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CONTROCANTO A MELLONI

La doppia storia del Tricolore

Da simbolo del Risorgimento
a simbolo di una patria accomunata
da storia e cultura. - Un'identità
da riconoscere
, di M. Invernizzi

Attualità 10_01_2011
Tricolore

La controversia sul tricolore italiano merita qualche riflessione. L’intervento dello storico cattolico-democratico Alberto Melloni a Reggio Emilia lo scorso 7 gennaio, di fronte al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, racconta la vulgata che troviamo in molti libri di scuola. Il tricolore nasce nel 1797 come simbolo dell’adesione di una piccola minoranza d’italiani ai princìpi della Rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité, tre prìncipi come i tre colori. È poi adottato con entusiasmo da Giuseppe Mazzini (1805-1872) e con non poche reticenze dai Savoia, che ne conoscono gli antefatti repubblicani.

Trova il suo bardo nel poeta Giosuè Carducci (1835-1907). È utilizzato e sventolato – secondo Melloni, viste le sue origini, abusivamente – dall’interventismo che spinge l’Italia alla Prima guerra mondiale e dal fascismo, fino a che è riscattato e ricondotto ai valori originari dai «cenacoli antifascisti» e dalla Resistenza. Può così diventare «il tricolore della Costituzione», oggi avversato da chi, sempre secondo lo storico cattolico-democratico, mette in discussione e minaccia la medesima: cioè – sembra di capire – dalla Lega Nord e da Silvio Berlusconi.

La ricostruzione è condotta in tono acido contro l’«intransigentismo papalino» di quei cattolici – di scuola, evidentemente, diversa dai cattolico-democratici – che a lungo criticarono e rifiutarono il tricolore, ma non è sostanzialmente inesatta. Storico di professione, Melloni conosce la categoria delle «tradizioni inventate», resa celebre da uno storico marxista, Eric Hosbawm, e oggetto in campo sociologico di una pregevole opera collettiva curata da James R. Lewis e Olav Hammer (The Invention of Sacred Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 2007).

In effetti la tradizione del tricolore è in gran parte una «tradizione inventata», costellata di ricostruzioni mitologiche della storia e trasformata in religione civile, grazie appunto in gran parte a Carducci e alle logge massoniche di cui il poeta era adepto e fedelissimo interprete. Se tutto si fermasse qui, i cattolici – tranne il manipolo, sempre più marginale quanto a consenso elettorale ma ancora egemone in qualche giornale e università, dei cattolico-democratici come Melloni – avrebbero le loro buone ragioni di rifiutare il tricolore. Questo sarebbe il simbolo della Rivoluzione francese e del Risorgimento anticlericale, con il loro triste corredo di vescovi imprigionati e di sacerdoti uccisi, poi dei loro eredi più consapevoli azionisti e laicisti, non meno anticlericali dei loro predecessori.

Ma la storia è davvero tutta qui? Mancano in Italia studi approfonditi come quelli che uno storico con spiccate attitudini sociologiche, Émile Poulat, ha dedicato alla Francia. Nel XIX secolo il tricolore francese è chiaramente e soltanto il simbolo della Rivoluzione francese. Lo sventolano gli anticlericali, lo rifiutano i cattolici, tanto che quando nel 1871 la maggioranza dei deputati offre a un cattolico integrale, Enrico V conte di Chambord (1820-1883), grande amico di san Giovanni Bosco (1815-1888), il trono di Francia, purché accetti il tricolore e ripudi la tradizionale bandiera bianca della monarchia, il principe contro-rivoluzionario rifiuta.

Chi obietta che «Parigi val bene una bandiera» non comprende come nel 1871 il tricolore sia ancora considerato dalla grande maggioranza dei francesi anzitutto il simbolo della messa a morte del re Luigi XVI (1754-1793), del Terrore e della persecuzione dei cattolici. Ma le cose, nota Poulat, cambiano con la Prima guerra mondiale. Qui le «due France», quella laicista e quella cattolica che si erano combattute vigorosamente fino alla guerra, si riconciliano nel sangue e nelle trincee. I cattolici adottano il tricolore, «cattolicizzandolo» con il Sacro Cuore, non più come simbolo della Rivoluzione, ma della patria, della Francia. A proposito della Prima guerra mondiale, occorre ricordare le riflessioni proposte da Benedetto XVI nel 2006 in occasione del novantesimo anniversario della battaglia di Verdun, che provocò 250.000 morti e 500.000 feriti, «momento oscuro – scriveva Benedetto XVI –, della storia del Continente, [che] deve restare nella memoria dei popoli come un evento da non dimenticare mai e da non rivivere mai».

Il Papa però distingue quella che il suo predecessore Benedetto XV (1854-1922) chiamò l’«inutile strage» della Prima guerra mondiale, e le oscure motivazioni degli uomini politici che la provocarono, dal comportamento spesso eroico dei soldati – tra cui lo stesso padre dell’attuale Pontefice – e delle popolazioni, che non conoscevano i retroscena della politica e manifestavano spesso un genuino amore della patria. Anche in Italia – lo ricorda, sia pure con tono ingiustamente dispregiativo, Melloni – i cattolici mandarono «al fronte due milioni di tricolori col Sacro Cuore al centro».

