L’incontro con Virgilio

di V. Cᴀᴘᴇʟʟɪ, La Divina Commedia. Percorsi e metafore, Milano 2018³, 35-40.

L’intelligenza della vita nasce nell’incontro con un maestro che evoca al fascino della verità, che testimonia esistenzialmente, perché solo allora la vita concreta ha un termine di paragone a cui rapportarsi e da cui lasciarsi giudicare. Platone non sarebbe Platone se non avesse incontrato Socrate; gli Apostoli non sarebbero gli Apostoli se non avessero incontrato Gesù Cristo e assunto quell’incontro come chiave esplicativa dell’esistenza; Dante non sarebbe Dante se non avesse incontrato, in mezzo a tanti altri incontri importanti ma non così determinanti per la sua vita, Beatrice. E con Beatrice anche Virgilio.

Pur senza curarsi della precisione storica e talvolta operando indebite trasposizioni, Dante e il Medioevo compresero Virgilio con una profondità che mai più si è ripetuta nella storia europea. Per Dante, come per tutto il Medioevo, Virgilio è il cantore della provvidenzialità dell’Impero, è il poeta-profeta di Cristo; ma è anche, e forse soprattutto, il poeta-profeta di una nuova immagine antropologica, che culmina nel personaggio di Enea.

London, British Library. Add. Ms. 19587 (c. 1370), Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto I, f. 2r. A Dante, smarrito nella selva e aggredito dalle tre fiere, compare improvvisamente Virgilio [link].

Virgilio, presentandosi nel primo canto dell’Inferno, dice: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise…». Ciò che scuote Dante nel profondo è l’immagine del «giusto» Enea, giusto nel senso biblico (iustus ex fide vivit, dice San Paolo), cioè pius. Nella pietas di Enea – una posizione umana nuova nel mondo antico, che non ha paragone etico adeguato nella storia del paganesimo; una posizione che può essere rapportata solo alla fede vetero-testamentaria di Abramo, di Giobbe – Dante incontra l’atteggiamento autenticamente umano, l’atteggiamento supremamente razionale nei confronti del mistero del proprio destino di uomo; ed è tanto più scosso per il fatto che è un pagano, un poeta non illuminato dalla fede in Cristo a dirgli che cosa significa vivere da uomo, seguire la propria natura. A Dante che era caduto nella selva oscura della dimenticanza, dimenticanza al tempo stesso della fede e della propria umanità; a Dante ormai incapace di reale cammino ma ancora sofferente e disposto a lasciarsi aiutare, Virgilio propone, con sollecitudine paterna, come vero maestro di vita oltre che di poesia, un «altro viaggio» guidato da lui, il viaggio alla ricerca di se stesso. La funzione di Virgilio nei confronti del discepolo è appunto, come verrà detto in uno degli ultimi canti del Purgatorio, l’«umanar».

Ma per comprendere perché proprio Virgilio è scelto da Dante per questo compito, occorre tener presente soprattutto – come si diceva – oltre l’esaltazione medievale di Virgilio come cantore dell’Impero e profeta di Cristo, il tipo di umanità che Enea incarna.

Enea è una figura del tutto nuova nel mondo greco-romano. L’eroe che fugge da Troia col padre sulle spalle, portando con sé i numi tutelari della vetusta città, è il custode della tradizione, l’uomo che vive di memoria. La memoria del padre è in Enea alla radice della coscienza di sé, si tratti del padre carnale o di quella paternità più grande che è la patria terrena o di quella ignota ma santa divinità che presiede al suo destino. Rileggiamo alcuni dei tanti splendidi versi virgiliani: Ergo age, care pater, ceruici imponere nostrae: / ipse subibo umeris nec me labor iste grauabit. / quo res cumque cadent, unumet commune periclum / una salus ambobus erit. mihi paruus Julus / sit comes… («Presto, padre caro, stringiti al mio collo: io stesso ti prenderò sulle spalle e questo peso non mi sarà gravoso. Comunque andranno a finire le cose, un solo e comune pericolo, una sola salvezza ci sarà pe entrambi. Mi dia la mano il piccolo Julo…», Aen. II 707-711). Oppure: Tu, genitor, cape sacra manu patriosque Penatis… («Tu, padre, prendi con la santa mano i Penati della nostra patria…», Aen. II 717). O ancora quando Enea, sollecitato dalla divinità, sta per abbandonare la terra di Didone: Praecipites uigilate, uiri, et considite transtris: / soluite uelas citi. deus aethere missus ab alto / festinare fugam tortosque incidere funis / ecce iterum stimulat. sequimur te, sancte deorum, / quisquis es, imperioque iterum paremus ouantes. adsis o placidusque iuues et sidera caelo / dextra feras («Svegliatevi in fretta, uomini, e sedete ai banchi: sciogliete rapidamente le vele. Un dio mandato dall’alto cielo ecco che ancora una volta ci spinge ad affrettare la fuga e a tagliare le gomene. Noi ti seguiamo, divinità santa, chiunque tu sia, e di nuovo obbediamo lieti al tuo comando! Sii presente e propizia aiutaci e poni in cielo stelle benigne!», Aen. IV 573-579).

