Adele Succetti
psicoanalisi lacaniana oggi
14 min readNov 1, 2017

--

I fondamenti etici della psicoanalisi lacaniana — Seminario Lacan presso l’Officina Coviello — Via Tadino 20 — Milano

27.10.2017

In questa breve riflessione vorrei provare a definire quali sono i fondamenti etici della psicoanalisi secondo Jacques Lacan, per sottolinearne la loro attualità e, nella variegata offerta psicologica e di cura attuale, la loro necessità.

Sin dagli anni ’50, Lacan si interroga sull’etica propria della psicoanalisi, che non risponde — ovviamente — a una concezione teleologica del sommo Bene (la psicoanalisi non è una religione!) e, neppure è, in senso più utilitaristico, al servizio dei beni comuni. Già ne “La cosa freudiana” (1955), ad esempio, Lacan sottolinea bene che “l’analisi non sfocia in un’etica individualista. Ma la sua pratica nella sfera americana si è degradata così sommariamente in un mezzo per ottenere il successo e in una modalità che esige la ‘happiness’, la felicità”. Per Lacan, questo non è l’obiettivo della psicoanalisi secondo Freud, che aveva elaborato il disagio della civiltà e quindi una visione non ottimista ma piuttosto realista della condizione umana. La psicoanalisi al servizio della felicità o del successo è un utilizzo deviato e comunque ipocrita rispetto a quello che la psicoanalisi stessa ha scoperto dell’essere parlante. Questo non significa affatto che la psicoanalisi non produca effetti positivi per la vita di un soggetto, tutt’altro, ma, per così dire, si tratta di effetti che non sono classificabili secondo gli ideali edonisti del momento e tanto meno gli ideali del capitalismo….

L’etica della psicoanalisi ha di mira il desiderio inconscio — scoperto da Freud — nel suo annodamento con la Legge, con il simbolico, e in rapporto con il godimento (l’al di là del principio di piacere freudiano). Ma, concretamente, cosa significa questo? In che senso una psicoanalisi è diversa da una cura psicoterapeutica o da una cura — come quelle molto in voga oggi — che utilizza il corpo, la respirazione o altre tecniche di suggestione più o meno immaginarie? Le psicoterapie, di fatto, come già la medicina (soprattutto nel passato, quando il medico parlava ancora con il paziente) e la religione, si fondano sul fatto che la parola dell’Altro ha un’incidenza sull’essere umano. In queste terapie si tratta di un Altro che dice cosa si deve fare, per stare meglio, al quale il soggetto ubbidisce e dal quale egli si attende l’approvazione. Come indica J.-A. Miller nel suo testo “Psicoterapia e psicoanalisi” (ne I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma, 2001, p. 159),

“sono tutte terapie dell’immagine di sé (…) Si tratta di restituire l’Io e le sue funzioni di sintesi e di padronanza sotto l’occhio del padrone, del maître, che svolge il ruolo di modello. (…) sono terapie (…) per identificazione al padrone”.

In questo senso, tutte le psicoterapie — anche quelle corporee, che comunque utilizzano la parola per dare le istruzioni, le indicazioni di quello che si deve fare (respirare, sentire il corpo, ecc…) o quelle in cui il terapeuta si mostra come esempio — sono cure che si basano sull’assoggettamento del paziente al benvolere dell’Altro, il terapeuta, a cui, in un certo qual modo, egli stesso alla fine si identifica, a causa del transfert che nutre per lui. “Faccio così perché me l’ha detto il terapeuta!”. Talvolta funziona e ha degli effetti positivi… ma questo approccio ha molti limiti perché, da un lato, si tratta di effetti di suggestione, che non sempre durano nel tempo poiché sono immaginari, non simbolici, e, dall’altro, perché dipendono troppo dall’individualità del terapeuta. Talvolta, poi, questi metodi “impositivi” o suggestivi non funzionano affatto… perché il reale del sintomo — a livello del corpo o della mente — non cede, perché la dipendenza (da un sintomo) non si sostituisce con un’altra dipendenza….

