire il transito stradale, sin dall’inizio fu concepita con la sua base aperta che, sebbene poggiante su massicci muri di pietra squadrata, la fanno sembrare sospesa.
Ai turisti che visitano Genova può capitare che, andando a vedere la splendida basilica di Santa Maria delle Vigne, attraversino una piccola piazza triangolare senza nessuna attrattiva, il nome ” piazza delle Oche” deriva dal fatto che in questo sito anticamente c’era un cortile dove liberamente scorrazzavano animali domestici e soprattutto oche, probabilmente di proprietà della famiglia dei Vivaldi che qui avevano numerosi palazzi; il luogo non ebbe nella storia della nostra citta alcuna rilevanza se non quella d’ospitare nel XIX secolo il signor Jacob Kock mercante tedesco di grano all’ingrosso, che fu zio del celeberrimo Albert Einstein il quale da Pavia, dove s’erano trasferiti i suoi genitori, andò a trovare lo zio a Genova, giungendovi a piedi attraverso la Val Trebbia. Albert arrivò a Genova nel 1895, aveva solo 16 anni , ma la sua vacanza genovese gli rimase per sempre nel cuore se dopo molti anni scrisse ad una sua amica genovese: “…ma Genova adesso, guardando il mondo con un certo distacco, quella vacanza non la dimentico…” Recentemente, dopo un iter burocratico infinito, é stata posta una lapide per ricordare che in questo sito non solo ci furono oche ma, sebbene solo per qualche mese ci dimorò anche uno dei più grandi geni della fisica.
Sono un appassionato d’arte antica ed in questa veste ho frequentato, da che ne ho memoria, chiese, musei, mostre d’arte e restauratori. Molti anni or sono, entrando nella chiesa di Santa Maria in via Lata, sita sulla collina di Carignano a Genova, già tempio gentilizio dei nobili Fieschi, edificata nel 1340 vicino al loro splendido palazzo che venne distrutto dopo il fallimento della congiura da loro ordita contro i Doria ed oggi sconsacrata ed adibita ad atelier di restauro di Nino Silvestri, lì, dicevo, incontrai per la prima volta questo Crocifisso, che più per le maestose proporzioni mi colpì per il grave stato di conservazione in cui versava, Silvestri mi disse che da molti anni lo aveva in deposito in attesa che le autorità competenti gli dessero il via per procedere al restauro che doveva essere filologico, non teso quindi ad intervenire sulle innumerevoli lacune e mancanze dell’opera ma a indagare su quale fosse la poetica originale che l’aveva generato, eliminando i rifacimenti pittorici fatti a posteriori per sanare i danni fatti dal tempo e dagli interventi di restauro del XIX secolo ancora più dannosi. La grande Croce misura cm. 312 x cm. 282 x cm. 15,5, dipinta a tempera su una tavola di legno di pioppo, é priva della cimasa, dei terminali e della base, la critica moderna lo ha attribuito ad un maestro toscano, forse senese, attivo tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, il fondo oro dello sfondo, realizzato con motivi fitomorfi e zoomorfi che si alternano entro piccoli tondi accostati, ricorda le pregiate stoffe lucchesi, mentre l’anatomia del Cristo con l’appena accennata torsione del corpo ci ricordano prepotentemente le opere ducentesche toscane. Originariamente il dipinto era collocato nell’abside della primitiva chiesa romanica di Santa Maria delle Vigne, in seguito venne trasportato nel chiostro dei Canonici, nel 1893 esposto in una mostra a Palazzo Bianco dove rimase sino al 1936, poi trasferito nell’allora chiesa di sant’Agostino e sistemato a parete a capocroce. Nel 1943, per salvarlo dai bombardamenti degli alleati che recarono enormi danni alle chiese del sestiere di Castello, fu messo al sicuro nel paesino di Voltaggio ed alla fine del conflitto ritornò a Genova nella chiesa di sant’Agostino che però, sconsacrata, era stata trasformata in deposito. L’opera fu consegnata alla Soprintendenza nel 1954 che la lasciò lì sino al 2008, dopo di che fu consegnata alla bottega del Silvestri per il restauro. Finalmente nel 2019 la grande Croce Major, dopo più d’un secolo, ritornò nella chiesa di Santa Maria delle Vigne da dove era partita . Alleluia!
Così si presentava il crocifisso prima del restauro fatto da Nino Silvestri ed i suoi collaboratori
Come in tante città d’Italia, anche a Genova la festività del Natale é molto sentita sin dai tempi più remoti, le cronache ci raccontano di doni fatti non solo dai ricchi, ma anche dalle classi meno abbienti nei confronti dei loro congiunti. In questa festività la pianta del’ alloro assume particolare importanza, un rametto d’alloro era conficcato in cima al “pandolce”, tipico dolce della santa ricorrenza, per invocare la buona sorte, il membro più giovane della famiglia doveva toglierlo prima del taglio del pandolce, mentre il più anziano doveva prendere la prima fetta e metterla da parte per poi regalarla al primo mendico che avesse bussato alla porta; bei tempi antichi…. oggi, con quello che si legge quotidianamente sui giornali, se qualcuno ci suona insistentemente il campanello di notte, chiamiamo subito i carabinieri. Ritornando al nostro “alloro” i rami venivano esposti fuori dalle botteghe dei “Besagnini ” ( venditori di frutta e verdura) consuetudine considerata da tutti come l’inizio del periodo della festa, ai tempi della Serenissima Repubblica di Genova ( ma anche ai nostri giorni ) veniva posto innanzi al palazzo Ducale un tronco di alloro simbolo di pace e prosperità, il Doge in persona ( oggi lo fa il sindaco ) usciva dall’avito palazzo salutando la folla festante e dopo averlo cosparso di vino, gli dava fuoco, questa cerimonia detta “Confuoco ” si ripete da tempi remotissimi, documentata dal XIV secolo risale probabilmente ad un periodo molto più antico. Desidero concludere questo breve articolo con una vecchia filastrocca genovese : Viva o Natale/ viva o vin bon/ viva o pandoce/ viva o torron/tutto o l’é bon! E buone feste a tutti i miei lettori. Cordialmente Mauro Silvio Burlando
Nella foto Piazza Colombo fotografata di notte con le luminarie di Natale.
Girovagando per il centro storico di Genova e percorrendo il lungo caruggio che da via San Lorenzo arriva a piazza Banchi, ad un certo punto passerete sotto un grande archivolto detto della porta di san Pietro perché da lì, nel X secolo, si accedeva alla città da ponente, una porta ora non più esistente, giacché nel XII secolo fu demolita quando furono erette le nuove mura dette del “Barbarossa” che potenziarono le difese della città, stante che l’imperatore aveva deciso di sterminare tutti i genovesi uomini, donne, vecchi e bambini poiché s’erano rifiutati di pagargli i tributi. Proprio qui, su un muro, ignorato dai più, c’é un’antico basso rilievo dì epoca medioevale che ritrae al centro il mitico san Siro di Genova con ai lati gli stemmi scalpellati di due famiglie nobili genovesi sormontati da due elmi. Il san Siro vescovo di Genova vissuto nel IV secolo dopo Cristo é ricordato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine ( attuale Varazze ) per aver sconfitto un mostro detto ” Basilisco ” che viveva in un pozzo inquinando le sue acque e con il suo fiato puzzolente ammorbava l’aria di Genova. Siro, dopo essersi ritirato in preghiera, si recò al pozzo, vi calò dentro un grosso secchio, ordinò alla bestiaccia d’entrarci dentro e, tiratolo su gli ordinò di buttarsi a mare, cosa che l’orrido animale fece immediatamente, penso non solo per obbedire all’ordine del santo vescovo, ma anche perché vivere in un pozzo non deve esser stato il massimo della goduria per lui. Ovviamente questo mitico animale si immagina volesse rappresentare allegoricamente l’eresia ariana che il nostro Siro combatté strenuamente. Il Basilisco, per chi non lo sapesse, era citato sin da tempi remotissimi come un mostriciattolo velenoso, mezzo serpente e mezzo gallo con ali di pipistrello e con gli artigli d’un avvoltoio. Singolare il fatto che in questo antico basso rilievo, dove il bastone vescovile é visibile solo nella parte terminale superiore ed inferiore, San Siro venga rappresentato con la faccia scura, forse perché pur essendo nato a Molliciana ( attuale Molassana ) zona alle spalle di Genova dove le piene del torrente Bisagno rendevano il terreno fertile e molle, Siro é un nome che deriva da Siriaco cioè abitante della Siria e quindi africano.
A Genova, vicinissima alla centrale piazza Corvetto, c’ è una piccola chiesa dedicata a santa Marta che in qualche modo richiama un po’ il carattere dei genovesi, poverissima all’ esterno, è un vero e proprio scrigno di tesori al suo interno, uno dei più splendidi esempi dello stile rococò genovese. Questo tempio fu originariamente un monastero delle monache benedettine di clausura, le monache potevano assistere alla Celebrazione Eucaristica senza esser viste da nessuno dal loro inaccessibile matroneo posto in alto sopra il nartece. Ancora oggi a questo matroneo si accede da un appartamento sito al terzo piano di un anonimo edificio di piazza Corvetto vicino ad un negozio che vende piante e fiori, il parroco mi ha consentito di visitarlo, il luogo é suggestivo e carico di pathos, sarà stato per la luce soffusa ed una melodia a me sconosciuta suonata da un anonimo organista, ma quando alzai gli occhi al basso soffitto che mi sovrastava restai letteralmente a bocca aperta dall’ emozione, lì vidi uno splendido affresco rappresentante l’adorazione dei pastori a Gesù bambino realizzato dal pittore genovese Domenico Piola, ( Genova 1627 – 1703 ), uno degli artisti più rappresentativi della Genova barocca che lo realizzò nell’ ultimo quarto del XVII° secolo.
Camogli é un posto dove si torna sempre volentieri, tranne nei giorni festivi, quando la baraonda delle auto in cerca d’un improbabile parcheggio, ti mettono addosso un’ansia per la quale non vedi l’ora di andartene il più lontano possibile da lì. Molti anni or sono, accompagnai una mia amica belga a Camogli e quando uscimmo dallo stretto caruggio e sbucammo sulla passeggiata fronte mare, lei a bocca aperta cominciò a piangere dicendomi che mai aveva visto cosa più bella. Anche poeti come Nicolò Bacigalupo l’hanno celebrata scrivendo: “Camuggi, bella najade accuegà coi pé in te l’aigua e a testa sotto i pin che ombrezzan dal’ artua de Portofin a valle ti te spegi in ma , ricca e bella t’han reiso i brigantin che andavan da -o- to porto carega…..” Truduzione per i foresti ( non genovesi ) “Camogli bella Najade sdraiata con i piedi nell’acqua e la testa sotto i pini che ombreggiano dall’ altura di Portofino, a valle ti specchi in mare, ricca e bella t’hanno reso i brigantini che caricavano nel tuo porto…..” Camogli é ricordata anche nei canti popolari liguri dove uno dei più divertenti recita : ” Oulidin oulidin oulidena sabbo a Camoggi domenega a Zena , oulidin oulidin oulidà sabbo a Camoggi domenega a Prà.
Quotidianamente siamo ormai abituati a leggere su giornali di violenze, stupri ed omicidi perpetrati tra le mura domestiche, proprio tra quelle mura che invece dovrebbero garantire sicurezza e protezione. Singolare il fatto che quando si legge qualcosa di edificante, la notizia passa subito in secondo piano rispetto al fatto violento, al quale, non solo viene dato più risalto, ma quasi subito crea tra alcuni dei fruitori della notizia, desiderio di emulazione, allora pensiamo:” che tempi oscuri sono questi dell’inizio del terzo millennio”. Conoscendo un po’ la storia però ci si rende conto che anche nel passato le cose non giravano per il verso giusto, esempio lampante fu Artemisia Gentileschi violentata a soli 17 anni dal collega di lavoro e di bisbocce di suo padre Orazio, il pittore Agostino Tassi, che avrebbe dovuto insegnarle la “prospettiva”, essendo lei, l’unica tra i figli del Gentileschi, a voler diventare pittrice, invece abusò di lei approfittando d’ essersi trovato solo con la ragazza. Il Tassi cercò di evitare d’essere denunciato promettendo ad Artemisia e a suo padre Orazio di sposarla, ma dopo qualche mese i Gentileschi vennero a conoscenza che il Tassi era già sposato e con prole a carico, per cui venne denunciato, imprigionato a Tor di Nona e processato, e proprio durante il dibattimento, di fronte ai giudici, Artemisia senza paura ne vergogna, confermò quanto letto dal capo dei notai che con voce monocorde lesse quanto segue: ” quando fummo alla porta della camera lui mi spinse dentro e serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto….havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntatomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro che lo sentivo che m’incedeva forte e mi faceva gran male che per l’impedimento che mi teneva alla bocca non potevo gridare…E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli ….” Il Tassi, ovviamente, negò tutto, per cui il giudice ritenne opportuno, per conoscere la verità, ricorrere alla tortura, come era d’uso nel primo quarto del XVII secolo e quindi ordinò ad un aguzzino di sistemare le corde intorno alle dita e di stringerle ma non a lui ma a lei……sottoposta alla tortura detta della “Sibilla”, che consisteva nel legare delle cordicelle alle mani dito per dito, cordicelle che poi venivano strette sino a stritolare le falangi, la tortura cominciò, e mentre l’aguzzino girava lentamente il randello a cui erano collegate le corde che le straziavano le mani, Artemisia gridò guardando negli occhi il Tassi : ” E’ vero, E’ vero, E’ vero! ” e poi rivolgendosi a lui gli rinfacciò: ” …Questo è l’anello con cui mi sposi, questi sono i tuoi giuramenti !” il giudice interruppe la tortura che durò il tempo di un miserere. Artemisia barcollando stremata dal dolore si allontanò ed il Tassi venne riportato in galera dove per la verità restò per poco tempo. Lei diventerà un genio immortale, mentre lui verrà ricordato solo per quel’ atto di violenza nei confronti d’una ragazzina. Nel Palazzo Ducale di Genova è stata allestita una bella mostra dedicata a questa straordinaria pittrice visitabile dal 16 Novembre 2023 al 1 aprile 2024.
Nella foto il dipinto olio su tela realizzato da Artemisia a soli 17 anni raffigurante “Susanna ed i vecchioni” si dice che nelle fattezze del vecchio barbuto la pittrice abbia raffigurato suo padre mentre il personaggio più giovane sarebbe il Tassi.
Bibliografia : ” Artemisia ” di Alexandra Lapierre ed. Mondadori
La potente famiglia dei Sauli aveva l’abitudine di presenziare alla messa domenicale nella Chiesa dei Fieschi che avevano a Genova dimore sontuose e terreni sulla collina di Carignano, ora la tradizione ci tramanda che un giorno i Sauli, per un contrattempo, fossero in ritardo ed avessero mandato un valletto ai Fieschi chiedendo loro che la sacra funzione fosse posticipata e pare che i Fieschi risposero sdegnati che i Sauli, se volevano fare i loro comodi, si costruissero una chiesa apposta per loro. Non sappiamo se questa diceria corrisponda a verità, fatto sta che nel 1481 nel suo testamento, Baudinelli Sauli lasciò una cifra ingente per erigere una basilica dedicata alla Madonna Assunta che dal colle di Carignano potesse dominare tutta Genova. Quest’obbligo passò agli eredi che solo dopo molti anni iniziarono la costruzione della fabbrica ultimata solo nel XIX secolo, il cui costo superò la cifra astronomica per quei tempi di 100.000 scudi d’oro. Molti anni or sono lessi in un divertentissimo libro scritto da Michelangelo Dolcino che i genovesi, famosi per la loro parsimonia, guardando la facciata della basilica impreziosita dal gruppo statuario realizzato da Claudio David e terminato dallo Schiaffino, immaginarono una sacra conversazione piuttosto irriverente in cui San Pietro avrebbe detto volgendo gli occhi al cielo : ” Oh quante balle àn faeto i Sauli ” e San Paolo di rimando: ” No ò tanti cavelli in testa ” e Maria in mezzo a loro sembra dire con aria smarrita ” E mi cose ne posso? ”
Murta è un paesino posto su di una collina sul versante destro della Val Polvevera conosciuta oggi in tutto il mondo per la tragedia derivata dal crollo del ponte Morandi. Posto alle spalle di Genova, il suo toponimo deriva dalla pianta di mirto che evidentemente era molto comune in questi territori. Anticamente il paese era composto da un gruppo di casolari costruiti attorno alla chiesa dedicata a San Martino di Tours ed ad altre case sparse che si trovavano più a monte. Le prime notizie storiche su Murta risalgono al XII secolo quando la chiesa venne iscritta nel ” Registro della curia arcivescovile” di Genova me le origini di questo piccolo abitato sono molto più antiche, nel 1284 cittadini murtesi parteciparono alla battaglia della Meloria contro i pisani, ed a ricordo di quella vittoria, furono appese alla parete della chiesa due anelli dell’enorme catena che chiudeva l’ingresso di Porto Pisano e li rimasero per secoli sino a che, nel 1747, furono trafugati dai soldati austriaci che penetrati nella chiesa di san Martino, fecero man bassa di tutto quello che conteneva, si salvò la pala d’altare della metà del ‘600 di scuola fiamminga che raffigura san Martino ed il povero viandante, perché, fortunatamente, fu portata a Genova precedentemente. L’organo a canne é del 1882, é uno strumento a trasmissione meccanica realizzato dai fratelli Lingiardi, inserito in un contesto barocchetto, é una meraviglia da vedere e da ascoltare.
Sale la nebbia sui prati bianchi/come un cipresso nei camposanti/un campanile che non sembra vero/segna il confine tra la terra e il cielo./Ma tu che vai, ma tu rimani/vedrai la neve se ne andrà domani/rifioriranno le gioie passate/col vento caldo d’un’altra estate./ Anche a luce sembra morire/nell’ombra incerta d’un divenire/dove anche l’alba diventa sera/e i volti sembrano teschi di cera./Ma tu che vai, ma tu rimani/anche la neve morirà domani/l’amore ancora ci passerà vicino/nella stagione del biancospino./La terra stanca sotto la neve/dorme il silenzio d’un sonno greve/l’inverno raccoglie la sua fatica/di mille secoli, da un’alba antica/ma tu che stai ,perché rimani? Un’ altro inverno tornerà domani/cadrà altra neve a consolare i campi/cadrà altra neve sui camposanti.
nella foto : l’angelo custode si arrende alla morte, particolare d’una tomba monumentale del cimitero di Staglieno (Genova ) scolpita da Giuseppe Benetti ( Genova 1825-1914) nel 1878
Voltri, estrema propaggine a ponente della “Grande Genova” ebbe origini antiche, in epoca pre-romana fu capitale del gruppo etnico dei Veituri da cui probabilmente deriva il suo nome, gente bellicosa senza alcun dubbio se i romani chiamarono la città “Hasta Veitorum ” ( Lancia dei Veituri ) e poi, Vulturium dopo che l’ebbero conquistata. L’abitato originariamente era composto da case a due piani circondato da mura che la proteggevano dalle incursioni dei saraceni e dei pirati. Una delle porte della città e più precisamente la porta occidentale detta ” Cerusa” è ancora oggi visibile e sopra di essa fu murato un antico bassorilievo realizzato su una lastra d’ardesia ritrovata in un terreno all’inizio della via dei Giovi. Il bassorilievo ha alla sua sinistra la raffigurazione d’un agnello pasquale e sulla destra uno stemma araldico che mostra le mura merlate d’una città sormontate da tre torri delle quali la centrale é più alta e al di sopra un’aquila nascente. Probabilmente creduto in primis lo stemma dell’antica città di Voltri é invece lo stemma araldico della famiglia Giustiniani. I Giustiniani, potente famiglia genovese, formarono uno dei 28 “Alberghi ” della nostra città, in questo cosiddetto “Albergo ” erano aggregate famiglie che o per censo o per amicizia si unirono in sodalizio non solo per aiutarsi in determinate situazioni di pericolo, ma anche per stringere accordi economici e talvolta affettivi imparentandosi gli uni con gli altri.
A Genova, come in altre città d’ Italia, ci sono delle tradizioni legate alle festività religiose, al calendario ed al ciclo delle stagioni. Nel giorno dei defunti, prima che la festa americana di Halloween facesse il tutto esaurito, era d’uso, oltreché fare visita a chi non é più, consumare le cosiddette “fave dei morti”. Le fave dei morti sono dei dolcetti a base di pasta di mandorle che diventa croccante immergendola in un infuso di zucchero, alcune prestigiose pasticcerie genovesi le propongono per la festa dei Santi e per il 2 novembre come ad esempio quella di San Sebastiano nella via Alessi del quartiere di Carignano.
Scegli ‘a verdùa ciù fresca e profumà che nasce in primavèia: faxolin, tomate, fave, puisci, coi, succhin, quarche patatta a tocchi e lascia stà che bògge adaxo tutta ‘na mattin. Quando o l’é giusto de cottùa e de sà, versighe o pesto pronto in to mortà e remescia ogni tanto cian cianin. Caccia poi riso o pasta ‘n pò rezzènte e assàzza spesso in moddo da ese certo che a’ pasta reste ancon ciuttosto ao dente. Servilo intiepidio, pe’ avvèi successo, quando misso in tè xàtte ben coverto o forma ‘a pelle diventando spesso.
da ” I Sonetti” in genovese di Aldo Acquarone
Traduzione per i “Foresti ”
IL MINESTRONE
Scegli la verdura più fresca e profumata che nasce in primavera: fagiolini, pomodori, fave, piselli, cavoli, zucchini qualche patata a pezzi e lascia che stia a bollire lentamente tutta una mattina. Quando é giusto di cottura e di sale, mettici il pesto preparato nel mortaio e rimescola ogni tanto pian piano. Butta poi riso o pasta che tenga la cottura ed assaggia spesso in modo da esser certi che la pasta resti ancora piuttosto al dente. Servilo tiepido, per aver successo, quando messo nelle scodelle ben coperto forma la pelle diventando spesso.
nella foto ” O Minestron con o Scucuzzon ” (*)
(*) Lo Scucuzzon deriva forse il suo nome dal cuscus arabo, é una pasta corta a forma sferica di grano duro tipica del genovesato.
La chiesa parrocchiale di San Bartolomeo della Certosa di Rivarolo, la cui fabbrica iniziò nel lontano 1297, ha due chiostri, uno grande, che al suo tempo fu il più grande della Liguria ed uno più piccolo realizzato nel 1630 circondato da 32 colonne di stile toscano e caratterizzato da una splendida pavimentazione a ” risseu”. Risseu è una parola genovese che significa ciottolo ed i risseu sono una tipicità ligure che consiste nel realizzare una pavimentazione con ciottoli solitamente bianchi e neri che venivano posti sui sacrati delle chiese, dei monasteri e dei conventi; questi ciottoli, presi sulle spiagge e sui greti dei fiumi, venivano disposti in modo da formare disegni dei più vari, solitamente motivi geometrici o fitomorfi desunti forse dalle infiorate che venivano fatte per la solenne processione del Corpus Domini. La posa delle pietre era preceduta da un disegno sui pavimenti destinati ad accoglierli, le pietre venivano scelte con cura e poi poste sopra un fondo composto da malta di calce. Alla Certosa di Rivarolo questa splendida pavimentazione fu realizzata tra il 1572 ed il 1671, si estende per ben 720 metri quadrati lungo il perimetro del chiostro e si sviluppa in 36 riquadri incorniciati e decorati con motivi apparentemente astratti che avevano lo scopo di non distrarre i monaci e favorire la meditazione, in uno di questi é visibile la parola “CARTUSIA” cioè certosa che ricorda come questo complesso monastico sia stato realizzato per la benevolenza della famiglia nobile dei Di Negro che donò il terreno a Bozone priore generale della grande certosa di Grenoble. I certosini restarono in loco sino alla soppressione degli ordini religiosi voluta da Napoleone nel1798 e la Certosa fu utilizzata prima come deposito di polveri e poi come ospedale militare, successivamente fu riaperta ed eretta a parrocchia passando al clero secolare. In alcuni punti questo bellissimo pavimento é danneggiato, speriamo che in un prossimo futuro venga restaurato e riportato alla sua primitiva bellezza.
A Genova, nel cimitero monumentale di Staglieno, lo scultore Giovanni Battista Villa ( 1839-1899 ) realizzò splendidi gruppi scultorei per le ricche famiglie genovesi, uno di questi fu realizzato nel 1881 dall’artista a ricordo del docente di anatomia dell’Università di Genova Cristoforo Tomati, monumento che fu definito dai critici contemporanei come il suo capolavoro ed anche uno dei più ricchi, rappresentativi e belli della grande Necropoli. Protagonista assoluto della scena é una splendida figura di Cristo vestito con una serica tunica, immaginato dallo scultore come un oratore che con lo sguardo rivolto verso l’alto, impietosito dalla figlia del defunto che lo prega inginocchiata sotto l’arca su cui giace il corpo del padre, intercede per l’anima del trapassato con Dio Padre. Nella volta del sacello si può leggere la frase EGO SUM RESURRECTIO ET VITA ( Io sono la resurrezione e la vita ) frase presa dal vangelo di San Giovanni che continua con : Chi crede in me, anche se muore, vivrà in eterno…L’architettura in cui é inserito il gruppo scultoreo é un abside avente la semi cupola stellata che ricorda i lavori del Bramante. Questa contaminazione tra soggetto sacro e profano é una caratteristica peculiare di questo artista i cui lavori iconografici sono spesso complessi e permeati da realismo, religiosità e mistero, talvolta di tono quasi pre simbolista che alcune volte genera un’atmosfera di ansia e d’inquietudine.