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 3867, f. 14r (V sec. d.C.), Vergilius Romanus, f. 74v. Venere visita il figlio Enea [link].

Enea che va dove il fato lo chiama, proteso solo alla realizzazione di un compito che lui non ha voluto (Italiam non sponte sequor, Aen. IV 361), ma che una volontà suprema, oscura, imperscrutabile gli ha assegnato per il bene comune; Enea che impara di volta in volta a non confondere il volere del fato col desiderio del suo cuore e che abbandona via via ogni suo progetto, sorretto solo dalla forza della memoria, è certamente l’immagine poetica più grande, più pura che l’antichità – a prescindere dal popolo ebraico – ci abbia lasciato dell’uomo. il carattere di Enea si compendia in una splendida espressione: cede deo (Aen. V 467), che letta nello spirito virgiliano significa: accondiscendi alla divinità in quanto autorità amata col cuore di un fanciullo, riconosciuta e voluta.

Dalla pietas nasce in Enea la forza per la ricerca del destino, ricerca che richiede un’adesione interiore che non è immediata, facile. Enea, soprattutto all’inizio, deve vincere in sé grosse resistenze, come lasciano intendere tante espressioni: Cessi et sublato montis genitore petiui («Mi arresi e, preso il padre sulle spalle, mi diressi verso i monti», Aen. II 804); oppure, quando comprende di aver perso per sempre la moglie Creusa, nella notte terribile della distruzione di Troia: Quem non incusaui amens hominumque deorumque? («Chi allora, fuori di me, non accusai degli uomini e degli dèi?», Aen. II 745). E che rimpianto c’è in Enea quando saluta i Troiani di Butroto che hanno ricostruito lì, in Epiro, una piccola Troia! Viuite felicis, quibus est fortuna peracta / iam sua; nos alia ex aliis ire fata uocamur («Vivete felici, voi che avete trovato il vostro destino; noi siamo chiamati da un destino a un altro», Aen. III 493-494). Per un attimo avverte che anche per lui, esule e stanco, questa piccola Troia potrebbe essere una dimora confortante. Ma poi si lascia afferrare dal senso del suo destino: a lui non è concesso ricostruire Troia secondo un piccolo progetto. Troppo limitati sono i desideri del nostro cuore! E così – ma a prezzo di quali sofferenze! – un altro equivoco crolla in lui: fare memoria non è vivere di ricordi, non è rifugiarsi nelle ombre del passato, bensì affidarsi al volto ignoto del destino, che si paleserà, anche se in un futuro ancora nelle tenebre.

Ma il fondo del cuore di Enea è messo alla prova nell’incontro con Didone. Il destino di nuovo lo induce a partire ed Enea, spezzandosi dentro, obbedisce: Nate dea, quo fata trahunt retrahuntque sequamur: / quidquid erit superanda omnis fortuna ferendo est («O figlio di dea, dove il destino ci chiama e richiama andiamo: quel che sarà, ogni sorte con la pazienza si deve vincere», Aen. V 709-710). Qui l’accettazione è carica non solo del dolore della separazione, ma anche della sconfitta dell’uomo che inutilmente ha tentato di obliare il destino; e ancora più dura diventa l’accettazione degli Inferi, di fronte all’ombra di Didone piena d’odio verso di lui, perché egli intuisce, in mezzo alle lacrime che gli scorrono sul volto mentre la guarda allontanarsi, che le giustificazioni che le ha addotto in fondo non tengono, che è colpevole più profondamente di quanto non voglia ammettere a parole. Enea che, sconfitto come uomo, è dolorosamente consapevole di sé; Enea, che accetta tutto questo e lo ritiene meno importante del destino che deve compiersi in lui, tocca veramente l’apice della grandezza, di una grandezza nuova, sconosciuta a tutta l’antichità.

