Post di Riccarda Zezza

Velocizzare, efficientare, ottimizzare. Oppure incontrare, conoscere, ascoltare. Entrambe non si può, quando si tratta di esseri umani. Abbiamo bisogno di tempo e di attenzione. In cambio diamo impegno, coinvolgimento, capacità, passione. #engagement #quietquitting #ilgrandeequivoco #lavoro #cura

Quali AGGETTIVI porta con sé la possibilità di avere un figlio oggi in Italia? E' un'esperienza... Il modo in ognuno di noi riempie (più o meno consciamente) i puntini determina la narrazione culturale di questa esperienza nel nostro Paese: quella che fa da sfondo sia alle nostre scelte che alla prospettiva che mettiamo davanti ai giovani, nel momento in cui anche loro avrebbero il diritto di scegliere per sé. Quanto è pieno e libero questo diritto, però, se la narrazione è parziale, se è costeggiata di tabù? Quindi, come prima cosa, dobbiamo dirci con coraggio che cosa immaginiamo quando pensiamo alla natalità: che aspetto le diamo, che caratteristiche, sia che si tratti di sceglierla noi che di raccontarla ad altri. Ne parliamo il 9 e 10 maggio a Roma, agli #sgdn Stati Generali della Natalità 𝑬 𝒗𝒐𝒊, 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒓𝒊𝒆𝒎𝒑𝒊𝒓𝒆𝒔𝒕𝒆 𝒐𝒈𝒈𝒊 𝒒𝒖𝒆𝒊 𝒑𝒖𝒏𝒕𝒊𝒏𝒊?

"Spieghiamo l'invidia del pene in base a fattori biologici e non a rapporti sociali; siamo invece abituati, senza difficoltà, a spiegare il senso di inferiorità sociale della donna come una razionalizzazione della sua invidia del pene. Ma dal punto di vista biologico la donna ha nella maternità, o nella capacità alla maternità, una superiorità fisiologica incontestabile e per nulla trascurabile. Si deve indagare se in realtà nella concezione della maternità sopra ricordata non si esprima una tendenza inconscia dell'uomo alla svalutazione. Questa svalutazione si esprimerebbe così: in realtà le donne desiderano semplicemente il pene; in fin dei conti la maternità è un peso che rende più dura la lotta per l'esistenza, e gli uomini dovrebbero essere contenti di non doverla sperimentare". Scriveva così Karen Horney, psicanalista tedesca contemporanea di Freud, che conosceva e con cui intratteneva un dialogo a distanza a colpi di ricerche e libri che sono quanto di più vicino esista a un reale dialogo tra maschile e femminile sulla psiche umana. I libri di Horney, come quello da cui è tratta questa citazione, "Psicologia femminile", in Italia non vengono più ristampati. E' un esempio di #segregazione di #genere del #pensiero: ed è per questo che quel che scriveva lei negli anni '30 suona oggi più attuale che mai, e ancora tutto da elaborare.

In Lifeed "classifichiamo" i diversi ambiti di vita delle persone in tre aree: lavoro, famiglia e... altro. Nell'area "altro" entrano tutti quei ruoli che io chiamo "senza conseguenze": ruoli che abbiamo scelto di avere e continuiamo a scegliere ogni giorno per pura espressione di noi - mentre famiglia e lavoro sono ambiti di espressione, ma hanno anche una dimensione di legame molto forte. Per spiegarmi meglio: lo sport, gli hobby, e anche il volontariato, sono luoghi in cui siamo più liberi di essere pienamente noi stessi, di metterci alla prova e di sbagliare, e di amare anche, ma senza troppe aspettative, né degli altri verso di noi né nostre verso gli altri. Nell'ambito di questa libertà di espressione, sviluppiamo competenze importanti: che ci fanno sentire più forti e che possono esserci di aiuto nei ruoli famigliari e lavorativi. E' la magia della #TRANSILIENZA :-)

Si può parlare di cura in ambiente lavorativo? Sia quando le incursioni della vita ci spingono a portare questa dimensione con noi in ufficio che perchè prenderci cura gli uni degli altri è una componente irrinunciabile di qualunque relazione... è possibile portare la cura sul lavoro? E come? Mi aiutate a rispondere, compilando le 9 domande di questo questionario? E' per una ricerca a titolo personale che userò nel mio prossimo libro. Se lo compilate e inserite il vostro indirizzo email, vi manderò la sintesi dei dati e un'anteprima del libro :-) e soprattutto vi sarò molto molto grata! (anche se lo fate girare) https://lnkd.in/dTfsxzb3

Chiamiamo femminile tutto ciò che non è maschile, pensando invece di star definendo una differenza rispetto all’universale. E’ importante riconoscerlo. Alcuni anni fa, nelle librerie Feltrinelli c’erano gli scaffali dedicati ai romanzi “femminili”. Poi devono essersi accorti che così facendo assegnavano un’implicita categoria “maschile” a tutto il resto e li hanno tolti. Definire “femminili” le situazioni a prevalenza femminile dovrebbe obbligarci a fare lo stesso, ma con l’aggettivo “maschile”, quando invece le donne sono assenti o un’esigua minoranza. Aver bisogno di un aggettivo in più per qualificare qualcuno è indice della presenza di stereotipi: di un modello invisibile ma dominante che viene invece classificato come “la norma”. Niente di male, ma saperlo aiuta a vedere quel che ancora non ci stiamo dicendo, anche quando parliamo così tanto di “diversità”.

