L’uccellino bianco

«Attenta!»
Qualcuno afferrò di istinto il braccio della ragazza che stava per scendere dal marciapiede. Lei, distratta dal frugare nella sua borsa, non aveva notato il taxi, intento in un sorpasso a dir poco da arresto.
«Mi scusi signorina se l’ho spaventata. Sono stato un po’ maldestro, ma quel taxi stava per venirle addosso.»
Lei restò lì per un attimo a guardare senza parole quell’anziano prete che l’aveva strattonata, poi con un filo di voce lo ringraziò. Don Gualtiero le sorrise e proseguì per la sua strada, ma la sua mente era ancora con quei due incontrati sul treno. Il cervello umano è incapace di stare fermo, ma nella maggior parte delle persone non è abbastanza veloce da uscire da un giro di insulsi, improduttivi sogni ad occhi aperti. Siamo troppo pesanti e incapaci di spiccare il volo, per non parlare di quando rischiamo di finire sotto a un taxi.

I tre si erano incontrati sul diretto Firenze Milano. Don Gualtiero stava andando a un ritiro spirituale e i due giovani stavano tornando a casa dopo una breve vacanza in Toscana. L’italiano era bruno e alto, poco loquace, circa trent’anni, forse trentacinque. Il giapponese poteva avere un po’ più di venticinque anni, capelli ribelli, occhialetti tondi un po’ infantili, occhi piuttosto grandi, per un orientale. Parlava un italiano eccellente. Quei due non avevano nulla di appariscente, a parte il fatto di essere entrambi di aspetto gradevole e pulito. Insolita in loro era la vicinanza con cui stavano seduti e la ricerca involontaria di un contatto fisico reciproco, anche il più irrilevante, o la complicità familiare che trasmettevano. A Don Gualtiero non ci volle troppo tempo per capire che erano una coppia. Il ragazzo giapponese lo aveva già visto, ma non ricordava dove. Poi aveva ricordato. Un fatto di cronaca di due giorni prima. Una tragedia scongiurata da un auto parcheggiata in modo bislacco su una strada di montagna.
«Davvero ha visto Tex su un giornale? Si ricorda il nome? Mi piacerebbe procurarmi l’arretrato. Faccio il reporter, ma al momento ero confuso e preoccupato. Intervistarlo non è stata certo la prima cosa che mi è venuta in mente.»
«Si chiama… Tex?»
«Mi chiamo Tetsuya. Qui in Italia tutti mi chiamano Tex. Ci prendono sempre in giro, me e Attila. Dicono che abbiamo due nomignoli da cane poliziotto.»
L’atteggiamento cordiale di Tex lo rilassava. Decise di osare. «Ma voi… state… insieme? Sentimentalmente, intendo… Scusate la domanda…»
Attila abbozzò un sorriso. Il prete ebbe la sensazione che non ci fosse da aspettarsi di più da lui, sul piano delle manifestazioni di gioia. «Da quasi tre anni. La cosa la mette a disagio?»
«No, davvero, anzi, siete una bella coppia.»
Don Gualtiero non aveva mai pensato che un giorno lo avrebbe detto a una coppia di uomini, ma non sarebbe stato l’unico aspetto insolito di quell’incontro.
«Immagino che torniate in treno perché la macchina è distrutta.»
Tex si mise a ridere. «Pensavo che Attila mi avrebbe ucciso, invece era preoccupato perché ero sparito.»
Attila gli allungò una pacchetta. «Figuriamoci se uccido proprio te. Poi per quel cesso di macchina. Però un giorno voglio farti vedere da uno bravo, anche solo per sentire cosa dice.»