Genova fu definita dal poeta Caproni “Città verticale” in una delle sue bellissime poesie, mai definizione fu più appropriata, infatti la città, stretta tra il mare e le montagne che le fanno corona, si sviluppò verticalmente, nel senso che la mancanza di spazio utile fece si che le case vennero realizzate, il più delle volte, in altezza piuttosto che in larghezza sopra i resti delle costruzioni precedenti che venivano interrate; recentemente ne abbiamo avuto un eclatante esempio quando venne rimossa la pavimentazione dell’edificio della cosiddetta Loggia dei Mercanti o della Mercanzia sotto la quale é stata rinvenuta un importante testimonianza della città medioevale e che probabilmente cela a sua volta la città romana che in quell’area aveva i suoi monumenti più rappresentativi. I Genovesi scoprirono la città antica nel 1898 durante i lavori di scavo e successiva costruzione della via XX Settembre, Piazza De Ferrari e via Dante, ceramiche greche ed etrusche vennero ritrovate sotterrate temporibus illis in tombe di ricchi genovesi come corredo funebre, come per esempio quella mostrata nella foto ritrovata durante gli scavi del 1946 nella chiesa di santo Stefano in una tomba, si tratta d’un cratere a calice a figure rosse, reperto greco risalente al 375 avanti Cristo, durante i banchetti, in questa tipologia di vasi biansati, veniva mescolato il vino con acqua e servito ai commensali. La scena principale rappresenta il dio Dioniso ( Il Bacco dei romani ) con diverse figure poste tutte intorno a lui disposte su piani diversi tra cui un genio alato che incorona il dio con una ghirlanda, la sua sposa Arianna ed altri personaggi dei miti dell’Ellade, vaso che potrete ammirare visitando il Museo di archeologia ligure di Pegli.
Nel XVII secolo a Genova erano attive due grandi famiglie di artisti che si facevano concorrenza senza esclusione di colpi per potersi accaparrare la benevolenza e la stima dei ricchi committenti della Serenissima Repubblica: i Carlone ed i Piola. I Carlone non erano genovesi, provenivano da Rovio, un comune svizzero del Canton Ticino, si trasferirono a Genova nell’ultimo quarto del XVI° secolo, famiglia di scultori e pittori. ebbero grande rinomanza per l’importanza delle opere pubbliche da loro realizzate, come quella mostrata nella foto, affresco dipinto da Giovanni Battista Carlone ( Genova 1603 – Parodi Ligure 1684 ) per la cappella dogale in cui viene raffigurata la presa di Gerusalemme da parte dei genovesi guidati alla vittoria da Guglielmo Embriaco. I Piola, genovesi doc, avevano la loro casa/ laboratorio in fondo a salita san Leonardo, anche loro attivi in Genova dall’ultimo quarto del ‘500. Come detto tutte e due le famiglie cercavano di surclassarsi tra di loro sino a spargere calunnie e vituperi nei confronti degli uni e degli altri non solo in campo artistico, per esempio quando Pellegro Piola fu assassinato, dopo il successo che aveva raggiunto all’età di soli 23 anni per aver dipinto una straordinaria Madonna per la corporazione dei “Fraveghi ” (orefici ), si disse che l’assassino era un sicario pagato dai Carlone per eliminare un pericoloso concorrente, accusa che poi risultò infondata; comunque bisogna precisare che non solo il Caravaggio a Roma fu un pregiudicato, ma anche tra gli artisti che vissero a Genova diversi furono ospiti delle patrie galere, ne faccio qui un breve elenco: Sinibaldo Scorza per lesa maestà, Domenico Fiasella per ferimento, Luciano Borzone per tentato omicidio, Pietro Tempesta per uxoricidio etc. etc. Concludendo, la carta vincete dei Piola fu, a mio avviso, d’essersi imparentati con Gregorio De Ferrari il più grande pittore del periodo barocco che Genova abbia avuto.
Paolo Gerolamo Piola ( Genova 1666-1724 )
Carro allegorico della Liguria trainato da grifi e guidato dalla Prudenza ( maniman…..)(°)
Bozzetto per la sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale
(°) Maniman é un modo di dire genovese che si può tradurre come meglio non rischiare troppo perché ci puoi rimettere tutte le penne della coda.
Sin dal lontano 1600 se ne parla di questa pietanza della tradizione genovese, nata probabilmente nei paesini della val Bisagno dove, questa zona particolarmente fertile, fu, sin da tempi remoti, adibita alla coltivazione degli ortaggi che poi venivano portati nei mercati ortofrutticoli genovesi. Questi orticultori vennero detti “besagnini ” per distinguerli da quelli che erano “foresti” ( forestieri, non genovesi ), ritornando alle nostre lattughe ripiene, tradizionalmente si preparano per le feste pasquali e comunque preferite nei mesi invernali, persino poeti ottocenteschi come Nicolò Bacigalupo ne hanno celebrato la bontà. Di questa pietanza ne esistono due versioni, quella più antica era vegetariana (lattughe ripiene di magro ), probabilmente legata alla tradizione del periodo della Quaresima, l’altra, più sostanziosa e ricca, invece contempla un ripieno a base di carne ed era nel passato preferita dalle classi abbienti. Le lattughe ripiene si servono in brodo di pollo accompagnate da crostini di pane abbrustoliti e ….buon appetito.
A Genova, di fronte al mare, c’é il “Galata” il più grande ed interessante museo marittimo del Mediterraneo. In una sala dedicata ad uno dei nostri più illustri concittadini, si trova un dipinto realizzato ad olio su tavola ( cm. 53 x cm. 47 ) attribuito a Ridolfo di Domenico Ridolfi ( 1483 – 1561 ) detto Ridolfo del Ghirlandaio che lo avrebbe realizzato postumo nel 1520 circa. L’opera pittorica fu reperita sul mercato antiquario di Firenze verso la metà del XIX secolo da un artista genovese, che riconobbe nei tratti del viso quelli del grande navigatore, questa convinzione fu motivata sia dalla somiglianza del volto con la descrizione fatta dal figlio Fernando, sia per le lettere VS presenti sul dipinto in alto a sinistra facenti parte d’una originale didascalia molto comune nei ritratti del primo ‘500 che presumibilmente era : “ColumbVS novi orbis repertor “. In questo ritratto Colombo viene immaginato con un cappello scuro da cui sporgono disordinatamente i suoi capelli bianchi, non ha vesti preziose, il suo vestito é nero, quasi monacale, senza gioielli ed armi, ritratto a tre quarti con il volto rivolto verso il riguardante ed é proprio qui che l’artista riesce pienamente a cogliere l’aspetto psicologico del personaggio rappresentato, nei tratti fisionomici di questo viso dall’espressione pacata ma con occhi che esprimono grande determinazione insieme ad una ferrea volontà nel perseguire i suoi sogni.
Tanti tanti anni or sono, nell’entroterra di Chiavari, in una vallata circondata da boschi, esisteva una strada carraia ed ancora esiste ( se la percorrerete state molto attenti perché é stretta, a doppio senso di marcia e senza guard rail ) che portava all’antica abbazia di Borzone. Il complesso monastico, unico nel suo genere in Liguria, risale al XII secolo, il felice connubio di pietra e mattoni, nonostante la povertà dei materiali, ci regala un senso d’armonia data dalle ritmate proporzioni del doppio ordine di archetti ciechi che si susseguono senza soluzione di continuità sino ad arrivare alla facciata, purtroppo afflitta da un restauro non consono. Vicino alla Abbazia é un’ imponente antica torre costruita in conci bugnati di arenaria, nella parte inferiore probabilmente nata come torre difensiva risalente all’epoca longobarda, (VI-VII secolo ), poi sopraelevata nel 1243, così come risulta da una lapide murata nel prospetto est che recita testualmente: ” MCCXLIIII abbas Gerardus de Cugurno natus fecit fieri has ecclesia et turrem” ( nel 1243 l’abate Gerardo nato a Cogorno fece costruire questa chiesa e la torre), gli interni della chiesa risentono dei dettami della controriforma, la volta a capriate non è più esistente sostituita da una volta a botte, dietro l’altar maggiore, il prezioso polittico di sant’Andrea del pittore Carlo Braccesco, di cui si hanno notizie nell’ultimo quarto del 400, non è più in loco, lo si può ammirare nel museo diocesano di Chiavari. Il luogo ispira serenità e pace, sedendovi sul sagrato potrete ammirare ai lati dell’ Abbazia due enormi cipressi che sembrano fare da silenziose sentinelle al luogo sacro, uno dei due, quello a sinistra del riguardante per capirci, ha la bellezza di 600 anni ……incredibile ma vero.
“Dal Miele il mio nome”, così recita la scritta in latino posta in alto sullo stemma del comune di Mele. Le origini di questo piccolo comune posto nel ponente di Genova, si perdono nella notte dei tempi, in gran parte legate all’antica produzione della carta. Documenti ufficiali che comprovano l’esistenza d’una comunità rurale a Mele risalgono al XIII secolo, oggi il comune, meta di scampagnate domenicali, é famoso per la vicinanza con il santuario di N.S. dell’Acquasanta, per una trattoria dove si possono gustare ottime specialità genovesi e per la chiesa dedicata a sant’Antonio abate, nonché all’annessa “Casaccia ” (oratorio) ed al suo sacello che custodisce uno dei più grandi capolavori di scultura lignea d’Italia : la macchina processionale di Sant’Antonio che assiste al transito di San Paolo eremita, acquistata dai Melesi nel 1874 dall’ oratorio della Confraternita di sant’Antonio e san Paolo detta “dei Birri (sbirri ) ” in via Giulia ( ora via XX Settembre ) non più esistente. La maestosa cassa processionale realizzata da Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 – 1739) nel primo decennio del ‘700, ha un peso di circa 10 quintali, per portarla in processione occorrono 16 uomini di forte costituzione fisica, i cosiddetti ” camalli d’a cascia ” ed é, a detta del Ratti, pittore e biografo degli artisti del suo tempo, ” la miglior opera che sia uscita dagli scalpelli del Maraggiano “. Il gruppo scultoreo rappresenta Sant’Antonio Abate che contempla san Paolo eremita ormai morto con due leoni che gli scavano la fossa, mentre la sua anima viene portata in cielo dagli angeli. Spettacolare e meraviglioso il contrasto tra il vecchio anacoreta vestito con una rozza tunica e la sua giovane bellissima anima rivestita con un prezioso drappo di tessuto. Sappiamo da più fonti che Il Maragliano realizzava i suoi gruppi scultorei da disegni dei Piola, ma una cosa é il disegnare una scena ed altra cosa, ben più complessa, è quella di realizzare il progetto in 3D e qui, a mio avviso, questo artista ha superato se stesso.
Dedicato ad Andrea Lamberti, cittadino melese, un eroe del nostro tempo.
Vagando senza meta nel Centro Storico di Genova, viene naturale ogni tanto guardare all’insù, un po’ perché in alcuni punti i caruggi si fanno veramente stretti e bui e un po’ perché essendo Genova una città ” verticale ” spesso, guardando in alto, si possono ammirare autentici capolavori. Un giorno attraversando a piedi il sestiere di “Castello ” mi trovai di fronte ad una grande torre medievale circondata da case. Nel Medioevo la nostra città fu caratterizzata da numerose torri un po’ come la città di Volterra e San Gimignano, nel XII/XIII secolo se ne potevano contare un’ottantina che troneggiavano sopra il centro storico, ogni famiglia importante se ne faceva costruire una ed i combattimenti tra famiglie rivali pare fosse all’ordine del giorno generati da motivi politici o economici e spesso ci scappava il morto come s’usa dire. I Padri della Serenissima Repubblica chiudevano un occhio, se la famiglia coinvolta faceva parte della ” Vecchia nobiltà “, li chiudeva anche tutti e due, della serie ” la Legge è uguale per tutti ma per alcuni é più uguale che per altri “, questo concetto arrivò a giustificare legalmente i fatti di sangue riconoscendo “il diritto alla vendetta “. Peraltro, verso la fine del XII secolo, i Consoli stabilirono che per combattere dalle torri era necessaria un’autorizzazione senza la quale, in caso di morti ammazzati, la torre sarebbe stata diruta e in più si sarebbe dovuta pagare una multa di 1000 soldi. Voi vi chiederete ma come facevano a combattere tra torri inserite in un contesto cittadino? la risposta é molto semplice, usavano baliste e catapulte che, notoriamente, non sono molto precise nel tiro. Oggigiorno di queste torri non ne rimangono molte, si possono contare sulle dita d’una mano, la più imponente é proprio quella in cui incappai io detta degli Embriaci che in questo sito avevano terre e case, risparmiata pensai in onore di Guglielmo Embriaco compagno d’arme di Goffredo di Buglione il conquistatore di Gerusalemme nella prima crociata, peccato che invece recenti studi hanno accertato che la torre apparteneva ai De Castro ed il basamento della vera torre degli Embriaci, non più esistente, é ancora visibile all’interno della “Casa Paganini” in Santa Maria di Passione, tuttavia questo errore probabilmente é quello ché l’ha salvata dall’incuria e dai danni del tempo . La torre alta 41 metri fu costruita all’inizio del XII secolo ed ancora oggi dopo quasi 1000 anni si erge fiera verso il cielo di Genova.
Siamo in Liguria e più esattamente a Finale Ligure in provincia di Savona, qui nella prima metà del secolo scorso fu scoperto un interessantissimo sito archeologico, una grotta chiamata delle arene candide perché, anticamente, s’apriva su una duna costiera di sabbie bianche. In questa grotta vennero ritrovate numerose tombe d’epoca “Gravettiana ” (*) tra le quali questa detta del Principe per il ricco corredo funebre deposto vicino allo scheletro, tra cui una cuffia formata da piccole conchiglie. Analisi di laboratorio ci hanno fornito molte informazioni su questo personaggio vissuto 23.440 anni fa, Il principe era un ragazzo di circa 15 anni di corporatura robusta, alto circa un metro e 70 cm. ,faceva certamente parte d’un gruppo di cacciatori/raccoglitori del Paleolitico superiore, le lesioni al cranio ed alla spalla sinistra ci fanno pensare ad una morte violenta, presumibilmente dovuta ad una aggressione d’un animale selvaggio ( orso delle caverne o leone ), se fosse sopravvissuto avrebbe certamente raggiunto l’altezza di un metro e 80 cm. La sua tomba fu rinvenuta a 6,70 metri di profondità nella grotta ed é stata ricostruita nel museo d’archeologia ligure della villa Durazzo Pallavicini di Pegli (GE ) recentemente riaperto al pubblico, se non lo avete ancora visitato vale la pena d’ andare a vederlo, é un vero e proprio tuffo nel nostro passato remoto.
(*) per epoca “Gravettiana ” s’intende una cultura paleolitica diffusa in tutta Europa da 29.000 a 20.000 anni fa.
L’antico “Carrubeo ” ( una volta i caruggi a Genova si chiamavano così ) fu sede delle attività artigiane degli “indoratori” legati alla corporazione degli “scutai ” . Al civico n. 2 vi nacque santa Caterina da Genova il cui corpo incorrotto riposa dentro una bacheca di cristallo nella chiesa di S.S. Annunziata di Portoria. Vico degli Indoratori é ubicato nel sestiere di Soziglia, zona del centro storico genovese dove le botteghe artigiane esercitavano le loro arti, gli “orefici ” nel Campus Fabrorum ( oggi Campetto ) e anche i “macellai” ed i “pollaioli ” avevano qui le loro botteghe. Gli alti palazzi di questa zona anticamente avevano le logge aperte, favorendo così il passaggio delle persone e facilitando i rapporti umani e commerciali, anche tra plebei e ricchi patrizi che poco distante avevano le loro avite dimore, cosa che stupì grandemente Charles Dickens, quando vide tutto ciò con i suoi occhi durante il suo soggiorno genovese. L’arte dell’ indoratore consisteva nell’applicare una sottilissima lamina d’oro su un manufatto impreziosendo non solo armature, scudi ed elmi, ma anche oggetti in legno come per esempio i candelabri ( a Genova dorati rigorosamente solo nella parte a vista ) ed oggetti chiesastici.
nella foto antiche logge medioevali in vico degli Indoratori
I ” Quaresimali ” sono dei tipici dolcetti realizzati dai pasticceri genovesi nel periodo della Quaresima, la loro origine é molto antica perché a Genova, come in altre regioni italiane, nel periodo penitenziale della Quaresima in cui non si poteva mangiare carne e derivati animali, si creò una ricetta per poter consumare un dolce senza contravvenire alle regole della fede cattolica. Ad inventare questi dolcetti furono un gruppo di monache agostiniane della chiesa di san Tommaso oggi non più esistente che, forse sin dal XVI secolo, riuscirono ad inventarsi dei biscottini preparati solo con farina, zucchero, mandorle e l’acqua di fiori d’arancio. I Quaresimali, sono preparati solitamente in tre diverse forme : a forma di losanga arricchiti da marmellata di fichi o limoni. a ciambellina con foro al centro, a pallina tonda scavata al centro e riempita da zucchero colorato semplice o aromatizzato, tutti quanti spesso decorati con una glassa colorata e semi di finocchio in modo da renderli più appetibili e gustosi.
In Liguria dal XVII secolo, durante il periodo della Quaresima, era in uso esporre nelle parrocchie i ” Cartelami” che erano delle sagome bidimensionali dipinte, alcune volte, da valenti pittori. Queste sagome potevano essere realizzate in cartone ( da cui presero il nome ), in tela, latta o in legno. Le sagome modellate con figure a grandezza naturale venivano, come detto, dipinte per mettere in scena i protagonisti della Settimana Santa ed avevano la “mission” di emozionare, suscitando nell’animo degli spettatori sentimenti di partecipazione ed intense emozioni essendo questi manufatti molto realistici. La Spiritualità barocca, al giorno d’oggi, può sembrarci eccessiva, ma é proprio tipica di quest’epoca, che seguì alla Controriforma trentina, voler meravigliare e stupire i fruitori di opere d’arte profane e sacre proponendo immagini di forte impatto emozionale, che portavano i fedeli a rivivere in questo “Teatro del Sacro” i drammi descritti nei Vangeli, anche in prima persona partecipando a processioni durante le quali ci si flagellava o i Sacri Monti, che erano delle vere e proprie ricostruzioni delle stazioni della via crucis lungo un percorso montano. Ritornando ai Cartelami quelli realizzati in legno furono tra i manufatti più resistenti tra i cosiddetti “effimeri” che , per loro natura, sono di difficile conservazione. Dopo la Santa Pasqua i Cartelami venivano riposti nelle sacrestie e negli oratori.
Nell’ immagine ” Cartelami” fotografati nella mostra “Barocco Segreto” realizzata lo scorso anno a Genova nel palazzo detto ” Della Meridiana “
Charles Dickens ( 1812 – 1870 ) fu uno degli scrittori più impegnati e prolifici, con i suoi romanzi mostrò i profondi contrasti e le ingiustizie della società vittoriana della seconda metà del XIX secolo, a Genova soggiornò nel 1844 e nel 1853, le sue prime impressioni sulla nostra città non furono del tutto positive pur restando colpito dal suo porto ” maestoso “, dai suoi palazzi ” arrampicati sulle colline ” e dai suoi ” giardini sopra giardini “, paesaggi che definì non dissimili ad una quinta teatrale. Il Nostro descrisse Genova come una visione onirica, un coacervo di suoni, colori e odori che lo proiettarono in un mondo per lui alieno, maestosi palazzi e chiese monumentali vicine a fruttivendoli, i cosiddetti ” besagnini” , che con gli acquaioli vendevano i loro prodotti per le strade ricolme d’ una folla eterogenea composta di popolani, soldati, preti, monaci e “signori ” che per non sporcarsi i piedi si facevano trasportare in portantina, piano piano Genova gli entrò nel cuore sino ad affermare: ” Genova é un posto che cresce dentro di voi giorno dopo giorno. sembra che ci sia sempre qualche cosa da scoprire . Potrete perdervi venti volte, se volete e poi ritrovare la strada tra difficoltà inaspettate, vi troverete di fronte ai più strani contrasti: cose pittoresche, brutte, meschine, magnifiche, deliziose e disgustose si parano davanti al vostro sguardo ad ogni angolo”, Dickens definì Genova come ” una città che non si finisce mai di conoscere” da villa Bagnarello nel quartiere di Albaro si trasferì con la famiglia nella splendida villa delle Peschiere in centro città, da lì si spinse nel centro storico, ammirò i palazzi di strada Nuova ( via Garibaldi) così ben descritti da Rubens, i ” caruggi ” con i loro ” palazzi molto alti e dipinti con ogni tipo di colori “. Concludendo il suo soggiorno affermò che la ” Superba “, così come la definì il Petrarca, é talmente affascinante e ricca di tesori e segreti come quasi nessun’altra città in Italia.
Nella foto il centro storico con la porta Soprana posta nella cinta di mura dette ” del Barbarossa”
Il Museo di Archeologia ligure é ubicato a Pegli all’interno della villa Durazzo Pallavicini, l’importante polo museale nasce nel 1936 ed oggi ha più di 50.000 reperti archeologici provenienti da tutta la Liguria, alcuni dei quali esposti nel museo, reperti che spaziano dalla preistoria all’età antica. Rimasto chiuso per molti anni é oggi nuovamente fruibile al pubblico. Vi voglio raccontare d’un reperto che ho visto e che mi ha incuriosito per la sua peculiarità, é una scultura sepolcrale rinvenuta nel 1936 a “Ponticello” diciamo per intenderci molto vicino alla porta Soprana in occasione degli scavi per la creazione di piazza Dante, si tratta d’una statua in marmo di Cerbero, il cane con tre teste che i greci ed i romani pensavano fosse posto dagli dei all’ingresso degli Inferi, questo ignoto scultore della tarda età repubblicana ( fine del primo secolo d. C. ) lo raffigura con la zampa destra appoggiata su una testa mozzata avente i lineamenti gonfi tipici d’un morto. Quasi certamente questa statua, realizzata in marmo di Luni, faceva parte d’un monumento sepolcrale costruito a lato della strada romana che entrava in città da Levante, presumo che la testa mozzata non sia quella del defunto ma quella d’un suo nemico da lui ucciso e del quale abbia voluto tramandare la disfatta ai posteri.
L’anno scorso, girovagando senza meta per il centro storico di Voltri, passando in via Guala diretto verso piazzetta Santa Limbania, mi sono soffermato a guardare il portale d’ un antico palazzo che ha un soprapporta marmoreo sovrastato da un cartiglio avente al centro un blasone scalpellato per spregio e sostenuto ai lati da due aquile aventi le ali mozzate. Scalpellare gli stemmi araldici delle famiglie cadute in disgrazia non fu per me una novità, nel centro storico di Genova ce ne sono molti, ma questo mi colpì in modo particolare perché qui non ci si limitò a distruggere la memoria di chi abitava in questo palazzo, ma si volle anche infierire sulle aquile che reggevano lo stemma rendendole mutile, mi accorsi allora della scritta posta sulla trabeazione sottostante la quale recita testualmente: “NON IST HIC OBLIQUO OCULO MEA COMMODA QUISQUAM LIMET: NON ODIO OBSCURO MORSUQUE VENENET Hor.” Allora i miei studi classici si perdono nella notte dei tempi, ma il significato della epigrafe latina, presumo presa da uno scritto di Orazio, mi pare si possa tradurre così: “Non c’é nessuno qui (che ) con occhio malevolo limiti il mio benessere, né (potrà) dissimulare l’odio o morsi velenosi “. Allora mi son chiesto ma di chi sarà stato questo palazzo? e chi fu il nobile caduto in disgrazia che con tanta tracotanza e fierezza si fece scrivere quanto sopra sulla porta della sua casa?” Io non lo so. Se qualcuno dei miei lettori lo sapesse lo invito a raccontarcelo.
Al cimitero monumentale di Staglieno di Genova e più precisamente nel settore D, contraddistinta dal numero 10, c’é la tomba di Carlo Raggio realizzata dallo scultore Augusto Rivalta nel 1872. Il Rivalta nato ad Alessandria nel 1837, completati gli studi all’ Accademia Ligustica di belle Arti nel 1859, si trasferì a Firenze, dove lavorò nello studio di Dupré. Rivalta fu uno dei primi artisti che aderirono allo stile cosiddetto del “realismo borghese”. In questo monumento funebre, il realismo borghese si rivela come lo stile più adatto per esprimere questa nuova concezione della morte, con questo suo descrittivismo preciso nel definire gli abiti e lo stato psicologico emozionale dei vari personaggi che circondano il letto del trapassato. In questa iconografia, rappresentante un momento tragico della vita d’una famiglia, non ci sono angeli consolatori, ne altre figure simboliche che possono alleviare la sofferenza dei presenti e neanche la speranza di redenzione per chi non é più, ma é volutamente sottolineato solo il senso della perdita. Per sdrammatizzare un po’ il mio articolo, vi racconto una vecchia barzelletta genovese che mi é venuta in mente guardando questo monumento funebre. I parenti costernati ed addolorati circondano il capo famiglia morente il quale con un filo di voce si rivolge alla moglie dicendo: ” Cilla dove sei ? ” e la moglie prontamente gli risponde : ” sono qui Cillo vicino a te ” e lui di rimando le chiede : ” e i miei figli ? ” la moglie replica : ” sono tutti qui stai tranquillo ” e lui ribatte : ” e a me lalla ? ” risponde la moglie . ” é qui anche lei ” e lui sempre con un filo di voce le dice:” ma si può sapere chi é andato ad aprire la bottega stamattina?”