“Vincere ha un peso, ma la cosa importante sono gli affetti”. Dalle interviste di Sinner viene fuori la voglia di non mettersi maschere. Una voglia che, grazie alla potenza dei simboli come lo sport, potrebbe aiutare tutti noi a ritrovare il senso di chi siamo dentro a quello che facciamo. Anche i “grandi”, anche i “potenti”, anche i “piccoli”, anche gli “invisibili”, tolte tutte le virgolette, dentro sono molto altro.

Si emoziona, ci tiene e ci investe tutto sé stesso: il mio amico Luca Solari si è messo in gioco per spingere il cambiamento, perché anche l'università assomigli un po' di più agli esseri umani che la abitano. Che coraggio e che cuore, e chissà che farai se ne avrai la possibilità! Un grande in bocca al lupo per queste elezioni ai candidati rettori dell'Università Statale di Milano! https://lnkd.in/dipWmqrW

Non facciamo più bambini. Non ci crediamo più, né sappiamo perché le generazioni prima della nostra ci avessero creduto. E il grido di allarme non riguarda solo la perdita della speranza, di un’idea di un futuro in cui non ci saremo più, che dovremmo costruire per qualcun altro - ma per chi? Il grido di allarme riguarda anche la nostra stessa capacità di crescere. Perché un figlio non ti fa solo diventare adulto, continua a farti crescere mentre lui cresce. Lo dice bene oggi Michele Serra su La Repubblica: un figlio adolescente ti obbliga a capire che appartiene solo a sé stesso, che non puoi fare altro che lasciarlo andare, e che farlo nascere e farlo crescere erano la parte facile della storia. Quante lezioni: difficili, meravigliose. Quante paure. Quanto senso di inadeguatezza, quanta difficoltà a cambiare. E parlo dei genitori, non dei figli adolescenti :-) Un figlio è un’avventura senza fine, anche quando ci insegna che non serviamo più. Eppure questa parte della storia manca, e così di figli non ne immaginiamo più, rimanendo da soli a domandarci che cosa, allora, ci farà crescere. #statigeneralidellanatalita

Sono diventata madre senza sapere che cosa avrebbe significato per me, davvero. Lo sono diventata tardi, a 36 anni, con fatica e con fortuna, spinta più dall’istinto che dalla ragione. Fino a quel momento ero stata bambina, ragazza e adulta nella convinzione che la mia identità dipendesse interamente da me, ma quel “me” si componeva soprattutto dello sguardo degli altri. Mi sentivo al centro del quadro: sempre visibile, sempre vulnerabile, sempre in cerca di una definizione. La maternità mi ha investita come un treno e, invece di uccidermi, mi ha rimessa in moto in modo completamente nuovo. Col senno di poi, 16 anni più tardi, forse so spiegare che cosa è accaduto. Quello che all’epoca mi era sembrato solo uno spostamento sulla mappa della mia esistenza – che mi aveva tolta da un centro che mi rendeva fragile per mettermi a un margine da cui mi sembrava di essere diventata forte, capace di creare e di prendermi cura – era stato in realtà ben più di questo. La maternità mi aveva dato una definizione che aveva trovato il suo posto insieme alle altre parti di me: come risultato, tutta la mia identità ne era uscita più forte. Invece di diventare “tutto ciò che ero”, essere madre è diventato uno strato della mia identità: vederlo come tale mi ha resa consapevole che questo siamo tutti, strati su strati di identità che si combinano, si alternano, si mettono in relazione scambiandosi risorse, e che ci definiscono in un modo sempre troppo ampio per qualsiasi etichetta. Che cosa c’entra questo col talento dei bambini? Da madre, da studiosa e da imprenditrice rispondo: tutto. Le etichette che diamo a noi stessi riguardano anche il modo in cui vediamo e definiamo gli altri, in modo particolare gli altri a cui consentiamo di definirci. L’etichetta genitoriale, che a me è arrivata per un caso ben povera di definizioni, definisce il modo in cui pensiamo di dover essere genitori e pensiamo che debbano essere, di riflesso, i nostri figli. Il "dover essere" è l’elefante nella stanza: è quell’insieme di regole e pregiudizi che abbiamo assimilato in modo implicito e che, tutte insieme, costruiscono un “ruolo” nel nostro immaginario, definendone confini, limiti, linguaggi, attitudini, possibilità. Un solo ruolo viene così scolpito da altri, dal passato, dalla società, dalla cultura, in un modo che ci rende difficile farlo nostro e ci spinge, invece, ad adattarci a lui. Per questo succede che una madre finisca col sentire che la maternità ha preso il posto di tutte le altre parti di sé, o che un padre non trovi posto a una dimensione paterna che resta confinata in spazi marginali, anacronistici. Ho scritto un articolo per l'ultimo numero della rivista Pedagogika, dedicato al talento dei bambini. Ma io, ovviamente, ho parlato degli adulti :-) 👉 intero articolo https://lnkd.in/dyZVjurV