Due giorni prima un certo Bonetti si era alzato presto per aprire il suo bar lungo una strada in mezzo ai boschi sull’Appennino. Era in previsione una bella giornata e doveva preparare un po’ di panini e scongelare un po’ di brioches per rifocillare i vari trekkisti, ciclisti e i gitanti di passaggio. Sentiva che quel giorno ci sarebbe stato parecchio da lavorare. Lasciò la macchina sul retro e mentre frugava le chiavi in cerca di quella giusta notò una sagoma nella penombra della veranda. Si vedeva solo il chiarore del telefonino.
«Qui il telefono prende, ma se mi sposto di mezzo metro non prende più.»
«Hem… sì… Ma che ci fa qui? Il bar è ancora chiuso.»
«Ho parcheggiato giù alla curva, ora devo aspettare l’autobus.»
Il Bonetti si fece coraggio e si avvicinò. Quello che in penombra sembrava un tipo losco si rivelò un ragazzo orientale con gli occhiali, dall’apparenza innocua, sorridente e ancora un po’ assonnato. Sul tavolo accanto alla porta il fornaio aveva lasciato due grossi incarti che mandavano un invitante profumo di focaccine e paste, il Bonetti controllò che fossero ancora ben chiusi e che ragazzo non li avesse toccati. Decise che se aveva resistito a quel profumino ci si poteva fidare di lui.
«Senti, io devo preparare un po’ di cose, apro fra un’oretta. Se vuoi fare colazione devi avere un po’ di pazienza.»
«L’autobus arriva fra una quarantina di minuti. Ci saranno anche dei bambini. Posso aspettare dentro? Qui fa freschetto.»
Lo invitò a entrare. Il Bonetti sapeva che lì non c’era alcun servizio autobus, ma non aveva voglia di discutere con uno che non sembrava essere del tutto a posto con la testa. Accese tutto. Rifornì un po’ il frigo di bibite e succhi di frutta, infilò nel forno un vassoio di sfoglie surgelate, poi aprì l’incarto del fornaio e iniziò ad allestire il banco, si mise a lavoro con l’affettatrice per farcire le focaccine, tirò fuori dal forno anche le sfoglie e le dispose in un vassoio. Alzò gli occhi e notò che Tex fissava i suoi vassoi con una punta di tristezza.
«Ok amico, ti è venuta fame. Mangi qualcosa? Ti preparo un cappuccino?»
«Sì, sì e sì. Ed è meglio sbrigarsi perché fra poco arriva l’autobus.»

Trentatre bambini e bambine diretti al campo estivo erano pronti con i loro zainetti colorati, tutti con lo stesso cappellino rosso. Le accompagnatrici erano tre ragazze fresche di diploma, una di loro incinta di cinque o sei mesi. Le mamme dei bambini avrebbero voluto farle qualche domanda, ma non volevano essere indelicate, così si limitarono a un «Tutto bene?», sperando che lei facesse il resto, ma lei non fornì alcuna informazione sul suo stato. Il Cioni invitò tutti a salire sul suo vecchio catorcio blu. Quel tratto di strada lo sapeva a memoria, conosceva tutti i tornanti e quella discesa ripida che si chiudeva con un gomito la prendeva senza sbavature, gli bastava contare lentamente fino a dieci e poi dare di sterzo. Fino a quella mattina, quando, proprio sull’imboccatura di quella discesa lì, i freni dell’autobus si ruppero. Non è chiaro il motivo, forse i freni erano troppo vecchi o forse lo era l’autobus, fatto sta che il bestione metallico non riconosceva più il suo padrone e si lanciò giù per quella discesa, inarrestabile come una frana.

Il Cioni si aggrappò al cambio e forzò il motore a scendere di una marcia, iniziò a contare, uno, due, poi di un’altra, tre, quattro, cinque, poi scalò ancora. Il rumore del cambio grattò l’aria, la discesa era già finita prima del sette, non era più possibile prendere la curva senza uscire di strada. Di fronte a lui c’era una vecchia Clio rossa un po’ sbiadita, parcheggiata sulla curva, davanti alla spaccatura nel guard rail. Il bestione si schiantò contro la Clio e la accartocciò come una lattina contro due alberi contorti. Erano fermi, almeno per il momento. Ma il bosco scendeva giù a picco e se l’autobus avesse rotto quella barriera fortuita sarebbe precipitato in fondo al burrone in un groviglio di tronchi spezzati. Il Cioni aprì le porte e urlò come un pazzo «Tutti fuori! Subito! Tutti!». In un coro di strilli, i bambini scapparono fuori in mezzo alla strada. La prima ragazza a riuscire a scendere fu quella incinta, che si precipitò a riunire quel fuggi fuggi, seguita dalle altre due, prima che un qualsiasi mezzo a motore sbucasse dalla curva facendo una carneficina. Come avrebbe scritto poi il giornale, il Cioni scese per ultimo, dopo aver controllato bene che a bordo non ci fosse più nessuno. L’autobus restò ancora lì per un po’, ma prima dell’arrivo del carro attrezzi cadde nel precipizio assieme alla Clio.
Il bar del Bonetti era poco più in alto, dopo quella curva. I bambini furono condotti lì in fila indiana, sorvegliati dalle ragazze, ancora terrorizzate per l’accaduto. Il Cioni entrò per primo e chiese semplicemente: «Buongiorno, è qui il proprietario della Clio rossa?»