L’analista, invece, pur occupando inevitabilmente, il luogo dell’Altro a cui il paziente si affida, “si rifiuta di essere il padrone”, rinuncia a usare l’identificazione come strumento di cura, non si serve della padronanza del proprio sapere per ascoltare il paziente. Proprio perché l’analista sa che il sintomo di ognuno è strettamente personale, fa parte delle coordinate simboliche di quel paziente e non di un altro, è necessario, infatti, lasciarsi guidare dalle parole del paziente, che del proprio disagio — volente o nolente — ne sa qualcosa. Così l’analista non applica in modo cieco o standardizzato il proprio sapere teorico e clinico indifferentemente su tutti i pazienti. Pur avendo una formazione teorica e clinica, l’analista deve restare aperto alla specificità e alla singolarità di ogni persona, una per una, che si rivolge a lui. Per fare questo, però, è necessario fare un lavoro di “sottrazione” — possibile solo grazie all’analisi personale e al lavoro di supervisione sui casi.

L’analista, quindi, non propone una nuova identificazione al paziente ma, al contrario, lo aiuta a far cadere quelle che lo soffocano o lo bloccano, producendo sintomi o disturbi. Per Freud l’obiettivo di una psicoanalisi può essere riassunto nella sua formula “Wo Es war, soll Ich werden”, che significa, secondo la lettura fattane da Lacan, anzitutto distinguere il soggetto dell’inconscio — che può emergere solo grazie all’analisi — e l’io della coscienza, che è costituito da una serie di identificazioni alienanti, ricevute dall’Altro o comunque ispirate ad esso. Per Lacan, il compito dell’analisi è quella di far venire alla luce l’io del soggetto (dell’inconscio) là dove era il luogo dell’essere. Perché questo sia possibile, però, è necessario che l’analista per primo abbia attraversato lo stesso percorso, sino a soggettivare il proprio essere. Questo per non influenzare con la propria storia il percorso di cura, assolutamente soggettivo, del paziente. Anche in questo senso si può intendere quello che diceva Freud quando sosteneva che l’analisi funziona “per via di levare”. Con l’interpretazione si aiuta a far cadere, a far perdere identificazioni, credenze, destini; non si aggiunge al troppo di senso che chiunque già produce da sé e che, al contrario, blocca, zavorra. In questo senso, dice ancora Miller,

“l’analista non può promettere né la felicità, né l’armonia, né lo sviluppo della personalità (…) Può all’occasione promettere di mettere in chiaro il desiderio del soggetto e di aiutare a decifrare ciò che insiste nell’esistenza di un soggetto” (ivi, p. 163).

Per desiderio del soggetto si intende, ovviamente, il desiderio inconscio, quello che neppure il soggetto conosce di sé ma che, eventualmente, ritrova in parte nelle proprie formazioni dell’inconscio (sogni, lapsus, atti mancati, ecc..) e nel suo modo di relazionarsi all’Altro. Ciò che insiste, invece, è il sintomo, che si ripete e da cui il paziente non riesce a sottrarsi. È responsabilità dell’analista, d’altro canto, adattare gli effetti analitici alla capacità del soggetto di sopportarli: far cadere un’identificazione, mettere in questione una credenza “nociva” per il soggetto, talvolta per alcuni pazienti, nonostante il disagio che ne deriva, non è possibile. E questo è un compito fondamentale dell’analista perché, come ha detto J.-A. Miller a chi si forma all’insegnamento di Lacan, “non c’è clinica senza etica”.

****

Dal 1959 al 1960 Lacan ha dedicato un intero Seminario, il settimo, all’Etica della psicoanalisi. Senza entrare nel dettaglio del Seminario, ritroviamo le principiali tesi lacaniane relative all’etica psicoanalitica in due conferenze, che Lacan ha tenuto a Bruxelles, il 9 e il 10 marzo del 1960. Nella prima conferenza specifica che nel Seminario coevo sta lavorando sulle “incidenze etiche della psicoanalisi (…) della morale che essa condiziona”. Dopo una vita trascorsa ad ascoltare “vite che si raccontano”, Lacan da un lato sottolinea che lui non è “niente per vagliare il merito” delle vite degli altri e, dall’altro, aggiunge che una regola del suo ascolto “è per l’appunto quella di tacere il suo amore”. L’analista non giudica la vita dei suoi analizzanti, le loro scelte e, soprattutto, non dice quello che prova, neppure il suo amore che, come tutti i sentimenti, sottende anche una domanda all’altro, domanda di essere o non essere in un certo modo. In questo senso, la psicoanalisi lacaniana si differenzia completamente dalla psicoanalisi post-freudiana che, allontanandosi dall’insegnamento di Freud, utilizza il contro-transfert, vale a dire il sentire dell’analista, per interpretare i detti e le azioni dei suoi pazienti. Per Lacan, invece, l’unico soggetto presente in analisi è l’analizzante, che produce le sue elaborazioni, mentre l’analista incarna piuttosto il posto dell’oggetto, fa sembiante di oggetto. È da questa posizione che interviene, punteggiando, sottolineando il dire del paziente, per aiutarlo nella sua elaborazione.

