*

I

Vedo dal buio
come dal più radioso dei balconi.
Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce
scostandola in silenzio
fino al varco più nudo – al nero
di un tempo che compone
nello spazio battuto dai miei piedi
una terra lentissima
– promessa.

*

II

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.

Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

*

XIV

Benedetta tu a distanza
la più innocente tra le cose lontane:
nicchia di tavolo e mela
una sfera, un piano e contro l’alta fiamma del fuoco
le due forme congiunte a scavare il nitore di un vano.

Nulla in realtà ci chiama
eppure ci accostiamo agli oggetti
quasi fossero gli echi di una voce
l’annuncio indifeso di altre vite.
L’acqua nera, la sagoma del cane contro il molo.
Nessuno può dirli ricordi e fischiare davvero come allora
ma noi vediamo le tre stanze, lo scatto
di chi ancora viveva
e a un tratto gli armadi ci rimandano
un fuoco errante la stella incerta di un viso.

Nulla è compiuto nulla è ancora profondo.
C’è solo il tonfo di una calce improvvisa
e queste grida tra felci che sferzano le schiene
grida che non capiamo come accade nel buio agli inseguiti.

Alberi, corpi, folate contro i muri.
Basta un gesto: il rovescio di un gomito che spegne una candela.

Di colpo diventiamo ciò che aveva tremato.

*

Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.

Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
– da brughiera –
sulla terra del viale.

Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

*

Aspetta che scenda la temuta notte, che scompaia
la luce dal crepuscolo, e ruoti
la terra sul suo asse.
Questa è la verità di questa sera incerta
sui cespugli di acacie e sulle case
questa è la sua misura – un acro di deserto.

Sopporta i tuoi pensieri dentro il buio
che avanzino in fitte di memoria.
Puoi schierarli fino a crinali di spavento
fissarli vacillare quando la pianura si oscura
attenderne il ritorno ora che il cane tace
e la mente si spegne
per un attimo forma senza male
anima del geranio
teso sulla ringhiera.

*

Antonella Anedda, Notti di pace occidentale, Donzelli, 1999

Antonella Anedda, di origini sarde, è nata nel 1958 a Roma, dove vive. Si è laureata in storia dell’arte moderna studiando tra Roma e Venezia. Ha insegnato presso l’Università di Siena e l’Università della Svizzera Italiana di Lugano. Tra le sue raccolte di poesia: Residenze invernali (Crocetti, 1992), Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999), Il catalogo della gioia (Donzelli, 2003),  Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007), Salva con nome (Mondadori, 2012), Historiae (Einaudi, 2018), Tutte le poesie (Garzanti, 2023). In prosa ha pubblicato Cosa sono gli anni (Fazi, 1997), La luce delle cose. Immagini e parole nella notte (Feltrinelli, 2000), Tre stazioni (LietoColle, 2003), La vita dei dettagli.  Scomporre quadri, immaginare mondi (Donzelli, 2009), Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena (Laterza, 2013), Geografie (Garzanti, 2021), Le piante di Darwin e  i topi di Leopardi (Interlinea, 2022). Le sue traduzioni di poeti classici e moderni sono pubblicate in Nomi distanti (Empiria, 1998; poi Nino Aragno Editore, 2020).