Artista di area senese. Ciclo degli Uomini Illustri (Particolare: Virgilio). Affresco, 1438-1479. Lucignano, Palazzo Comunale, Sala di Giustizia.

A poco a poco, dunque, nel viaggio doloroso della vita, l’adesione al volere del fato si consolida in Enea, cresce l’intelligenza del compito assegnatogli, che è la fondazione di una nuova città, di una nuova stirpe in cui si compie il destino di Troia. E il metodo per affrontare la vita, il futuro, sempre più decisamente è la memoria. In mezzo alla battaglia finale Enea dice al figlio: Tu facito, mox cum adoleuerit aetas, / sis memor et te animo repetentem exempla tuorum / et pater Aeneas et auonculus excitet Hector («Ma non appena saranno maturi i tuoi anni, tu affidati alla memoria e spronino te, che vai ricordando gli esempi dei tuoi, Enea tuo padre ed Ettore tuo zio», Aen. XII 438-440). La memoria del passato, infatti, è tutt’uno con la speranza del futuro: Tum genitor, ueterum uoluens monumenta uirorum: / addite, o proceres – ait – at spes discite uestras («Allora il padre, ripensando le gesta degli antichi eroi, disse: “Ascoltate, signori, e imparate su che cosa si possono fondare le vostre speranze», Aen. III 102-103).

Enea, per tutto questo, non è solo un grandissimo esempio di umanità, ma è anche figura del cristiano, la cui coscienza è determinata dalla memoria; del cristiano che, proprio in forza della memoria, si offre al compito storico che Dio gli ha assegnato e in questo compito realizza la sua umanità.

Un’ultima annotazione occorre fare: a differenza degli eroi omerici, che si rapportano al destino sempre come singoli, Enea fin dall’inizio si rapporta come funzione di un popolo. Egli si concepisce al servizio del popolo, come le grandi figure patriarcali dell’Antico Testamento.

Splendido simbolo poetico, allusivo della fede vetero-testamentaria – come si diceva –, Enea così parla di se stesso: Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste Penates / classe ueho mecum, fama super aethera notus. / Italiam quaero patriam et genus ab Joue magno («Sono il pius Enea, che porto con me sulle navi i Penati strappati al nemico, fino alle stelle ormai noto per fama. Cerco l’Italia, che è nostra vera patria, e l’origine di una stirpe discesa dal grande Giove», Aen. I 378-380). Non manca nulla, neppure la terra promessa, la stabile dimora per il nuovo popolo che già vive nella speranza.

London, British Library. Ms. Yates Thompson 36 (1444-1450 c.), Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno I, f. 1r. Particolare: N iniziale istoriata con Dante e Virgilio nella selva oscura [link].

Ma Virgilio ha bisogno della cristianità, ha bisogno di Dante, perché l’umile grandezza di Enea è come «un ponte incompiuto» verso il destino[1]. Virgilio ha avuto una grande intuizione: la speranza, per essere veramente tale, deve avere un orizzonte storico. Ma proprio per questa grande intuizione è stato indotto a forzare le cose, dando all’immensa speranza profetica che anima Enea un volto storico sproporzionato: la gloria della Roma augustea. Virgilio però muore inquieto (così suggestivamente ce lo mostra H. Broch, nel suo romanzo La morte di Virgilio), come comprendendo di aver fallito l’obiettivo, come intuendo che una realizzazione politica è un oggetto inadeguato all’attesa del suo Enea. Ma così appunto Virgilio è Virgilio. Immensamente grande per la sua spasimante e smisurata speranza, immensamente povero perché, non vedendo chiaro l’oggetto della speranza stessa, finisce con l’identificarlo con una costruzione politica.

La poesia di Virgilio è sospesa in un avvento, e in questo sta la sua grandezza, per questo si colloca originalmente alle radici della storia europea. Anche T.S. Eliot coglie la dimensione europea di Virgilio. Egli lo vede «al centro della civiltà europea, in un punto che nessun altro poeta può dividere con lui o pretendere di conquistare in vece sua»[2].

Dante ha compreso perfettamente Virgilio e, con tutta la cristianità, ha dato compimento alla sua speranza: ciò che l’antico poeta presagiva nella brumosa ma ardente attesa del cuore non era la gloria di Roma imperiale, bensì la gloria di Cristo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 3867, f. 14r (V sec. d.C.), Vergilius Romanus. Ritratto dell’autore [link].

