L’Università degli Studi di Firenze riporta l’attenzione sul valore sociale e culturale dei boschi

Ecco come (non) viene gestito l’aumento delle foreste in Toscana

Negli ultimi anni si è affermata la volontà di lasciare che i boschi si “autoregolino”, favorendo un presunto ritorno alla naturalezza delle foreste. La proposta degli esperti è un’altra

[13 Gennaio 2022]

I dati 2021 dell’Inventario nazionale delle foreste e dei serbatoi forestali di carbonio lo mostrano chiaramente: in Italia i boschi rappresentano circa il 37% del suolo nazionale mentre la Toscana, quinta regione italiana per estensione, è coperta per metà da foreste.

Un recente studio condotto dall’Università degli Studi di Firenze ha evidenziato due rilevanti tendenze nella gestione e tutela del patrimonio boschivo regionale. Il primo dato è la notevole crescita delle foreste: nonostante l’innalzamento delle temperature e l’infittirsi degli incendi, tra i quali sembrano aumentare quelli dolosi, negli ultimi 80 anni l’estensione boschiva in Toscana è passata da 875,000 a circa 1,160,000 ettari.

I motivi di questa “rivincita” delle foreste sono svariati. Tra i principali, i ricercatori hanno evidenziato il sempre più frequente abbandono delle campagne e delle superfici una volta dedite all’agropastorizia, a favore della vita nelle pianure. Chi, infatti, fino alla prima metà del secolo scorso viveva all’interno o in prossimità della macchia, dagli anni ’50 del boom economico ha preferito dedicarsi ad attività più redditizie nei pressi delle città. Il risultato? Un progressivo abbandono di pratiche tradizionali di gestione forestale e il degrado di bosco e sottobosco in ampie zone della Toscana.

Il secondo trend altro non è che una conseguenza del primo. Secondo la ricerca, all’espandersi della superficie boschiva non è corrisposta una ripresa di pratiche culturali e sociali legate al bosco. In Toscana queste erano numerose e per la maggior parte legate all’antica pratica di selvicoltura− già diffusa al tempo dei Romani − del bosco ceduo.

Il governo del bosco a ceduo consiste nella gestione di boschi di latifoglie (oggi pari al 93% delle foreste toscane) attraverso il taglio periodico degli alberi, dai cui ceppi si rigenerano in brevi tempi nuove piante. Tra le pratiche che legano l’uomo agli alberi latifoglie risultano il taglio degli alberi per pascolo, del faggio per carbone e legna da ardere e dei castagni per la realizzazione di pali; la raccolta di ghiande per l’allevamento e di castagne e noci per il consumo umano.

In Toscana la perdita quasi totale di alcune di queste pratiche è legata spesso ad un fattore economico. Ne è emblema il caso dei castagneti, storicamente diffusi sull’Appennino centrale, oggi in declino a causa dei costi di raccolta e dello scarso rendimento economico.

«Con la scomparsa del valore economico del bosco ci dimentichiamo sempre più del suo valore culturale – spiega Martina Venturi dell’Università di Firenze – e purtroppo nei piani di sviluppo e gestione degli enti territoriali la sua valenza sociale e culturale viene presa in considerazione solo in relazione alle pratiche agropastorali».

È in declino, quindi, il riconoscimento dei nostri boschi come patrimonio non solo paesaggistico, ma anche culturale. La stessa pratica del bosco ceduo non è più vista di buon occhio, afferma la ricerca, e si annovera tra le conoscenze tradizionali considerate causa di degrado paesaggistico.

Negli ultimi anni si è affermata la volontà di lasciare che i boschi si “autoregolino”, favorendo un presunto ritorno alla naturalezza delle foreste. La proposta degli esperti è un’altra. L’idea del “bosco culturale” ci ricorda che gli alberi non sempre devono essere lasciati a loro stessi: i benefici di una gestione consapevole e rispettosa, in buona parte basata su conoscenze tramandate nei secoli, sembrano superare quelli del “bosco naturale”.

Un esempio è il ruolo dei boschi nella lotta al cambiamento climatico: «L’incremento boschivo è indubbiamente legato a un aumento della riserva di carbonio. C’è un però: piante molto vecchie e maltenute non avranno la stessa capacità di assorbimento di CO2 degli alberi giovani. Per questo colpisce questo semplice fatto: un uliveto assorbe più anidride carbonica di un bosco mal governato e trascurato», commenta Venturi.

Il suo appello è chiaro: «Non siamo più abituati a concepire la conformazione del paesaggio naturale come dovuta anche alla mano dell’uomo, sebbene questa sia la realtà. Per questo è necessaria una presa di consapevolezza maggiore del ruolo dell’essere umano in relazione alle foreste, che in nessun modo è slegato rispetto agli obiettivi diaccordi internazionali come il Protocollo di Kyoto».

La soluzione secondo Venturi c’è: «La sensibilizzazione, oltre che da parte degli stessi enti territoriali che promuovono ma non implementano ancora nelle normative l’importanza storico-culturale delle pratiche di gestione boschiva locale, dovrebbe iniziare – e non è una sorpresa− nelle scuole».

Maggiore attenzione alle tematiche ambientali in classe e rafforzamento del legame con il territorio sembrano quindi i punti sui quali continuare a investire, nel necessario riavvicinamento tra esseri umani ed eredità del mondo naturale.

di Anna Frosini – Università Ca’ Foscari Venezia, per greenreport.it