Le Macchinazioni di Baret Magarian

Quando si ha a che fare con un libro di questo respiro, di questa ambizione, è necessario essere perentori: Le Macchinazioni di Baret Magarian, edito dalla casa editrice Ensemble di Roma nel 2019, è un libro importante. La sua importanza non risiede in una fortuna critica postuma, in un successo editoriale, fenomeni ancora da valutare in prospettiva, quanto piuttosto da una precisa volontà del suo autore.

Baret Magarian non si è affatto accontentato di raccontare la realtà sociale e storica nella quale viviamo e che ci pervade, ma ha provato a pensarla, a trasporla metaforicamente in un’opera letteraria, che non si arroga nessunissima pretesa descrittiva o sociologica, che non ricalca strutture interpretative preconcette sulle quali inserire il tessuto della narrazione. E per uno strano paradosso, mentre leggendo i romanzi che direttamente si rifanno a fenomeni sociali reali, a fatti storici, o a battaglie per i diritti e per l’uguaglianza facilmente riconoscibili, si ha sempre l’assoluta impressione di trovarsi davanti a una fiction, nel libro dello scrittore anglo-armeno, dove la fiction è dichiarata esplicitamente e orgogliosamente sin da principio, la realtà sembra plasmarsi in modo così vivido da risultare inquietante.

Leggere Magarian, provoca infatti la stessa inquietudine di leggere Kafka. Ed infatti entrambi gli autori rinunciano immediatamente ad avere qualsiasi attinenza stretta alla realtà e costruiscono un mondo di finzione letteraria sofisticato, quasi autoreferenziale. Ma mentre Franz Kafka nei suoi scritti denuncia l’aspetto burocratico-amministrativo della razionalità moderna e tecnologica, nella quale tutto viene catalogato, registrato, dossierizzato, e l’individuo ridotto alla sua funzione, Magarian si rivolge, per così dire, ad un altro “mito” fondatore della modernità, quello dell’homo faber. Tutto può essere fabbricato (non a caso il titolo originale dell’opera è The Fabrications) anche il successo, anche il motivo del successo stesso e questo perché l’essere umano è ormai libero dai vincoli della natura e di Dio. Infatti nel libro, il protagonista, Oscar Babel, viene artatamente “fabbricato”, prima da uno scrittore in decadenza Daniel Bloch e poi da un mago della comunicazione Ryan Rees, come un guru contemporaneo, una specie di profeta capace di impressionare una Londra cinica, eternamente distratta e in cerca di novità di cui parlare e messaggi ai quali aggrapparsi.

E se è vero che l’individuo moderno non può fare a meno “individuato”, ovvero catalogato, registrato, inserito in programmi, in forme di amministrazione del suo tempo attraverso il lavoro, l’etero-direzione del suo tempo “libero”, è altrettanto vero che, a partire da queste regole vigenti e necessarie, l’individuo moderno aspira continuamente alla sua emancipazione da esse, ad esserne l’eccezione che conferma la regola. Ambiguità irresolubile quella dell’individuo che subisce la logica pervasiva della burocrazia amministrativa che lo “individua”  e gli affida il compito, e quella dell’individuo come eccezione che si sottrae alla logica burocratica, affermandone al contempo la regola.

 

macchinazioni 1

Tutte le pratiche “individuali” del’uomo moderno si basano proprio sulle strategie di distinzione  delle norme burocratiche che vengono però ritenute necessarie, almeno per l’interazione con gli altri, con l’altro in quanto tale. In questa immanente ambiguità, l’individualismo si basa proprio su questo schizofrenico oscillare tra adesione pedissequa al sistema burocratico e strategie di emancipazione dalle sue morse. Il bisogno di star, di eroi moderni, di cantanti onnipotenti è dunque, se vogliamo mantenere vigente la logica di questa ambiguità, intimamente necessario all’individuo contemporaneo, come forma di immedesimazione e proiezione del suo desiderio di affrancamento, ma può esserlo solo in forma già burocratizzata. L’individuo la cui vita sottosta alle regole della burocrazia catalogante e onnipervasiva, avverte la star come un Dio dei tempi “moderni” che non sottosta alle regole burocratiche del mondo e per questo non è un individuo in senso stretto. Invece il cantante, la star del cinema, l’influencer di internet, non sono affatto fuori da questo sistema ma ne sono i garanti burocratici più potenti. Sono dunque dei “burocrati” con funzioni di colonizzazione dell’immaginario in un sistema di catalogazione e individuazione basato sulla produzione e il consumo. E siccome nel sistema moderno tutti sono individuati e catalogati, l’eccezione deve essere necessaria, ma tutti possono e devono incarnarla se solo lo vogliono.

