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L'intervista al tecnico Somma"Puntiamo alla serie A"

L'allenatore alabardato racconta la sua esperienza e i suoi obiettivi. Poi dichiara senza alcun timore: "Sento che Trieste è consapevole di avere i numeri per tornare a un ruolo da protagonista"

5 minuti di lettura
Mario Somma 
TRIESTE «Il mare è diverso un giorno dall’altro e la città di mare ha un passo diverso dalle altre. È più intraprendente, più frizzante. Il pensiero di chi la vive spazia verso l’orizzonte. Sento che questo è il mio ambiente». Ha preso casa a due passi dalle acque del golfo. E quando può si arma di canna, esche e ami. Momenti di relax tra una partita e l’altra, tra una seduta di allenamento e l’analisi al video del prossimo avversario. La storica sigla di «90.o minuto» come suoneria del telefonino è una traccia inequivocabile del lavoro che lo ha impegnato nel suo recente passato. Prima di prendere per mano, due mesi fa, la Triestina. «Fare il giornalista-opinionista è una grande esperienza. Quando smetto di fare l’allenatore mi rituffo in questo mestiere».

Mario Somma dà la sensazione di non essere arrivato in quest’angolo estremo dell’Adriatico solo per raddrizzare una Triestina barcollante. Non parla saggiamente di serie A, ma vuole lasciare una traccia importante. E pensa di poter vincere la scommessa a patto che tutta la città si stringa attorno all’Unione. Sarà il campo a fare da giudice inappellabile.

Quando lei si è presentato ha detto che da tempo avrebbe voluto allenare la Triestina. Perché?
«Quando arrivai a Empoli portavo un certo tipo di gioco nuovo per l’Italia. La prima partita in casa con l’Ascoli di Giampaolo vincemmo 2 a 1 in rimonta. La seconda partita fu Triestina-Empoli. Io sono solito comunicare la formazione alla squadra due giorni prima. Quella volta non me la sono sentita. Quando arrivai allo stadio Rocco, e venivo dai campi in terra battuta, mi guardai intorno, chiamai i quattro-cinque vecchi della squadra e gli chiesi: secondo voi è giusto giocare per non perdere o ce la giochiamo? Loro condivisero le emozioni che mi diede quello stadio. Dissi alla squadra oggi giochiamo a viso aperto. Vincemmo 4-3 in inferiorità numerica e fu una partita bellissima. Come fai a non rimanere legato a un ricordo come questo?».

Una questione emotiva dunque.

«Non soltanto. Nereo Rocco, per chiunque fa il tecnico di calcio, ha un fascino tutto suo. Ci sono degli allenatori, penso anche a Sacchi, che hanno lasciato un’impronta indelebile e quindi diventano per noi allenatori un punto di riferimento».

In due mesi cos’ha capito di questa città?
«Per quello che riguarda il mio mondo ho capito che c’è una gran voglia di uscire dall’anonimato. Sento che c’è il desiderio di tornare protagonisti nel calcio che conta».

Sono cinquant’anni che dal punto di vista calcistico la città non è protagonista. E questo si sente.
«Mezzo secolo di assenza dal grande palcoscenico sono un’eternità ma non è tanto questo. Latina, la mia città, non c’è mai stata su quel palcoscenico però qui ci sono tutte le condizioni. Mi riferisco al fatto che c’è lo stadio che te lo permette, la squadra che da tanti anni gioca in questa categoria, qui è venuta a giocare più volte la nazionale, c’è una società solida. Sento la consapevolezza che esistono gli elementi per i quali la città possa diventare protagonista. Insomma credo che tutti pensino: è arrivato il nostro turno. Questa mia sensazione si materializza quando al Rocco sempre più spesso i tifosi gridano ”tutti a Udine”. Questo è un segnale».

Lei ha cominciato dalla gavetta. Come le è venuto in mente di fare l’allenatore?
«Da giocatore sono stato un modesto pedalatore di categoria scadente. Non è che da calciatore io abbia fatto grandi cose. Però ci sono due passaggi importanti. Il primo è che in campo nei miei limiti sono sempre stato il punto di riferimento dell’allenatore. Poi quando sono arrivato anagraficamente a un’età matura con mia moglie ci siamo fatti una domanda: meglio un vecchio calciatore o un giovane allenatore? E lei, con la praticità tipica delle donne mi chiese quanto guadagna l’uno e quanto l’altro. Allora io dissi che un vecchio calciatore guadagna poco, un giovane allenatore anche ma in prospettiva i guadagni possono crescere di molto. La scelta era segnata».