“Per Genova e per San Giorgio!” era il grido di guerra dei soldati genovesi, questo santo venerato a Lydda in Palestina visse tra il III ed il IV secolo dopo Cristo, la leggenda del nobile cavaliere in lotta con il drago per liberare una principessa che era stata offerta in olocausto al mostro, risale al periodo medioevale, mediata dai miti greci; di san Giorgio, per la verità, si sa molto poco, se non che fu un valoroso soldato dell’esercito romano e fu martirizzato nel 303 d. C. sotto l’imperatore Diocleziano, perché, dopo aver donato tutti i suoi averi ai poveri, s’era dichiarato cristiano rifiutandosi d’adorare l’imperatore di Roma. Il culto fu approvato da papa Gelasio alla fine del V secolo diffondendosi in Inghilterra alla fine del VII secolo e poi con le crociate. A Genova la devozione per questo santo fu probabilmente portata dai soldati del generale Belisario nel VI secolo d. C. durante la guerra che l’imperatore Costantino aveva dichiarato ai Goti, la nostra città a quel tempo fu una delle più importanti roccaforti bizantine, ma fu nel 1098, al tempo della prima crociata, quando i soldati genovesi ribaltarono le sorti della guerra in Terra Santa favorendo la presa della città d’Antiochia sino ad allora ritenuta inespugnabile, che la fama di questo santo si diffuse a macchia d’olio, infatti il mito racconta che durante la battaglia contro i saraceni, un valente cavaliere che recava un’insegna bianca con una croce rossa apparve in mezzo ai combattenti e da quel momento le sorti della battaglia si capovolsero a favore dei cristiani, in quel cavaliere dalla forza soprannaturale molti credettero di vedere san Giorgio. Già nel 200 il vescovo di Genova Iacopo da Varagine ( Varazze ) nella sua “Legenda Aurea ” avvertiva i suoi lettori che la vicenda di San Giorgio ed il drago doveva esser interpretata non in senso letterale ma simbolico o allegorico che dir si voglia e cioè la battaglia del Bene che prevale sul Male. La sua immagine é visibile sullo stemma del Comune di Genova ed era anche sul glorioso gonfalone della città una volta custodito nella chiesa di san Giorgio nel centro storico di Genova, Gonfalone che veniva solennemente consegnato all’ammiraglio della flotta genovese prima di salpare contro i nemici, gonfalone che scampò a cento battaglie ma non all’imbecillità ed all’ignoranza di coloro che credettero nella libertà portata da Napoleone alla fine del ‘700, che lo presero e lo bruciarono in piazza.
Nella foto: affresco centrale della facciata di palazzo San Giorgio raffigurante San Giorgio che uccide il drago, realizzato all’inizio del 600 dal pittore Lazzaro Tavarone ( 1556-1640 ) discepolo di Luca Cambiaso e ripristinato nel 1992 dal pittore Raimondo Sirotti.
Per coloro che giungono a Genova per la prima volta ed amano passeggiare vicino al mare, consiglio la ” promenade des genoises” corso Italia, che dalla foce del torrente Bisagno arriva sino all’antico borgo di Boccadasse, sono poco più di due chilometri che si percorrono piacevolmente con i suoi locali di fronte al mare, non molti a dire la verità e con gli stabilimenti balneari, alcuni dei quali come il “Lido “, con una storia alle spalle di tutto rispetto. A circa metà percorso, se volgerete lo sguardo a monte, vedrete dei ruderi circondati da arbusti della macchia mediterranea, i più non ci faranno caso e guarderanno altrove, pensate invece che quei ruderi custodiscono storie e segreti, alcuni dei quali é meglio dimenticare, lì infatti sorgeva il forte di San Giuliano ultima barriera ai nemici di Genova provenienti da Levante. La prima fortificazione in zona risale al 1745, la cosiddetta batteria Sopranis il cui nome derivò dal fatto che i terreni appartenevano ai nobili Sopranis, il forte invece fu costruito dal 1826 al 1836, in esso potevano essere alloggiati 380 soldati ai quali se ne potevano aggiungere oltre 900 sulla ” paglia ” e con questo termine ho paura che i confort per i militi dovevano proprio essere all’osso, in compenso l’artiglieria era di tutto rispetto: sette cannoni da 16, tre cannoni da 8 , 7 obici lunghi, un petriero e 20 cannoncini. Durante i moti del 1849 il forte fu occupato dagli insorti che s’erano ribellati ai Piemontesi, ma il comandante della guarnigione li tradì e i rivoltosi dovettero riconsegnare ai soldati di Vittorio Emanuele II il fortilizio sfilando innanzi a loro disonorati e disarmati. Durante l’ultimo conflitto mondiale, nel forte vennero installati otto cannoni da 76/45 per la contraerea, ma più che per la difesa della città, il forte diventò tristemente noto perché qui venivano portati i cosiddetti “ribelli al regime ” torturati e fucilati. l’area dal 1948 fu assegnata alla Regione Carabinieri Liguria e dal 1995 la caserma retrostante diventò sede del comando provinciale dei Carabinieri di Genova.
Se non l’avete ancora vista, vi raccomando di visitare la bella mostra ” Rubens Genova ” allestita al piano nobile di Palazzo Ducale, qui di seguito vi ripropongo uno scritto preso in una delle numerose stanze a lei dedicate:
Genova paradiso delle donne
“Grande é la libertà delle donne in questa città….” L’eleganza ed il lusso ostentato dalle donne genovesi colpiscono da sempre i viaggiatori che lasciano testimonianze eloquenti, tra le più celebri é quella parzialmente riportata sopra di Enea Silvio Piccolomini poi papa Pio II , che nel 1432 scrive ancora:” … sono certamente belle…da elogiare veramente perché sono nobili e di grande candore, hanno vesti costose, cariche d’argento, oro e pietre preziose, sulle dita smeraldi e diamanti che sono estratti in tutta Persia e l’India. Infatti, per qualsiasi motivo di ornamento , ogni spesa é giustificata”. Con il Cinquecento si esige via via maggior rigore in ragione dell’entrata ( di Genova ) nella sfera politica della cattolicissima Spagna. Il Governo della Repubblica promulga leggi dette “Suntuarie “, che limitano l’esibizione dei tessuti pregiati, gioielli e persino alcuni abbinamenti di colori, ma valgono solo entro le mura cittadine. Sarà per questo che le famiglie (nobili ) passavano gran parte dell’anno in villa? Si deroga anche in occasione di visite illustri, il cerimoniale prevedeva delegazioni di nobili ad accogliere gli ospiti, organizzare feste e ricevimenti, occasioni fantastiche per sfoggiare splendidi abiti e gioielli mozzafiato. Al tempo di Rubens, a inizio Seicento, il potere di queste leggi si affievolisce e l’arredamento sontuoso delle dimore trova un degno corrispettivo nella sfarzosa eleganza delle belle genovesi.
E voi vi chiederete ; ” ma come diavolo potevano lavare questi meravigliosi serici abiti trapuntati in oro ed argento senza rovinarli?” la risposta é molto semplice: ” non li lavavano! ” dopo averli indossati per il ricevimento o la festa che dir si voglia, se li toglievano e li affidavano a servi fidati, i quali, dopo averli esposti “en plein air” ( almeno lo spero ), li riponevano negli armadi, questo non vi deve stupire, anche il fatto del lavarsi nel secolo XVII° non era ritenuto una cosa così importante, quasi disdicevole se si trattava dell’igiene intima, ricordo che la regina Isabella di Castiglia si vantava di non essersi mai tolta la camicia, tanto che i pittori di corte avevano chiamato un colore della loro tavolozza : ” Giallo Isabella “.
nella foto ritratto di Violante Maria Spinola Serra dipinto da Rubens nel 1607 circa, quasi alla fine della sua permanenza in Italia esposto in mostra.
Il toponimo di questo quartiere genovese, deriva dal fatto che, nella prima metà del secolo XVI°, qui fu realizzato un bacino acqueo artificiale che il popolino chiamava in senso dispregiativo ” o Lagasso ” . Originariamente questo laghetto artificiale fu voluto da Andrea Doria che s’era fatto edificare una splendida reggia prospicente al mare, circondata da un bel giardino all’italiana impreziosito da fontane le cui acque erano alimentate dal Lagaccio da cui si dipartiva un acquedotto terminante con un lavatoio pubblico. Più tardi, il governo della Serenissima Repubblica di Genova, utilizzò queste acque per alimentare le fabbriche di polvere da sparo impiantate anticamente nella valle del rio San Tomaso, interrato nella metà del secolo scorso, che sfociava nei pressi dell’attuale stazione marittima di Ponte dei Mille. Le acque del lago d’inverno ghiacciavano ed i bambini ne approfittavano per andare a pattinarci sopra, mentre d’estate ci andavano a nuotare, secondo le cronache dell’epoca, furono numerosi i casi d’annegamento, per cui, quando il ” Lagasso ” fu interrato negli anni 70 del secolo scorso, la gente del quartiere ne fu felice, al suo posto fu costruito un campo di calcio. Il Lagaccio, oltre per il fatto che diede il nome ad un intero quartiere, é oggi conosciuto in tutto il mondo per l’omonimo celeberrimo biscotto che un piccolo forno produceva in loco sin dal 1593 e che ancora oggi viene riconosciuto come il biscotto genovese per antonomasia.
Nel centro di Genova, da via santa Chiara si può arrivare in piazza Dante scendendo lungo una antica creuza: la salita San Leonardo. La creuza é rimasta come doveva essere nel medio evo, al centro mattoni pieni messi di costa ed ai lati pietre di mare consumate dalla pioggia e dal vento, dico questo perché bisogna stare ben attenti a non inciampare data la pendenza e l’irregolarità della pavimentazione, così è difficile per il passante frettoloso accorgersi che in una delle ultime case della salita sopra il portone d’ingresso c’é un architrave marmorea con su scritto: “Hostis Abi Limina Time ” che significa ” Nemico Vattene abbi paura di questa porta ” una scritta di per se incomprensibile considerando il fatto che è posta in una casa di moderna costruzione, allora vi voglio raccontare una storia tragica che riguarda quella casa o meglio la casa che sorgeva lì prima che i bombardamenti della flotta del re di Francia Luigi XIV la fecero crollare. In questo sito sorgeva la casa laboratorio d’una delle famiglie di pittori più rinomati di Genova : “I Piola “, tra cui il giovane Pellegro ( Genova 1617-1640 ) che aveva raggiunto fama e notorietà dipingendo una Madonna con Gesù bambino su ardesia per conto della Corporazione degli Orefici, Pellegro a 23 anni s’era già sposato ma, nonostante questo, non disdegnava d’uscire con altri giovani la sera per far bisboccia nelle taverne del suo sestiere, e così in quella fatidica notte del 25 novembre del 1640 Pellegro uscì di casa con i suoi amici tra cui un chierico di nome Giobatta Bianco e andò in giro a divertirsi… ma mentre ritornò a casa vide dei lanaioli che orinavano sul muro della casa d’un suo amico e li apostrofò in malo modo ( dovete sapere che al tempo per chi si macchiava d’un atto del genere era prevista la tortura della fune ) quelli risposero e dalle parole passarono ai fatti …. cominciarono a tirarsi pietre, poi si azzuffarono e a questo punto il Bianco tirò fuori un pugnale e con quello ferì all’addome Pellegro scambiandolo per uno dei lanaioli, questi, visto che la situazione era degenerata, se la diedero a gambe dileguandosi nella notte e lì restarono i due amici, il Bianco disperato per quello che aveva fatto ed il povero Pellegro ferito che fu portato a casa e morì in giorno seguente. Nessuno dei famigliari del Piola volle accurare il chierico, assassino per sbaglio, ma anche nel XVII secolo il gossip la faceva da padrone, così presto si venne a conoscere la verità, peraltro la giustizia secolare si scontrò con quella della Sacra Rota Criminale, per cui alla fine il perdono gli fu concesso il 19 marzo del 1646 e da allora di Giobatta Bianco nessuno seppe più niente.
Madonna Regina tra due santi di Pellegro Piola ( Accademia Ligustica delle belle Arti )
Questo piatto rustico della tradizione Ligure e più specificatamente della città di Albenga, famosa per la produzione di questi ortaggi, é chiamato anche “fricassea “, se qualche volta avete bisogno d’una pietanza da preparare e non avete molto tempo ve la consiglio caldamente perché, oltre ad essere un piatto veloce, é anche un piatto buonissimo, naturalmente per coloro che amano le uova ed i carciofi, i più buoni sono, a mio avviso, quelli della zona d’ Albenga riconoscibilissimi perché questa varietà detta” carciofo violetto spinoso ” si distingue dalle altre per le spine in cima alle foglie esterne e per la colorazione che va dal violaceo al verde scuro. Il tempo di preparazione è complessivamente di 3/4 d’ora e poi buon appetito……
RICETTA DI CASA MIA PER 2/3 PERSONE
Prendere 5 carciofi di Albenga, pulirli delle foglie esterne più dure, togliere le punte spinose poi divideteli a quarti e quindi a fettine sottili togliendogli le barbe, metteteli quindi in una ciotola piena d’acqua fredda e di fette di limone , così non diventano neri , lasciandoceli per una mezzora. Preparate un trito con uno spicchio d’aglio e prezzemolo e farli soffriggere in padella con olio extra vergine ( se ligure é meglio perché più leggero ) , quando l’aglio é dorato si aggiungono i carciofi dopo averli scolati ed asciugati, rimescolate con un cucchiaio di legno e copriteli con un coperchio, di tanto in tanto aggiungete un po’ d’acqua calda in modo che i carciofi non si asciughino troppo, A parte preparate una tazza, metteteci 4 uova sgusciate, i bicchierino di latte , 2 cucchiai di parmigiano, sale e pepe q.s. e sbattete il tutto con una forchetta, quando i carciofi sono teneri, aggiungete il contenuto della ciotola rimescolando il tutto con il cucchiaio di legno quindi servire la “fricassea ” immediatamente ai commensali, più é calda e più é buona.
Al Palazzo Ducale di Genova sino al febbraio 2023 si potrà visitare la bella mostra su Pieter Paul Rubens curata da Anna Orlando e da Nils Buttner, possiamo affermare senza tema d’esser smentiti che è una mostra di successo stante che oltre 40.000 persone l’hanno già vista ed apprezzata, tutto filava liscio sinché i carabinieri del nucleo della tutela del patrimonio culturale hanno posto sotto sequestro un dipinto arrivato dalla Polonia, sembra che la ragione stia nel fatto che originariamente il quadro fosse in Italia e che i proprietari lo esportarono illecitamente con il benestare della Soprintendenza di Pisa pur sapendo che era un originale del grande pittore fiammingo e classificato invece come “Scuola del Rubens “. Sicuramente i Carabinieri hanno agito in buona fede, come atto dovuto, probabilmente su segnalazione di qualcuno non certo amico degli attuali proprietari, ma, a questo punto ritengo doveroso spiegare ai non addetti ai lavori quando un dipinto si può senza alcun dubbio dichiarare opera autentica d’ un maestro. non basta che la materia pittorica, lo stile e la qualità lo denuncino come tale, ma occorre che ci siano in concomitanza prove incontrovertibili che le misure e l’iconografia dell’opera risultino citate dalle fonti storiche, per esempio perché descritte come facenti parte del patrimonio lasciato in eredità da Caio o Tizio, o su elenchi di spese sostenute da una nobile committenza sempre con la descrizione dell’opera, del pittore incaricato e della somma pagata per l’opera sua, in caso contrario la certezza assoluta non esiste e quindi i pareri rilasciati restano delle semplici “opinioni” e un’opinione può esser sempre messa in discussione. Nell’esercitare il mio mestiere di mercante d’arte antica ebbi la fortuna ed il privilegio di conoscere ed apprezzare grandi storici dell’arte quali : Federico Zeri, Mina Gregori e tanti altri e tutti mi dissero che l’errore di giudizio é pur sempre possibile trattandosi di “opinioni” e non di sentenze definitive, anche i più accreditati storici dell’arte possono incorrere in errate valutazioni persino il grande Zeri scrisse un libro “Confesso che ho sbagliato “…. Detto questo, esiste una gamma d’espressioni per catalogare un dipinto quali: “ATTRIBUITO” secondo l’esperto il dipinto preso in esame é autentico del Maestro. “BOTTEGA” secondo l’esperto il dipinto fu realizzato nella bottega del Maestro da uno sconosciuto collaboratore. “CERCHIA” secondo l’esperto il dipinto fu realizzato da un ignoto pittore vissuto all’epoca del maestro e da lui fortemente influenzato. “STILE ” e/o “SEGUACE” si ha quando il dipinto non è del maestro ma da un ignoto pittore del suo tempo o quasi contemporaneo che imita il suo stile. “MANIERA” l’esperto pensa che il dipinto sia stato realizzato da un pittore vissuto in un’epoca successiva a quella del maestro. L’opera esposta al Palazzo Ducale e posta sotto sequestro fu originariamente attribuita alla “SQUOLA” altro modo per dire Seguace, cioè un dipinto non autografo del maestro e quindi la valutazione di 25.000 euro mi sembra congrua, anzi francamente esagerata. Recentemente il Centrum Rubenianum di Anversa, che é il più accreditato istituto di ricerca storica e artistica per la pittura di Rubens, ha riconosciuto in questo dipinto la mano del grande artista fiammingo, ma, pur essendo un parere autorevole siamo sempre nel campo delle “OPINIONI”. Concludendo vorrei dirvi che durante il mio periodo d’attività come mercante d’arte antica, ho visto e sentito tutto ed il contrario di tutto, dipinti attribuiti ad autori celeberrimi da storici dell’arte di chiara fama contestati da altri storici con argomentazioni delle più varie, non esclusa l’invidia, per cui un dipinto attribuito a “Caio” veniva poi attribuito a “Sempronio”e dopo un lustro riattribuito a “Caio”, talvolta neppure la firma ( per la verità assai rara ) può aiutare ad attribuire con certezza un dipinto e allora di cosa stiamo parlando? Per Il quadro della Madonna di fronte al Redentore, lo ribadisco sommessamente, non ci sono ragioni plausibili per un sequestro, perché la dichiarazione che si tratta d’un dipinto del grande pittore fiammingo e della sua bottega fatta da un prestigioso istituto resta pur sempre una semplice ‘”OPINIONE” e tale rimane con tutti i pro ed i contro del caso.
P.S. nella foto” San Sebastiano curato da un angelo” di P.P. Rubens replica del famoso dipinto del palazzo Corsini di Roma. Volutamente non ho pubblicato la foto del dipinto messo sotto sequestro, se volete potete andarlo a vedere in mostra.
Il presepe genovese si può dire che abbia due anime, una artistica ed una popolare, la massima produzione di statuine presepiali si ebbe del XVIII secolo, periodo nel quale molte botteghe artigiane si dedicarono alla costruzione di statuine alcune delle quali raggiunsero una qualità artistica così alta da far pensare che anche la bottega di Anton Maria Maragliano, celeberrimo scultore su legno sita in via Giulia ( l’attuale via XX settembre ) ne abbia costruite, anche se nessuna fonte storica sia mai riuscita a provarlo. Le statuine furono realizzate come manichini in legno snodati con i volti finemente rifiniti e poi consegnate a sarti che, a seconda del personaggio rappresentato, li completavano con vestiti appropriati al loro ceto, nelle figure tradizionalmente non poteva mancare la contadinella giovane e la vecchia dalla forte mascella, il pastore barbuto con un cappellaccio sulla testa , il giovin signore, il mendico macilento e paralitico, il contadinello glabro, le venditrici di frutta ed ortaggi, lo zampognaro e, naturalmente, il corteo dei re Magi con i loro soldati. La Madonna veniva vestita con poche varianti, solitamente aveva una veste rossa o bianca di foggia spagnola secentesca e manto blu o azzurro, san Giuseppe invece aveva l’abito talare violaceo ed il mantello giallo, i vestiti dei pastori ed i popolani rispecchiavano quelli delle classi meno abbienti, mentre per i nobili venivano cuciti da sarti e ricamatori dei vestiti corredandoli di nastri minuscoli, bottoncini, galloni ed anche, per le signore, di minuscoli orecchini in filigrana d’argento nonché di collanine di corallo, alcune volte in argento erano anche le armi dei soldati dei Magi così come si possono ancora ammirare nel presepe della chiesa di san Bartolomeo di Staglieno. Lo scenario in cui venivano poste le statuine era realizzato con materiali poveri come il muschio, il sughero ed il cartone, pochissimi sono quelli superstiti, perché data la loro fragilità ed il loro riutilizzo da un Natale all’altro quasi tutti andarono perduti, comunque possiamo avanzare delle ipotesi sulla traccia di rari documenti d’archivio e dei cartelami che sono giunti sino a noi.
La Foto soprastante é del presepio della chiesa delle suore Giuseppine di Genova.
Le Mura dette ” Delle Cappuccine ” fanno parte di quelle ” Miage de Zena ” ( mura di Genova) realizzate a partire dal 1546 su direzione dell’architetto milanese Giovanni Maria Olgiati. I nuovi bastioni al fronte di terra si resero necessari perché le vecchie mura trecentesche s’erano mostrate inadatte a fronteggiare l’ attacco d’un esercito nemico munito di armi da fuoco. Queste mura si chiamano così perché nella zona di Carignano le suore Clarisse cappuccine vissero per secoli in un grande convento che dovettero abbandonare nel 1880 per la costruzione dell’ospedale Galliera. Quest’area per moltissimi anni fu in completo abbandono sino a che, non molto tempo fa, fu fatta dal comune di Genova una grande opera di restauro che ha permesso il recupero estetico del tratto del cammino di ronda che si sviluppa dalle mura delle Cappuccine sino alle mura dette “del Prato “, trasformando così quest’area in una piacevolissima passeggiata in cui vi sono due belvedere muniti di spazi per i picnic con panche e tavoli in pietra, panchine per rilassarsi e per ammirare lo splendido panorama dei monti che circondano la città visti dalla foce del torrente Bisagno, allora penserete chissà come saranno contenti i genovesi di questa bella opportunità che ha ridato luce e bellezza ad un posto dimenticato, si ma non tutti….. vi chiederete perché? ve lo racconterò in poche parole, dovete sapere che in una delle aiuole lungo le mura é stata posta la statua di Giorgio Parodi, uno dei co-fondatori della celeberrima azienda motociclistica ” Moto Guzzi”. Giorgio Parodi nato nel 1897 e morto nel 1955, oltre che imprenditore, fu anche un valoroso pilota aviatore nella prima guerra mondiale e fin qui niente di male, ma il Nostro è stato rappresentato dallo scultore Ettore Gambioli in divisa da aviatore fascista…. per cui apriti cielo…… perché se é vero che l’Italia fu per un ventennio fascista, nessuno se lo vuole ricordare e allora bisogna far finta che non lo sia mai stata e rimuovere tutto quello che ci riporta indietro a quel periodo ed invece, lo dico sommessamente, a mio avviso, é meglio ricordare sia il male che il bene della nostra storia, perché come diceva Primo Levi: ” Chi dimentica il proprio passato é condannato a riviverlo”.
A Genova, nel cimitero monumentale di Staglieno, é di tutta evidenza che nella seconda metà del XIX secolo per le classi della media e dell’alta borghesia avere un monumento sepolcrale costituiva uno status symbol assolutamente irrinunciabile, questo fenomeno culturale finì per , diciamo così, suggestionare anche le classi meno abbienti, che destinarono i risparmi d’una vita di lavoro alla propria autocelebrazione in marmo. Lo scultore genovese Lorenzo Orengo ( 1838-1909 ) ne fu buon testimone. Il Nostro, figlio dello scultore Luigi Orengo, studiò all’ Accademia Ligustica e fu allievo di Santo Varni specializzandosi nei gruppi monumentali funerari, che, come già detto, erano richiestissimi. Qui vi voglio raccontare della tomba del cavalier Giuseppe Ratto insigne avvocato. Il monumento si trova nel settore D contraddistinto dal n. 30, fu realizzato dall’Orengo nel 1890 quando nel suo stile verista erano ancora evidenti suggestioni neoclassiche. L’avvocato é raffigurato in piedi su un plinto marmoreo con la toga ed un libro in mano, sulla base del piedistallo é mostrata in basso rilievo una bilancia che invece d’avere i piatti equidistanti quale allegoria della giustizia, li ha sovrapposti uno sull’altro come a dichiarare che trattare in maniera eguale persone che sono profondamente disuguali per il loro status e per il loro modus vivendi in molti casi si genera un’ ingiustizia, alla destra del monumento è scolpita una povera donna inginocchiata in atteggiamento supplice con suo figlio che si presume orfano, perché fosse chiaro ai posteri che l’avvocato Ratti, vita natural durante patrocinò gratuitamente la povera gente. Dalla parte sinistra una grande creatura angelica sorregge uno scudo con su scritto ” Solo Nobilitas Virtus ” che significa” Unica Nobiltà é la Virtù ” motto mediato dal collegio monzese Bianconi che deriva da uno scritto di Giovenale poi usato anche da Dante Alighieri nel suo ” De Monarchia”. Sul pilastro che sorregge il monumento si legge un lungo epitaffio che ricorda le doti liberali e caritatevoli del defunto ed i simboli dell’ alpha e dell’ omega inizio e fine del tutto.