Nella conferenza, comunque, l’unico ‘giudizio”, commento, che Lacan, in quanto analista, propone al suo pubblico, riguarda, invece, il carattere “zoppicante” dell’esistenza umana.

“Com’è che gli uomini” si chiede “supporto tutti e ognuno di un certo sapere (inconscio) o supportati da esso, com’è che gli uomini si abbandonano gli uni gli altri, in preda alla cattura di quei miraggi per cui la loro vita, sprecando l’occasione, lascia fuggire la sua essenza, per cui la loro passione viene ingannata, per cui il loro essere, nel migliore dei casi, non raggiunge che quel poco di realtà che si afferma solo di non essere mai stato deluso?”.

La vita degli uomini, vista da un analista, zoppica proprio perché gli uomini perdono le occasioni della vita e quindi la sua essenza, l’incontro fortuito, la sorpresa, l’atto. Questo perché sono il supporto di un sapere inconscio (simbolico) e, dall’altro, perché si lasciano incantare da miraggi immaginari, che hanno effetti sulle loro scelte, sulle loro passioni e che, in un certo qual modo, irrealizzano la loro stessa vita. E anche il sapere — scientifico, filosofico o psicologico — secondo Lacan serve spesso a “camuffare” il fatto che “nulla nella vita concreta di un singolo individuo permette di dare fondamento” all’idea di “una coscienza progressiva di sé (… verso) l’accordo con se stesso e il suffragio del mondo, da cui dipende la sua felicità”. Questo significa, come da sempre gli scrittori hanno già messo in evidenza, che l’essere umano si inganna — con il sapere o con ideali immaginari di padronanza di sé o del mondo — e proprio per questo spesso perde l’essenza della sua stessa esistenza.

Il problema è che il sapere della psicologia moderna, con i suoi esperimenti e i suoi test, le sue valutazioni, può essere utile per “il conformismo, addirittura lo sfruttamento sociale”, ma, come sottolinea ancora Lacan, non ha nessuna presa su quello che, già nel 1960, gli sembrava essere il sintomo principale dell’uomo contemporaneo, ovvero l’“impotenza sempre più grande dell’uomo a raggiungere il proprio desiderio”. È interessante questa sua riflessione, pronunciata proprio nel 1960, all’inizio del boom economico post-guerra, quando la televisione cominciava a diffondere le immagini degli oggetti acquistabili, degli status symbol da desiderare e da avere!! Tale impotenza, dice ancora Lacan, aumenta l’angoscia dell’uomo contemporaneo al punto da fargli perdere o ridurre la sua “chance inventiva”.

Questa difficoltà, però, non dipende solo dai limiti dell’essere umano; quello che, infatti, Freud ha scoperto — inventando la psicoanalisi — è precisamente il fatto che “il desiderio non è una cosa semplice”. Cos’è quindi il desiderio? Per rispondere a questa domanda Lacan fa riferimento al suo Seminario dell’anno precedente, il Seminario VI, dedicato al desiderio, sottolineando che è “la risultante” di un’articolazione complessa… e, soprattutto, è un “oggetto nuovo per la riflessione etica”. Il desiderio umano, in altri termini, interroga l’etica in modo completamente nuovo rispetto alle precedenti riflessioni sull’etica, da parte della filosofia o della religione. Il desiderio inconscio è un nuovo oggetto che non si può afferrare tramite la comprensione o l’assunzione di coscienza di sé e neppure tramite le vie della morale tradizionale. Ciò che caratterizza “l’inconscio freudiano”, vale a dire l’inconscio così come lo ha elaborato Freud, è il fatto di essere “traducibile e anche laddove non può essere tradotto, vale a dire a un certo punto radicale del sintomo, nominatamente del sintomo isterico, di avere la natura dell’indecifrato, quindi del decifrabile, vale a dire di non essere rappresentato nell’inconscio che in quanto si presta alla funzione di quello che si traduce”. È la lettura lacaniana classica dell’inconscio freudiano: l’inconscio, cioè, è strutturato come un linguaggio ed è in questo senso che può essere accostato.