La “stampa locale” arrivò prima dei vigili urbani, del carro attrezzi, di un auto medica mandata a controllare se c’erano feriti, prima di quello della forestale, lì per valutare i danni al bosco, dei pompieri, di tutta quella gente chiamata con numeri di emergenza. Nessuno tiene mai il giornale fra i numeri di emergenza, nessuno sembra averlo mai chiamato, ma quando succede qualcosa arriva sempre un reporter a ficcare il naso, scattare foto, a fare domande fuori luogo. Non è chiaro come sia possibile. Neppure Attila è mai stato in grado di rispondere, quando arrivato sul luogo di un incidente, una rapina, una disgrazia gli chiedono «Ma sei già qui?». A lui telefona il suo capo, magari alle tre di notte, ma si guarda bene dal dirgli come ha avuto l’informazione.
A Tex quel reporter sembrava tutto sbagliato, un usurpatore. Nella sua testa, alla voce reporter c’è Attila che salta giù dal letto allo squillo del telefono, imprecando in cerca delle scarpe, dei pantaloni e dello zainetto con la macchina fotografica. Tutti i reporter devono essere Attila, e distinguersi, che so, dal colore. Si sentiva solo, indifeso, aveva voglia di vederlo entrare da quella porta e sentirgli dire.
«Che cazzo ci fai qui? Andiamo a casa.»

Don Gualtiero ascoltò con interesse il racconto di Tex, ma la sua curiosità non era ancora soddisfatta. Tex gli aveva detto poco di più di quello che aveva già letto sul giornale.
«La cosa più importante non l’hai detta. Perché eri lì? Aspettavi l’autobus, ma quello non era un autobus di linea. Tu aspettavi esattamente quell’autobus.»
«Me lo ha detto Dio… o almeno credo fosse Dio.»
«Dio? Sei cattolico?»
«No, scintoista… non praticante. I miei sono scintoisti… ma neppure loro sono praticanti.»
«Ah.»
«È deluso?»
«Un po’, ma sono soprattutto curioso. Come ti si è manifestato Dio?»
«Durante un mio esercizio mentale. Lo faccio spesso, quando sono agitato, o quando non riesco a dormire. Mi siedo sul pavimento da solo al buio e cerco di immedesimarmi completamente in un animale, a volte un gatto, o un cane, ma il mio preferito è un uccellino. Un uccellino bianco.»
«Sembra divertente.»
«In realtà è estremamente faticoso. Il cane, per esempio, mi distrugge ogni volta. Devo concentrarmi sugli odori e immaginare di percepirne moltissimi e amplificati a dismisura. Devo anche figurarmi una diversa percezione del gradimento. Certi odori che per noi sono rivoltanti per il cane sono piacevoli. Raramente sono arrivato alla percezione dei rumori e ai movimenti, in genere stramazzo al suolo con la testa che gira e l’olfatto impazzito come quello delle donne incinte. L’olfatto del cane è troppo complesso per essere elaborato da un cervello umano.»
«Non puoi semplicemente evitare di concentrarti sull’olfatto?»
Tex ride «E che cane sarei? L’esercizio comporta il diventare quell’animale, concentrandosi sulle peculiarità. Del gatto, per esempio, mi piace saltare e arrampicarmi sugli alberi al buio.»
«Non è che uno rischia di farlo davvero e di cadere?»
«No. Ci puoi riuscire solo con la mente. Per questo è importante stare fermi. Il tuo corpo non è quello di un gatto, al primo movimento la tua mente si ricorderebbe chi sei.»
«Quel giorno che animale eri?»
«Ero l’uccellino. È quello che mi rilassa di più e che riesco a sostenere più a lungo. Con lui mi concentro sul volo, sul movimento delle ali e sullo sforzo iniziale a livello di muscoli pettorali, poi devo abbandonarmi alle correnti ascensionali. Mi sento leggero leggero e libero è bellissimo. Raggiungo un livello di concentrazione talmente avanzata che a volte mi lascio inseguire da un grosso gatto nero che tenta di catturarmi.»
«E il gatto sei sempre tu?»
«Oh no. È già difficile gestire un animale, figuriamoci due. Comunque quel giorno quando ho incontrato il gatto mi sono lasciato catturare. Volevo abbandonarmi alla visione e vedere cosa sarebbe successo. Ebbene, il gatto mi ha inghiottito. È stato piuttosto strano, non mi ha mangiato o masticato, solo inghiottito. Mi sono trovato al buio completo, in un ambiente privo di cose da toccare, privo di odori, rumori, temperatura. Ero come sospeso, è stato inquietante.»
«Quanto tempo sei rimasto lì?»
«Non saprei dirlo. Lì non avevo la percezione dello scorrere del tempo. Avrei voluto chiedere aiuto, ma avrei usato la mia voce umana e avrei interrotto la visione. Non mi sono mai concentrato sul cinguettare. Nella mia visione ho solo le abilità che mi attribuisco. È come imparare ad essere un uccello un pezzo alla volta. Già per immaginarsi di pesare pochi grammi, di avere muscoli sviluppati in modo diverso e usarli per spiccare il volo, è un lavoro di concentrazione enorme.»