Da quanto appena detto, si capisce lo stretto legame, anche se indiretto, tra l’opera di Kafka e quella di Magarian. Indagano, se vogliamo, le due facce di una medesima medaglia. Due facce nelle quali però, è solo l’affinarsi del sistema produttivo e tecnologica nell’interno di una società burocraticamente amministrata, a rendere possibile l’affermarsi della “casta burocratica” dello Star system. E non deve nemmeno sorprendere che, nel pensare il mondo circostante, Kafka non potesse che notare l’affermarsi del “mostro” burocratico, mentre Magarian non possa notare l’affermarsi il mostro del “successo” a tutti i costi, nella quale è la necessità del successo a generare i contenuti dello stesso e mai viceversa.

Con lo spostarsi dell’asse di identità collettiva, all’interno del sistema burocratico, dal mondo della produzione (industriale, sociale, culturale), a quella del consumo (di prodotti industriali, di mode, di cultura, di spiritualità ecc ecc), lo scrittore non può che spostare l’asse del suo pensiero in rapporto a questo spostamento di identità. Se il sistema di fabbrica provocava un evidente senso di alienazione, che poteva portarlo ad indagarne i motivi e a modificarli, oggi l’alienazione oggettiva nel lavoro viene rimossa, o meglio, viene accettata in nome di un’individualità che ritrova la sua centralità non nel lavoro, ma nel tempo libero, nel calcio, negli hobbies, nei fenomeni di consumo. Ed è questo a fare mirabilmente Magarian con il suo romanzo.

Ma se è vero che il sistema normativo-burocratico che soggiace alla produzione capitalista, è riuscito in maniera pervasiva a colonizzare l’immaginario collettivo e a inserirlo esso stesso nella produzione, è vero che le capacità normative e di controllo burocratiche hanno raggiunto oggi una capillarità inimmaginabili ai tempi di Kafka. Nel libro di Magarian questo salto di qualità è già implicito. Pianificazione burocratica e colonizzazione dell’immaginario, ovvero gli ingredienti principali della nostra realtà, vanno meravigliosamente a braccetto:

“Quando Donald Inn se ne era venuto fuori con l’idea di creare il mito di un messia contemporaneo, di un saggio, di un guru, Rees aveva trovato la cosa elettrizzante. Per una volta, non aveva in testa una strategia già interamente stabilita. Questa era una sfida vera… uno poteva prendere qualsiasi imbecille senza cervello e trasformarlo in una celebrità, ma prendere un signor nessuno e trasformarlo in un profeta richiedeva livelli eccezionali di capacità propagandistiche, astuzia, inventiva. Ci voleva un contaballe mira-coloso e solo lui era all’altezza del compito. Se Ryan Rees fosse riuscito a creare un altro Gesù Cristo, a tirarlo fuori dal niente, allora Ryan Rees avrebbe potuto fare tutto, letteralmente: Ryan Rees avrebbe potuto maneggiare, con la grazia di un prestigiatore, le imprese più elevate.”

Anche il novello Gesù Cristo deve sottostare alle regole pervasive della pianificazione. Tutto diviene lancio pubblicitario e distrazione di massa. Distrazione perché l’individuo contemporaneo si lascia volentieri distrarre dal numero crescente “contaballe” capaci di ipnotizzare come tanto incantatori di serpenti, e sembra non voler vedere che dietro ogni “star” c’è sempre e comunque un Ryan Rees. O forse è piuttosto vero il contrario? Non è forse l’assoluta certezza che dietro ogni fenomeno, anche quello più bizzarro, ci sia un Ryan Rees a rendere il fenomeno riconoscibile ed accettabile? Non è forse quella previa e necessaria pianificazione a rendere il “fenomeno” uno spettacolo consumabile?

