Io sono Heathcliff, voi siete morti. Liberare la vita dalla dipendenza dai fatti.

di Sara Mazzini

© Valentina Ramacciotti, Progressio agrorum cum oculis.

Io sono Horselover Fat, e sto scrivendo in terza persona per amore di obiettività.

PHILIP K. DICKValis

Io sono Heathcliff.

EMILY BRONTËCime tempestose

Ci sono due romanzi, Radio Libera Albemuth Valis, che raccontano la medesima storia in due modi diversi. Ci sono due protagonisti in entrambi i romanzi, per un totale di quattro personaggi principali. Uno dei due, e quindi due dei quattro, è Philip K. Dick; l’altro è il suo alter ego letterario, ovvero il destinatario di visioni inviate da un sistema superiore che il romanziere è incaricato di tradurre nel linguaggio della fantascienza.

C’è un romanzo, Cime tempestose, che racconta un’unica storia come se fossero due. Ci sono due protagonisti in entrambe le storie, e ci sono due narratori che non coincidono con i personaggi principali di nessuna delle storie. Entrambi i narratori, posti l’uno dentro l’altro come all’interno di una ruota Yin e Yang, sono Emily Brontë, e si scambiano il racconto di una vita con un movimento che va dall’interno dell’uno all’esterno dell’altro, nella preoccupazione di trovare il mezzo comunicativo più adatto a liberare la vicenda dal coinvolgimento umano.

Ci sono due scrittori, Philip K. Dick ed Emily Brontë, che hanno trascorso la propria vita a cercare di capire come trasformare l’esperienza personale in una narrazione universale. Entrambi sentivano una sorta di seconda vita che gli palpitava dentro, nascondendosi alla comprensione umana, e che quella vita era di gran lunga più reale di qualsiasi esperienza razionale. Sia le visioni che Dick ebbe tra il febbraio e il marzo del 1974, sia quelle procurate a Emily Brontë da ciò che lei definiva «il dio dentro il mio petto», condussero i due alla medesima conclusione: un’entità soprannaturale stava cercando di attraversare il velo della realtà visibile per comunicare con loro. Ma quella vita interiore che ne scaturiva, proprio per via di una natura che trascende la natura, era incomunicabile.

Nel 1974 Philip K. Dick fu colpito da una serie di visioni a sfondo mistico che lo portarono a scrivere, in una lettera all’amica Claudia Bush: «Qualcosa di strano, tuttavia, esiste nella mia vita e sembra essere esistito da lungo tempo; se derivi dal mio strano stile di vita o se provochi quello stile non so dirlo. Ma c’è. […] Per anni ho avuto la sensazione di non sapere quello che stavo facendo; dovevo tenere d’occhio le mie attività e dedurre, come un osservatore esterno, cosa stessi combinando». La lettera è stata inserita nella versione italiana de L’esegesi, un enorme apparato di annotazioni, corrispondenze e appunti con cui Dick ha cercato di spiegare e di spiegarsi la sua opera secondo un meccanismo non dissimile a quello che Ricardo Piglia definisce «una specie di rovesciamento del bovarismo», per cui «non si legge la finzione come più reale del reale, si legge il reale perturbato e contaminato dalla finzione» (L’ultimo lettore, Feltrinelli, 2007). Con L’esegesi Dick rilegge la sua vita alla luce della sua stessa finzione, e rovescia ulteriormente il processo trasportandolo all’interno della finzione stessa: si inserisce dentro il suo romanzo Valis nella duplice veste di Horselover Fat, il suo doppio “troppo umano”, e di Phil Dick, lo scrittore di fantascienza che appellandosi alla logica di una narrazione condivisa per risolvere e incasellare le incongruenze del suo personaggio finisce col risultare più immaginario di lui. L’esegesi è un titolo davvero interessante per un’opera che non può esaurirsi sulla carta, ma che dalla carta tracima per investire una vita, e dalla vita è a sua volta investita. In ultima analisi, quello che L’esegesi compie è l’esegesi di sé stessa.

© Valentina Ramacciotti, Mutatio spinosa.

Nel capitolo IX del suo unico romanzo pervenuto fino a noi, Emily Brontë utilizza la voce della sua protagonista, Catherine Earnshaw, per dichiarare: «Nella mia vita ho sognato sogni che sono rimasti sempre con me, e che hanno cambiato le mie idee; sono passati attraverso il tempo e attraverso di me, come il vino attraverso l’acqua, e hanno alterato il colore della mia mente». Catherine è il doppio della sua autrice nella finzione letteraria, e poco più avanti Catherine si sdoppia ulteriormente affermando con decisione: «Io sono Heathcliff». La stessa inversione di ruolo tra interpretazione e dato reale dichiarata da Dick tra le pagine dell’Esegesi sembra svolgersi anche in Cime tempestose, dove le narrazioni della governante, testimone della vicenda narrata, e del locatario, che alla vicenda è perlopiù estraneo, si influenzano tra loro, finché a un certo punto quella che ci era stata presentata come la vicenda principale le diventa subalterna. La struttura narrativa assume così una forma concentrica e comincia a ripiegarsi su sé stessa.