Mi rivolgo ai miei 4 lettori per raccontarvi qualcosa di me, mi chiamo Mauro Silvio Burlando ed ho creato questa pagina in un momento molto particolare della mia vita, ma cominciamo da principio, sono un mercante d’arte antica ed avevo una piccola galleria antiquaria a Genova in via Roma al numero 55R, come gran parte dei genovesi, pur vivendo in una città meravigliosa, non me ne rendevo conto, sino a quando nel 2015 mi é stato diagnosticato un cancro al colon traverso in stato avanzato che mi lasciava poche probabilità di sopravvivenza, solo allora mi sono accorto di quanto è bella Genova ed ho cominciato a scrivere della mia città come un atto dovuto e riparatorio per tutta l’indifferenza che sino ad allora le avevo riservato, e questo parlare di Genova della sua bellezza e della sua storia mi é servito per superare i momenti bui che ogni malato oncologico deve attraversare. Oggi sono ancora qui ad ammirare i suoi tramonti e a ringraziarvi di seguirmi spero con interesse e simpatia. Cordialmente Mauro Silvio
Era l’anno del Signore 1636, nel giorno 17 ( poi dicono di non essere superstiziosi…. ) del mese di Gennaio un terribile uragano sconvolse la costa di Genova, tremendi marosi si abbatterono sulla nostra città e sui vascelli che cercarono rifugio nelle sue acque protette o presunte tali. Una delle tanti navi che fecero naufragio fu un veliero irlandese di cui nessuno rammenta il nome, la nave venne letteralmente distrutta ed affondata dalla furia del mare in tempesta, solo la sua polena fu rinvenuta il giorno dopo galleggiante in mezzo ad innumerevoli rottami nelle acque tranquille della Darsena. Secondo uno scritto di Lorenzo Zignago la statua lignea fu gettata dalle onde dapprima sul ponte detto dei Chiavarii, poi, nuovamente ghermita dal mare, fu scagliata sul molo vecchio restando miracolosamente incolume, dopodiché fu trascinata nel bacino della Darsena. La statua, rappresentante la Madonna con in braccio il Bambino Gesù, fu acquistata da due marinai che la portarono in un magazzino d’una casa di via Pré di proprietà dei Lomellini, qui avvenne il primo fatto miracoloso, una bambina che abitava con la sua famiglia in un piano alto di quella dimora, cadde dal balcone ed arrivò al suolo illesa, ai numerosi passanti che sentirono le sue urla ed accorsero per darle soccorso disse:” la Signora vestita d’azzurro che sta nel magazzino mi ha preso tra le sue braccia e mi ha deposta incolume a terra “. La notizia del miracolo si diffuse velocemente in tutta la città e la Polena fu portata in solenne processione nella vicina chiesa medioevale di san Vittore, arrivati che furono nel tempio, i portatori si fermarono innanzi alla nicchia che era stata destinata ad accogliere la statua, ma quando si accinsero a sollevarla, questa si sollevò motu proprio collocandosi sul suo piedistallo tra la meraviglia e lo stupore degli astanti. La chiesa di san Vittore non é più esistente, fu demolita nel 1837, ma la Santa Polena é ancora visibile nella chiesa di san Carlo in via Balbi, é là da 223 anni che troneggia dall’altar maggiore riccamente vestita ed incoronata con il nome di ” Regina della Fortuna “, nome per la verità inconsueto per la tradizione cristiana, probabilmente derivante dal fatto che la Statua della Madonna vinse una furiosa tempesta di mare che come sappiamo viene chiamata anche “fortunale”.
“…La strada Lomellina assai larga e spaziosa, dal Fossatello alla strada dei Forni nella direzione di Greco maestosa dirigesi….” così veniva descritta la via Lomellini di Genova da un anonimo viaggiatore del 1818, da tempo dichiarata patrimonio dell’ Umanità dall’ UNESCO, imboccando questa strada da piazza della Zecca verso piazza Fossatello passiamo innanzi a splendide dimore, alla bella chiesa dedicata a san Filippo Neri ed al suo splendido oratorio e dalla parte opposta la facciata d’un palazzo con tre ingressi, da uno inizia un vicolo che conduce alla soprastante via Cairoli, in quello centrale e nel terzo si accede alla casa di Giuseppe Mazzini ora museo del Risorgimento. Viene naturale pensare che per un uomo così grande un prospetto marmoreo con due geni alati contrapposti ed ai lati, vasi istoriati scolpiti in bassorilievo ricolmi di fiori e frutti, siano stati il minimo sindacale per celebrare uno dei protagonisti che contribuirono a costruire la nostra nazione da secoli divisa, ma non é così, quello era l’ingresso d’una farmacia costruita alla fine del XVIII secolo nel palazzo che appartenne agli Adorno, lo stile neoclassico dei fregi ce lo rivela. In questa casa nacque nel 1805 Giuseppe Mazzini che vi visse con la sua famiglia sino al 1809 dopo di ché i Mazzini si trasferirono in un’altra abitazione poco distante. Alla morte del grande patriota avvenuta nel1872, alcuni suoi discepoli comprarono l’appartamento dove nacque per farne un sacrario, dopodiché il sito fu donato al comune di Genova che lo dichiarò monumento nazionale accorpando lì l’Istituto Mazziniano e trasferendo lì il Museo del Risorgimento. Nel Museo sono esposti cimeli delle guerre risorgimentali che si fanno partire dalla ribellione dei Genovesi contro gli austriaci, istigati alla rivolta dal sasso scagliato da un ragazzetto chiamato Balilla contro i soldati che volevano costringere alcuni passanti a spingere un cannone che s’era impantanato a Campetto. Tra i vari oggetti esposti uno mi colpì più degli altri : il bauletto dove furono messi i resti mortali di Nino Bixio, famoso generale di Garibaldi. Dopo la proclamazione del Regno d’ Italia, Bixio s’era imbarcato con Salvatore Calvino nel 1873 partecipando ad un’impresa di navigazione per collegare commercialmente l’Italia con l’Estremo Oriente, in un’isola vicino a Sumatra contrasse il colera e morì, fu seppellito sull’isola di We, ma la tomba fu profanata dagli indigeni, così i poveri resti furono cremati, messi in quel piccolo baule e riportati in patria, dove furono più tardi tumulati nel Pantheon del cimitero monumentale di Staglieno. La scritta in greco sulla porta dell’ex farmacia che corrisponde al latino: “Ars Longa Vita Brevis” sembra una epigrafe dedicata alla sua esistenza.
Sturla é un quartiere di Genova il cui toponimo deriva dal torrente Sturla che divide in due il suo territorio, un corso d’acqua raramente in secca che nasce più a nord nella zona di San Desiderio e per circa dieci chilometri scorre in una stretta valle chiusa dal monte Fasce da una parte e dal monte Ratti dall’altra. Sturla sino alla fine del XIX secolo ed all’inizio del XX aveva pochi insediamenti urbani formati da case sparse di contadini e pescatori. Le notizie più antiche che riguardano questo borgo risalgono al XIV secolo e ci parlano di acerrime lotte tra la fazione guelfa e quella ghibellina, sembra impossibile ma gli uomini, anche se riuniti in piccole comunità che si possono contare sulle dita d’una mano, riescono a litigare ed ad ammazzarsi con estrema determinazione invece di aiutarsi l’un l’altro, come accadde nell’anno del Signore 1322 in cui le forze guelfe attaccarono le forze ghibelline asserragliate nel castello di Sturla e lo bombardarono con l’uso d’un trabucco ( una sorta di catapulta fissa ) costringendo il comandante Antonio Doria alla resa dopo due giorni di lanci incessanti di pietre.
A Genova le costruzioni antiche più rappresentative furono costruite in pietra bianca e nera. Sin dalla metà del Duecento al marmo bianco di Carrara veniva contrapposto il nero della pietra di Promontorio. Il Promontorio di Capo di Faro oggi non esiste più se non nel suo punto estremo verso il mare, dove fu costruita la ” Lanterna ” il simbolo di Genova per antonomasia. Anticamente, prima che venisse spianata quest’ area, esisteva una cava da cui veniva estratta questa pietra grigio-nera così simile al marmo, più dura dell’ardesia ma meno facile da lavorare. Contrapponendo la bande bianche alle nere negli edifici e nelle chiese venivano a crearsi splendide geometrie, che viste da distante sembrano tutte uguali ma non é così, se le guardate attentamente vi renderete conto che le strisce nere sono più alte di quelle bianche rispettando una rigorosa proporzione, prendendo per esempio l’antica misura genovese in “palmi ” , quelle nere per ogni palmo ne hanno un decimo di palmo in più, perché il nero alla vista si ritira, un espediente, un illusione se volete, realizzata senza l’ausilio di tecniche astruse o di strumentazione speciale ma solo dall’esperienza tramandata da maestro costruttore a maestro costruttore.
Nella foto una torre della Cattedrale di San Lorenzo.
C’era una volta a Genova la potente corporazione dei Seateri ( Setaioli ), nei capitoli dell’arte dei tintori d’éndeghi ( indaci ) e sete della città e dei borghi di Genova, erano raccolte le normative in lingua latina e volgare dei secoli XIV – XVI che riguardavano tra l’altro i colori con i quali era possibile tingere i drappi di seta, colori che andavano dal morello di grana al rosso vermiglio di coconiglia ( cocciniglia ), dal colore negro di vitriola all’éndego ( indaco ) che era una materia tintoria tra le più usate e pregiate. I “Setaioli ” erano per lo più collocati nella città vecchia nella zona di Ponte Reale. Quest’arte si tramandava da padre in figlio ed alcune famiglie, come per esempio la mia, quella dei “Burlando” proveniente da Aggio Ligure, sin dal Medio Evo, si specializzò in questo antico mestiere ed acquisì tanta notorietà da essere pubblicata nel libro delle famiglie blasonate dello Scorza.
Nel centro storico di Genova, nascosta come una perla preziosa, é la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di piazza Pellicceria, tra i tanti capolavori esposti in questo avito palazzo, c’è una statua che rappresenta la Giustizia, sul suo petto fu scolpita una bilancia a significare l’equità del giudizio e sul cartiglio che reca in mano é scritto: ” DILEXISTI IUSTITIAM ODISTI INIQUITATEM ” il cui significato é : amasti la giustizia ed odiasti l’iniquità, frase di derivazione biblica che si dice abbia pronunciato in punto di morte il papa Gregorio VII nel 1085. Questa statua faceva parte del monumento sepolcrale commissionato dall’imperatore di Germania Enrico VII a Giovanni Pisano ( Pisa 1248 c. – 1315 c. ) in memoria della sua amata moglie Margherita di Brabante morta a Genova di peste nel 1311. Il monumento funerario terminato nel 1313 fu posto nella chiesa di san Francesco di Castelletto e da subito meta di pellegrini che venerarono Margherita come una santa. La regina fu rappresentata come un’anima festante sorretta da angeli con lo sguardo sorridente rivolto verso il Cielo ed il suo sarcofago sorretto dalle quattro virtù cardinali : la giustizia, la prudenza, la fortezza e la temperanza. Passarono gli anni e poi i secoli, alla fine del 1500 il monumento venne distrutto, non se ne conoscono le cause ed all’inizio del XIX secolo fu distrutta anche la chiesa di San Francesco di Castelletto della quale resta qualche rara testimonianza, ma dal lontano passato riemersero nel secolo scorso alcuni frammenti di questo capolavoro, i più importanti ritrovati nella villa della duchessa di Galliera a Voltri, oggi conservati nel museo della statuaria medioevale di sant’ Agostino e la statua della Giustizia ritrovata in un giardino d’una villa genovese che ha trovato dimora nella casa che appartenne agli Spinola e prima di loro ai Grimaldi ed ai Doria oggi uno dei più interessanti musei di Genova.
Nell’anno del Signore 1190 l’isola di Cipro faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente, l’anno successivo, durante la terza crociata, Riccardo I Plantageneto re d’Inghilterra, passato alla storia come “Cuor di leone” più che per il coraggio per la sua spietatezza nei confronti dei saraceni, conquistò l’isola per usarla come base operativa contro i suoi nemici, in un secondo tempo la vendette ai cavalieri templari che a loro volta la rivendettero a Guido di Lusignano che si proclamò re di Cipro, questa premessa serve per capire che nel 1190 quando nacque Limbania la sua patria era come un vulcano pronto ad eruttare. Limbania che apparteneva ad una famiglia agiata, forse per la crudezza dei tempi in cui visse, forse perché sin da giovanissima sentì la “chiamata” del Signore, desiderava consacrarsi a Dio ed entrare in un convento, ma suo padre era di diverso avviso e la promise in sposa ad un nobile cipriota, quando la bimba aveva solo 12 anni. Limbania provò a convincere il padre a desistere, ma questi sdegnosamente si rifiutò anche di parlarne di questa sua presunta vocazione, allora la bimba fuggì di casa, si recò in porto e lì conobbe un capitano genovese che aveva un vascello ancorato al molo pronto a salpare, lo supplicò in lacrime di portarla via con se e questi sulle prime le disse di si, ma approfittando d’ un momento di distrazione della bambina, fece salpare l’ancora e si diresse verso l’ imboccatura del porto filandosela, come s’usa dire , all’ inglese, quando la nave arrivò in mare aperto onde furiose la risospinsero verso il porto sino al molo dove Limbania lo stava aspettando in lacrime, così la bimba salì a bordo e dopo un viaggio periglioso finalmente la nave arrivò in prossimità di Genova, qui i venti e le correnti meteo marine trascinarono la nave verso la terribile scogliera di San Tommaso vicino all’omonimo convento benedettino, alcuni marinai terrorizzati si gettarono in mare avendo perso completamente il controllo della nave, ma non lei che in piedi a prua, immobile come una polena, attese che la nave si arenasse lì dove oggi nel porto di Genova è la Calata che porta il suo nome, scese e si diresse verso il convento, dove visse tutta la sua vita pregando e facendo penitenza. Si dice che prima di staccarsi definitivamente dal mondo, visse per alcuni anni a Voltri dove esiste una chiesetta a lei dedicata risalente al XIII secolo, proprio lì sembra dimorasse e vivesse in letizia con gli uomini e con Dio. Una curiosità, si narra che il padre furioso per la fuga della figlia pare non abbia trovato di meglio che prendere la campana della loro cappelletta e farla buttare in mare urlando : ” Vai via anche tu! Vai da Limbania ” e la leggenda racconta che la campana, non si sa come, dopo qualche tempo fu ritrovata su una spiaggia genovese.
Il cimitero monumentale di Staglieno, con gli splendidi monumenti sepolcrali posti lungo le pareti dei suoi imponenti porticati neoclassici, è uno dei più importanti musei della scultura otto- novecentesca del mondo. La rappresentazione del dolore umano di fronte alla fine della vita mortale, assunse in questo luogo, nel corso del XIX secolo, forme espressive diverse che ben son rappresentate in questo vero e proprio museo a cielo aperto. Uno degli artefici di questi capolavori fu lo scultore Giuseppe Navone nato a Genova nel 1855 che nel 1902 realizzò un gruppo scultoreo per celebrare la dipartita d’un medico chirurgo che di nome faceva Luigi Pastorini. Il Navone apparteneva alla scuola del cosiddetto ” Realismo Borghese ” uno stile che si configurava in una visione molto realistica del defunto spesso circondato dai suoi famigliari o da persone comunque a lui care. Per il Pastorini il Nostro ideò una complessa allegoria nella quale una donna alata rappresentante la” Medicina”, con l’aiuto d’una altra figura alata rappresentante la ” Munificenza ” volgente lo sguardo verso l’effige del defunto, porge un aiuto concreto ad una suora infermiera che sorregge tra le sue braccia un bambino malato. Bellissimo il contrasto tra la delicatezza quasi eterea delle figure alate ed il crudo realismo con cui lo scultore rappresenta la suora cappellona ed il bambino. Emblematico del personaggio trapassato é l’epitaffio che si legge su un pilastro posto sotto il monumento che recita testualmente : ” A Luigi Pastorini medico chirurgo insigne, della religione osservatissimo, che per sovvenire largamente al povero cui legò il ricco suo censo con operosità ligure accumulato, visse con parsimonia antica”. Per coloro che desiderano visitare Staglieno, é stato recentemente creato al suo ingresso un info point nel quale potrete trovare informazioni su visite guidate e sulla collocazione dei più importanti e significativi gruppi sepolcrali.
Ci sono momenti nella nostra vita che mai vorremmo rivivere, momenti in cui facciamo un’autoanalisi di quello che é stato e di quello che avrebbe potuto essere, degli amici che non sono più, e di quelle strade che hai percorso faticosamente senza arrivare da nessuna parte, é allora, in quei momenti bui che ti fanno star male e ti senti solo, che più solo non si può, vai a Voltri dove finisce la grande Genova, scendi in spiaggia, siediti e guarda il mare, non sarà la panacea per lenire tutti i tuoi mali ma credimi ….aiuta.
Sant’Eusebio é un quartiere di Genova il cui toponimo deriva dall’omonima parrocchia di cui si hanno notizie sin dal XIII secolo, del borgo che sorge intorno a questo tempio si comincia a parlare quando alla fine del XI secolo i monaci benedettini dell’abbazia di San Siro di Struppa si trasferirono in questo luogo fondandovi una nuova chiesa ed un ospitale destinato a dare ricovero ai pellegrini che attraversavano questa valle diretti alle città sante della cristianità. Il luogo, a quel tempo, era chiamato “Luco ” dal latino “Lucus ” che significa bosco sacro poiché il sito era circondato da boschi rigogliosi, che di sacro per la verità avevano poco e niente, nel senso che si prestavano benissimo a dare ricovero ai briganti i quali, compiute le loro ruberie, potevano indisturbati fuggire in queste foreste che davano loro garanzie di incolumità e di ricovero. Una di queste bande fu colpevole d’un efferato delitto del quale mai si seppe il movente: un sacerdote fu assassinato mentre celebrava la messa proprio nella chiesa di Sant’Eusebio che, per questo fatto di sangue, fu chiusa al culto per molto tempo. Alla fine del XIX secolo, sino alla metà del secolo scorso, Sant’ Eusebio fu chiamata “La Svizzera Genovese” per l’amenità del paesaggio e fu meta di scampagnate domenicali da parte di molte famiglie genovesi compresa la mia essendo presenti nel paese numerose trattorie ed osterie. Vivide nella mia mente le colazioni a base di fave, salame, formaggio sardo e vino bianco.
Il collezionismo è esistito sin dai tempi dell’impero romano, quando per decorare i giardini e le dimore patrizie si ponevano sculture e manufatti della Magna Grecia. Anche a Genova nei secoli XVII e XVIII, paradossalmente quando la città perse quasi tutte le sue colonie e come potenza marinara era in netta decadenza, una classe dirigente formata dalla vecchia nobiltà e dalla nuova, disponendo d’una enorme capacità finanziaria, volle farsi costruire splendidi palazzi così belli da indurre Rubens a descriverli o meglio celebrarli in un suo libro ed in questi palazzi, come scrigni preziosi, venivano esposti capolavori realizzati da tantissimi artisti italiani e d’oltralpe, attirati come da una calamita dal dio denaro che a Genova sembrava avesse posto la sua dimora. Il nuovo stile “Barocco ” nato proprio per stupire, estasiare ed emozionare con la sua teatralità, era quello che ci voleva per decorare e rendere indimenticabile al visitatore un’esperienza visiva. La mostra ” Barocco Segreto ” allestita nel meraviglioso palazzo detto della Meridiana che appartenne ai Grimaldi, ci mostra ceramiche, argenti e dipinti barocchi appartenenti a collezioni private e quindi per la prima volta accessibili a tutti, alcuni veri e propri ” Cabinet painting” come li chiamano in Inghilterra, destinati ad essere guardati e goduti solo dai fortunati proprietari.
Nella foto sopra : Un dipinto olio su tela del pittore genovese Paolo Gerolamo Piola ( 1666-1724 ) mostra Achille vestito da donna tra le figlie del re Licomede che viene smascherato da Ulisse quando preferisce brandire una spada piuttosto che rivolgere la sua attenzione ai tessuti preziosi ed ai gioielli destinati alle fanciulle.
Le Casacce (*) genovesi organizzavano per la settimana santa diversi riti tra cui processioni solenni dove venivano portati trionfalmente fuori dalle pareti degli oratori i Cristi in legno scolpiti e dipinti in policromia. Uno tra i più famosi di questi é il Cristo “bianco” dell’ Oratorio di Sant’Antonio Abate alla Marina mostrato nella foto, questo Cristo morto in croce fu realizzato nel periodo che va dal 1710 al 1715 dallo scultore Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 – 1739). La scultura alta cm. 162 ha un peso considerevole, anche se cava all’interno, questo accorgimento fu approntato dall’artista per alleggerirla, dato che i portatori di Cristi non si limitavano a trasportare queste grandi sculture senza l’uso delle mani e delle braccia in bilico con la punta inferiore della croce ficcata dentro un bossolo di cuoio assicurato alla vita da una cintura, ma anche perché, oltre a portarli, saltavano e compivano esercizi alcune volte spericolati tra il tripudio della folla che li incitava gridando in questo caso : ” Viva Il Bianco “.
(*) le “Casacce ” genovesi erano delle Confraternite d’origine molto antica che nacquero per scopi assistenziali e religiosi, composte da membri laici che si riunivano saltuariamente in un oratorio per adempiere a quanto previsto dai loro statuti.
La torta Pasqualina è una torta salata tipica della Liguria, sostanzialmente era ed é il piatto forte realizzato per festeggiare la santa Pasqua , da qui il nome; attualmente, ma presumo anche prima, si preparava anche per festeggiare l’arrivo della primavera. La sua preparazione non é facilissima, gli ingredienti principali sono una pasta sfoglia ripiena di bietole, uova sgusciate, maggiorana e la “prescinseua” una cagliata fresca che è di difficile reperimento fuori dalla Liguria. La prima documentazione storica sulla Torta pasqualina risale al ‘500, un letterato ed umanista lombardo dal nome di Ortensio Lando da Milano nato nella prima metà del XVI secolo ne dissertò nel suo ” Catalogo degli inventari delle cose che si mangiano et bevono” dichiarando, per quel che lo riguardava, che a lui piaceva più che all’orso il miele. Le uova intere al suo interno sono da considerarsi simbolo di rinascita e le più ardite delle cuoche che si cimentavano nella preparazione della torta, cercavano di farla con ben 33 strati di pasta sfoglia in onore degli anni di Cristo. Una curiosità da mettere in evidenza è che le torte venivano siglate in modo da poterle riconoscere, dato che non tutti possedevano un forno nella loro abitazione, molti si recavano a cuocerle nel forno comunale e quindi era assolutamente necessario distinguerle per evitare appropriazioni indebite. Il Lando chiama la Torta Pasqualina Gattafura perché sembra che il suo gatto amasse saltargli sopra e sfondare la sfoglia con gran disperazione degli astanti. E per finire vi voglio ricordare quanto scrisse il poeta Martin Piaggio a proposito da Pasqualinn-a:
Nella bella Piazza Matteotti, che secoli or sono fu la piazza d’armi del Palazzo Ducale, c’é la bellissima chiesa del S.S. Nome di Gesù e dei santi Ambrogio e Andrea, più conosciuta come chiesa del Gesù, stante che fu la Compagnia di Gesù fondata da sant’Ignazio da Loyola a ricostruirla alla fine del ‘500. ora vi racconto un fatto singolare, non tutti sanno che le due statue poste nei nicchioni ai lati del portone d’ingresso della chiesa non sono le originali, quelle che anticamente davano il benvenuto ai fedeli rappresentavano San Francesco Saverio e Sant’Ignazio, in un secondo tempo, un po’ perché il papa Clemente XIV ordinò lo scioglimento dell’Ordine nel 1773, un po’ perché ci furono i moti rivoluzionari della fine del ‘700 ed anche perché nel 1848 i Gesuiti dovettero andarsene stante che il regno di Piemonte e Sardegna aveva fagocitato tutti i beni appartenenti al clero, le statue in quell’anno furono sostituite da quelle di Sant’ Andrea e di Sant’ Ambrogio, realizzate dallo scultore Michele Ramognino ( Varazze 1821 – Genova1881) che da santi supplenti dopo 174 anni di onorato servizio possono pretendere a pieno diritto d’essere considerati Santi Titolari. Singolare è l’atteggiamento di Sant’Andrea che sporgendo dalla sua nicchia sembra dire: ” Pòscito-ese ma a Zena no ciéuve ciù ? “.: Traduzione per i foresti : (Accidenti ma a Genova non piove più ? ).
Nella foto: ” Le Danaidi ” dipinto olio su tela realizzato da Valerio Castello ( Genova 1624 – 1659 ) nel 1655 poco prima che la grande pestilenza che decimò la popolazione genovese nel sesto decennio del XVII° secolo lo uccidesse giovanissimo.
Il termine “Barocco” deriva dal francese “baroque” con il quale veniva indicata una perla mal formata, questo termine é mediato dalla parola portoghese “barroco” e dallo spagnolo “barrueco ” che sostanzialmente stanno ad indicare una forma fuori dall’ordinario, bizzarra, inconsulta e stravagante insomma uno stile che doveva esser considerato un insulto alla logica ed al buon gusto, pertanto possiamo affermare che, all’inizio del suo percorso, questa corrente artistica venne dai più respinta e derisa, ma a Roma tre artisti la fecero diventare così grande da influenzare la moda e lo stile di tutta Europa, tre uomini geniali il cui cognome iniziava con la lettera “B” Bernini, Borromini e Berrettini meglio conosciuto come Pietro da Cortona. Anche a Genova la stagione “Barocca” ebbe grandi interpreti nella scultura e nella pittura celebrati nella stupenda mostra nel palazzo Ducale di Genova : ” Barocco, l’essenza della meraviglia. ” che invito tutti i miei lettori a visitare, l’allestimento é stupendo e le luci che danno vita alle opere consentono la loro piena leggibilità.