Baret Magarian non risponde direttamente a queste domande e questo non era il compito del romanzo, ma fa molto di più, perché ci obbliga a non eluderle. L’ipocrisia che nella realtà ci consente di pensare che i meriti individuali siano le sole cause del successo di un attore, un cantante o una influencer ecc ecc, viene da Magarian neutralizzata d’entrata. Non vi è nessun  margine per illudersi che il protagonista Oscar Babel sia per suo solo merito il profeta dei tempi moderni. Al contrario, il suo solo merito, se così si può dire, è solo quello di essere al posto giusto nel momento giusto.

Chi è dunque Oscar Babel? Magarian ce ne dà un’immagine emblematica costruendo abilmente la sua pagina internet;

“Oscar Babel è un libero pensatore e un pioniere che può diventare la voce più influente del momento. Ha soltanto ventisei anni. È alto più di un metro e ottanta. Ed è la brillantezza fatta persona. Non ha preconcetti né limitazioni. Ha la mente aperta. È libero, mentre tutti gli altri intorno a lui sono incatenati dall’avidità, dall’ipocrisia, dal denaro e dall’infelicità. Anche tu puoi essere libero. Diventa il sogno!”

Magarian ci descrive la capacità totalitaria del sistema capitalista con una lucidità quasi disarmante. La libertà viene descritta come qualcosa di desiderabile, in un mondo dove a farla da padrone sono “avidità, ipocrisia, denaro e infelicità” e diviene un prodotto da scegliere e selezionare nell’ideale supermercato dei sentimenti. Rara sì la felicità. ma producibile con le stesse regole che producono i mali del mondo. E se è vero che tutti non possono essere allo stesso tempo felici, proprio perché a prevalere sono le “catene”, ma tutti possono esserlo almeno per un po’. Esattamente come i talent show costruiscono scientificamente, ovvero facendone spettacolo, l’illusione che tutti possano diventare delle star.

Anche la critica al sistema può diventare suo puntello, un prodotto da consumare come tanti altri. Magarian fa dire al suo protagonista:

«La società pretende che gli individui rinuncino alla loro ricchezza, al loro colore, appena si devono guadagnare da vivere. Ciò che è cominciato come una serie infinita di possibilità viene ridotto alla prevedibilità. Da ragazzi, siamo liberi di esprimere le nostre eccentricità e i nostri sogni. Crescendo, siamo invece costretti in sentieri e percorsi più angusti. Il nostro comportamento viene giudicato in termini di coerenza, di conformismo, di successo materiale. Questi sono certamente criteri validi, ma rappresentano soltanto una certa categoria di criteri. I più fortunati trovano uno spazio che garantisce loro la libertà di cui gli altri godono soltanto nei momenti privati – lontano dalla noia della fabbrica, dalla sterilità dell’ufficio. Gli altri entrano in una doppia vita, si mettono maschere davanti ai datori di lavoro e se le tolgono di notte. A volte la recita della commedia si svolge in armonia, ma spesso lo sforzo è troppo grande»

Ma la vera sostanza della logica del sistema Magarian la fa dire al giornalista del Times Quentin Verrico-Smith:

“Ammetto che queste osservazioni non sono poi così originali, ma non è questo il punto. Il punto è che si impongono all’ascolto, espresse come sono in un contesto originale. Sono un cinico, ma mi spingo ad affermare che quando il signor Babel farà la sua prima apparizione pubblica ci sarà grande richiesta di posti.”

Come dice il giornalista infatti, “non è questo il punto”. Non importa che le parole del profeta siano o meno originali, quel che conta è lo spettacolo i cui produttori hanno deciso che questa volta lo siano.

Esattamente come nel mondo kafkiano, nessuno può sottrarsi alle regole di ingaggio del sistema, sia esso prevalentemente burocratico-normativo , o pubblicitario-normativo, come nel caso del mondo descritto da Magarian.