Se Emily Brontë fosse vissuta ai giorni nostri sarebbe stata certamente una scrittrice di fantascienza. A Haworth, nel suo stanzino affacciato sul vecchio cimitero, si sarebbe consumata la vista alla luce di una lampada portatile sfogliando albi a fumetti fino a notte inoltrata, aspettando la pubescenza nella speranza di scoprire di essere un mutante. Il suo unico romanzo avrebbe avuto la forma di una saga interstellare; Heathcliff sarebbe stato un androide, la minaccia dell’umano disumanizzato, e il casolare di Cime Tempestose il wormhole che consente a lui e a Catherine di proiettarsi in uno spazio-tempo alternativo in cui vivere la vita che hanno solo immaginato. La stessa Gondal, la dimensione fantastica che la Brontë giustapponeva alla brughiera dello Yorkshire, non è che un multiverso generato dalla mente di un’autrice visionaria in un tempo in cui un simile concetto non era ancora stato sviluppato. Mentre i suoi siblings Charlotte e Branwell si spaccavano la testa nel tentativo di assurgere al «Regno Superiore» della letteratura attingendo ai ricordi di un mondo perduto al limitare dell’infanzia, Emily era mossa da un’urgenza diversa. La sua necessità primaria era mettere in comunicazione altri esseri umani con l’universo invisibile di Gondal, un luogo privo di tempo che non aveva alcun bisogno di essere creato in quanto già esistente in lei; una sorta di realtà separata, impercettibile dai più, ma tanto viva e presente per lei stessa da influenzare i suoi processi cognitivi, trascendendo la mera dimensione narrativa per giungere a investire ogni aspetto della sua vita esteriore.

C’è un saggio memorabile di Virginia Woolf in cui si legge: «non c’è “io” in Cime tempestose. […] C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. […] Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti». E c’è un’eco di queste parole nella postfazione all’edizione Fanucci di Radio Libera Albemuth, in cui Elio Franzini afferma che Philip K. Dick «ricerca la tensione verso il concetto di verità, inteso come assoluto metafisico, che tuttavia conosce il paradosso, che comprende le proprie stesse metaforizzazioni, che ne guarda la trama complessa e sottile».

Una citazione dal Parsifal ricorre in Valis, dove Horselover Fat conclude che tutte le voci che sente appartengono a diverse estensioni di sé che gli parlano attraverso diverse dimensioni dello spazio, percepite erroneamente come tempo: «Vedi, figliolo, qua il tempo si tramuta in spazio». Il mondo che abitiamo sarebbe secondo Dick un organismo vivente che muta per darci l’impressione dello scorrere del tempo: ecco perché il dato temporale risulta così irrilevante e al tempo stesse riveste un basilare ruolo cardine. Le prime parole di Cime tempestose non sono parole, ma cifre che compongono una data: «1801». In un altro romanzo di Dick, Ubik, antecedente ai due già presi in considerazione, l’indicazione temporale in apertura si fa ancora più precisa: «le tre e trenta del mattino del 5 giugno 1992». L’appiglio temporale serve a orientarsi nella direzione in cui andrà la storia: da entrambi questi punti di partenza, tuttavia, non si va avanti; piuttosto, si torna indietro. I protagonisti di Ubik sono già morti per la maggior parte della vicenda narrata, così come lo è Catherine all’inizio della sua; eppure i loro fantasmi continuano a vagare in una dimensione di non-vita, all’interno di un mondo che somiglia molto a quello che hanno lasciato. Il solo ponte che rimane con la realtà ricordata è una serie di interferenze grafiche che, se correttamente decifrate, sono in grado di aprire uno squarcio nel tessuto esperienziale su una verità tanto risolutiva (l’iscrizione sulla soglia di Cime Tempestose, che fa di Hareton Earnshaw il suo costruttore e anche il suo ultimo erede) quanto spaventosa (il graffito di Glen Runciter sul muro del bagno pubblico, che oltrepassa la finzione rivelando: «io sono vivo, voi siete morti»). «Siamo aiutati da fantasmi organici», pensa Joe Chip in Ubik, «che con le parole e la scrittura riescono a penetrare in questo nuovo ambiente in cui viviamo». La parola scritta è, in ultima analisi, il solo filo in grado di legare le due dimensioni, visibile e invisibile, e di mantenerle in un pur precario equilibrio.