Nella foto : Maria Vergine regina di Genova, realizzata dallo scultore tardo barocco genovese Francesco Maria Schiaffino ( Genova 1689 – 1765 ) collocata sull’altare della cappella Dogale anch’essa visitabile.
Con questi versi del Petrarca voglio celebrare un luogo del quale, me compreso, sino a poco tempo fa ignoravo l’esistenza : ” I Laghetti di Nervi ” . L’ antico comune di Nervi, che da molto tempo fa parte della grande Genova, era ed è famoso per il suo microclima dovuto alla protezione dei monti Moro e Giugo che salvaguardano il borgo dai freddi venti invernali, per la sua splendida scogliera che si può ammirare dalla passeggiata a mare intitolata ad Anita Garibaldi, per i suoi magnifici parchi, nonché per i musei che sono ubicati in antiche ville nobiliari ed in palazzi patrizi. Il toponimo ” Nervi ” secondo alcuni deriverebbe dal fatto che in questo sito si erano rifugiati dei soldati romani fedeli all’imperatore Marco Nerva al quale vollero dedicare questo luogo ameno, per altri invece deriverebbe dalla scritta celtica che si poteva leggere sull’antico stemma del comune di Nervi : ” NEAR AV INN ” che significa luogo vicino al mare, ma torniamo a parlare di questi laghetti che ribadisco, sono ignorati dai più, perché la gran parte della gente é attirata dalla parte costiera che é una delle più belle della Liguria; per raggiungere i laghetti bisogna lasciare l’auto parcheggiata all’inizio della via Molinetti di Nervi, poi iniziare un percorso a piedi che, pur essendo ripido in alcuni punti, non presenta grosse difficoltà, vedrete sopra di voi incombere l’imponente viadotto autostradale che porta verso Recco, non fateci caso e proseguite il cammino sino a vedere sulla vostra sinistra un’antico ponte in pietra sotto il quale scorre il torrente Nervi, superato questo sito troverete la prima di queste pozze d’acqua chiamata lago scuro, che in verità scura non é, dovrebbe invece chiamarsi lago smeraldo per il suo colore verde acceso, proseguendo il cammino ne troverete altre, ma vi do un consiglio, aspettate che piova perché dopo mesi e mesi di siccità attualmente sono in secca.
Tra i tanti miti e leggende della città di Genova che ci vengono tramandate, ce n’é una veramente singolare, una storia d’amore, devozione, gelosia, morte e coup de théatre finale che lascia veramente senza fiato, neanche la fervida fantasia di Salgari o Verne sarebbe riuscita ad immaginare un racconto così incredibile. La storia si svolge nella Genova del XI° secolo nella zona di Pré, che prende il nome dai prati che a quel tempo lì erano e degradavano dolcemente verso il mare, costellati di case sparse in una delle quali vissero una coppia di sposi che si amavano teneramente, lui chiamato “Paciugo ” fu un marinaio che spesso si imbarcava per pescare al largo delle coste africane, lei detta ” Paciuga” di professione casalinga. Un giorno Paciugo, mentre era impegnato in una campagna di pesca, fu catturato dai Turchi (vi preciso che, per i genovesi, ” Turchi ” erano tutti gli islamici di colore e non) ridotto in schiavitù e per 12 anni non se ne seppe più niente. Paciuga però mai perse la speranza di rivederlo sano e salvo, tutti i sabati con la pioggia o col sole, si recò a piedi al santuario di Coronata e lì pregò la Madonna di farle riabbracciare suo marito, naturalmente, alcune sue vicine di casa vedendola partire presto e rientrare in serata, cominciarono a sparlare di lei, perché anche nel XI° secolo lo sport preferito da certa gente era la calunnia, e questa calunnia passando di voce in voce divenne certezza: ” quella Paciuga, poco di buono, tradisce spudoratamente e continuamente quel disgraziato di suo marito che ebbe l’unico torto d’aver sempre lavorato come una bestia per farle fare la bella vita”. Dovete sapere che a Genova esisteva una associazione che aveva la “mission” di raggranellare denaro per poter riscattare i cittadini genovesi fatti schiavi, e fu così che, dopo 12 anni di assenza, Paciugo poté ritornare a casa sua, ma essendo di sabato, la trovò deserta, ora diciamocelo, non essendoci all’epoca telefoni, fax o e-mail fu un po’ pretestuoso da parte sua pensare che sua moglie fosse, dalla sera alla mattina, chiusa in casa ad aspettarlo, tuttavia, non trovando la sua donna Paciugo s’incavolò di brutto, uscì dalla magione e cominciò a correre a destra ed a manca chiedendo notizie della sua consorte, naturalmente, da sfigato quale era, chiese anche ad una megera che allegramente gli disse della tresca che sicuramente sua moglie aveva con un non ben definito cavaliere, figuratevi un po’ il pover uomo come ci rimase, male per usare un eufemismo, malissimo rende di più l’idea, così, con questo stato d’animo che lo faceva adirare sempre più, Paciugo aspettò il ritorno di sua moglie, quando la vide sul far della sera rientrare a casa, la fermò, si fece riconoscere ed invece d’abbracciarla l’ accusò d’essere una fedifraga e una sporcacciona, la povera Paciuga ci restò così male che a malapena riuscì a dire che non era vero e che lei pregava per il suo ritorno nel santuario di Coronata, ma lui, accecato dalla rabbia e dall’odio, la trascinò su una barca, si mise ai remi e quando fu al largo la pugnalò al cuore, le mise una pietra al collo e la gettò in mare. Subito dopo aver commesso questo, diremmo oggi, “femminicidio ” Paciugo si pentì del suo insano gesto, ritornò sulla terra ferma e si recò al Santuario di Coronata per chiedere perdono alla Madre di Dio. Giunto al Santuario, che sorge sopra un colle sovrastante la zona di Cornigliano, si prostrò davanti alla statua della Madonna chiedendo perdono piangendo, fu allora che una figura di donna gli si presentò innanzi , subito non la riconobbe perché, avendo la luce alle spalle, la vide come un’immagine trascendentale, poi quando le fu vicino vide che si trattava di Paciuga viva e vegeta, la Vergine Maria l’aveva salvata ed evidentemente resuscitata. La storia quindi finì bene e i due sposi vissero, per il tempo che a loro fu concesso, felici e contenti. Nel Santuario di San Michele e Santa Maria, chiamato dai più Santuario di Coronata, esistono nella navata sinistra due statue di Paciugo e Paciuga con scritta la loro storia, naturalmente, per i non credenti, resta una bella favola, ma, evidentemente, qualcuno pensò che questa storia avesse un qualche fondamento se nel XVII° secolo gli ex-voto per grazia ricevuta in questo Santuario raggiunsero il numero di oltre quarantamila.
Simulacro della statua della Madonna del XI° secolo distrutta da un incendio nel 1600 e ritrovata sotto un altare distrutto nel 1943 da una bomba sganciata da un aereo inglese durante la seconda guerra mondiale.
A Genova la via Frate Oliverio contraddistingue forse la parte più caratteristica del centro storico cittadino, qui sono i portici di Sottoripa che anticamente erano lambiti dal mare e qui sono le alte palazzate che avevano al piano terreno i magazzini dove venivano accumulate le mercanzie scaricate dalle navi dai “camalli ” . Negli ultimi anni del secolo scorso sono stati fatti numerosi restauri alle facciate di questi palazzi, rimuovendo i vecchi intonaci deteriorati dai venti che spirano dal mare e dal salino, sono riemersi, come naufraghi perduti nell’oceano e poi ritrovati, gli antichi prospetti medievali che ci raccontano la storia millenaria della nostra città e allora ci sentiamo piccoli e ci tornano in mente i versi di Giorgio Caproni quando scrisse: ” …Genova città pulita. Brezza e luce in salita. Genova verticale, vertigine, aria, scale…”.
In un mio precedente post pubblicato il 22 Dicembre del 2019 vi raccontai la storia della grandiosa Porta di Santo Stefano detta “Degli Archi ” che fu demolita, anzi direi smontata, in occasione dell’allargamento della via Giulia di Genova ridenominata in seguito via XX Settembre. Vi ricordate della Porta che non c’é più e che c’é ancora? ricostruita nel tratto delle mura della prima metà del XVI° secolo che da Carignano porta in via Banderali, ebbene torno in argomento perché nel mio scritto dimenticai di precisare un fatto veramente straordinario: le due antiche ante lignee della grande porta sono ancora esistenti con le loro cerniere di ferro e le loro borchie forgiate a mano, una rarissima testimonianza del nostro passato ignorata dai più tranne che dai vandali e dai graffitari che l’hanno deturpata con le loro scritte senza senso sotto il severo sguardo lella statua di santo Stefano di Taddeo Carlone posta in una nicchia sulla sommità del varco. Ora io mi chiedo, ma é possibile che esistendo un assessorato alla cultura in questa nostra martoriata città, a nessuno sia mai venuto in mente di preservare per le generazioni future questo manufatto, che essendo un unicum assume, a mio avviso, una grande importanza? speriamo che alla fine qualcuno se ne ricordi, perché, come diceva il grande giornalista Indro Montanelli, ” Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.”
A Genova la salita di san Bernardino dell’antico quartiere del Carmine prende il nome dalla chiesa di San Bernardo dell’Olivella, che originariamente fu la chiesa abbaziale delle monache cistercensi, il portone di questo tempio si trova proprio in cima alla salita, questo sito è un posto veramente singolare considerando che si trova ubicato a due passi dal caotico centro città, eppure così silenzioso e direi nascosto, quasi che sia restio a farsi conoscere e frequentare dalla gente, la luce del sole arriva filtrata dagli alti muri delle case e dai contrafforti che le legano le une alle altre come fossero braccia amorose, nonché dalle funi tese tra gli edifici per stendere i panni freschi di bucato, in questo posto sembra che il tempo si sia fermato e chi sale questa “creuza” parla sotto voce, come se si trovasse all’interno d’una chiesa, timoroso di rompere quel senso di pace e di solitudine che lì si respira.
Questa descrizione della torre nolare della chiesa di San Donato di Genova é presa da una poesia di André Frenaud ( Il silenzio di Genova ), il campanile ottogonale, realizzato in pietra di taglio nel XII secolo, sostituì il tiburio a torre ed é composto di tre ordini di colonne sovrapposte, bifore, trifore e quadrifore, queste ultime aggiunte nel XIX° secolo dal D’Andrade. Nel 1650 qui avvenne un fatto veramente singolare, il nobile Stefano Raggio, che aveva la sua dimora vicina alla chiesa, insieme ad un gruppo si sgherri a lui fedeli, salì sulla torre e da lì si mise a sparare con gli archibugi agli sbirri ai quali era stato ordinato d’arrestarlo per alto tradimento, facendone fuori tre o quattro prima d’esser catturato e tradotto nelle patrie galere. Il suo peccato mortale fu d’aver parlato malissimo, anche in pubblico, del Doge Giacomo De Franchi, così, una calunnia tira l’altra, fu accusato di preparare un colpo di stato ed addirittura di voler assassinare il Doge, a nulla valse il fatto che in passato il Raggio ricoprì importanti cariche pubbliche in modo esemplare e che le prove della sua colpevolezza fossero estremamente labili, fu condannato a morte per impiccagione senza tanti complimenti. In prigione, quando capì che non c’era speranza d’una revisione del processo, si fece portare da sua moglie un crocifisso che celava un pugnale e con quello si ferì mortalmente, ma questo non bastò per evitargli la forca, i birri lo presero e lo trascinarono al molo vecchio, dove venivano eseguite le condanne alla pena capitale e lì lo impiccarono per “lesa maestà”. A Genova c’è una leggenda per la quale il fantasma del Raggio si aggirerebbe ancora lì dov’era la sua casa e in autunno talvolta apparirebbe nella chiesa di san Donato appoggiato ad una colonna vestito di rosso.
Come già da me scritto in un mio precedente post, le confraternite genovesi sono gruppi di persone che si riuniscono in associazioni laiche con finalità spirituali ed assistenziali. La loro costituzione si perde nella notte dei tempi, comunque nel 1582 a Genova se ne contavano ben 134, ognuna legata ad un oratorio ( la cosiddetta Casaccia) dedicato ad un santo patrono. Al loro nascere, i membri delle ” Casacce ” si vestivano con abiti penitenziali, alcuni addirittura con teli di sacco ed incappucciati, seguendo la regola evangelica che recitava testualmente: ” ….fai che la tua mano destra non sappia cosa fa la sinistra … ” poi però, con il passare del tempo, gli abiti furono un’ occasione per mostrare lo sfarzo e la ricchezza della ” Casaccia ” di appartenenza, così la cappa rossa contraddistingueva le confraternite Trinitarie, quella azzurra le Mariane, quella nera le confraternite della morte ed orazione, quella marrone di assistenza ai condannati ed i carcerati ed infine quella bianca ( la più comune ) la cura dei pellegrini , dei malati e dei poveri. Questo gareggiare in magnificenza nel XVIII° secolo generò una sorta di acredine tra i membri dei vari oratori che talvolta sfociò in vere e proprie risse da strada quando si incontravano in processione, un fenomeno così preoccupante da spingere i padri del Comune ad emettere una “Grida ” nella quale si regolarono le manifestazioni religiose in modo che le “Casacce ” , diciamo così, rivali o meglio più litigiose, non si incontrassero mai .
nella foto rara mantellina genovese da confraternita in velluto rosso e bordature in gallone dorato con placca in argento sbalzato e cesellato raffigurante il battesimo di Cristo punzonato torretta anno 1820
I Lavatoi dei Servi furono l’unica opera pubblica realizzata a Genova nell’evanescente periodo della Repubblica Democratica patrocinata dai francesi, originariamente furono costruiti in via dei Servi sul lato opposto del Rio Torbido, una strada di bottegai, artigiani e popolino per cui quest’opera rispose ad una precisa esigenza di servizio pubblico. Il Barabino, che ne fu l’artefice, sul progetto scrisse di suo pugno: ” …fatti nel 1797 in tempo de’ birboni…” questo per chiarire quanto dovesse essere amato di lì a pochi anni dopo questo “rivoluzionario” periodo storico. La costruzione in stile neoclassico ha un fronte a cinque fornici sormontati da un timpano triangolare sul quale si può leggere: “AL POPOLO SOVRANO, GLI EDILI, LIBERTA’, EGUAGLIANZA, L’ANNO PRIMO DELLA REPUBBLICA LIGURE DEMOCRATICA MDCCXCVII”. Molti anni dopo, negli anni 70 del secolo scorso, uno sciagurato disegno fu portato a compimento, la distruzione quasi totale della “Cheullia” uno dei più antichi e caratteristici quartieri di Genova, con essa scomparvero in una nuvola di calcinacci e macerie la via Madre di Dio, il borgo dei Lanaioli , la via dei Servi ed il passo di Gattamora dove era la casa di Nicolò Paganini. I lavatoi furono risparmiati, smontati e ricostruiti sotto via del Colle vicino a quello che rimane delle antiche mura erette dai genovesi per far fronte agli eserciti dell’imperatore Federico Barbarossa, che giurò di trucidare tutti gli abitanti di Genova stante che si rifiutarono ostinatamente di firmargli un atto di sottomissione. Da allora sono lì abbandonati e preda di vandali e dell’incuria, muto grido di protesta ai giardini sottostanti che furono pomposamente chiamati Baltimora e che i genovesi invece chiamano, in senso dispregiativo, di Plastica. Recentemente il Comune ha deciso un restyling di quest’area in modo da renderla fruibile a tutta la popolazione, é stato detto: ” Il progetto di recupero ( dei giardini Baltimora ) parte dall’obiettivo di rendere i giardini un luogo vivo ed accogliente, dove l’armonia della natura possa innescare la vita sociale, restituiamo alla città un giardino da vivere….” Speriamo che sia vero. qualche segno tangibile in tal senso si comincia a vedere.
A Genova, dopo il capolinea della funicolare del Righi, imboccando via Peralto, che anticamente era un percorso militare sterrato, si arriva al Forte Castellaccio, visibile solo d’inverno quando cadono le foglie dagli alberi altrimenti è praticamente invisibile circondato come é da una folta vegetazione. Il sito fa venire in mente la favola della Bella addormentata nel bosco, dove una fata malvagia, con un’incantesimo, nascose la reggia e tutti i suoi abitanti in un’intricata foresta di rovi, anche qui sembra che i genovesi abbiano fatto di tutto per dimenticare questa fortezza, che nata come difensiva fu usata anche per scopi molto diversi da quelli per la quale fu costruita. Le prime notizie riguardo ad opere militari in questo sito risalgono all’inizio del XIV secolo quando i “Guelfi ” vi edificarono un castello con un fossato del quale non é rimasto più nulla, dalle illustrazioni dell’epoca sembra avesse due torri quadrate circondate da mura; nel ‘500 e nel ‘600 venne rappresentato come un corpo massiccio e con una specie di torre nella parte centrale, sin dal XVI° secolo qui venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione, il sito veniva raggiunto per una via che si chiamava Salita dell’ Agonia e, avvenuto il decesso del reo, la bara veniva trasportata percorrendo la Salita della Morte ( il nome delle due vie fu poi cambiato a seguito di un’accorata richiesta dei residenti ) , successivamente nel 1818, con l’annessione al regno di Piemonte e Sardegna, furono iniziati dei lavori di completa demolizione della antiche strutture e di ricostruzione che trasformarono il Castellaccio nella fortezza che ancora oggi é esistente. Il nuovo Castellaccio fu un forte autonomo avente una capiente cisterna per la conservazione dell’acqua, magazzini per i viveri e due forni che potevano sfornare 640 razioni. il suo scopo non era puramente difensivo ma anche quello di sedare con le sue artiglierie le eventuali sommosse popolari né….. perché ” boja Faùss” questi genovesi riottosi ad accettare le decisioni di quelli che contano, così ” balenghi e ciaparat” che appena gli si fa uno sgarbo cominciano a tirare pietre e tutto quello che gli capita sotto mano in testa a chi comanda, è meglio tenerli sempre con la coda tra le gambe ( persino ai Grifoni che reggono lo stemma della città fu imposto di rappresentarli da allora in avanti con la coda tra le gambe in segno di sottomissione ). La dotazione delle artiglierie del forte comprendeva otto cannoni da 32, quattro da 16, cinque da 8 , tre obici lunghi e due corti, oltre che cinque mortai e e dodici cannoncini. Arrivati al XX* secolo il Castellaccio fu usato durante la prima guerra mondiale come campo di concentramento per i prigionieri austriaci e teatro di fucilazioni di partigiani durante la seconda, insomma un passato pregno di tragedie da dimenticare. Una curiosità, sino alla fine degli anni quaranta del secolo scorso dal Castellaccio un pezzo d’artiglieria sparava un colpo di cannone a mezzogiorno.
Girovagando per Genova, vicino a largo della Zecca, chiamato così perché sede della Zecca di Genova, trasferita lì nel 1842 da piazza Caricamento dove aveva la sua storica sede ora non più esistente, si diparte una strada dichiarata patrimonio mondiale dell’UNESCO, la Via Lomellini, una via imperdibile per il curioso viaggiatore, perché è la cartina di tornasole che presenta in modo esemplare il centro storico di Genova. Come quando a teatro si apre il sipario e comincia uno spettacolo, l’effetto di questa strada e pressappoco lo stesso, uno splendido palazzo barocco appartenuto ai marchesi Pallavicini ed altre dimore secentesche fanno da cornice a bar, focaccerie con tavoli all’aperto e negozi di alimentari, qui é la casa dove nacque Giuseppe Mazzini con il suo bell’ingresso neoclassico ora museo del Risorgimento e lo stupendo oratorio di san Filippo Neri capolavoro del periodo rococò, vicino è la chiesa filippina che con la sua facciata disadorna e grigiastra viene ignorata dai più, ma se entrerete in questo tempio terminato nel 1712 e costruito per volontà del nobile Camillo Pallavicini , resterete attoniti nell’ammirare la volta sagomata a botte decorata a fresco dal grande quadraturista Antonio Haffner (1654 – 1732 ) con l’apoteosi di San Filippo Neri dipinta dal grande pittore bolognese Marcantonio Franceschini ( 1648 – 1712 ). Tra le stupende opere d’arte qui custodite ogni tanto si nota una stella a cinque punte che é il simbolo dei padri filippini. Per costruire questa chiesa fu demolito il palazzo degli Adorno, dove visse con il marito Giuliano quella che poi salì alla gloria degli altari con il nome di Santa Caterina da Genova, in una cappella laterale a sinistra, per tradizione, si dice che lì era la camera da letto della santa. il cui corpo incorrotto giace in una teca di cristallo nella chiesa della S.S. Annunziata di Portoria.
Nell’estremo ponente della città di Genova, tanti tanti anni or sono, in una boscareccia di castagni secolari dove era ed ancora scorre il torrente Leira , secondo una leggenda, una sera dei pastori videro una luce arcana riflettersi sulle acque e vicino a questa una statua lignea della Madonna sotto la quale sgorgava una fonte sulfurea che presto si disse avesse poteri miracolosi. Le prime notizie d’una cappella costruita in quei luoghi risalgono al 1465, intorno a questo centro di devozione sorse presto un abitato a cui fu dato il nome di Acquasanta, detto inter nos pare che anche in epoca pre – cristiana esistesse in loco un tempietto pagano dedicato alla ninfa Eja dalla quale sarebbe derivato il nome del torrente ” Leira”. La fama di questa fonte si diffuse presto in tutto il genovesato, tanto da far si che nel 1683 fu posta la prima pietra di quello che é il santuario attuale. Questo tempio terminato nel 1718 su progetto dell’architetto lombardo Carlo Muttone é uno dei santuari mariani più belli della Liguria, al suo interno vi é un altar maggiore spettacolare realizzato da Francesco Maria Schiaffino e dal suo discepolo Carlo Cacciatori nel 1730. La statua della Madonna miracolosa non é lì ma é custodita in una cappelletta tardo settecentesca poco distante, vicina ad un mulino che é adibito a “museo della carta”. La carta genovese era rinomata in tutta l’ Europa del XVIII° secolo, in quest’area si contavano più di 60 cartiere, la carta si faceva con le “strasse” e cioè con degli stracci di lino e canapa che venivano battuti da dei “pilli” ( una specie di pestelli) in vasche di pietra sino a ridurli in poltiglia che poi passata nei telai e nei feltri si trasformava in carta. Questa fiorente industria andò in crisi all’inizio del XIX° secolo con l’ avvento della macchina a vapore sino a sparire quasi del tutto.
A Genova, nella prestigiosa via Balbi, tra il 1634 ed il 1636 fu realizzato su un’area venduta dai Balbi ai Gesuiti uno splendido palazzo, l’architetto che lo progettò fu Bartolomeo Bianco e per molti anni l’edificio fu adibito a collegio per i Gesuiti, solo nel 1773 la Serenissima Repubblica di Genova lo adibì ad Università degli studi. Un anonimo viaggiatore del 1818 nella sua ” Descrizione della città di Genova” così lo descrive: “….sono da ammirarsi due belle facciate, sulla gran strada…. lo stile della sua architettura lo rende uno dei più pregiati di Genova, ….Per una grande e maestosa marmorea scala, avente in testa due leoni in marmo maestrevolmente scolpiti da Domenico Parodi di Filippo (*) …intorno a cui al di sopra son 12 colonne di marmo disposte, quattro innanzi in due gruppi, e otto ai lati, ascendesi al cortile. E’ questo pur circondato da portici spaziosi aventi un bel colonnato in marmo e a ordine dorico in gruppi distribuito, cioè quattro per parte e due ai lati minori in faccia, più otto colonne ai quattro piloni agli angoli del quadrato, in tutto in numero di trentadue.” Nel secondo quarto del XVII secolo i Carmelitani chiesero ed ottennero il permesso di costruire una loro chiesa nella via Balbi proprio a ridosso dello splendido collegio dei Gesuiti , cosa che questi ultimi non gradirono ed in barba alla cosiddetta carità cristiana, fecero fuoco e fiamme per impedire ai Carmelitani di costruire la loro chiesa che, paradossalmente, fu progettata dallo stesso architetto ( Bartolomeo Bianco ) che aveva precedentemente progettato il loro collegio, dalle male parole presto passarono ai fatti, dispetti di tutti i generi, sassaiole e ferimenti, sinché la giustizia secolare giudicò inesistenti le ragioni dei Gesuiti ( i Carmelitani avrebbero tolto a loro l’aria ) e la vertenza fu risolta a favore dei monaci del Carmelo.
( *) in realtà i leoni furono scolpiti da Francesco Biggi ( Genova 1676 -1736 ) uno dei più valenti collaboratori di Filippo Parodi, di Domenico Parodi é il solo progetto.