Inconscio e sintomo seguono le leggi del significante (così come lo intende la linguistica), cioè di un elemento linguistico che è “legato sincronicamente a una batteria di altri elementi che possono sostituirsi ad esso” e che può essere utilizzato in senso diacronico, per formare una catena significante. Lacan poi aggiunge un’indicazione interessante riguardo a quello che, per lui, è l’inconscio, ovvero: “nell’inconscio ci sono cose significanti che si ripetono, che (s)corrono costantemente all’insaputa del soggetto” e che si infilano, quando ne hanno l’occasione, in quello che ha la loro stessa struttura di linguaggio cioè “il nostro discorso concreto” e la “retorica” propria dei nostri comportamenti! Quindi l’inconscio si infila ovunque, non solo nei sogni, negli atti mancati, nei lapsus. Per Lacan l’inconscio pervade tutto quanto c’è di linguistico nel dire e nel comportarsi di un soggetto. Per spiegare meglio questo concetto, egli propone un’immagine molto interessante — che ripeterà anche nel 1966, durante una conferenza a Baltimora — e cioè che l’inconscio è come “i cartelloni pubblicitari” che scorrono sulle pareti di un qualche immobile, i cui messaggi entrano, senza che ce ne accorgiamo, nelle nostre vite.

Ma cosa sono questi elementi significanti? Lacan ci dice che “l’esempio più puro del significante è la lettera, una lettera tipografica … che non significa niente”, il cui senso dipende, però, esclusivamente dal tipo di uso che se ne fa, rispetto all’uso comune. La lettera nell’inconscio si muove utilizzando i canali, per così dire, della metonimia (la parte per il tutto) o quelli della metafora (la sostituzione di un termine a un altro), cioè gli artifici della retorica. In questo senso il funzionamento linguistico nell’inconscio assomiglia molto a quello che si realizza nella poesia: il significante — che in quanto lettera non significa niente — si muove, scorre per assonanze sonore, per associazioni di senso, ecc..

E il desiderio inconscio di cui parlava prima? Quello che porta in primo piano la questione etica della psicoanalisi? Lacan ci dice che “il desiderio risponde all’intenzione vera di colui che parla”, per dire la verità ma anche per mentire. Ma, se il soggetto — quello che parla — è escluso dalla coscienza, non è cosciente, come si può cogliere l’intenzione vera? Queste sono le difficoltà che la psicoanalisi, come esperienza di parola, porta al campo dell’etica. Si tratta forse di una verità che è tale proprio perché si manifesta nascosta? Proprio perché il desiderio — “inconoscibile come la cosa in sé” — ha a che fare con quello che Lacan chiama, poco più avanti nel testo, “l’estremo dell’intimo, ma che è al contempo internità esclusa”?

In un modo che potrebbe sorprendere (di fatto l’università belga in cui parla è un’università cattolica) Lacan trova un esempio di questa difficoltà — che interroga l’etica — nel Vangelo e precisamente in una lettera di San Paolo ai Romani, che spiega bene il rapporto complesso tra legge e desiderio, che la psicoanalisi verifica:

“[7] Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. [8] Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto [9] e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita [10] e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. [11]”

Il desiderio, quindi, è annodato alla legge, anzi dipende dalla legge stessa, a cui è legato però anche il senso di colpa. Benché Freud fosse, secondo Lacan, un materialista, si è reso conto che i beni, l’utilità, di fatto, — pur essendo “irresistibile” per l’essere umano — sono inefficaci contro la “legge primordiale” da lui scoperta che dipende dal rapporto “di discorso” tra il soggetto e il suo essere. Il soggetto parlante, in quanto essere di discorso, che appartiene alla storia di un “discorso concreto”, vive in prima persona quello che, a livello più generale, le morali del passato hanno sempre sostenuto e difeso: il limite, la “frustrazione” dice Lacan, a un “godimento posto come legge apparentemente avida”. Per la psicoanalisi, questo limite al godimento è strutturale… non dipende da una morale ma dal fatto che l’essere dell’uomo è un essere di linguaggio. Nascere al linguaggio significa, strutturalmente, perdere qualcosa del godimento primordiale che, nel Seminario VII, Lacan nomina come La Cosa, Das Ding. L’interesse di Freud per la funzione, per il nome, del Padre rinvia precisamente alla funzione etica del limite.