Ci sono numerose biografie su quella sfuggente autrice che è stata Emily Brontë, e sono perlopiù tutte concordi nell’affermare la sua incapacità di vivere in una realtà che a suo avviso era una colossale menzogna, riuscendo a trovare una qualche affinità soltanto col riverbero delle anime selvagge che avevano animato la brughiera prima che la morale vittoriana la contaminasse. E c’è una simile ricerca di verità anche nelle opere di Philip K. Dick, il quale afferma: «Voglio scrivere delle persone che amo, inserite in un mondo di finzione inventato da me e non nel mondo in cui realmente viviamo, perché esso non soddisfa le mie esigenze». Per entrambi questi autori la letteratura non era da intendersi come un mezzo di evasione dal reale, né tantomeno come un’interpretazione soggettiva dello stesso, bensì rappresentava l’espressione di un movimento universale che esisteva indipendentemente da loro e che attraverso di loro poteva comunicarsi, dando voce a “ciò che non ha voce”. Cime tempestose, cioè la casa che racconta la sua storia, e VALIS, il satellite attraverso cui un’entità aliena cerca di comunicare, non sono luoghi o oggetti fisici, né rappresentano un espediente narrativo: sono il processo narrativo stesso. Entrambi hanno il compito cruciale di riscrivere la storia dei loro personaggi, sgombrando progressivamente il campo da qualsiasi rimasuglio di finzione per restituire un ruolo centrale alla verità contenuta nell’altrimenti incomunicabile esperienza dell’autore.

© Valentina Ramacciotti, Quae superest cum spinis.

C’è un’unica fine per il doppio narrativo: morire. Sul finale di Cime tempestose Heathcliff si ricongiunge a Catherine sotto forma di fantasma, per vagare insieme a lei nella brughiera invisibile di Gondal e lasciare il proprio spazio nel mondo a due diverse versioni di entrambi. In Radio Libera Albemuth Dick sceglie di eliminare il suo doppio Nicholas Brady con una morte fattuale, salvo poi farlo ricomparire in Valis come personaggio chiave in un “film americano” che il nuovo protagonista va a vedere al cinema. Il destino di Horselover Fat è più sottile: il doppio di Dick in Valis viene riassorbito all’interno dello stesso autore. Come sul finale di Twin Peaks, in cui Dale Cooper scorta una versione alternativa di Laura Palmer nella reale cittadina americana a cui l’immaginaria Twin Peaks si sovrappone, la finzione narrativa si apre in questo modo fino a mostrare il proprio nucleo di verità. L’espediente dello sdoppiamento rivela dunque la volontà dell’autore di saturare una finzione in cui le istanze autobiografiche sono piegate al mero scopo di distanziarsi il più possibile dalla sua stessa narrazione, fino all’eliminazione del doppio narrativo, che sottende la dichiarazione di un’esclusiva e profonda fiducia nell’arte quale depositaria della vera conoscenza, e unico mezzo possibile per comunicarla.

Sara Mazzini è assistente alla scrittura e editor freelance. Ha studiato correzione di bozze presso Oblique e scrittura creativa presso Scuola Holden. È stata co-direttrice della rivista online CrapulaClub, con la quale ha collaborato anche al progetto Guida42. Il suo primo romanzo è “Centinaia di inverni. La vita e le morti di Emily Brontë” (Jo March, 2018).

I fiori di Valentina Ramaciotti chiedono alla tassonomia linneana una imprevista propagazione nomenclativa: flos degeneres, flos dentatus, mutatio spinosa sono alcune tra le nuove specie identificate dall’artista; specie che forse esistono da sempre, come causa invisibile di improvvisi perturbamenti d’anima imputati ad avversi movimenti astrali.

Denti, zanne e occhi sono il corredo offerto da questa flora post-apocalittica in luogo di petali setosi e steli delicati; non ci sono dubbi sul fatto che sappia come difendersi dai predatori. Malgrado la fragilità del fiore che china il capo al passaggio dell’aratro sembri appartenere a tutt’altro repertorio, non si può dimenticare che le armature si mettono a protezione di vulnerabilità potenzialmente fatali. L’erbario avanza dunque la sua sfida: riconoscere la bellezza trincerata per mutazione adattativa. 

Valentina Ramacciotti è nata a Lucca e vive in Versilia dove, oltre a scrivere accanitamente, insegna agli studenti del liceo artistico l’arte del cinema e della fotografia. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, da oltre un ventennio porta avanti la sua personale ricerca e produzione di immagini. Ha pubblicato un romanzo: “Piovono ragni”, gli altri cinque si trovano ancora nel famoso cassetto. I suoi racconti sono stati pubblicati da diverse riviste on line (Inutile, Narrandom, Spore, Tre racconti, Bomarscé) e nella raccolta “Faccia non mente” dia.Foria editore, 2014. Ha appena vinto l’ottava edizione del Premio Hypnos 2021 col racconto “Chiaro di Luna”.

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