Nel Palazzo Reale di Genova e più precisamente nella sala detta degli “Arazzi “, se ne può ammirare uno della manifattura di Faubourg Saint-Marcel di Parigi databile al primo decennio del XVII° secolo, realizzato in lana, seta, filo d’argento dorato, su anima di seta da Francois De la Planche e da Marc De Comans su cartoni di Toussaint Dubreil. L’arazzo rappresenta ” L’empietà di Niobe “, ora per coloro che non hanno dimestichezza con i miti greci e con le ” Metamorfosi ” di Ovidio spiego che Niobe, figlia dello sfigatissimo re Tantalo, ricordato per il suo singolare supplizio infertogli da Zeus, regina ricca e potente, partorì 7 figli e sette figlie bellissime. In occasione d’una festività dedicata a Leto alias Latona madre di Febo Apollo e di Artemide, pretese che gli onori ed i sacrifici destinati alla dea fossero piuttosto a lei dedicati, giacché lei ne aveva partorito 14 di figli, mentre la dea solo due. Ora si sa che gli dei dell’ Olimpo s’incavolavano per un nonnulla, figuriamoci per una mortale che osava paragonarsi a loro, così Lete chiamò a rapporto i suoi due figli chiedendo loro di vendicarla, immediatamente Apollo prese il suo arco d’argento e uccise i sette figli maschi di Niobe e Artemide ( la Diana dei romani ) in un secondo tempo, fece fuori le sette figlie. La povera Niobe disperata chiese perdono a Zeus il re degli dei che, pietosamente, si fa per dire, la trasformò in una roccia sul monte Sipilo in Lidia dalla quale sgorga una sorgente perenne, che non é altro che le lacrime della regina blasfema condannata a piangere per l’eternità. L’iconografia rappresentata nell’arazzo ci mostra in basso a sinistra la regina Niobe circondata da una folla festante mentre sullo sfondo è la statua di Leto a braccia aperte con nelle sue mani i simboli che contraddistinguono i suoi figli il sole e la luna.
Se giunti a Genova vi inoltrerete nei Giardini Baltimora, quelli che i genovesi chiamano “Giardini di Plastica ” , e da questo si capisce come siano stati da sempre considerati una “chiavica “, ad un certo punto vi troverete davanti ad un muretto infestato da erbacce sul quale é posta una malinconica targa marmorea quasi invisibile ai frettolosi passanti, su quella targa é scritto che il grande violinista Niccolò Paganini aveva casa lì in vico Gatta Mora, distrutta nel 1971 come tutto il quartiere di via Madre di Dio per far posto ai giardini ed ad un moderno complesso in ferrocemento. Ci voleva un Principe per onorare questo personaggio che diede lustro e fama alla nostra città, un violinista considerato anche oggi, all’inizio del terzo millennio, il più grande. Domenica 24 Ottobre 2021, il principe Pallavicino, presidente dell’omonima fondazione, il suo direttore artistico Vittorio Sgarbi ed il sindaco Bucci hanno inaugurato, innanzi all’ ingresso del Teatro Carlo Felice, una grande statua in bronzo dorato che lo rappresenta realizzata dallo scultore Livio Scarpella da Brescia. Lo Scarpella, prendendo spunto da un disegno di Jean Auguste Dominique Ingres che ritrae Paganini in posa statica, ha reinterpretato questa immagine dandole vita, il bronzo colpito dalla luce non è più semplice rappresentazione d’un eccelso violinista, ma, anche grazie allo studio fisiognomico e psicologico fatto dal Nostro, sembra divenire un tutt’uno con il suo strumento. Paganini suonò per l’ultima volta in questo teatro nel 1836, lo chiamarono violinista del Diavolo e lui non fece mai nulla per smentire queste dicerie ed anche in questa statua sul suo viso grifagno un qualcosa di diabolico si può scorgere ancora.
Nel centro storico di Genova e più precisamente nella Via Lomellini dichiarata dall’ UNESCO patrimonio mondiale dell’ Umanità, dove chi scrive abitò per tre anni, é una chiesa dedicata a San Filippo Neri, in questo tempio che con il suo oratorio é considerato quale uno dei più splendidi esempi dello stile rococò genovese, é la cappella di San Francesco di Sales, qui é collocata una statua il cui artefice fu Domenico Parodi ( Genova 1672 – 1742 ) figlio del grande Filippo allievo del Bernini, dal quale aveva ereditato la bottega e soprattutto i suoi collaboratori tra i quali Francesco Biggi. La statua in marmo bianco raffigura l’allegoria della “Purezza” che il Nostro immagina come una giovinetta coronata di fiori ed avvolta in una serica tunica recante in mano una colomba, i suoi occhi sono socchiusi, l’espressione del viso trasmette pace e serenità così come è illuminata da un dolce sorriso. La colomba fu usata dagli artisti, oltre che per raffigurare la purezza, anche quale allegoria dell’ “Innocenza”.
Genova, data la conformazione del suo territorio, offre pochi parchi in pianura, uno di questi é la spianata dell’ Acquasola all’inizio del Viale IV Novembre. Dalla parte opposta del viale è un elegante palazzo neoclassico che è oggi adibito a Tribunale dei minori, ma quando fu edificato tra il 1843 ed il 1846 su progetto dell’ architetto Celestino Foppiani aveva una funzione ben diversa, lo chiamavano ” Regio Teatro Anatomico ” , sulla sua elegante facciata neoclassica, al piano terreno dell’edificio, vi sono sei tondi con i profili di personaggi che furono famosi anatomisti quali Andrea Vesalio ed il Morgagni, questo dovrebbe chiarire a cosa era destinato questo palazzo, in pratica vi si portarono i cadaveri provenienti dall’ospedale di Pammatone che qui venivano lavati ed ai quali si faceva l’autopsia. Il Foppiani, artefice di questa costruzione, fu assai criticato dai suoi contemporanei perché, si disse, aveva voluto privilegiare la bellezza estetica della costruzione rispetto alla praticità per quel che doveva servire, in sostanza sacrificò gli spazi interni, che risultarono angusti, le luci erano scarse e le prese d’aria insufficienti proprio lì dove erano poste le sale d’anatomia. Meno male che successivamente ne fu cambiata la destinazione d’uso.
Gironzolando per il centro storico di Genova, se capitate in via al Ponte Calvi, ad un certo punto vi troverete a passare davanti al Palazzo Fabiani che prende il nome dal suo ultimo proprietario. Nell’ingresso di questo palazzo risalente al XVI° secolo, restaurato una trentina d’anni or sono ed oggi adibito ad uffici, in una nicchia, troverete un albero di maestra d’un vascello cinquecentesco, ma che ci fa lì un albero di nave? ebbene durante i lavori di restauro si notò la presenza dell’albero che fu reimpiegato come trave portante del solaio del grande salone del terzo piano nobile, una caratteristica tipica usata nelle costruzioni genovesi in cui é sempre presente la tendenza al riutilizzo di qualunque materiale sia lapideo che ligneo, in questo caso proveniente dal disarmo d’una nave, perché alle navi erano destinate le essenze migliori e le stagionature più accurate. Dopo aver accertato che l’albero s’era spezzato e quindi avrebbe dovuto esser rimosso dalla sua sede originale, il tronco é stato sostituito con una nuova trave. Esaminando il manufatto con la dovuta attenzione si é constatato che il tronco é in pitchpine, una essenza lignea tipica delle zone fredde del nord e da uno studio degli anelli di crescita della pianta, si é accertato che l’albero in origine fu scortecciato in modo da eliminare l’alburno ( parte più esterna del tronco che é meno robusta ) perché il durame ( parte più interna del tronco ) é maggiormente dura e meno attaccabile dagli insetti, si può ipotizzare che il taglio sia avvenuto intorno al 1510 . L’albero di questa nave di cui ignoriamo il nome, ha una decorazione policromatica che comprende un’invocazione con una formula che serviva per allontanare gli influssi magici maligni e lo stemma della famiglia “Castello” in una iconografia che è tipica del periodo cinque/seicentesco. Nulla si sa invece di quando, quest’albero di nave, sia stato impiegato come trave di sostegno di questo bell’edificio.
Aperto al pubblico dal primo gennaio del 1851, la struttura complessiva del cimitero monumentale di Staglieno a Genova fu completata verso gli anni ’80 del XIX° secolo, le sue gallerie ed i suoi porticati con i loro gruppi scultorei funerari, sin da subito, suscitarono un grandissimo interesse nei visitatori e nei turisti provenienti da tutto il mondo, tanto da far scrivere a Mark Twain :”…Da una parte all’altra ( dei porticati ), avanzando nel mezzo del passaggio, vi sono monumenti, tombe, figure scolpite squisitamente lavorate, tutte grazia e bellezza. Sono nuove, nivee, ogni lineamento é perfetto, ogni tratto esente da mutilazioni, imperfezioni o difetti; perciò, per noi, queste lunghissime file d’incantevoli forme sono cento volte più belle della statuaria danneggiata e sudicia salvata dal naufragio dell’arte antica ed esposta nelle gallerie di Parigi per l’adorazione del mondo.” Questo scriveva il Twain nel 1867, se tornasse oggi a Staglieno noterebbe che, purtroppo, di “niveo” é rimasto ben poco, i gruppi scultorei sono lerci a causa della polvere centenaria che lì si é depositata, la manutenzione è approssimativa ed i restauri, molto spesso, possono contare solo su fondazioni private che intervengono per salvare questi capolavori dai danni inferti dal tempo e dall’incuria di chi dovrebbe invece salvaguardarli. Ogni tanto, l’attento visitatore, ne può scorgere qualcuno che è stato restaurato e riportato alla sua primitiva bellezza come questo gruppo statuario realizzato nel 1882 da Antonio Rota ( Genova 1842 – 1917 ) * per la famiglia Gnecco. In questo artista il tema del “distacco”, come in altre sue sculture, risente della sua poetica legata al ” realismo borghese”. Il Rota propone al riguardante una precisa narrazione, che ci mostra a sinistra una giovane donna inginocchiata a mani giunte con vicino il fratellino che l’abbraccia affettuosamente tenendo in mano il suo cappello, entrambi fissano una porta sbarrata che mai s’aprirà, rappresentante la vita terrena ormai preclusa ai trapassati, l’angelo, alla loro destra li guarda compassionevole ed indica loro il “Cielo” dove l’anima (della madre? ) sta raggiungendo quattro bimbi che fanno capolino tra le nubi e l’accolgono festosi. Gli abiti e le acconciature dei personaggi rappresentati sono contemporanei a quando l’opera scultorea fu realizzata, caratteristica peculiare dello stile detto “Realismo Borghese” che si affermò anche a Genova nella seconda metà del XIX ° secolo.
Antonio Rota ( Genova 1842 – 1917 ) all’età di soli 12 anni fu messo a “bottega” nell’atelier dello scultore Santo Varni, dopodiché, probabilmente dopo i sei anni di apprendistato, si iscrisse all’ Accademia Ligustica di Belle Arti, tra il 1870 ed il 1873 espose alle Promotrici Genovesi partecipando ad esposizioni internazionali come quella di Vienna nel 1873 e quella di Parigi nel 1878 , nel cimitero monumentale di Staglieno, oltre la tomba Gnecco, il Nostro realizzò le tombe per le famiglie Campostano, Balleri, Carrara e Berretta.
Chi vuol fare acquisti al “Mercato Orientale ” di Genova, se ci va in auto, trova conveniente parcheggiare all’ Auto Park Serra, lì, in un ex giardino d’una villa cinquecentesca, tra eleganti aiuole ed un’antica fontana in pietra, lascia la sua auto ed a piedi raggiunge il mercato che dista circa 100 metri, quasi nessuno nota in quell’area verde un grande arco in cemento parzialmente coperto dalla vegetazione, negli anni ’50 del secolo scorso, in mezzo a quell’arco era posizionato lo schermo del cinema “Parco “. Nelle calde sere estive questo cinema en plein air proponeva la proiezione di film della passata stagione, da bambino, una volta alla settimana, mia madre ed i miei zii mi portavano lì, non so descrivervi la gioia e l’emozione che provavo, sapete, mi rivolgo ai miei lettori più giovani, a quei tempi la televisione l’andavamo a vedere al bar sotto casa ed andare al cinema era, almeno per me, un vero e proprio avvenimento, alla fine del primo tempo si accendevano le luci ed ad un chiosco si potevano comprare bibite e mottarelli, un ricordo bellissimo e con questo ricordo auguro ai miei lettori un buon agosto. Ciao
Chi visita il porto antico di Genova con le sue attrazioni ed i suoi musei, ad un certo punto si trova innanzi ad una chiesa addossata alle mura del ‘500, questo tempio eretto tra il 1163 ed il 1188 fu dedicato sin dall’ inizio a San Marco, scelta veramente singolare dato che San Marco era ed é il patrono della città di Venezia acerrima nemica dei genovesi. Al tempo dell’arcivescovo Ugone della Volta, nei pressi dello scalo del Mandraccio, un certo Nepitelli che di nome faceva Striggiaporco ( bel nome davvero), ebbe in concessione un terreno e dopo che ebbe ottenuto l’autorizzazione ecclesiastica, fece porre la prima pietra di questa chiesa, i Nepitelli, iscritti successivamente alla nobiltà con il nome di Salvago, avran pensato: ” tenimmose bòn San Marco che maniman…..”. Per molti anni, sino alla metà del XIX secolo il Molo Vecchio fu uno dei luoghi designati ad eseguire le sentenze di morte che solitamente avvenivano per impiccagione, i condannati, maschi o femmine che fossero, venivano vestiti con una cappetta rossa e con delle babbucce gialle, in modo che il popolino potesse immediatamente riconoscerli, portati in processione circondati dai ” Birri ” ed accompagnati dai membri della Confraternita della Morte il cui oratorio anticamente si trovava vicino alla chiesa di San Donato, i quali trasportavano la bara destinata ad accogliere la salma del condannato, tranne che nei casi di delitti particolarmente efferati in cui, dopo l’esecuzione della pena capitale, l’impiccato veniva lasciato sulla forca per giorni e giorni a monito per coloro che si beffavano della giustizia secolare. Prima dell’esecuzione della sentenza, il reo veniva condotto innanzi alla chiesa di San Marco, dove il sacerdote gli impartiva l’ultima benedizione. La chiesa, il 2 novembre d’ogni anno, celebrava una messa di suffragio per tutti i condannati a morte.
Tanti tanti anni fa, nell’estremo ponente di Genova esisteva una villa che era chiamata “Paraxo” ( palazzo in antica lingua genovese ) posseduta da un certo Nicolò Mandillo ( cognome singolare che in genovese significa fazzoletto ), nel 1674 la villa ed il terreno circostante furono acquistati dai nobili Brignole Sale per la bella somma di 22.150 lire e da loro fu chiamata “Villa Grande”, immediatamente iniziarono i lavori di trasformazione di questa avita dimora costruita a mezzacosta del colle Castellaro e del suo grande parco concepito come un giardino all’inglese. Il parco, che è molto esteso, inizia in salita in una foresta caratterizzata da pini marittimi centenari e lecci, ai lati del sentiero, asfaltato in alcuni tratti, é un’intricata vegetazione che trasmette un senso di pace e serenità, i rumori dei propri passi sono intramezzati soltanto dal canto degli uccelli, dallo stormire delle fronde scosse dal vento e talvolta dal richiamo delle poiane e dei nibbi che volano in cerca di piccole prede. I viali sono segnalati come “sentiero natura” ed ogni tanto si scorgono alcune costruzioni immerse nel verde tipiche dei giardini romantici progettati alla fine del XIX secolo. Molte sono le aree attrezzate per un picnic all’aperto con tavoli e panche in legno. La parte più bella del parco é, a mio avviso, un’ampia radura erbosa in cui vive un branco di daini e più a monte un’area recintata dove vivono in comunità tante caprette, gioia dei bambini che le vanno a trovare. La Villa ed il suo parco sono conosciuti da tutti con il nome della sua ultima proprietaria la duchessa di Galliera che lo lasciò in eredità al comune di Genova.
Sin dall’anno 1747 esistevano sul Monte Ratti di Genova ridotte a difesa di questo punto strategico alto 560 metri s.l.m., postazioni che peraltro si rivelarono insufficienti e facilmente conquistabili da parte degli eserciti nemici, così, dopo che i vincitori di Napoleone donarono ai re Sabaudi Genova ed i suoi possedimenti, il “Genio Piemontese” decise di costruire una fortezza in sito con annessa caserma. Nata con l’obiettivo di difendere Genova dai nemici provenienti dal nord, fu costruita anche perché i Savoia erano a conoscenza dell’insofferenza con la quale i genovesi avevano preso atto dello status quo per il quale la loro indipendenza millenaria era stata definitivamente perduta. Il forte fu costruito sulla piana in cima al monte tra il 1831 ed il 1842, formato da una lunga caserma con il fronte incombente sulla città poteva acquartierare sino a 440 soldati ai quali se ne potevano aggiungere altri 660 che lì si potevano accampare “paglia a terra ” ( e con questa espressione militaresca si capisce che la situazione alberghiera lasciava un po’ a desiderare ), concludendo la guarnigione poteva contare su 1100 soldati pronti a difendere Genova o a sedare qualsiasi tentativo di rivolta, Quando i Savoia nel 1849 furono sconfitti dagli austriaci nella prima guerra d’indipendenza ed il re Carlo Alberto abdicò a favore di suo figlio Vittorio Emanuele II, dopo l’armistizio di Vignale accettato dai Savoia, i genovesi si ribellarono, in parte perché le idee mazziniane avevano fatto presa su molte persone, un po’ perché molti considerarono la resa all’Austria un atto di codardia e un po’ perché molti avevano paura di ripiombare sotto la dominazione dei crucchi. I moti si conclusero con il ” Sacco di Genova ” Il generale dei bersaglieri Alfonso La Marmora ordinò ai suoi soldati di mettere a ferro e fuoco la città, i sardo- piemontesi dilagarono per le vie predando ed uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e religiosi, quella che Vittorio Emanuele il ” re galantuomo ” aveva definito in una lettera recapitala al suo generale: ” …vile ed infetta razza di canaglie … ” p.s. gli interni della fortezza sono visitabili ( facendo Attenzione…. )
I croxetti in lingua genovese o corzetti, che dir si voglia, sono una pasta tipica della Liguria, ne esistono di due tipologie, quelli della Valpolcevera che hanno la forma d’un piccolo otto e quelli del “Levante” cittadino che hanno una forma circolare, un po’ più grandi d’un’ostia per intenderci, e sono stampati al centro con motivi diversi a seconda del gusto del mastro pastaio che li prepara. Lo stampo é fatto in legno, simile ad un timbro circolare e questo accorgimento fu fatto perché la pasta così preparata si adattava meglio ad accogliere il condimento, ovviamente, oltre la produzione fatta a mano sempre più rara, esiste anche una produzione industriale dei croxetti. Questa pasta ha un’origine molto antica, i croxetti vengono citati in documenti che risalgono al basso medio evo, sembra che le famiglie patrizie genovesi, che oltre a grandi appezzamenti di terreno possedevano anche i mulini ed i forni, si facessero fare dai loro cuochi i croxetti i quali da una parte dovevano aver impresso lo stemma del loro casato e dall’ altra una piccola croce stilizzata ( croxetta in lingua genovese ) da cui presero il nome. Nella foto croxetti a-o tòcco de tomate ( pomodori)
(°) Gli ” Alberghi ” genovesi furono formati da famiglie nobili che, per meglio difendersi, decisero di vivere insieme, avevano una propria chiesa, un’insieme di case e solitamente una torre.
Lungo la dorsale che divide la Val Bisagno dalla Val Polcevera a 508 metri d’altitudine sul monte Moisé sorge il forte Puin il cui toponimo deriva dalla settecentesca “Baracca di Puin “situata pressappoco dove oggi é L’Ostaia de Baracche ( L’osteria delle baracche) qui il fratello di mia madre lavorava come barista prima che nel 1942 partisse per la campagna di Russia dalla quale non tornò più. Singolare il nome “Puin” che forse originariamente potrebbe esser stato “Poìn ” che in lingua genovese significa “padrino” e che si pronuncia appunto Puin. Sopra una ridotta preesistente costruita nel 1747 durante la guerra di secessione austriaca fu eretta dal genio sardo tra il 1815 ed il 1830 questa fortificazione che poteva ospitare una guarnigione fissa di 28 soldati i quali disponevano di due cannoni campali da 8, due obici, quattro cannoncini e due petrieri. Il forte, abbandonato definitivamente nel 1908, fu abitato per 20 anni da un privato al quale il comune lo diede in concessione e che lo restaurò a sue spese. Oggi é sempre di proprietà del comune di Genova e pur essendo in discrete condizioni di conservazione non é visitabile se non il sabato e la domenica rivolgendosi all’Associazione ” Forte Puin – Genova “, ma, durante la settimana, é meta di scampagnate e di picnic all’ aperto.
Sin dal lontano 1395 sul Monte Diamante a 667 metri s.l.m. , tra la val Polcevera e la Val Bisagno, esisteva un’antica postazione militare, l’attuale costruzione “Forte Diamante” fu eretta tra il 1756 e il 1759, costruita grazie al generoso contributo di 50.000 lire del marchese Giacomo Filippo Durazzo. Originariamente, sopra l’ingresso del forte esisteva una targa che ricordava questo gesto generoso e d’amor patrio, targa che oggi più non è in sito, perché qualcuno ha pensato bene di portarsela via come souvenir. Nella primavera del 1800 il forte difeso da circa 250 soldati al comando del francese Bertrand resistette all’esercito austriaco del generale Hohenzollern che li aveva posti sotto assedio, gli austriaci, ad un certo punto riuscirono a conquistare le ridotte dei “Due fratelli” che difendevano il forte Diamante ed intimò la resa a Bertrand dicendogli che altrimenti li avrebbe fatti uccidere tutti ” a fil di spada” la risposta di Bertrand fu: ” Signor Generale, l’onore che é il pregio più caro per i veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando, di rendere il forte di cui mi é stato affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimidazione e mi sta troppo a cuore , signor generale, di meritare la vostra stima per dichiararvi che la sola forma e l’impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare”. Il presidio non si arrese e la situazione si ribaltò quando da Genova arrivarono dei rinforzi che riuscirono a ricacciare indietro gli austriaci. La fortificazione che era dotata di 6 grossi obici e di due cannoncini fu definitivamente abbandonata nel 1914 e mai più utilizzata, neanche come attrazione turistica, un vero peccato perché questo é uno dei più bei forti di Genova.
Sant’ Eusebio é un borgo ubicato sulle alture che circondano Genova, prende il nome dalla sua chiesa le cui prime notizie risalgono al 1143 come “Capella de Luco” il toponimo deriva da “Lucus” che in latino significa bosco sacro. Eusebio da Vercelli nato a Cagliari nel 283 d. C. e morto a Vercelli nel 371 d. C. fu il primo vescovo di Vercelli e strenuo oppositore dell’eresia ariana, trovo singolare che tra tutti i santi nostrani a lui sia stato dedicato questo tempio, La chiesa, eretta da monaci benedettini provenienti dalla chiesa di San Siro di Struppa ( un tempo la zona era detta Molaciana ), costruirono qui anche un ospitale per i pellegrini; della costruzione originale resta la torre campanaria eretta in stile romanico. Nella chiesa attuale, più volte rimaneggiata, é una bella pala d’altare del pittore fiammingo Cornelis De Wael che rappresenta Sant’Eusebio tra i santi Giobatta e Sebastiano. In zona non ci sono ville del patriziato genovese, nel secolo scorso la località fu frequentata dai genovesi per le gite fuori porta, le scampagnate domenicali erano giustificate, oltre che per l’amenità del luogo, dalle numerose osterie e trattorie presenti ancor oggi qui. Nei miei ricordi di bambino sant’Eusebio é legato ad un buon panino di salame di sant’Olcese, fave fresche di giornata ed un bicchiere di vino bianco di Coronata, che aveva un sapore unico con un retrogusto di zolfo, un vitigno che non credo esista più. P.S. una volta il vino veniva dato anche ai bambini…. Nella foto la torre campanaria
Sul Secolo XIX di ieri ho letto che la mostra allestita nel 2019 nel Teatro del Falcone di Palazzo Reale dedicata allo scultore genovese Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 -1739 ) si é classificata nelle top ten del premio ” Art Bonus 2021 “, il riconoscimento del Ministero della Cultura che premia i migliori progetti di restauro e valorizzazione del patrimonio storico e artistico italiano. un risultato importante, considerando che la competizione vedeva in lizza, per così dire, 210 progetti che sono stati votati da oltre 23.000 persone. Questa mostra vista da oltre 20.000 persone fu desiderata, voluta e realizzata da Serena Bertolucci che con un equipe di collaboratori del calibro di Nino Silvestri, uno dei più grandi restauratori di sculture lignee che abbiamo in Italia, riuscì a creare un evento che rimarrà per sempre nella memoria collettiva della nostra città. Lo articolo del nostro quotidiano parla diffusamente di questa bella mostra, parla dell’attuale direttrice si Palazzo Reale Alessandra Guerrini, ma della Bertolucci che fu l’artefice di questo successo neppure una parola, sic transit gloria mundi direte voi ed allora mi permetto di spenderla io una parola per questa signora che io vedo, come disse Sgarbi per Zeri, come una stilita che dall’alto guarda il resto del mondo, una persona che con il suo entusiasmo e la sua bravura riuscì là dove tanti altri non sono riusciti a lasciare alcun segno del loro passaggio. nella foto un padiglione della mostra in cui vennero esposti crocifissi realizzati dal Maragliano un padiglione che, almeno in me, provocò grande emozione.