E non sorprende affatto che entrambi arrivino ad una medesima conclusione: l’individualità non si afferma attivamente, come vorrebbe il credo moderno, ma è prodotta socialmente e prevalentemente secondo logiche burocratiche di produzione. Credere che nel dire “io sono” vi sia davvero la chiave per un’affermazione “positiva” dell’individualità, è per i due autori una mera illusione. Ma un’illusione necessaria per accettare davvero quelle logiche che altrimenti sarebbero difficilmente accettabili dall’individuo. Voler abbandonare l’illusione in nome di una vera autonomia dell’individuo è dunque una via quasi impercorribile, ed è perniata da un punto di partenza negativo, ovvero di resistenza alle logiche pervasive di assoggettamento.

In Kafka, questa affermazione in “negativo” dell’individualità, diviene straniamento, incomprensione delle logiche di assoggettamento, disarmante ingenuità. Il protagonista del Il Processo Joseph K. non riesce a capire quale sia la colpa che lo porta ad essere processo, mentre K., protagonista, de Il Castello, non capisce le logiche dell’organizzazione del Castello dalle quali è respinto ma da cui non sa staccarsi. Eppure in questo “straniamento” c’è la resistenza, l’impossibilità dell’autore di assoggettarsi completamente al sistema di controllo burocratico. E siccome assoggettarsi è la norma, sottrarsi all’assoggettamento è visto con sospetto dagli assoggettati, che non capiscono come il renitente possa rifiutarsi fino al punto di sembrare folle. “Ci sei o ci fai”, sembra questo alla base degli altri personaggi che gravitano intorno ai protagonisti delle opere kafkiane.

In Magarian invece, la resistenza all’opera di assoggettamento avviene attraverso la fuga del protagonista sul punto più bello dello spettacolo, quando chiunque altro avrebbe continuato a cavalcare il “sogno di gloria”. Invece Oscar Babel fugge quando capisce di essere solo un “pupazzo” costruito da altri. Dice ad infatti Oscar Babel:

«Non ho una vera identità. Sono una serie di identità mobili, ed è per questo che sono adattissimo alla celebrità: perché sono vuoto e tutti possono riempirmi a loro piacere con qualsiasi assurdità».

Era la premessa per una presa di coscienza disarmante riguardo non alla sua recita come profeta, ma ben più radicale, riguardante la struttura della sua identità sociale. “Io mollo. Mi fermo. Ne ho abbastanza”. Parole senza appello, definitive, che non gli lasciano più margine per un ulteriore compromesso.

Per questo alla fine decide di fuggire da regole che erano in fondo chiare fin da principio, da un ruolo che sapeva fin da principio essere la sua carta per il successo. Non a caso la reazione di Ryan Rees è violenta:

“Di colpo, con una violenza straordinaria, Rees si lanciò in avanti e spense il sigaro sul palmo della mano di Oscar. Oscar mandò un lamento di dolore mentre Rees gli urlava: «Brutto stronzo! Se molli adesso ti rovino. Faccio in modo che non ti dia-no un lavoro nemmeno come lavacessi. Patetico pezzetto di merda! È questa la ricompensa per averti tirato fuori dal nulla? Ci ho speso migliaia di sterline, in questa cosa, e voglio recuperare le perdite. E non solo! Ci voglio tirare fuori dei soldi, da te, e voglio continuare così. Sì, Oscar, ieri si è visto che sei una miniera d’oro, ma non posso stare a perdere tempo con le tue eccentricità. Non mi sono certo fatto il culo a inventare scemenze, raccontare balle, lisciare direttori e giornalisti per vederti fare un inchino e salutare. Non ti ho piazzato in una suite di lusso, non ti ho fatto assaggiare il successo per vederti mollare. Oh, mi rendo conto: non è etico, Oscar. Ecco cosa ti tormenta. Guardati intorno, faccia di merda: non c’è più etica né verità. Cresci un po’. Non c’è più realtà. La realtà è quella che scegli di costruirti, quella che scegli di fabbricare, o quello che io, Ryan Rees, scelgo di fabbricare, per es-sere esatti. Facci l’abitudine. È troppo tardi per piangerci sopra. Dovevi dire qualcosa quando era il momento. Pensavi che facessi tutto per bontà d’animo? Pensavi che facessi il filantropo? Pensa-vi che fossi una specie di cretino?»”