Ma se Virgilio ha bisogno di Dante, Dante ha bisogno di Virgilio per ritrovare in sé l’uomo. Beatrice non può nulla presso Dante senza Virgilio, perché la grandezza del cristiano fiorisce solo sulla verità dell’uomo; d’altra parte, Virgilio senza Beatrice è incapace di portare Dante alla realizzazione piena di sé nell’incontro con Dio. Umano e divino, ragione e fede si presuppongono a vicenda e si integrano in assoluta complementarietà.

L’incontro con Virgilio (una lettura che Dante fece dell’opera virgiliana in cui scattò una nuova, imprevista comprensione) significò per Dante – come si accennava sopra – il ritrovamento di un tipo umano che portava in sé, caratterizzato dalla disponibilità umile al proprio destino di uomo, dal senso del destino come storia e quindi dall’assunzione responsabile del proprio compito storico nella memoria e nella speranza. È una posizione umana vera ciò che il cristiano Dante apprende dal pagano Virgilio; e allora riaccade per lui l’incontro personale col destino, che non è più la fatalità oscura del mondo virgiliano, ma Cristo nella Chiesa, sperimentato in quella splendida e audace analogia che è Beatrice, la donna amata da sempre e per sempre. Viene meno in lui l’atteggiamento di autosufficienza (praticato se non teorizzato) che lo aveva indotto a partire, nell’affronto dell’esistenza concreta, dai suoi sforzi, dalle sue idee (pure cristiane) e non dall’esperienza viva di un’appartenenza; cade anche la sua presunzione di ordinare il mondo della cultura a partire da un sapere acquisito e non da un continuo avvenimento di cambiamento personale. Con l’aiuto di Virgilio Dante scopre che la razionalità vera, sigillo dell’umana dignità, non è l’astratta e sterile affermazione delle proprie misure delle cose (peraltro, sempre smentite), ma apertura, disponibilità umile nei confronti del reale, attesa che esso si riveli.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Holkham misc. 48 (Genova, terzo quarto del XIV sec.), Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno I, p. 2. Dante e Virgilio [link].

Accettando Virgilio come guida del viaggio, Dante comprende sempre più profondamente la razionalità del seguire, nella vita, le presenze concrete che testimoniano una comprensione più grande dell’esistenza, sorprendendoci continuamente.

Egli comincia a risorgere quando gli incontri tornano a essere importanti nella sua vita e sopraffanno idee, sentimenti, erudizione (tanto che, come è noto, egli abbandona incompiuto il Convivio); in primo luogo, ovviamente, l’incontro esistenzialmente più pregnante: quello con Beatrice.


[1] H.U. von Balthasar, Virgilio in Gloria, vol. 4, Nello spazio della metafisica. L’antichità, Milano 1977, 253. A questo saggio – in cui l’Autore dà una lettura profonda e suggestiva del personaggio di Enea, cogliendo un’analogia fra la sua fede e quella di Abramo, e della poesia virgiliana, che vede appunto come «un ponte incompiuto» verso il Cristianesimo – ci siamo largamente ispirati per questo capitolo.

[2] T.S. Eliot, Che cos’è un classico?, in Sulla poesia e sui poeti, Milano 1960, 72. Si segnala anche, dello stesso autore, Virgilio e la cristianità, in op. cit., 133 ss.

Dante Alighieri

Dante è il massimo poeta della civiltà comunale. Nella sua opera convergono la cultura dell’intero Medioevo e i fenomeni di una nuova epoca, inquieta e in rapida trasformazione. Ogni aspetto (sociale, filosofico, religioso, politico, artistico e persino scientifico) della vita a lui contemporanea è affrontato da Dante con passione e originalità, all’interno di una ricerca sempre pronta all’autocritica e al nuovo. In questo senso la figura di Dante appare radicata nella sua epoca più di qualsiasi altra della nostra letteratura. Allo stesso tempo, non poche ragioni rendono l’opera dantesca straordinariamente attuale ancor oggi. Basti pensare che in essa è fondata la nostra lingua: «dopo Dante non ci può essere più questione di quale sia la lingua comune d’Italia» (C. Dionisotti). Fu il primo a utilizzare il volgare in ambito letterario sfruttandone al massimo tutta la sua potenzialità espressiva. Egli, insomma, è per la cultura letteraria italiana ciò che Johann Sebastian Bach sarebbe stato per la musica occidentale. Con la Vita nova scrive il primo “romanzo” della nostra letteratura; con le rime d’amore o filosofiche o politiche innalza al più alto livello la tradizione lirica; con il Convivio offre il primo grande modello di prosa e di narrazione. Difende soprattutto con il De vulgari eloquentia la nuova lingua e ne determina la tradizione letteraria, stabilendo solidissimi canoni storico-letterari.

