La teoria dell’Uomo invisibile

Germano Hell Greco
M E L A N G E
Published in
4 min readMar 23, 2020

--

L’invisibilità.
Sembra che vada di pari passo con la psicosi. Sì, mi spiego meglio: la prima cosa che mi viene in mente quando penso all’invisibilità è L’Uomo senza Ombra di Verhoeven.
Quello con Kevin Bacon, e un florilegio di effetti speciali che all’epoca sembravano avveniristici, come ogni effetto speciale nella propria.
E poi penso al mantello elfico. Sì, si giocava a D&D.

L’idea dietro l’invisibilità è compiere ogni genere di magagne, impunemente. Proprio quello: rubacchiare, spiare, carpire segreti, violare l’intimità, tendere agguati.
Non a caso la creazione di un tessuto che renda invisibili fa gola ai militari.
E agli stalker. Potenziali e non.
Il personaggio di Kevin Bacon, infatti, già dotato di una personalità narcisistica e — chissà come mai! — snobbato dalla sua collega (Elizabeth Shue), non trova di meglio da fare che sfogare i suoi istinti più bassi, fino al finale grandguignolesco.

*** può contenere tracce di spoiler***

Ma arriviamo al presente: The Invisible Man della Blumhouse. Leigh Whannel raccoglie le ceneri del Dark Universe e attualizza un tema interessante, attraverso il volto percorso da psicosi attoriali di Elisabeth Moss. Che sì, ha un bel sorriso, ma è nata — come Jack Nicholson — per interpretare determinati sconvolgimenti emotivi. Fatele un primo piano mentre guarda fisso la MdP, col nulla dietro gli occhi, e avrete un diamante grezzo intorno al quale imbastire una storia.

The invisible Man arriva in un’epoca singolare, di cambiamenti.
Non possiamo uscire di casa, allora le case di produzione ce lo offrono direttamente in streaming, annullando il passaggio in sala. Qualche tempo fa qualcuno mi disse che “se un film non esce in una sala cinematografia non è un film, da definizione”.

Quindi con cosa abbiamo a che fare?
Con un figlio dei tempi. E non è mica detto che i Tempi abbiano sempre figli belli e carini.
Se il cinema avrà ancora un senso dopo la pandemia lo scopriremo nei mesi a venire, per ora non possiamo non prendere nota di un precedente anomalo.
Strane a arbitrarie definizioni, a parte, visto che per me L’uomo invisibile resta un film, anzi, un buon film, l’altra singolarità figlia del tempo è che sì, un materiale che “rende invisibili” esiste già.

E probabilmente, se dobbiamo dare ascolto ai teorici del complotto, il fatto che l’abbiano svelato oggigiorno e che esso mostri dei limiti evidenti vuol dire che si è già in possesso di qualcosa di molto più efficace.
Quindi sì, siamo legittimati, proprio come Elisabeth Moss nel film, a guardare il vuoto con il terrore che esso celi dei mostri, anche in piena luce.

Impianto — neanche tanto — metaforico: L’uomo invisibile è l’allegoria dello stalking. Ma nemmeno, è solo stalking aumentato.
Potenziato dalla tecnologia.
Quindi in sé il messaggio dell’Uomo invisibile è direttamente figlio della fantascienza anni ’50. Il progresso contiene in sé il pericolo che da un cattivo utilizzo dello stesso ne può derivare.
Nel caso in questione non solo è cattivo impiego, sono cattivi anche coloro che ne fanno uso. Anzi, nemmeno cattivi, psicopatici.
L’invisibilità, annullando l’esistenza visibile, pare accompagnarsi a una “giustificazione” (virgolettato d’obbligo) morale nel compiere ogni sorta di azione immorale. Giustificazione che non sta in piedi nemmeno con lo sputo.

Si parla di vendetta da parte di Elisabeth Moss, del suo personaggio, per gli indicibili torti subiti da parte dell’uomo smanioso di controllo assoluto, verso sua moglie come verso il suo cane, non importa la dimensione umana del soggetto oggettivizzato, ché dopotutto, l’identità della vittima, in queste sporche faccende, è inesistente da parte di chi esercita tale violenza.
La vittima è vittima in senso totale, qui, in senso sociale, che è la pietra tombale che segue quasi sempre le storie di violenza fisica: il biasimo da parte dei tuoi simili, da parte degli affetti, del sistema, di tutto il mondo.

L’Uomo invisibile parte come un film di spettri, con lenzuola spostate, soffi d’aria sul collo, col terrore dell’ignoto, e finisce con la vendetta verso un essere malvagio e immorale.
Eppure, e rappresenta per me ulteriore motivo di intrigo, l’oggetto che dona tale potere — che sia un artefatto magico o, nel caso in esame, una tuta ad alta tecnologia che rifrange la luce — corrompe, come nelle più classiche leggende eroiche.
Non sfugge, infatti, sul finale, a vendetta compiuta, lo scambio di sguardi tra Elisabeth Moss, il suo amico poliziotto e la tuta inanimata, che giace nella borsa che lei sta portando via con sé.
La tuta ècome l’Unico Anello: l’invisibilità conferisce potere, ti sottrae dall’esistenza fisica convincendoti, in qualche modo distorto, di non dover più rispondere a nessuno delle azioni compiute. E ti espone a un’entità astratta che inizia a consumare la tua anima, le tue convinzioni, non appena ti sfiora. Difficile farne a meno, una volta indossato, e continuare a seguire la morale degli uomini.

_______

LINK UTILI:

Il blog dell’autore
Sito personale
Pubblicazioni

--

--

Germano Hell Greco
M E L A N G E

Kick-Ass Writer. Short Tempered Blogger. Editor in chief.