Ma Rees non contento del rimbrotto appena fatto all’ingenua resistenza di Oscar Babel e rincara la dose del suo rimprovero, come se a farlo non fosse lui ma tutta la massa degli assoggettati

«Oscar, povero piccolo verme, pensavi di poter dire qualcosa di rilevante, pensavi di poter risvegliare la gente. Be’, ho una notizia per te, Oscar: la gente non si vuole svegliare, la gente sta benissimo addormentata, sta benissimo imbucata nelle cripte gelate della tecnologia. Fa’ il favore: non sospirare troppo forte, ti strillerebbero addosso come diecimila corvi. È troppo tardi, Oscar: come cazzo fai a non capirlo? Ecco come stanno le cose, ora, Oscar: ci sono tutti questi zombie che se ne vanno in giro, in massa, dappertutto, sintonizzati sulle loro vite senza un cazzo di sbocco, tutti in parata, tutti in mostra, nei secoli dei secoli, a beneficio di una fantomatica giuria che però non esiste. Ecco come andranno le cose, Oscar: tutti saranno prigionieri e guardiani di se stessi, precipiteranno in un pozzo di follia tecnologica e consumistica. Ci sarà solo il consumo, da qui in avanti. Il consumo sarà l’unica cosa ad avere senso. E tu certo non riuscirai a salvarli, Oscar».

Ma su un punto Rees si sbaglia, Oscar Babel fugge dal ruolo che aveva scelto di recitare non per salvare qualcuno, ma per salvare unicamente se stesso. Nella fuga Oscar Babel comincia davvero ad essere se stesso. La fuga è descritta dallo scrittore in modo giustamente rocambolesco, come le sono tutte le cose che provocano una frattura irreversibile nell’esistenza:

“Oscar si trovava ora a una decina di metri dall’entrata principale, e da lì vedeva l’inevitabile sciame di giornalisti che aspettava fuori dalle porte girevoli e, accanto ai gior-nalisti, i discepoli accampati che ancora speravano di fare colazione (o, a quel punto, di pranzare) con lui. Si nascose in una rientranza del muro. Poi, all’apparire improvviso di un taxi, riuscì a fare un cenno di richiamo giusto in tempo e, mentre si buttava nella macchina, urlò: «Da questa parte, signori!». Alcuni dei giornalisti più svegli si resero conto di quello che stava succedendo e si misero a correre dietro al taxi, senza però riuscire a raggiungere il livello di velocità sovrumana necessario a tenere il passo. Nel frattempo, i discepoli si raccontavano a vicenda storie di tavolette Ouija, cosa che impedì a tutti di notare la fuga del loro salvatore. A bordo del taxi, Oscar era in estasi, concentrato sul-l’idea di Najette a Egham.”

Diventuto se stesso con la fuga, Oscar Babel diviene “Oscar Babel” per se stesso, ma smette al contempo di essere “Oscar Babel” per gli altri. E’ un destino inevitabile, necessario per rendere efficace l’azione di resistenza all’assoggettamento de sistema burocratico e consumistico che lo aveva reso celebre.

L’affermazione dell’individuo come negativo, come resistenza estrema alle logiche sociali onnicomprensive, porta inevitabilmente ad una impasse nella narrazione di Kafka e Magarian. Sottrarsi dalle logiche sociali sembra essere per entrambi allo stesso tempo necessario per acquisire una coscienza individuale davvero consapevole, e impossibile, perché la sottrazione non può mai essere vissuta senza trauma. Questa necessaria e impossibile sottrazione, spalanca quindi, come per convesso, un’altra importante questione centrale in entrambi gli autori, anche se con accenti molto diversi, quello del rapporto con la trascendenza.

