“Questo lo so fare anch’io!”. La rivoluzione dell’arte contemporanea.

#Paola Capozzi

Fontana, Duchamp, 1917

L’esclamazione che tante volte si pronuncia davanti ad un’opera d’arte contemporanea è il punto di partenza di un saggio pubblicato alcuni anni fa e scritto dal critico d’arte Francesco Bonami. Nel testo lo studioso offre una disamina di numerose opere d’arte, da quelle più famose a quelle meno note, in cui si propone di abbattere alcuni cliché tanto radicati nei confronti dell’arte contemporanea. Ciò che induce l’osservatore ad un giudizio negativo, e il più delle volte affrettato, nei confronti di tante opere d’arte prodotte a partire dalla metà del Novecento è sostanzialmente un atteggiamento scarsamente empatico e poco propenso alla comprensione di qualcosa che appare così lontana da ciò che generalmente si definisce “arte”. Ma cos’è l’arte? Esiste una definizione universale che possa valere in tutti i tempi? Fino all’inizio del Novecento, infatti, si credeva che un dipinto o una scultura dovesse rappresentare esclusivamente la realtà; ciò spiega il successo dei generi tradizionali, come il ritratto, o delle correnti più strettamente figurative, prime tra tutte l’Impressionismo. Il Novecento, però, con le sue vicende storiche e politiche segna una svolta in ogni ambito della produzione artistica. Figura chiave di questo cambiamento è senza dubbio il francese Marcel Duchamp; dopo di lui niente sarà più come prima. Duchamp si muove tra il Dada ed il Surrealismo dalla metà degli anni ’10 fino alla fine degli anni ’20, periodo in cui si collocano tutte le sue opere più celebri e provocatorie: Fontana (1917), Ruota di bicicletta (1913) e continua a lavorare instancabilmente fino alla sua morte nel 1968. Insieme all’amico e fotografo Man Ray e alla gallerista Peggy Guggheneim , Duchamp fonda il “linguaggio” dell’arte contemporanea; un linguaggio che si basa sulla provocazione, sul nonsenso e che esprime un rifiuto nei confronti di tutta l’arte precedente e della società che l’aveva prodotta. L’arte, infatti, non è più solo ed esclusivamente rappresentazione della realtà ma diventa espressione di un concetto attraverso un linguaggio specifico; viene meno, in questo modo, l’idea tradizionale di bellezza del dipinto. La Fontana non è altro che un orinatoio che l’artista capovolge dandogli un titolo, inviandola ad una mostra e firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. Alla giuria che, naturalmente, rifiuta di esporre l’oggetto, l’artista parlando di sé in terza persona dice: «non ha importanza se il signor Mutt abbia o meno fatto Fontana con le sue mani. Egli l’ha SCELTA». L’artista, dunque, non è colui che dimostra una competenza tecnica ed un’abilità manuale (tratto caratterizzante della figura dell’artista a partire dal Rinascimento) nel saper realizzare l’opera d’arte, l’arte non è più fare ma scegliere , cioè operare a livello di puro intelletto. Chiunque, in questo senso, può essere artista e tutto può diventare arte, basta riuscire a sottrarsi alle schematizzazioni mentali che tendono ad incasellare la realtà all’interno di una griglia rigida e mistificatoria, imposta dalla società borghese e strettamente legata alla sua visione del mondo. Duchamp scaglia le proprie provocazioni ribadendo che esse non hanno «altra intenzione che quella di sbarazzarsi dell’apparenza di opera d’arte». Si può dire che è proprio questa la prima tappa che porta alla creazione di tante opere che appaiono, oggi, inaccettabili. Pertanto, quando vediamo un’opera d’arte dall’apparenza banale, la domanda che dovremmo porci è «che cosa ci vuole dire l’artista? Qual è il suo messaggio?», solo così potremmo capire che non tutti sono dotati di tanta inventiva e spirito critico da riuscire a elaborare un linguaggio apparentemente semplice e invece così carico di significati e di innovazione.

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