Jacopo di Cione, Ritratto di Dante Alighieri. Affresco, 1366, dalla sala maggiore dell’Arte. Firenze, Palazzo dell’Arte dei Giudici e Notai.

Ma Dante non è solamente il padre della nostra lingua e della letteratura italiana, è anche un riferimento decisivo della nostra identità nazionale, segnata da lui definitivamente su base linguistica, politica e culturale. È soprattutto l’autore della Commedia, un poema di concezione grandiosa, che rappresenta l’espressione più alta dell’intera civiltà medievale e insieme segna l’inizio di una nuova epoca, la cui conoscenza – oggi affidata prevalentemente alla scuola – ha costituito un elemento di identità capace di coinvolgere tutte le classi sociali e di attraversare i secoli, come modello di vita e discrimine di giudizio (morale, politico, ecc.) più ancora che come espressione artistica.

A questa ulteriore ragione forte e durevole dell’attualità di Dante se ne aggiunge poi un’altra, legata all’aspetto che può parere il meno solido della sua opera: la concezione politica. Tale attualità non riguarda gli aspetti propositivi della sua visione politica, fondata su un universalismo più anacronistico che utopico, ma nella vigorosa determinazione critica con cui egli colpisce la società a lui contemporanea e che lo induce a rivolgersi – in tutte le forme – contro quei valori, riassumibili nella logica del guadagno, che i secoli futuri avrebbero visto espandersi, fino ai nostri giorni. La radicalità del giudizio di Dante nei confronti di un mondo precipitato nella voragine infernale suona attuale quanto la sua costante fiducia nella possibilità di riscatto, l’assenza di ogni cedimento ai valori dominanti e il rifiuto di arrendersi al loro provvisorio trionfo.

Del resto, un autore è considerato “canonico” quando crea una tendenza ed è da molti successori imitato, ma Dante fu assai poco imitabile: il suo plurilinguismo e lo sperimentalismo linguistico che ne caratterizzano l’opera spinsero i poeti, dal Cinquecento in poi, a preferire la levigatezza e la regolarità della poesia di Petrarca. Tuttavia, gli scrittori dal Trecento al Novecento si sono appropriati, magari in modo frammentario, della sua opera a vari livelli: autori quali Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Levi, Pasolini, Eliot, Borges e Pound presentano tutti vistose reminiscenze dantesche.

Di particolare interesse, a proposito dell’“effetto Dante” sono i giudizi che due tra i maggiori poeti europei del XX espressero su di lui. Thomas Stearns Eliot poneva in risalto la precisione espressiva di Dante, collegata con la tecnica allegorica di rappresentazione. La poesia dantesca consentiva, secondo il poeta inglese, un allargamento delle facoltà percettive e associative umane.

Eugenio Montale, dal canto suo, sottolineava l’irripetibilità del modello dantesco, pure di continuo presente davanti agli occhi dei poeti successivi. Il poeta italiano che più di ogni altro guardò all’esempio dantesco nel Novecento, dichiarava la distanza incolmabile tra il mondo di Dante, necessario al nascere della sua poesia, e il mondo contemporaneo. Per entrambi gli autori, comunque, il modello dell’allegoria dantesca costituiva un riferimento importantissimo, che essi si sforzarono di attualizzare, adeguandolo alla loro personale poetica e alla nuova condizione storica.

 

«Dante pensava in terza rima […]. È nessun verso sembra richiedere una traduzione assolutamente letterale quanto quello di Dante, perché nessun poeta ci convince più completamente che la parola che ha usato è quella che voleva, e che nessun’altra funziona»[1].