Al di là dei sarcasmi dello storico cattolico-democratico, non è difficile scorgere anche qui un inizio di riconciliazione nel sangue di due Italie che si erano disprezzate e combattute: i laicisti e i cattolici, il Nord conquistatore e il Sud conquistato. Un inizio, appunto: ma è vero che anche da noi si verificano gli episodi descritti da Poulat per la Francia – cappellani militari che sacrificano la vita per salvare un ufficiale massone, soldati mangiapreti che fanno lo stesso per i commilitoni cattolici. I sociologi possono poi rilevare che se lo sventolio di tricolori come fenomeno unanime inizia con la Prima guerra mondiale, non senza reticenze e resistenze soprattutto in quel Sud che non dimentica la feroce repressione post-unitaria condotta proprio all’ombra della bandiera nazionale, un ruolo decisivo hanno negli anni 1930 e 1940 i trionfi sportivi dell’Italia. Questi, in chiave sociologica, non vanno affatto sottovalutati.

Nel quadro di una strategia della cultura e dell’educazione fisica che ha certo anche i suoi aspetti deteriori e negativi, il regime fascista investe significative risorse nel sostegno ai principali sport. Ne risulta – senza che l’aiuto del regime sia l’unica ragione dei successi – una stagione di egemonia sportiva europea e mondiale dell’Italia mai più ripetuta, che vede la scena internazionale dominata dalle vittorie del pugile campione del mondo dei pesi massimi Primo Carnera (1906-1967), della nazionale di calcio vincitrice dei titoli mondiali del 1934 e del 1938, del pilota automobilistico Tazio Giorgio Nuvolari (1892-1953) e dei ciclisti Fausto Coppi (1919-1960) e Gino Bartali (1914-2000). Per festeggiare le loro vittorie i tricolori sventolano ripetutamente in tutte le piazze d’Italia, questa volta anche al Sud.

Ma qual è il significato di questo sventolio? Il tricolore, come tutti i simboli, non ha mai un solo significato. Le tradizioni inventate sono sempre esposte alla reinvenzione. Dalla Prima guerra mondiale alla nazionale di calcio il tricolore cambia in qualche modo significato: da simbolo del Risorgimento a simbolo dell’unità nazionale, da simbolo di un’ideologia rivoluzionaria a simbolo di una patria come territorio che ha in comune una storia e una cultura. Siamo oggi di fronte all’operazione di un piccolo «cenacolo», per dirla con Melloni, d’intellettuali che vorrebbe percorrere la storia a ritroso, e fare di nuovo del tricolore non il simbolo dell’unità nazionale – qualche cosa che pre-esisteva all’unità politica, e di cui la fede cattolica è componente ineliminabile – ma dell’ideologia laicista – e insieme centralista e anti-federalista – del Risorgimento, continuata dall’azionismo e dalle sue versioni cattolico-democratiche.

L’unità, che è un fatto, è cosa diversa dal Risorgimento, che è un’ideologia. Di fronte a questo tentativo sono possibili due reazioni. Una è il rifiuto del tricolore: atteggiamento comprensibile, ma che rischia di confondere la giusta critica dell’ideologia del Risorgimento con una critica dell’unità nazionale, forse anacronistica e comunque difficilmente comprensibile oggi dalla maggioranza degli italiani. La seconda reazione consiste nel rifiutare fermamente ogni interpretazione del tricolore come se fossimo nel 1797 o nell’anno del primo centenario della bandiera, nel 1897. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e il tricolore, nato male o malissimo, si è per così dire diluito nel corpo sociale perdendo o almeno stemperando il significato originario.

Si tratta, in questo secondo caso, di guardare non solo indietro ma anche avanti. Sembra questa la strada indicata dal Papa quando ha ricevuto, il 17 dicembre 2010, il nuovo ambasciatore italiano presso la Santa Sede. Benedetto XVI ha citato in quell’occasione le imminenti «celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia», memoria di «vicende liete e tristi», definendole «occasione per una riflessione non solo di tipo commemorativo, ma anche di carattere progettuale, assai opportuna nella difficile fase storica attuale, nazionale ed internazionale».

Questa riflessione non può trascurare come criterio d’interpretazione delle vicende storiche quello della necessità di una «collaborazione fra la comunità civile e quella religiosa, esigenza tanto più sentita in un Paese come l’Italia, la cui storia e cultura sono così profondamente segnate dalla Chiesa cattolica e nella cui capitale ha la sua sede episcopale il Capo visibile di tale Comunità, diffusa in tutto il mondo». Le caratteristiche e le peculiarità cattoliche, ricorda il Papa, «che da secoli fanno parte del patrimonio storico e culturale dell’Italia, non possono essere negate, dimenticate o emarginate; l’esperienza di questi 150 anni insegna che quando si è cercato di farlo, si sono causati pericolosi squilibri e dolorose fratture nella vita sociale del Paese».

Una lezione per i Melloni di questo mondo, e forse l’occasione di un accostamento più pacato e meno ideologico anche alla questione del tricolore.