Attila che ascoltava in silenzio guardando fuori dal finestrino intervenne. «È impressionante guardarlo quando fa il suo esercizio mentale. Non muove un muscolo, non apre gli occhi, non sente il telefono, i rumori per strada, la gente bussare alla porta… ma è completamente rilassato, non so come faccia a restare seduto.»
Tex continuò il suo racconto. «Dopo un tempo indefinito, qualcosa di caldo mi ha sollevato e mi ha portato su in mezzo alla luce. Era una grossa mano, che mi teneva sul suo palmo.»
«Cos’era, un gigante?»
«No, ero io ad essere ancora un uccellino. Sentivo il mio piccolo cuore battere in fretta. Ero intimorito, ma non spaventato. Mi sentivo al sicuro su quella mano.»
«Ti ha detto qualcosa?»
«Sì, mi ha detto che devo stare attento, che l’immaginazione può essere molto pericolosa. Ha una bella voce.»
«Con la barba bianca come tutti se lo immaginano?»
«Niente barba, sembra più una lei. Ho potuto vedere i suoi lunghi capelli impalpabili e gli occhi neri. Avvolta nella luce, una luce forte, buona, nonostante fossi stato al buio non mi faceva male agli occhi»
«Ha un volto… orientale?»
«Non è un viso inquadrabile in una razza precisa, come se non avesse razza, non so come spiegarlo. Ma perché lo chiede?»
«Magari hai avuto un’allucinazione e hai visto una divinità delle vostre, dello scintoismo intendo.»
«Si riferisce ad Amaterasu Omikami? Questo, Don, è un po’ come fare parkour. Chi ci dice che Amaterasu, Allah, o il vostro Dio non siano lo stesso mito, o la stessa entità? La sensazione di pace interiore che ho provato con la Dea non l’ho mai provata in vita mia. La disturbo se la chiamo Dea?»
«Puoi chiamarla come credi, anche se non è detto che sia una femmina, magari tu hai visto la tua Amaterasu perché è così che ti immagini Dio.»
«Può darsi. Però ero molto concentrato per la storia dell’uccellino e per tutto il tempo sono rimasto accoccolato sulla sua mano, la mia mente era completamente sgombra dal vero me. Ma se fosse? Che differenza fa se Dio è maschio o femmina? Troppe certezze che crollano?»
Don Gualtiero sentì l’affondo di Tex, non c’era alcun coltello, ma qualcosa dentro di lui stava sanguinando. «Hai imparato l’italiano troppo bene per i miei gusti.»
Tex sorrise. «Faccio l’interprete e il traduttore simultaneo. Per me “ho imparato” non esiste, ma solo “sto imparando”. Smettere di studiare non è contemplato.»
«In che lingua ti ha parlato?»
«In giapponese, o io l’ho percepita così.»
«Ora non fraintendere quello che sto per chiederti, ma… Perché proprio quell’autobus e non un altro? Perché ti ha chiesto di salvare proprio quelle persone e non altre? Vedi, non hai idea di quante volte ho dovuto rispondere a una domanda come questa. Un familiare ammalato, senza speranza, la morte di una persona cara. La gente si chiede, perché proprio alla mia famiglia? Per cosa Dio ci sta punendo? Perché un coglione ubriaco cade da un terrazzo senza un graffio e una donna buona scivola per le scale e resta paralizzata? Perché un criminale di guerra crepa a cento anni e muoiono tutti i giorni bambini innocenti? Dove sta la giustizia divina quando un bambino viene investito e ucciso da un balordo, che ne esce senza un graffio? Dimmi cosa cazzo devo rispondere a domande del genere, perché in tanti anni di sacerdozio ho finito gli argomenti!» Il sacerdote battè un pugno sul finestrino svegliando Attila che si era appisolato.
«Non lo so. A me ha chiesto di prendere subito la macchina e lasciarla lì… dove l’ho messa… non mi ha svelto i misteri dell’esistenza. Ha detto che avrei potuto risparmiare molto dolore. Sì, ha detto proprio così. Ma perché si arrabbia?»
«Sono un po’ offeso, le ho dedicato la mia vita e con me non ci ha mai parlato. Tu non sembri neppure in grado di capire l’immenso dono che hai ricevuto. Ti ha detto perché ha scelto te?»
«Forse perché ero lì nei paraggi, perché ero sveglio a quell’ora? Soffro d’insonnia, stavo meditando di notte, credo fossero le quattro e mezzo, le cinque… sicuramente non c’era nessuno in ascolto a quell’ora…»
«Perché, di giorno c’è qualcuno in ascolto? I miei fedeli ripetono le preghiere come pappagalli, sempre tutti lì in chiesa a… a… rompere i coglioni, ma sono incapaci di un gesto di compassione, di un guizzo di amore per il prossimo! Predicare amore e fratellanza a vecchi incattiviti, che vengono a messa solo perché hanno paura di andare all’inferno, ecco quello che faccio! Come possono loro sentire la sua voce… se non ci riesco io!?»
«Non saprei… certo che se per parlare con Lei serve sentirsi un uccellino per mezz’ora la vedo complicata.»
Attila intervenne con una risata fuori luogo.
«Ecco perché ha scelto Tex. Le serviva un interprete.»