«La poesia di Dante rappresenta l’unica scuola universale di stile poetico valida per qualsiasi lingua […]. Il metodo “allegorico” di Dante offre grandi vantaggi per scrivere poesia: semplifica lo stile, rendendo le immagini chiare e precise. A ciò si aggiunga che in un buon uso dell’allegoria, come quello che ne fa Dante, non è necessario comprendere subito il significato per gustare la poesia, ma è il gusto della poesia che ci fa desiderare di comprendere il significato. […] La Divina Commedia è una gamma completa di altezze e di abissi delle emozioni umane, […] il Purgatorio e il Paradiso si devono leggere come estensioni delle possibilità umane, di norma assai limitate. Ciascun grado del sentimento umano, dal più basso al più alto, ha inoltre un’intima relazione con quello che gli sta immediatamente sopra e sotto, e tutti si adattano secondo la logica della sensibilità»[2].

«Che cosa significa l’opera di Dante per un poeta d’oggi? Esiste un suo insegnamento, un’eredità che noi possiamo raccogliere? Se consideriamo la Commedia come una summa e un’enciclopedia del sapere, la tentazione di ripetere e di emulare il prodigio sarà sempre irresistibile, ma le condizioni del successo non esistono più […]: Dante non può essere ripetuto. Fu giudicato quasi incomprensibile e semibarbaro pochi decenni dopo la sua morte, quando l’invenzione retorica e religiosa della poesia come dettato d’amore fu dimenticata. Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, a una civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale, perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione»[3].

 

Giotto di Bondone, Dante Alighieri. Affresco, 1334-1337, dettaglio del Giudizio Universale, dalla Cappella del Podestà. Firenze, Palazzo del Bargello.

 

Alle origini del mito poetico

Giovanni Boccaccio (1313-1375) fu uno tra i primi e più importanti estimatori di Dante Alighieri, al punto di ricevere l’incarico dal Comune di Firenze di tenere, nel 1373, alcune letture pubbliche della Commedia. Questa sua passione aveva già avuto modo di concretizzarsi, intorno al 1355, nella stesura di un Trattatello in laude di Dante, una biografia in cui i dati documentari si intrecciano, nell’entusiasmo celebrativo, con notizie poco fondate storicamente. In quest’opera Boccaccio traccia un rapido ritratto fisico e morale dell’Alighieri, che, secondo il modello classico della biografia degli «uomini illustri», segue la narrazione dettagliata della vita del poeta. In generale, di Dante si mettono in risalto soprattutto la moderazione, l’ironia e la riservatezza, riconoscendo per suo unico eccesso il desiderio di gloria poetica. Ma ecco come lo descrive Boccaccio nella seconda redazione del Trattatello:

 

Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo, e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. […] Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l’abito conveniente alla maturità, e il suo andare grave e mansueto, e ne’ domestici costumi e ne’ pubblici mirabilmente fu composto e civile. Nel cibo e nel poto[4] fu modestissimo. Né fu alcuno più vigilante di lui e negli studii e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse[5]. Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo fosse. Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e, per vaghezza di quegli, quasi di tutti i cantori e sonatori famosi suoi contemporanei fu dimestico[6]. Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato[7], assai è dimostrato di sopra. Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studii, quel tempo che lor poteva concedere, fu assiduo molto. […] Fu similmente d’intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e, secondo che[8] le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili e pellegrine[9] assai[10].

 

Luca Signorelli, Ritratto di Dante sommo poeta. Affresco (particolare), XV sec. Orvieto, Duomo.

 

La vita: politica, amore e poesia divina.

Tra tutti i grandi autori della nostra storia letteraria, sulla vita di Dante non possediamo notizie dettagliate, e spesso si deve ricorrere alle suggestioni, ai ricordi, alle informazioni che egli lasciò cadere all’interno delle sue opere: è pur vero, infatti, che i capolavori danteschi sono continuamente occupati da indizi autobiografici, ma questi costituiscono solo in parte un aiuto nella ricostruzione attendibile della vita, data la grande libertà con la quale Dante stesso si servì dei dati reali al fine di costruire una sorta di “mitologia” personale. Del tutto assenti, o rarissimi, sono d’altronde i riferimenti da parte dell’autore ad aspetti della vita da noi ritenuti essenziali: il matrimonio e i figli, gli spostamenti, le letture e le frequentazioni. Ogni dato è pertanto il frutto di lunghe ricerche e discussioni, e costituisce, in non pochi casi, solamente un’ipotesi.

I problemi cominciano già dal nome, che nella sua forma originaria suonava quasi certamente Durante, del quale Dante era la forma ipocoristica (insomma, un diminutivo!), che si è definitivamente sostituita al nome vero e proprio. A «Dante», usato nei documenti, seguiva il “cognome” «Alagherii» (tale è la grafia più esatta del nome, in base agli antichi documenti; quella moderna “Alighieri” prevalse soltanto con Boccaccio).