Ma non ha avuto modo di trovare subito una collocazione.
«Dalla teoria alla pratica c’è un bel salto. Per sette anni ho sbattuto la testa a destra e a sinistra senza trovare collocazione da nessuna parte. Ho aperto una scuola calcio ma non mi sentivo adatto a quel lavoro nonostante alcuni buoni riscontri. Alcuni amici avvocati che avevano una squadra nel Campionato nazionale forense mi chiesero se ero disposto a giocare con loro come fuori quota. Risposi di sì ma solo a patto di poter fare anche l’allenatore. Da lì è iniziata la mia avventura. Dovevo tener desta l’attenzione e spiegare le cose a una ventina di avvocati. E ci riuscivo. In quel momento capii che sapevo comunicare. È una caratteristica fondamentale per allenare».

Non le pesa fare una vita da vagabondo?

«Questo è il lato negativo del mestiere. Cresce la famiglia, crescono i figli e tu non puoi condividere con loro questa esperienza. Io alla fine della gara torno sempre a casa. Però non basta e spesso ti rendi conto che perdi una grande ricchezza, un bene che non ritornerà mai più».

L’allenatore moderno è più insegnante, stratega, psicologo o motivatore?
«Serve molta, molta, molta psicologia, perché cambiano molto velocemente le generazioni dei calciatori che il tecnico ha a disposizione e ognuna ha le sue caratteristiche. Noi nella nostra squadra abbiamo Godeas e Hottor. Denis ha la sua età e le sue problematiche, Hottor ne ha altre. È chiaro che bisogna essere bravi a gestire uomini e ragazzi, ma non ce la fai da solo senza il supporto dello staff e della società».

C’è un allenatore che può essere considerato un maestro?

«Fare un nome è riduttivo. Ci sono stati ciclicamente allenatori che hanno fatto moda al momento. Scala, Zaccheroni, Sacchi, Zeman hanno fatto scuola. Nel 4-2-3-1 con gli esterni larghi, cosa che non faccio più come alcuni anni fa, penso di essere stato il primo a portare questa novità. Poi ci sono degli esempi come Mazzone, Trapattoni, Simoni che appartengono al calcio. Allenatori che sono il calcio, non la moda del momento. Tra i tecnici attuali il più bravo è Ancelotti. Lui riesce a creare un sistema».

E Mourinho?
«Se avesse partecipato ai nostri corsi a Coverciano sarebbe passato per l’anonimato, come tanti altri. È un grandissimo personaggio mediatico ma non è un esempio da prendere per potermi migliorare».

Quanto conta il lavoro dell’allenatore?

«Se hai una squadra già forte dal punto di vista caratteriale hai bisogno di un bravo tattico. Se hai invece una squadra tattica devi avere un allenatore che sappia dare motivazioni».

Qual è stata la sua medicina per risollevare la Triestina?

«Ho semplicemente trovato dei giocatori bravi ma sfiduciati. Non a causa della guida tecnica ma per una serie di risultati negativi. Io sono stato più fortunato di Luca Gotti. Lui ha avuto tanti infortuni quanti ne ho avuti io, ma io sono riuscito tramite alcune parate straordinarie di Agazzi a portare a casa una serie di risultati positivi. Anche noi abbiamo tanti infortuni. Comunque ho cercato di portare soltanto serenità».

Nella Triestina ci sono alcuni giovani, perché cerca di centellinare il loro impiego?
«Brosco è il sostituto naturale di Scurto che sta attraversando un momento eccellente. Quindi Brosco deve solo aspettare perché è già un giocatore maturo. Sa farsi rispettare e non ti accorgi che è un giovane. Siligardi è ragazzo che nel settore giovanile era sempre superiore agli altri. Questo lo ha un po’ penalizzato quando è passato in prima squadra. Gioca in funzione della palla e non dello smarcamento e della fase difensiva. Io sto lavorando su questo. Se impara, diventa un giocatore da Inter. Adesso era pronto e si è infortunato. Hottor è un capitolo a parte. Quando l’ho visto in condizione l’ho fatto giocare. Ma come tutti i giovanissimi non sempre è pronto fisicamente».

Quali sono le prospettive della Triestina?
«In questo campionato di serie B, dove c’è spazio per tutti, a parte il Torino che è più forte, tutti possono pensare in grande. Ma non basta che una sola componente funzioni. Ci vuole l’apporto di tutti: stampa, squadra, staff tecnico e medico, società, tifosi, istituzioni. Tutti devono remare dalla stessa parte. Se queste condizioni si verificheranno noi potremmo avere percentuali superiori agli altri di arrivare in alto. Possiamo essere tra le tre-quattro squadre che possono puntare a qualcosa di importante».
Mario Somma lascia la redazione, destinazione Opicina. Lì ci sono i suoi ragazzi. C’è da lavorare per il match con il Crotone. Questa settimana ci sarà poco tempo per pescare («tecnica alla bolognese: galleggiante e finalino leggero, dal molo. Una pesca comoda, facile da preparare»). Ma l’orizzonte del golfo orientato a Ponente sarà sempre davanti a Somma e alla città.
A pensare in grande non si fa peccato. Anzi, qualche volta aiuta.
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