L’Ospedale Galliera di Genova nacque dall’Opera Pia De Ferrari Brignole Sale, una diremmo oggi ” Onlus” fondata dalla duchessa Maria Brignole Sale sposa di quel Raffaele De Ferrari a cui Genova dedicò la sua piazza più grande, grata per la donazione di 20 milioni di lire – oro con i quali il comune poté costruire grandi moli foranei indispensabili per poter ampliare e ammodernare il porto della città nel 1874 . Maria aveva soltanto 17 anni quando andò in sposa al bel Raffaele rampollo rampante d’una famiglia di banchieri e finanzieri. Soltanto qualche mese dopo il matrimonio, Raffaele si trovò in un guaio non da poco, era nella sua elegante dimora sita nella piazza che più tardi avrebbe preso il suo nome e trastullandosi con una pistola, inavvertitamente, premette il grilletto ed il fato volle che un domestico si trovasse a passargli davanti proprio in quel momento e ci restasse secco. La tesi della disgrazia fu accettata dalle Autorità , la famiglia dell’ucciso ebbe un congruo risarcimento, al giovine duca fu comminata una pena di tre mesi di detenzione domiciliare da scontarsi nella sua splendida villa di Voltri e tutto fu messo a tacere, ma si sa che, in questi casi, più si cerca di nascondere i fatti e più se ne parla, così il gossip news del popolino non la finiva più di infiorare la vicenda con dicerie sempre più pesanti a proposito delle voglie trasgressive della giovine duchessina e delle corna del giovine duca, così la coppia decise di trasferirsi a Parigi dove visse per quasi tutta la vita. Dopo aver accumulato una fortuna fantasmagorica i coniugi De Ferrari ritornarono a Genova ed iniziarono a finanziare opere a favore della loro città e dei loro concittadini. Alla morte di Maria, avvenuta a Parigi nel suo palazzo in rue de Varennes nell’ inverno del 1888, il Consiglio d’amministrazione della sua Opera Pia decise di dedicarle un monumento davanti ad uno dei tre ospedali genovesi da lei fatti costruire e più precisamente a quello intitolato a Sant’ Andrea sulla spianata di Carignano che lei aveva dedicato a suo figlio Andrea morto all’età di soli 16 anni, nosocomio che più tardi fu chiamato Galliera. Per quest’opera fu incaricato Giulio Monteverde, uno dei più insigni scultori genovesi dell’epoca, che propose due progetti per celebrare la magnificenza di questa nobil donna, il Consiglio decise di accettare quello più costoso ( alla faccia di quelli che dicono:” i genovesi hanno il braccino corto” ) del costo di ben 250.000 lire dell’epoca. Il gruppo statuario in bronzo si compone d’un basamento a colonna in granito all’apice del quale é un seggio sul quale é assisa la duchessa vestita elegantemente con al collo una collana di 12 giri di perle, il suo viso è sereno, distaccato, quasi serafico, ai suoi piedi un’umanità dolente é rappresentata da una madre stremata che con tutte le sue forze tiene il suo bambino e scostato da lei un derelitto zoppo si appoggia nascondendo il viso , tra i due un angelo ad ali spiegate , forse allegoria della carità, guarda la duchessa e con un braccio proteso verso l’alto sembra implorare un suo salvifico intervento. Il ” Galliera” ancor oggi, all’inizio del terzo millennio, è uno dei due ospedali più grandi di Genova, lì dove fu edificato anticamente esistette un grande monastero di monache clarisse cappuccine, oggi della loro memoria restano soltanto le mura sottostanti a loro dedicate.
Nella valle del torrente Bisagno, l’ex circoscrizione di Molassana, il cui nome deriva da ” Mollicciana “( vulgata per terra mollis), chiamata così per indicare una località contraddistinta da un terreno umido e paludoso ma fertile, é formata da tre unità urbanistiche: Molassana, Sant’ Eusebio e Montesignano, quest’ultima località, che si trova sul lato sinistro della val Bisagno, é citata per la prima volta in un documento del 1061 come Monte Asenino e successivamente nel 1142 come Monteasciano, non é ad oggi conosciuta l’origine di questi antichi toponimi dai quali deriva il nome attuale. Nel XVIII secolo Montesignano fu coinvolta nella guerra di secessione austriaca (1746-1747) e successivamente nel 1800, durante l’assedio di Genova, volontari della Val Bisagno si unirono al generale francese Massenà nella difesa della collina di Montesignano e del ponte Carrega che in zona era l’unico importante collegamento tra le due sponde del torrente. Il Ponte Carrega originariamente fu chiamato Ponte delle Carrare in quanto con le sue 16 arcate consentì il transito di carri da una sponda all’altra del Bisagno, il nome si mutò in Carrega più tardi, prima di questo ponte, esisteva un guado oltremodo pericoloso specialmente d’inverno, dato che il torrente Bisagno é soggetto a piene improvvise e devastanti. Nel 1743, su istanza degli abitanti di Montesignano, fu fatta alla Signoria di Genova la richiesta per la costruzione d’un ponte e dopo soli 45 anni (diconsi quarantacinque) l’ istanza fu accolta…..( eravamo lontanucci dal poter essere citati come “Modello Genova” per la realizzazione d’opere pubbliche di grande importanza ). Il ponte Carrega si rivelò subito importantissimo perché in zona erano numerosi i mulini ed inoltre, data la fertilità del terreno, molti erano i campi coltivati che tramite “i besagnini” ( così furono chiamati gli abitanti della val Bisagno) fornirono ortaggi alla città di Genova trasportati su carri e carretti. Oggi il ponte, ancora esiste ed é usato come passerella pedonale, oserei dire miracolosamente esiste scampato dalle terribili inondazioni e dai bombardamenti subiti nel secolo scorso dalla città di Genova.
Nel cimitero monumentale di Staglieno vi sono molti gruppi statuari nei quali é presente una porta bronzea socchiusa, il significato é evidente, segna il passaggio dal mondo materiale a quello spirituale, per esempio nella tomba della famiglia Peirano contraddistinta dal n. 9 nel settore D una porta socchiusa avente una trabeazione sulla quale é rappresentato un bassorilievo in cui é narrato un episodio del vangelo di Giovanni e precisamente quello in cui Gesù pronuncia la frase riportata sopra: ” Chi crede in me anche se morto vivrà ( in eterno )”, colonne ioniche le fanno da stipiti, mentre un angelo dalle seriche vesti ne impedisce il passaggio, di fronte a lui una donna in atteggiamento supplice sembra pregarlo di lasciarla passare, mentre un uomo vestito all’antica ed una donna recante in una mano un serto di fiori sono posti ai lati d’una scala di tre gradini, l’uomo meditabondo guarda la donna tenendo in una mano fiori, la donna che ha di fronte, ha una mano sul cuore, quasi a voler rappresentare la sua compartecipazione al dolore per la perdita imminente. Questo gruppo statuario é opera di Carlo Rubatto ( Genova 1810- 1891 ) artista che si formò frequentando L’ Accademia delle belle Arti di Genova per poi completare i suoi studi a Firenze, pur restando sempre fedele allo stile neoclassico, in epoca matura permeò le sue opere d’una vena di romanticismo, stile che nella seconda metà del XIX secolo s’era imposto prepotentemente perché più gradito alla ricca borghesia committente.
Cornigliano é un quartiere di Genova che si trova in periferia a circa 7 chilometri dal centro città, acquisì notorietà internazionale solo quando crollò la campata centrale del ponte Morandi, prima di questo terribile evento che portò lutti e distruzioni, a nessuno sarebbe venuto in mente di farci una scampagnata o d’accompagnarci un visitatore, eppure qui, in un sito denominato “Boschetto” perché in esso era una folta vegetazione, la famiglia nobile dei Grimaldi fece costruire nel 1311 una piccola chiesa dedicata a san Nicolao, chiesa che insieme ad una casupola fu donata ai benedettini anni dopo, i quali nel 1502 realizzarono in sito una chiesa in stile gotico rinascimentale, un’abbazia ed un hospitale per dar ristoro ai pellegrini che attraversavano quei luoghi diretti alla città di Roma. Il complesso di San Nicolò del Boschetto crebbe e prosperò stante che le famiglie dei Grimaldi, dei Doria, dei Lercari e degli Spinola decisero di seppellire qui i loro illustri antenati in sarcofagi marmorei, alcuni dei quali ancor oggi visibili, poi iniziò il periodo della decadenza quando nel 1747, durante la guerra di secessione austriaca, le truppe d’ Austria occuparono la chiesa danneggiando il complesso e le opere d’arte in esso contenute, le leggi emanate da Napoleone, nel primo decennio dell’ottocento, gli diedero il colpo mortale, i benedettini furono mandati via, l’abbazia fu espropriata ed adibita in parte a fabbrica ed in parte ad abitazioni, infine il complesso acquisito dai Delle Piane fu nuovamente riconvertito in chiesa ed abbazia nel 1870, dal 1960 é sede della Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione, oggi é visitabile in giornate dedicate, all’ interno della chiesa, oltre che le tombe di cui ho parlato, è interessante visitare l’antica cappella dove erano conservati i ” Teli Della Passione di Cristo “, questi interessantissimi manufatti, oggi non più in loco, sono conservati all’ interno del museo Diocesano di Genova, questi capolavori costituiscono un unicum perché la loro caratteristica peculiare é che furono realizzati nel cinquecento in ” Blue de Genes ” di spesso lino, praticamente in tela Jeans dipinta con tocchi di biacca che esaltano le figure e la drammaticità delle scene rappresentate, lo spettatore rimane veramente impressionato sia dalla bellezza dei dipinti, sia dalla sapiente ambientazione nella quale sono stati collocati.
Nel XVIII secolo Genova divenne uno dei centri più rinomati per la produzione di statuine lignee del presepe insieme a Napoli. Le caratteristiche strutturali dei personaggi costituiti da manichini lignei snodati, scolpiti, dipinti solo nelle parti a vista e rivestiti con abiti di tessuto povero o ricco a seconda dei ruoli interpretati, ci fanno pensare che esistesse una vera e propria catena di montaggio nella quale erano coinvolti scultori, pittori, intagliatori, sarti e ricamatori. La tipologia dei volti dei personaggi era volutamente ripetitiva nel rispetto dei diversi ruoli interpretativi fissati dalla tradizione, da questo si evince una semplificazione a livello progettuale, così come ben evidenziato dalla Galassi nel suo scritto “Artefici e Collezionisti dei presepi genovesi”, per cui le tipologie venivano riproposte e replicate con minime varianti, così abbiamo il mendico, il soldato penitente, il pastore con il suo gregge, il nobiluomo, lo storpio e la contadina oltreché gli artigiani con le loro botteghe, e i ” besagnini”. Non ci sono pervenuti documenti che attestino in quali botteghe o atelier vennero prodotte queste statuine, peraltro é plausibile pensare che anche le prestigiose come quella del Maragliano abbiano prodotto statuine presepiali realizzate dai suoi collaboratori. Più tardi Pasquale Navone, (Genova 1746 -1791 ) non allievo del Maragliano perché nato dopo la sua morte, certamente realizzò splendide statuine presepiali che ancora oggi si possono ammirare in molti presepi allestiti nelle chiese genovesi.
Nel 1974 nacque un’associazione che si propose di preservare e valorizzare gli aspetti paesaggistici e culturali di Pentema, un paesino sorto sulle pendici del monte Prelà a 839 metri d’altitudine del quale si hanno notizie sin dall’anno 1453. Nonostante la relativa vicinanza con la città di Genova ( circa 45 Km. ), date le difficili per non dire pessime vie di comunicazione, gran parte dei Pentemini emigrò cercando lavoro e fortuna altrove, sino a che il paese, quasi completamente disabitato, cadde nell’oblio dei più. A Genova c’era un detto per quelli che ignoravano i fatti più eclatanti : ” Ma da dove vieni? da Pentema?”. Quanto sopra, peraltro, consentì a questo paesino frazione di Torriglia di conservare e mantenere quasi inalterate le proprie antiche caratteristiche urbanistiche, le case in pietra sono addossate le une alle altre ed intervallate da ripide “creuze” di acciottolato. Nel 1995, da un’idea del parroco don Pietro Cassulo, fu allestito nel periodo natalizio un presepio coinvolgendo l’intero paese nel quale fu ricreato un ambiente di vita contadina dell’ottocento. L’epoca storica viene rappresentata mediante un’attenta ricostruzione di quelli che erano gli ambienti e i mestieri del paese che nel rigido periodo invernale aveva bisogno d’essere autosufficiente perché completamente isolato dalla neve. Questo paesino dell’entroterra genovese sorse forse da fuggitivi dato che, le soldataglie dei vari eserciti contro i quali combatté nei secoli la Serenissima Repubblica Genovese, dove arrivarono, portarono lutti e miseria, depredando ed uccidendo gli abitanti dei borghi genovesi. Il presepe di Pentema é veramente imperdibile, L’ epoca storica viene rappresentata in circa 40 scene con i personaggi esposti che sono a grandezza naturale e vestiti con i panni del XIX secolo, collocati nei punti del paese dove realmente hanno vissuto e lavorato. Quest’ anno, per la pandemia in atto, il presepe non è stato allestito…. un vero peccato.
Il lungomare Lombardo é una creuza che aggira l’antica abbazia di San Giuliano costeggiando parte della spiaggia omonima dove sono numerosi stabilimenti balneari ed un tratto di spiaggia libera. Questa pittoresca viuzza è da un ventennio deturpata da un cantiere edile abbandonato, che fu predisposto per completare i restauri della chiesa dell’abbazia, ultima testimonianza degli edifici religiosi che anticamente erano sparsi lungo il litorale dedicati ai santi Nazario e Celso, San Vito, Santa Giusta e san Luca d’ Albaro ora non più esistenti. Le istituzioni giocano a scarica barile e intanto tutto resta fermo, immobile, nessuno riesce a trovare una soluzione per uscire da questa incresciosa situazione e le persone che passano di lì mugugnano e scuotono la testa consolandosi guardando una casetta di legno prospicente al mare che dipinge di poesia questo pezzetto di Genova.
Genova fu una delle piazze principali del Mediterraneo per la compravendita degli schiavi sino alla fine del 15° secolo quando il monopolio della tratta degli schiavi passò ai portoghesi, ma andiamo con ordine, il commercio alla grande di umana mercanzia iniziò con la prima crociata a cui parteciparono i genovesi capeggiati da Guglielmo Embriaco nell’11° secolo, i crociati genovesi, mettendo a sacco le città ottomane, accumularono grandi ricchezze e schiavi catturati ai loro padroni, le donne venivano messe nelle cucine a fare le sguattere o nei campi come contadine e gli uomini incatenati ai remi delle galee sino a che morte non li separi, morte che di norma avveniva dopo due o tre anni per le fatiche e le violenze a cui erano sottoposti, successivamente Genova, divenuta potenza marinara di tutto rispetto, cominciò ad aprire fondaci e colonie nel Mediterraneo orientale e tra queste Caffa sulla penisola di Crimea nel mar Nero divenne il centro di smistamento degli schiavi slavi ( russi, circassi, magiari etc. ) che a Genova furono sempre preferiti ai neri per la loro pelle chiara, i capelli biondi e gli occhi azzurri. Arriviamo quindi alla fine del 13° secolo quando un navigatore genovese Lanzarotto Maloncelli riscoprì le isole Canarie, conosciute nell’antichità, ma delle quali s’era persa memoria, sbarcando su un’isola ( Lanzarote ) che poi prese il suo nome, qui viveva una pacifica e mite popolazione detta dei ” Guanci” che divenne facile preda degli spregiudicati navigatori che la schiavizzarono e la vendettero sui mercati spagnoli e genovesi. Il periodo più florido per questo turpe mercato per Genova fu il 15° secolo, la città diventata una potenza finanziaria ad altissimo livello, forte dell’alleanza con il regno di Spagna, man mano che quest’ultimo conquistava le città spagnole cacciandone gli arabi, i mercati si riempirono degli schiavi sottratti ai loro padroni, questi comunemente venivano chiamati “Mori” . Gli schiavi non venivano solo comprati dagli aristocratici ma anche dagli artigiani e dai commercianti abbienti, si stima che ci furono momenti in cui gli schiavi a Genova raggiungessero una percentuale del 10% della popolazione. Quando l’impero ottomano riconquistò i territori d’oriente e Genova perse le sue colonie, il flusso degli schiavi invertì la rotta e cominciarono ad arrivare gli africani, vi sono vari dipinti che mostrano membri delle famiglie nobili di Genova accompagnati da schiavi neri come quello dipinto da Van Dick che ritrae Elena Grimaldi Cattaneo ed il suo schiavetto ora esposto nella National Gallery of Art di Washington. Bisogna dire che normalmente, essendo “merce preziosa”, a Genova gli schiavi di casa venivano trattati abbastanza bene, peraltro gli statuti della città non prevedevano alcuna pena o sanzione per il padrone che abusava del diritto di punire lo schiavo di sua proprietà ( ius corrigendi), basta che non usasse armi da fuoco o da taglio, poteva frustarlo o bastonarlo a piacere sino a tramortirlo. Persino Iacopo da Varagine autore della “Legenda Aurea” , teologo domenicano e vescovo di Genova considerava lecito punire con catene, digiuni e bastonate lo schiavo riottoso dato che nella Bibbia ( Ecclesiastico 42, 1-5) si afferma che non bisogna farsi scrupolo di far sanguinare il fianco d’un pessimo schiavo….. alla faccia dell’amor fraterno predicato nel cristianesimo.
San Francesco in estasi – basilica di Santa Maria Assunta di Carignano ( Genova )
Prima che Gian Luigi Fieschi ordisse la famosa congiura per liberare la città di Genova dallo strapotere dei Doria, la famiglia nobile dei Sauli, residente sulla collina di Carignano, usava la chiesa dei Fieschi , da loro poco lontana, per assistere alla celebrazione della messa domenicale, orbene, un giorno una dama Sauli mandò ai Fieschi un valletto chiedendo che ritardassero la funzione religiosa perché non era ancora pronta per uscire e pare che i Fieschi le abbiano risposto: ” Se vuoi fare i tuoi comodi costruisciti una chiesa per conto tuo”. Pare che da questo sgarbo sia nata l’iniziativa da parte dei Sauli di costruire una basilica che, con la sua magnificenza, avrebbe fatto crepare d’invidia quei maleducati dei Fieschi. Per il progetto fu incaricato Galeazzo Alessi da Perugia, i lavori iniziarono nel 1552 e si protrassero per molti anni, per la sua realizzazione furono spesi più di 100.000 scudi d’oro, grandi artisti dell’epoca, furono chiamati per abbellirla e tra questi un pittore emiliano Giovan Francesco Barbieri più noto con il suo soprannome ” Guercino ” ( Cento 1591 -Bologna 1666) che dipinse una pala d’altare con uno splendido San Francesco. Risultando la pala troppo piccola per il sito dove doveva esser posta, fu chiamato il pittore genovese Domenico Piola per dipingere gli sfondi, all’attento osservatore non può sfuggire questa extension che peraltro fu realizzata con rara perizia.
Nell’anno del Signore 1659 quando i Gesuiti di Genova acquistarono dai De Franceschi la villa patrizia di loro proprietà per farne la loro casa madre, la prima cosa che fecero fu cercare di cancellare per sempre gli affreschi che decoravano il piano nobile di questa dimora, i dipinti realizzati da Andrea Semino nel 1559 ( Genova 1526 – 1594 ) e dalla sua bottega, si ispiravano ad episodi della storia romana ed alle” Metamorfosi ” di Ovidio. I seguaci di Sant’Ignazio da Loyola, con feroce determinazione, cercarono, come detto, di distruggerli tutti ritenendoli osceni perché contrari alla morale ed alla fede cristiana. Passarono gli anni ed il complesso dei Gesuiti intitolato a Sant’Ignazio crebbe in spazi e volumi arricchendosi d’una chiesa e d’un seminario, poi arrivarono le riforme napoleoniche con la soppressione degli ordini religiosi ed il complesso si trasformò in caserma. La seconda guerra mondiale, con i bombardamenti che seguirono e la parziale distruzione dell’edificio, sembrarono scrivere la parola fine a questo sito ridotto in rovina. Nel 1986 il Comune acquisì quest’area per poter custodire in questo edificio l’ Archivio di Stato di Genova con i suoi tesori cartacei ed incominciò a predisporre una serie di imponenti lavori di restauro, fu a questo punto che sotto numerosi strati d’intonaco furono rinvenuti in alcuni saloni del piano nobile gli affreschi che tutti ritenevano perduti per sempre. Quello mostrato nella foto rappresenta il ratto delle Sabine da parte dei romani. Lo stile del Semino si concentra sugli aspetti salienti della narrazione pittorica trascurandone i dettagli, è uno stile semplice e sobrio dal quale si evince la sua formazione dal manierismo toscano.
Il culto per questa santa vergine, martirizzata a Catania sotto l’ imperatore Decio nel III secolo, fu portato a Genova da tempi immemorabili, la sua chiesa ed il convento sorto nella zona di San Fruttuoso, sono citati in atti notarili sin dal 1191 come “Ecclesia de capite pontis Bisannis”, qui oltre il convento, esisteva anche un ospitale per dar rifugio e ristoro ai pellegrini che percorrendo l’ antica via romana si recavano in pellegrinaggio nella Città Eterna; al convento si accedeva attraverso un archivolto ancora esistente sul quale è leggibile un affresco raffigurante sant’Agata al centro ed ai lati San Fruttuoso di Tarragona e sant’Antonio, nelle vicinanze vi sono due delle 28 arcate del ponte di Sant’Agata murate ma ancora ben visibili, il ponte di sant’ Agata, quasi completamente distrutto dalle devastanti piene del Bisagno, originariamente partendo da Borgo Pila arrivava proprio vicino alla chiesa omonima per una lunghezza di 280 metri. La chiesa ospitò nei secoli le monache cistercensi, poi le canoniche Lateranensi, poi gli Agostiniani sino alla soppressione degli ordini religiosi quando cadde la Repubblica Aristocratica di Genova nel 1797. Il complesso monastico con la sua chiesa acquistato dalla famiglia Pedemonte nel 1827 fu ceduto alle Maestre Pie di Sant’Agata che lo abitano ancora oggi e vi gestiscono una scuola dell’infanzia. Anticamente intorno alla mura del complesso erano numerosi abbeveratoi oggi non più esistenti, perché nella festa dedicata alla santa era d’ uso portare il bestiame per farlo benedire, da lì si sviluppò una fiera che ancora oggi è tradizionalmente la più amata dai genovesi.
la Chiesa di Sant’ Agata ed il suo campanile si presentano oggi in forme secentesche perché furono molte volte ricostruiti a seguito dei danni derivanti dalle devastanti piene del Torrente Bisagno.
A Genova la stagione balneare è cominciata, molti genovesi, nonostante la paura per il contagio del covid 19 e le norme che prescrivono il distanziamento sociale, non rinunciano ad una giornata da trascorrere in spiaggia con gli amici. I cinghiali del parco del Peralto, nel loro piccolo, dopo questo periodo di quarantena che ci ha costretti a stare in casa, si sono fatti più audaci, c’è chi li ha visti passeggiare in via Corsica nell’elegante quartiere di Carignano, chi davanti alla stazione Brignole ed in innumerevoli altri posti della città. Quelli che ho fotografato io, per sfuggire alla calura incipiente, hanno preferito spiaggiarsi sulle rive del Torrente Bisagno all’altezza del ponte Serra, è un’intera famiglia composta da un grosso maschio e da una femmina con numerosa prole, che ogni tanto la rincorre per attaccarsi alle sue mammelle, i passanti incuriositi li guardano dall’alto ma questo non sembra infastidirli , anzi gli esemplari adulti ricambiano gli sguardi e sembrano dire: ” Mi hai portato niente da mettere sotto i denti?”.
La via San Sebastiano di Genova è un vicolo che da Via Roma arriva in Piazza Rovere. Rispetto alla trafficata via Roma, strada per antonomasia destinata allo shopping di lusso, la via San Sebastiano è un oasi di tranquillità, non vi sono negozi lì se non qualche vetrina, il moderno City Hotel della catena Best Western ed un locale dove la sera si può gustare un apericena coi fiocchi. Due secoli or sono la Via San Sebastiano era un posto frequentato da bohémiennes, da artisti e musicisti perché ad un tiro di schioppo c’era e c’è ancora il teatro dell’opera intitolato al re sabaudo Carlo Felice. Non ci risulta fosse lì un posto dove far cultura, quelli erano tutti ubicati nei caffè di Galleria Mazzini che a quel tempo fungeva da foyer per il grande teatro neoclassico, in via San Sebastiano c’era invece una trattoria che si chiamava ” Tulidanna” dove si mangiava bene e si spendeva poco. In una fredda sera invernale del 1841 un giovane compositore dal nome di Giuseppe Verdi sedeva tristemente ad un tavolo di questa trattoria con tra le mani una tazza di brodo di trippa, la teneva stretta per potersi scaldare ed intanto probabilmente pensava a come la vita sino ad allora era stata crudele con lui, il successo professionale tardava ad arrivare ed in poco tempo l’angelo della morte s’era portato via sua moglie ed i suoi due figlioletti. L’ opera che aveva presentato a Genova “Oberto conte di Bonifacio” s’era rivelata un flop di pubblico e critica, così il Nostro, rabbrividendo nel suo paltò, si fece portare una seconda tazza di brodo di trippa che non avrebbe certo lenito il dolore per l’avverso destino, ma almeno gli avrebbe scaldato le mani e lo stomaco. A Genova la trippa in brodo ha una tradizione molto antica che risale al 1479, la chiamavano “Sbira” , il nome deriva dal fatto che era il piatto forte dei birri o sbirri che dir si voglia.
Gino Coppedè ( Firenze 1866 – Roma 1927 ) fu certamente un artista eclettico, il suo stile architettonico talvolta coincise con lo stile dell’ art nouveau, ma molte volte si ispirò al gotico fiorentino del ‘400. Il Nostro arrivò a Genova nel 1890 chiamato dal’eccentrico Evan MacKenzie per il quale costruì l’ omonimo castello in piazza Manin. Dopo quest’opera grandiosa, avendo avuto numerosi incarichi, si trasferì a Genova con la sua famiglia dove restò per quasi tutto il resto della sua vita. Numerosi sono gli edifici da lui progettati, una di queste caratteristiche costruzioni si trova sul lungo mare di corso Italia a monte della spiaggia di San Giuliano contraddistinta dal numero civico 26, la villa Canali Gaslini. La villa, una delle sue ultime opere genovesi, fu costruita sopra un poggio per la famiglia Canali che aveva acquistato dai Raggio un vasto terreno edificabile prospiciente al mare, in un secondo tempo l’edificio fu acquistato dai Gaslini, industriali in campo oleario, che per lascito testamentario, quando morì l’ultima discendente della famiglia, lasciarono alla Fondazione Gaslini la casa che divenne così la sede della Fondazione dell’omonimo istituto da loro fondato, una delle eccellenze mondiali in campo pediatrico.