La data di nascita è un ulteriore problema (mentre sicuro è il luogo: Firenze). Solamente da riferimenti indiretti, confermati da testimonianze d’archivio, è possibile risalire a un periodo compreso fra il 14 maggio e il 21 giugno 1265: è lo stesso poeta a informare in Pd. XXII 112-120 di essere nato sotto il segno dei Gemelli (che nel XII secolo cadeva in quel periodo).

Figlio di Alagherio degli Alagherii e della sua prima moglie, Bella degli Abati, Dante apparteneva a una famiglia guelfa di piccola nobiltà, di lustro recente: al trisavolo Cacciaguida era stato conferito dall’imperatore Corrado III il titolo nobiliare di “cavaliere” poco più di un secolo prima della nascita del poeta. Il padre di Dante, Alagherio, aveva incrementato il modesto patrimonio familiare (basato sul possesso di alcune terre) con attività mercantili e finanziarie, non escluso il prestito; è peraltro probabile che i risultati di questi affari non fossero sempre fiorenti e che la famiglia attraversasse talvolta momenti di precarie condizioni economiche. D’altra parte, il padre non venne esiliato all’indomani della sconfitta guelfa a Montaperti (1260), che portò i ghibellini al potere nel Comune. Bella, la madre di Dante, morì prematuramente e nel 1275 Alagherio contrasse seconde nozze.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Chigiano L. VIII 296 (XIV sec.), Cronica Nuova di Giovanni Villani, f. 85r. Raffigurazione della battaglia di Montaperti (1260).

 

Nel 1277, a soli dodici anni, Dante fu assegnato in nozze a Gemma Donati, con la stipula di un contratto notarile disposto dalle famiglie secondo l’uso del tempo; il matrimonio sarebbe stato effettivamente perfezionato solo alcuni anni più tardi, forse nel 1285, e da esso sarebbero nati tre o forse quattro figli: Pietro, Jacopo, Antonia e Giovanni (?). Pietro e Jacopo sarebbero stati tra i primissimi e i più importanti commentatori della Commedia.

Gli anni della giovinezza sono segnati da una formazione culturale ampia e varia, tanto filosofica e teologica quanto letteraria, sia nello studio dei classici che nella frequentazione degli ambienti più aggiornati. Il poeta, come si ricava in If. XV, 82-87, ci informa di aver studiato le arti del trivium e apprese la retorica alla sequela di Brunetto Latini[11]; intorno al 1287 si recò a Bologna per affari di famiglia e per studio, perfezionando le sue competenze oratorie e letterarie. Da ragazzo si appassionò anche alla musica e alla pittura.

L’evento centrale della giovinezza di Dante fu l’incontro con colei che più avrebbe inciso sulla sua poesia: la donna mirabile, la «gentilissima», di nome Beatrice. Secondo quanto il poeta stesso racconta nella Vita nova, il primo incontro tra i due sarebbe avvenuto nella primavera del 1274, quando Dante aveva quasi compiuto nove anni e Beatrice ne aveva appena otto e quattro mesi. Nel secondo incontro, avvenuto nel 1283, cioè dopo nove anni, Beatrice concesse il saluto al poeta, ormai diciottenne, quando l’uomo poteva dirsi pienamente autonomo e pronto ad amare. Il sentimento terreno di Dante per lei durò circa sette anni, fino al 1290, anno in cui la donna morì. Sotto il nome di Beatrice, secondo alcuni studiosi (altri, invece, la ritengono una mera invenzione letteraria), si celerebbe Bice Portinari, figlia del banchiere Folco, sposata con il cavaliere Simone de’ Bardi e scomparsa all’età di quasi ventiquattro anni. Su un sentimento così precoce e costellato di date e numeri simbolici (il 7, il 9) sono stati avanzati legittimi dubbi, dovuti soprattutto al fatto che entrambi fossero sposati. Accertare la veridicità della relazione non è però determinante: quello che conta è che il senso di un possibile amore giovanile sia stato profondamente rielaborato dal poeta e messo al centro della sua esperienza umana e letteraria.