E non può che essere un rapporto complesso e ambiguo, proprio perché la realtà sociale è stata descritta come immanente ed onnicomprensiva. E se la coscienza vuole diventare veramente consapevole di sé e non può far altro che farlo negativamente, “fuggendo” le regole sociali, questo non finisce per trovare nella trascendenza una possibile via d’uscita? Si tratta di una trascendenza che non fonda più il mondo, che non legittima più le regole sociali, come era accaduto un tempo, ma che invece serve a fuggire da un mondo e da una società che vengono percepite come immanenti ed ostili ad ogni forma di trascendenza.

In Kafka il rapporto con la trascendenza, nel solco della tradizione ebraica sia talmudica che cabbalistica, è data dalla scrittura. La scrittura è la possibilità di descrivere le cose per come sono, è un dono che consente all’essere umano di capire e di capirsi e per lo scrittore praghese diviene lo spazio eminente del suo rapporto con il trascendente.

Per Magarian invece, la realtà sociale contemporanea, con la relativizzazione di ogni valore operato dalla cultura postmoderna, ha tolto alla parola ogni rapporto “diretto” con il trascendente. La trascendenza diviene dunque un anelito trasfigurato, irreale, quasi inaspettato, che lo scrittore rappresenta magistralmente con un vero e proprio coup de théâtre , attraverso un’ascesa al cielo in mongolfiera, proposto dall’eccentrico ungherese Bela, nel quale Oscar Babel si libera del peso del mondo e sembra quasi rinascere. Il romanzo stesso si chiude con questa insolita e insospettata atmosfera, lasciando al silenzio il compito di descrivere il rapporto problematico dello scrittore con il trascendente:

“La tenda antisettica, un freddo paesaggio di plastica che lo separava dal mondo. Il reparto coi suoi meandri, l’odore di varechina, di disinfettante, l’ospedale con la sua vita sof-ferente. Piazzava una trappola, aveva escogitato per se stesso una trappola labirintica, si era iscritto a questo incubo perfetto, era affogato, era morto, era già un fantasma, un ricor-do. Chiese: era questo l’aldilà? Il ricordo? Erano i sogni, l’aldilà? O erano finestre che davano sull’aldilà? O erano soltanto l’immagine residua del giorno? Oppure era proprio questo l’aldilà – immagini residue della vita che ancora persistevano e il ricordo di quelli che mancavano che le riportava indietro, le rendeva reali, come nella mente terrestre, che poteva altresì essere un labirinto così che lui aveva bisogno di uscire dalle proprie macchinazioni, quel serraglio, quella trappola che aveva escogitato? Cosa diavolo aveva pensato di fare? Aveva bisogno, ora, di voltarsi verso la luce, finalmente.”

La trascendenza si affaccia come una finestra spalancata improvvisa nell’atmosfera soffusa di un’ascesa in mongolfiera irreale, nel quale le parole sembrano incapaci di descrivere il nascente anelito divenuto improvvisamente impellente. Magarian descrive perfettamente questa incapacità della lingua di testimoniare il rapporto con il trascendente:

“Questo tremore dentro di lui. Si sforzava di trovargli un nome. L’aveva dimenticato perché era assente da tanto tempo: un vecchio amico che si era trasferito, come osa? E lui non lo aveva più in rubrica, ma ora aveva sentito che l’amico era tornato, così… questo tremore.”

Il limite della parola come specchio del trascendente, è il rovescio della medaglia di una lingua divenuta specchio fedele di un’ambiguo rapporto tra individualità, che il sistema mette “ufficialmente” come pernio, ed una realtà burocratico-normativa che invece lo riduce a mera funzione numerica. In questa ambiguità si gioca il destino del sistema basato sulla produzione-consumo, incentrandosi proprio sull’impossibilità di distinguere la linea di demarcazione, ovvero la differenza per dirla alla Derrida, tra io sociale e io individuale, tra produzione e consumo, tra burocrazia e società dello spettacolo.

Basterebbero queste poche osservazioni per capire l’importanza del romanzo di Baret Magarian. Un libro che ha saputo, come pochi, guardare in faccia la realtà sociale che ci circonda e ne ha saputo mettere in luce le sue più inquietanti e permanenti aporie.

 

Marco Incardona

 

 

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