Passeggiando nel centro storico di Genova, se capitate nel sestiere della Maddalena, uno stretto vicoletto da via Luccoli vi condurrà in Piazza Lavagna, la Piazza deve il suo nome alla famiglia dei Lavagna che evidentemente qui dimorarono. Anni fa questo luogo era in cattivo stato di conservazione, spazzatura buttata abrétio ( rinfusa ), donne che esercitavano il mestiere più antico del mondo e muri fatiscenti, c’era però una grande bancarella dove si vendevano cose vecchie, cose antiche e grandissime fregature che dava colore al sito. Oggi la piazza è meta della movida notturna dei genovesi, specie nelle sere d’estate, perché vi sono locali e bistrot dove si possono gustare aperitivi e apericene. Passeggiando in piazza vi capiterà di passare davanti al portone del civico numero 4 qui vi è un soprapporta in marmo con sopra scolpito Regina Mater Serenissima protege nos dedicato alla Madonna, sormontato da un’edicola sacra con un gruppo statuario mutilo che rappresentava la Madre di Dio con Gesù ed un san Giovannino, dico rappresentava perché la statua della Madonna non c’è più, di lei son restate le mani una delle quali stringe il corpo di Gesù bambino e l’altra è appoggiata alla schiena di San Giobatta, questa è un’iconografia comune, anche nella pittura, nelle rappresentazioni sacre realizzate a Genova e non solo, ma la cosa che mi colpì di più, sin dalla prima volta che lo vidi, fu l’ antica fattura del piccolo gruppo statuario in stile gotico che daterei al XIV secolo, allora cosa ci fa lì una scultura che ha più di 600 anni? è un mistero…la risposta più ovvia sarebbe che l’opera proviene da altro sito e lì fu posta da tempo immemorabile, anche la scritta sotto la scultura è intrigante:” LUX OPTA EST IVSTO” che significa: ” La luce ( intesa come verità ) è desiderio dei giusti.
Bocadase paise de foa, mi sòn inamoòu de ti ma no solo da òua ma da sempre, ma te lo pròpio da dì, te lo pròpio da rénde questo servìcio? ma se o san tutti, anche o Bixiou o pescou che da anni cénto? o se ne sta lì areixòu sensa di na paròlla in scia miagetta da teu spiagetta. Bocadase t’è bella con e teu barche pìnne de tinte con e teu casette un po stinte da prezépio cacciè lì abbretio, chi ven da ti no se n’andieiva ciù via, l’ommo stanco o respia, rapìo, estaxio, o se ne resta lì davànti a-o teu serén e-a o teu mà che o ghe voè ben.
( da un manoscritto di Ernesto Beraldo storico, araldista e poeta ritrovato in soffitta )
Traduzione per i foresti ( forestieri )
BOCCADASSE
Boccadasse paese di favola io mi sono innamorato di te ma non solo da adesso ma da sempre, ma te lo devo proprio dire, te lo devo proprio fare questo servizio? ma se lo sanno tutti , anche Bixiou il pescatore che da anni, cento ? se ne sta lì accovacciato senza dire una parola sul muretto della tua spiaggetta . Boccadasse sei bella con le tue barche piene di tinte con le tue casette un po stinte da presepio buttate lì alla rinfusa. Chi viene da te non se ne andrebbe più via, l’uomo stanco respira, rapito, estasiato, se ne resta lì davanti al tuo sereno ed al tuo mare che gli vuole bene.
A pochi minuti d’auto dal centro della città di Genova, in un ambiente naturale in cui ritroviamo la flora tipica dei paesi che si affacciano sul mar Mediterraneo, lontano dal rumoreggiare della città, è il Parco delle Mura. Il toponimo si riferisce al fatto che entro il Parco vi sono le cosiddette Mure Nuove, quelle costruite a difesa della città nel XVII secolo. Il Parco comprende nei suoi 617 ettari di territorio collinare anche fortilizi costruiti tra il XVII secolo ed il XIX secolo abbandonati da molti anni, che si sono perfettamente integrati nel paesaggio talora selvaggio che li circonda, qui oltre ad alberi secolari ed a paesaggi mozzafiato, si possono incontrare animali come i cinghiali ed i caprioli. Nelle giornate in cui soffia la tramontana ed il cielo ha il colore del blu indaco è bello percorrere questi antichi sentieri dove gli unici rumori sono lo stormire dei rami mossi dal vento ed il canto degli uccellini che frullano tra le fronde dei pini.
In Genova, a metà della via Balbi si trova uno dei più bei palazzi nobiliari della città, appartenuto ai Balbi che lo fecero costruire verso la metà del XVII secolo e poi alla famiglia Durazzo che lo acquisì alla fine del ‘600, infine fu acquistato dai Savoia nella prima metà del XIX secolo per adibirlo a sede di rappresentanza, da quel momento fu detto “Palazzo Reale”. In questa splendida dimora, oggi museo, si possono ammirare ambienti che hanno resistito ai danni inferti dalla guerra e dal tempo e che ci fanno capire quanta ricchezza dovesse albergare nel patriziato genovese, c’era un detto antico che diceva l’oro d’America passa dalla Spagna e poi viene sepolto a Genova. Nel Palazzo Reale c’è un ambiente che veniva chiamato la ” Gallerietta ” per distinguerla dalla splendida “Galleria degli Specchi”, oggi prende il nome dalla piccola cappella a cui si accede dalla galleria. Da questo ambiente centrale si dipartono le due ali simmetriche del palazzo, gli arredi sono una indovinata fusione tra quelli secenteschi dei Balbi e quelli settecenteschi riferibili ai Durazzo. L’ affresco della volta fu realizzato nel 1654 dal pittore genovese Giovanni Battista Carlone (1603 -1680) rappresenta Giove, il re degli dei dell’Olimpo, che invia sulla terra Astrea che, secondo la mitologia greca, era una dea rappresentante la giustizia scesa dal cielo con sua sorella Pudicizia nell’età dell’oro; nell’ età del bronzo, disgustata da come gli uomini si comportavano, ritornò in cielo insieme a sua sorella ed oggi la possiamo vedere nelle notti stellate nella costellazione della Vergine. Fosse stata inviata sulla terra ai nostri giorni probabilmente non avrebbe neppure disfatto le valigie e se ne sarebbe tornata da Giove alla velocità della luce.
Molte parole in lingua genovese hanno un’origine araba o turca, per esempio “camallo” ( lavoratore portuale ) deriva dal’arabo hamal ( facchino) , “Ramaddan” (baccano) deriva dal Ramadan islamico che come tutti sanno comporta il digiuno diurno e le riunioni conviviali la notte, ” Gabibbo” ( un forestiero proveniente dal sud ) dal’arabo Habib che significa amico, ” Macramè ” ( asciugamano) da Maqrama che ha lo stesso significato, “Zibibbo” ( uva passa ) da Zabib, etc. etc. sino ad arrivare allo “Scucuzun” che deriva dal famoso piatto magrebino Kuskus, una delle paste più usate a Genova per le zuppe ed i minestroni. Forse ha mediato il suo nome per il fatto che con la sua forma sferica più piccola d’un cece ed il suo colore ricorda lontanamente questa pietanza africana. Lo Scucuzun viene anche usata come pasta per piatti freddi, personalmente a me piace nel passato di verdura o nel minestrone, unico accorgimento fatelo bollire a parte per 5/10 minuti prima di unirlo al brodo in modo che sia ben cotto perché se no rischiate di trovarvi in bocca dei balìn da sccieuppo. ( pallini da fucile)
A Genova, passeggiando lungo il cammino di ronda delle antiche mure delle Grazie, ad un certo punto si arriva in Piazza delle Grazie, qui è stato posto un gruppo scultoreo realizzato da Guido Galletti ( Londra 1893 – Genova 1977) dedicato a Padre Santo. Questo frate cappuccino al secolo Giovanni Croese, prese il nome di Francesco Maria da Camporosso, paese in provincia d’ Imperia che gli diede i natali, fu frate laico cappuccino questuante, nato nel 1802 e morto durante un’epidemia di colera nel 1866. Padre Francesco Maria da Camporosso fu ribattezzato Padre santo dalla gente del porto dove assisteva le famiglie dei marinai indigenti e quelle degli immigrati in America, lo si vedeva aggirarsi per i vicoli più sordidi indossando per 45 anni sempre lo stesso saio rattoppato sino all’inverosimile e scalzo sia d’estate che d’inverno, come cibo pare si accontentasse d’una pagnotta di pane raffermo intinta in acqua calda, severissimo con se stesso, mortificava il suo corpo dormendo su dure assi di legno e facendo continue penitenze, famosissimo per suoi atti d’altruismo, amava i poveri e da essi era riamato così tanto che alla sua morte fu fatta una colletta tra il popolo e gli fu dedicato questo monumento a sua perenne memoria. Nel 1911 le sue spoglie mortali furono traslate dal cimitero di Staglieno al complesso conventuale della S.S. Concezione in cui trascorse quasi tutta la sua vita, fu allora che con gran meraviglia si accorsero che il suo corpo era incorrotto. Oggi riposa in una teca di vetro in una cappella del convento, chi vuole può andare a vederlo e recitare, se credente, una preghiera. Papa Giovanni XXIII lo proclamò santo nel 1962. A titolo di curiosità in Genova sono custoditi i corpi incorrotti di tre santi e di un beato.
Il grattacielo di Genova per antonomasia è quello progettato da Marcello Piacentini e dal’ ingegnere Angelo Invernizi inaugurato nel 1940, fu uno dei primi grattacieli d’Europa con altezza superiore ai 100 metri e con struttura in cemento armato. Quando ero ragazzo sulla sommità c’era la mitica ” Terrazza Martini” dove il barman Agostino preparava dei coctail supercalifragilistichespiralidosi, io che ho avuto la fortuna di frequentare assiduamente la Terrazza negli anni ’60 del secolo scorso, ho avuto anche la possibilità di vedere l’ arredamento originale progettato da Tomaso Buzzi ( Sondrio 1900 – Rapallo 1981) celebre interior designer che fu dagli anni 30 agli anni 40 del ‘900 uno degli architetti ed arredatori più ricercati dall’alta borghesia lombarda. Nella Terrazza Martini di Genova fece costruire una nave in legno simile ad un vascello disalberato dove si poteva conversare, fumare ( a quel tempo era consentito) nonché gustare il famoso dry Martini mescolato non agitato reso famoso, tra l’ altro, dagli scritti di Jan Fleming. Oggi la Terrazza si chiama “Colombo” degli arredi originali non c’è più nulla, il vascello, che caratterizzava questo posto incantevole, pare sia stato smontato e buttato in una discarica” Sic transit gloria mundi” , peccato è un altro pezzetto del nostro passato che è andato inesorabilmente perduto.
Il quartiere di Quezzi ( Queci in lingua genovese) certamente esisteva già prima dell’anno 1000, s’era formato nella parte alta della valle del rio Fereggiano alimentato dai torrenti Molinetto e Finocchiara. L’abitato originariamente era sorto intorno alla chiesa della Natività di Maria Santissima nota sin dal XII secolo, le fonti ci dicono che nel XVII secolo in sito erano 250 fuochi e che gli abitanti di Quezzi ghibellini mal sopportavano quelli di Marassi che da guelfi parteggiavano per il papa, questa rivalità spesso si tradusse in aspre contese che portarono gli abitanti di Quezzi nel 1300 ad erigere una torre di difesa in prossimità della loro chiesa, torre poi trasformata in campanile. Durante il restauro di questo tempio è stato ritrovato un manoscritto redatto dal campanaro Giovanni Battista Santagata con 45 sonate di campane, manoscritto che era stato dimenticato negli archivi parrocchiali e che costituisce un unicum per le chiese del genovesato, nel 2006 Luca della Casa, un giovane campanaro, li ha utilizzati per un concerto. Le prime notizie d’una cappella intitolata a Sanctae Mariae de Queci sono state ritrovate in una bolla datata 1158 dell’ unico papa inglese che abbia mai rivestito la carica si san Pietro mr. Nicholas Breakspear che prese il nome di Adriano IV. La chiesa, rifatta quasi completamente nel 1788, ha al suo interno pregevoli opere d’arte purtroppo in cattive condizioni di conservazione tra le quali un dipinto di Bernardo Castello ed uno di Luca Cambiaso, grande artefice della stagione pittorica genovese del ‘500, modanati entro pregevoli cornici lignee dorate, la speranza è che in futuro possano entrambi essere restaurati e riportati al loro originale splendore. ( post dedicato al mio amico Sergio )
Tra i quartieri di Genova quello d’Albaro è da sempre considerato uno dei più chic, sin dal tempo in cui Alessandro Magnasco detto il ” Lissandrino ” perché minuto di costituzione ( Genova 1667- 1749) realizzò il celeberrimo dipinto “Trattenimento in un giardino d’ Albaro” custodito nel museo di Palazzo Bianco in via Garibaldi. Il toponimo d’Albaro pare sia dato dal fatto che il luogo è sito a est rispetto al centro di Genova, cioè da Alba ( arba in lingua genovese ) e Arbà è il nome del quartiere poi italianizzato in Albaro, lo storico G. Poggi afferma invece che il nome deriverebbe da ” raibà” che in italiano significa insenatura, esiste anche un’antica famiglia genovese che ha questo nome, ma storicamente non si sa con certezza se è la famiglia ad aver dato il nome al quartiere o viceversa. Tra le splendide ville che ancora oggi si possono ammirare in Albaro c’è Villa Cambiaso, lo stemma araldico di questa famiglia patrizia si può vedere scolpito sopra i pilastri che sostengono il cancello d’entrata a questa dimora prestigiosa, lo stemma mostra una scala sostenuta da due levrieri controrampanti sulla medesima. La villa edificata sulla collina d’ Albaro fu commissionata dal patrizio genovese Luca Giustiniani che nel 1548 affidò il progetto per la sua costruzione all’architetto perugino Galeazzo Alessi, questa fu la sua prima opera genovese a cui ne seguirono altre. La struttura cubica tripartita fu fonte d’ispirazione per altre ville fuori porta e per alcuni palazzi edificati in Strada Nuova ( ora via Garibaldi ), la proprietà restò ai Giustiniani sino al 1787 poi fu acquisita dai Cambiaso, oggi è sede del Politecnico dell’Università degli Studi di Genova. La villa Giustiniani Cambiaso originariamente era circondata da un grande parco che si estendeva sin quasi al mare. Il parco, di molto ridimensionato a partire dagli anni 30 del secolo scorso, esiste ancora ed è pubblico.
stemma della famiglia Cambiaso posto sui pilastri che reggono il cancello d’entrata della villa .
Sin dal tempo in cui Marassi fu comune autonomo, prima di essere fagocitato dal comune di Genova nel 1873, la popolazione marassina sentiva l’esigenza di dare un’istruzione adeguata ai suoi figli, all’ inizio furono le suore brignoline che acquistarono un vasto terreno che si estendeva da Piazza Galileo Ferraris sino in cima alla collina, più tardi il comune fece abbattere la vecchia scuola e nel 1910 fu posta la prima pietra della nuova scuola ultimata nel 1913 intitolata a Raffaele Lambruschini grande pedagogo genovese. Allo scoppio della prima guerra mondiale l’edificio fu trasformato in ospedale militare sino al 1923, data in cui l’edificio ritornò ad essere una scuola cambiando il nome in “Generale Cantore”. Passarono gli anni e si arrivò alla seconda guerra mondiale, l’edificio fu in parte bombardato e distrutto, la piazza fu requisita dai tedeschi e poi, dopo la loro resa, occupata dagli inglesi. Nel 1945, a guerra finita, la scuola fu ricostruita e nel 1956 furono costruite le due ali, mentre la parte centrale fu alzata di un piano, infine nel 1965 il suo nome cambiò nuovamente in scuola elementare Papa Giovanni XXIII. Nel 1954 un bambino di 6 anni fu accompagnato dalla sua mamma alla scuola Cantore, era il suo primo giorno di scuola e dentro il cuore aveva sentimenti contrastanti, curiosità e batticuore, ma soprattutto una paura indescrivibile di questo mondo sconosciuto che gli si apriva innanzi, quel bambino tremebondo e timidissimo ero io, mia madre cercò la mia maestra, Maria Casamassima si chiamava e mi affidò a lei, la ricordo come un angelo buono, anche adesso che siamo nel terzo millennio ogni tanto la penso ed ancora la ringrazio della pazienza e della gentilezza con la quale mi ha accompagnato nei miei primi due anni di scuola. Grazie maestra Maria.
P.S. Gli alberi della piazza Galileo Ferraris li ho piantati io insieme agli altri bambini della scuola Cantore nel 1956
Eminenti personaggi hanno proposto d’ intitolare il nuovo viadotto sul torrente Polcevera dedicandolo a Renzo Piano, che generosamente ha donato alla città il progetto di questo nuovo ponte semplice e bellissimo, al cantautore Fabrizio De André, a San Giorgio, uno dei primi santi protettori della città, all’Italia o a Genova, io mi permetto sommessamente di suggerire il nome di Samuele, il nome di quel bambino di otto anni che, nel disgraziato giorno in cui il ponte Morandi collassò, morì con negli occhi il desiderio di raggiungere il mare, per me questo nuovo ponte, nato dalla voglia di resurrezione di Genova e dei Genovesi, dovrebbe chiamarsi il ponte di Samuele.
Dopo la proclamazione della Madonna a Regina di Genova nel 1637, in città sorsero moltissime edicole entro le quali venne posta una statua rappresentante la madre di Cristo. Non c’era via, piazzetta o caruggio che mancasse di un’immagine della Madonna, molte di queste sono state sostituite da copie mentre gli originali sono conservati nel museo di Sant’ Agostino a Sarzano, ma qualcuna è ancora lì, sopravvissuta ai danni del tempo, dalle guerre e dagli atti di vandalismo, lì dove diverse centinaia d’anni fa la devozione popolare le aveva poste e ci guardano dall’ alto, ricordandoci del tempo in cui la fede aiutava a superare i momenti bui della nostra vita.
Nella foto edicola barocca posta in via dei Giustiniani rappresentante la Madonna immacolata in un ovale, la perfetta simmetria del manufatto lo datano al primo settecento.
Bogliasco è il primo comune che s’incontra partendo da Genova verso la riviera ligure di Levante, questo pittoresco paesino nacque alla foce del torrente omonimo dove spiagge pietrose si alternano a pittoresche scogliere. Il suo nome deriva dal fatto che anticamente il corso d’acqua veniva chiamato rio dei Bogli, nome che potrebbe derivare da boeggi (buchi in italiano) per la presenza di numerose pozze d’acqua lungo il suo percorso, mentre “asco” sarebbe invece un suffisso prettamente ligure. Questo ameno paese fu dominato dai bizantini, poi dai longobardi, dai franchi ed infine fece parte dei domini della Serenissima Repubblica Genovese, più volte fu messo a ferro e fuoco dai nemici di Genova fossero essi i pirati saraceni o i veneziani. Bogliasco oggi si presenta come un piccolo gioiello affacciato sul mare, così vicino ai marosi che pare da un momento all’altro voglia partire verso lontani orizzonti. Quando ero ragazzo, meta obbligatoria domenicale delle calde sere estive, era la gelateria Peruzzi dove preparavano “o’ paciugo” caratteristico gelato sormontato da una montagna di panna e sciroppo d’amarena, indimenticabile….
La catena difensiva posta alle spalle della città di Genova è formata da un’insieme di fortezze oggi abbandonate al degrado subito dal tempo e dagli atti di vandalismo. Uno di questi fortilizi è posto sulla collina dei Camandoli a 415 metri s.l.m. La costruzione risale alla metà del XVIII secolo quando Genova era minacciata dagli austro piemontesi, da sempre interessati ad avere uno sbocco sul mar Tirreno. Il sito dove fu costruita era detto ” Menegu” e la fortezza fu intitolata a Richelieu dal nome di Armand du Plessis de Richelieu maresciallo di Francia che al tempo era alleata con Genova. Il forte a pianta rettangolare è dotato di bastioni ancora in ottimo stato sui quali erano collocate delle artiglierie e poteva ospitare una guarnigione di 80 soldati, originariamente l’ accesso al forte era dotato di ponte levatoio. Oggi la fortezza non è più accessibile perché al suo interno è stato collocato un ripetitore della RAI, questo in parte ha consentito a questa storica costruzione di mantenersi pressoché integra perché i vandali non hanno potuto accedervi limitandosi a distruggere a pietronate lo stemma sabaudo marmoreo posto al suo ingresso.
La villa Durazzo Pallavicini, realizzata a Pegli (GE) per il marchese Ignazio Pallavicini nella metà del XIX secolo, è considerata uno dei parchi romantici più belli del mondo, fu concepita da Michele Canzio, scenografo del teatro Carlo Felice di Genova, come un’opera teatrale, il visitatore attraversandola compie un viaggio iniziatico che lo porta alla fine a raggiungere ” Il Paradiso “, qui è il regno di Flora e dei suoi giardini. La dea Flora è intesa come la divinità madre dell’ordine del mondo ed è rappresentata da una statua che sembra librarsi sopra i fiori collocata al centro del ” Viridario” che è il giardino personale della dea, dove essa coltiva le sue piante d’inverno per assicurare la continuità della vita sulla Terra. La dea Flora, immaginata come una silfide alata, fu realizzata dallo scultore Giovanni Battista Cevasco ( Genova 1817 -1891 ) esponente della corrente naturalista, artefice anche delle statue della primavera e dell’estate che si trovano poco distante.
Passeggiando senza una meta precisa nel centro storico di Genova, è inevitabile ad un certo momento ritrovarsi in via Garibaldi, già via Nuova detta Aurea per lo splendore dei palazzi che vi furono costruiti nel XVII secolo dalle famiglie dell’antica aristocrazia Genovese. Per poter costruire la strada furono rase al suolo un gran numero di casupole adibite a postribolo e occorse anche spianare una parte del monte Albano. Partendo dalla Piazza fontane Marose, all’inizio di via Garibaldi, c’è un vicolo chiamato del Portello perché conduce alla piazza omonima e lì al numero civico 2 c’è l’ antica pasticceria Villa rilevata dai Profumo nel 1968. Questo negozio incantevole fu aperto da Domenico Villa nel 1827 lì dove erano le scuderie dei Lercari, si quelli che hanno in via Garibaldi il palazzo con ai lati del portone due telamoni scolpiti da Taddeo Carlone senza i nasi, tanto per ricordare ai passanti che i Lercari era meglio non farli incazzare. Ritornando alla nostra pasticceria, il fondatore dell’attività, a quel tempo riservata alle classi più abbienti, Domenico Villa per l’appunto, l’aprì sotto la categoria Droghe e Coloniali, trasformandosi poi in rivendita e produzione di pasticceria. Entrando in questo regno dei ghiottoni, la cosa che colpisce immediatamente il visitatore sono gli arredi quasi tutti originali della prima metà del XIX secolo, così come il pavimento marmoreo, mentre le volte a crociera sono più antiche e riafrescate con motivi floreali nel periodo liberty. Negli scaffali son conservati recipienti in vetro con i dolciumi che hanno dato fama a questi mastri pasticceri : olive al cioccolato, marron glacé, cioccolatini ed ogni altro ben di Dio. Marco e Maurizio Profumo continuano la tradizione di famiglia. Qui tutto l’ anno potrete gustare il famoso pandolce genovese, un vero prodotto d’eccellenza ligure.
Nell’anno del Signore 1637, il doge di Genova, alla presenza del cardinale Gio Domenico Spinola, durante una funzione solenne celebrata nella cattedrale di San Lorenzo, consegnò alla Madonna i simboli del potere temporale della serenissima Repubblica e cioè la corona, lo scettro e la croce degli Zaccaria ( oggi conservata nel museo della cattedrale), da quel momento Genova divenne una monarchia seppure ci permettiamo di dire solo spiritualmente. Perché venne fatto ciò? Ebbene c’erano delle ragioni politiche che consigliarono l’aristocrazia genovese a fare questo escamotage, infatti nella prima metà del XVII secolo Genova rischiava di perdere i suoi antichi privilegi di fronte alla prepotenza ed allo strapotere delle monarchie di Spagna, Francia ed Inghilterra, con questo espediente i padri del Comune invece li rafforzarono poiché nessuno osò contestare questa investitura ne tanto meno criticarla, i detrattori avrebbero potuto passare per blasfemi. Da quel momento il grido di guerra dell’ antica repubblica cambiò ed al posto di : ” Pe Zena e pe San Zorzo ” ( per Genova e per San Giorgio ) fu gridato: ” Viva Maria “. Edicole mariane sorsero in tutti i quartieri della città ed alcune furono poste sulla sommità delle porte d’ingresso nelle nuove mura di difesa, la scultura mostrata nella foto realizzata da Bernardo Carlone nella prima metà del ‘600 originariamente era posta sopra la porta delle mura della Lanterna oggi è conservata nel palazzo di San Giorgio, sulla sua base è posta la significativa dicitura: “Posuerunt me custodem”.