Benché sostenga di non voler fare la psicologia di Freud, in realtà, Lacan ne parla piuttosto come di una “psicologia femminile” di cui trova traccia anche nella sua monogamia. Per Lacan è proprio il rapporto forte con sua madre — “la Madre Intelligenza” — ciò che ha permesso a Freud di scoprire Das Ding, la Cosa freudiana, ovvero “ciò che è al centro del desiderio inconscio”, l’oggetto proibito, che lo ha spinto a meditare sulla funzione protettrice del Padre. Per scoprire questa Cosa, Freud è partito dallo studio dei sintomi dei suoi pazienti. L’oggetto fobico nel caso del Piccolo Hans, ad esempio, mostra, proprio in quanto vacilla, la “funzione del Padre che è quella di costituire un punto girevole nella preservazione del desiderio”. La funzione del Padre cioè pone un limite al desiderio ed è proprio per questo che lo preserva, cioè che lo rende possibile. In caso contrario, si ha il funzionamento per così dire “standard” dei due principi, che produce l’impotenza di cui Lacan ha parlato all’inizio della sua conferenza. Come spiega molto bene Lacan:

“I due principi crescono e decrescono insieme, anche se i loro effetti sono diversi: l’onnipotenza del desiderio genera il timore, e la difesa che ne deriva, nel soggetto; la proibizione, invece, caccia dal soggetto il suo enunciato — l’enunciato del desiderio — per farlo passare a un altro, a quell’inconscio che non sa nulla di quello che supporta la sua enunciazione”.

Il desiderio produce il timore, la paura in chi lo prova e il fatto che ci sia un padre che lo proibisce, in un certo qual modo, lo rende possibile. Cosa che, però, per l’uomo moderno è alquanto difficile. Come indica Lacan con una formula illuminante: “l’uomo moderno è colui per cui Dio è morto”… ma se “Dio è morto, più niente è permesso”, tutto diventa obbligatorio!! Se non c’è più limite, quello che resta è solo il Superio che blocca e che rimprovera il soggetto, senza limite. Il valore sublimatorio della funzione paterna — che non si confonde con le funzioni o gli atti del padre reale ma che si fonda sulla fede e sulla legge — per Lacan evidenzia il “primato dell’invisibile” che corrisponde a quello che, a livello del soggetto, chiamava mancanza-a-essere. È a partire da questa condizione dell’essere parlante che Lacan sottolinea che “la riflessione di Freud non è umanista (…) è tuttavia temperanza e temperamento (…) ma non è progressista”. Freud non ha fiducia in un futuro migliore, non crede che la libertà sia possibile, né a livello della coscienza né a livello della massa; pur tuttavia, “il dolore gli sembra inutile” ed è a questo livello che lo psicoanalista si colloca. Non per imporre un modello, un sapere precostituito (come spesso avviene con la psicologia) né per proporre una nuova religiosità (come ha fatto Jung) ma per aiutare, chi lo desidera, a trasformare tale dolore o a farsene qualcosa di nuovo a partire dal suo dire singolare, unico e imprescindibile.

****

Il simbolico, la cura, tutto questo risolve il problema del godimento? Le cose sono molto più complesse perché, da un lato, da quando Dio è morto, da quando l’Altro non esiste, il superio che spinge al godimento è ancora più feroce. E il discorso della scienza “smaschera il fatto” che non c’è più accordo tra l’immagine che l’uomo ha di se stesso e il mondo. D’altro canto, come dirà negli anni settanta Lacan, anche il simbolico produce godimento — oltre che miraggi immaginari che sostengono il narcisismo … e quindi? Ovviamente non c’è una risposta o una soluzione definitiva… ed è per questo che mi sembra interessante notare il fatto che, alla fine della seconda Conferenza a Bruxelles, Lacan cita per intero la poesia di Germain Nouveau, un poeta valorizzato dai surrealisti che è diventato monaco francescano, che predica, in modo poetico, il valore del niente — unico elemento che ci accomuna, che ci rende fratelli, nella mancanza.

« Frère, o doux mendiant qui chante en plein vent

Aime-toi comme l’air du ciel aime le vent

Frère, poussant les bœufs dans les mottes de terre

Aime-toi comme au champ la glèbe aime la terre

Frère qui fait le vin du sang des raisins d’or,

Aime-toi comme un cep aime sa grappe d’or

Frère qui fait le pain, croûte dorée et mie

Aime-toi comme au four la croûte aime la mie

Frère qui fait l’habit, joyeux tisseur de drap

Aime-toi comme en lui la laine aime le drap

Frère dont le bateau fend l’azur vert des vagues

Aime-toi comme en mer les flots aiment les vagues

Frère joueur de luth, gai marieur de sons

Aime-toi comme on sent la corde aimer les sons

Mais en Dieu, Frère, sache aimer comme toi-même ton frère

Et, quel qu’il soit, qu’il soit comme toi-même ».

Adele Succetti

Germain Marie Bernard Nouveau

--

--