Don Gualtiero ripensò a lungo al suo incontro con Tex, si era anche annotato il suo numero, promettendosi di non chiamarlo mai. Si chiedeva cosa sarebbe successo se lui non avesse ascoltato la sua visione. Non sarebbe tornato in treno e non si sarebbero mai incrociati. Si chiese se lui avrebbe notato la ragazza che stava per finire sotto al taxi, se poco prima Tex non lo avesse riempito di dubbi. Magari nella fretta di arrivare a quel ritiro spirituale non l’avrebbe vista. Si chiese se parlare in confessione di quell’incontro gli avrebbe causato problemi, ma al momento non avvertiva alcuna urgenza di confessarsi, né di andare al ritiro spirituale. Si sedette su una panchina al parco, di fronte a un laghetto, fissando delle anatre che facevano colazione con i resti di un panino e ripensando all’articolo di giornale che parlava dell’autobus. Oltre alla foto di Tex c’era quella del Cioni, anche del Bonetti, ma non c’erano le foto dei bambini e delle ragazze accompagnatrici, così decise di immaginarseli. Trentatre bimbi saltellanti, con magliette colorate e le tre ragazze, che avevano fatto da poco l’esame di maturità. Chissà se la ragazza incinta aveva in programma di sposarsi dopo il diploma o aveva deciso di affrontare tutto da sola. Chissà se osservava i bambini immaginandosi il suo. Poi se li figurò tutti quanti straziati dall’incidente, i loro poveri corpicini allineati, coperti da teli. I genitori distrutti, intontiti da un dolore troppo grande da sopportare. Difficile valutare se Tex avesse davvero visto Dio (o la Dea) o semplicemente avesse dato retta a un’allucinazione, senza paura di passare per matto. Di certo aveva fatto la differenza fra la vita e la morte per trentasette persone, ma senza pose da eroe, come se fosse passato lì per caso, come se davvero lo avessero chiamato a fare l’interprete.


Le anatre galleggiavano pigramente, per loro sembrava tutto così facile. Chiuse gli occhi e si immaginò panciuto con un pesante becco, camminare goffo con la zampette corte e i piedi palmati. Tuffarsi nel laghetto, diventare improvvisamente agile e veloce come una piccola barchetta e attraversare il laghetto con pochi colpi di piedi. Si immaginò a fare a gara con le altre anatre per prendere il pezzo di pane più grosso, per poi vederselo soffiare da una più piccolina e veloce, che sembrava essere sbucata dal nulla. Ma non fu facile sostenere la visione quando qualcosa di piccolo e caldo si posò sulla sua mano aperta. Era un uccellino bianco, che rimase lì fermo a guardarsi intorno, graffiandolo leggermente con le sue zampine.
«…ma, non ero io che dovevo…? Non importa. Ci riproverò domani.»
Tentò di accarezzarlo, ma l’uccellino spiccò il volo.

Roberta Billeri, 18 luglio 2019