La prima fase della biografia dantesca è profondamente segnata dall’amicizia con Guido Cavalcanti (c. 1255-1300). Il loro sodalizio risale all’epoca in cui Dante compose e inviò ai più famosi trovatori del tempo il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, stando almeno a quanto egli stesso narra in Vn. III 14-15 (la Vita nova è appunto dedicata a Guido). «A quel sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie, fra i quali il poeta cui io chiamo primo de li miei amici», cioè appunto Cavalcanti, che nell’occasione compose il sonetto responsorio Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo scambio, aggiungeva Dante, «fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me»: insomma, la loro amicizia nacque dunque da un incontro letterario avvenuto intorno al 1283, presumibile data di composizione del sonetto dantesco.

 

Cristofano dell’Altissimo, Ritratto di Guido Cavalcanti. Olio su tavola, 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

La comunione poetica fra i due si realizzò nell’ambito dello «Stil novo», ma il legame si rafforzò grazie alla comune militanza politica nella fazione dei guelfi bianchi. Tuttavia, ragioni filosofico-letterarie (l’inconciliabilità delle rispettive visioni dell’amore) e poi politiche avrebbero determinato la fine dell’amicizia tra i due.

Dante, insomma, diede inizio alla propria attività letteraria sin da giovane, cimentandosi in vari filoni, tra cui spicca quello stilnovistico. Tra il 1292 e il 1295 circa compose la Vita nova, opera dedicata a Cavalcanti nella quale meditava sulla propria esperienza poetica precedente, rileggendo i propri testi alla luce dell’amore per Beatrice.

Il 1290 fu un anno cruciale nella biografia dantesca: in base al racconto della Vita nova, infatti, allora morì Beatrice. Il fatto luttuoso spinse il poeta a cercare consolazione nei libri, e sappiamo che, negli anni immediatamente successivi, egli non solo lesse opere filosofiche come il De consolatione philosophiae di Severino Boezio e il De amicitia di Cicerone, ma frequentò anche le più importanti scuole filosofico-religione di Firenze: lo Studium francescano di Santa Croce e quello dei domenicani di Santa Maria Novella, tra i più prestigiosi d’Italia. Furono anni di studio intenso, che lasciarono il loro segno anche nel fisico di Dante (come confessa nel Convivio, affaticò tanto gli occhi da avere alcuni problemi alla vista).

Poco prima di intraprendere questi studi, Dante, come ogni giovane fiorentino, assunse alcuni impegni di carattere militare: esperto di equitazione, partecipò alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) come «feditore a cavallo», combattendo contro gli Aretini; il 16 agosto dello stesso anno prese parte all’assedio del castello pisano di Caprona.

Giunto ormai alla soglia dei trent’anni, Dante iniziò anche la carriera politica, breve ma intensissima. Il 6 luglio 1295 il Comune approvò un emendamento agli Ordinamenti di Giustizia che il priore Giano della Bella, nel 1293, aveva emanato contro i magnati, vitando loro l’accesso alle cariche pubbliche: ora, invece, anche i «Grandi» avrebbero potuto intraprendere la carriera politica, purché iscritti a una delle ventuno corporazioni cittadine. Quanto a Dante, egli si era iscritto all’Arte dei medici e degli speziali, potendo così entrare a far parte del Consiglio dei Trenta del Capitano del Popolo (novembre 1295-aprile 1296) e poi del Consiglio dei Cento (maggio-settembre 1296). Nel marzo 1294 gli era stato concesso l’onore di ospitare e accompagnare il figlio di re Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, in visita a Firenze.

Wien, Österreichische Nationalbibliothek. Cod. Vindob. ser. nov. 2644 (fine XIV sec.), f. 42r. La bottega dello speziale.

Nello stesso giro di anni, la scena politica fiorentina fu sconvolta dalla ripresa dello scontro tra Bianchi e Neri, due diversi schieramenti della fazione guelfa, che fin dal 1266 (battaglia di Benevento) teneva saldamente il potere. I Bianchi facevano capo alla famiglia dei Cerchi ed esprimevano gli interessi del «popolo grasso» (finanzieri e ricchi mercanti), mentre i Neri erano guidati dalla famiglia dei Donati, sostenitori di una linea filo-nobiliare e disposti ad appoggiarsi al Papato pur di raggiungere questo scopo. Dante aderì alla parte Bianca, che difendeva l’autonomia di Firenze dalle ingerenze papali e imperiali.

Il dissidio politico tra le due fazioni divenne insostenibile, proprio quando fra il 15 giugno e il 15 agosto 1300 il giovane Alighieri fu eletto fra i sei Priori, massima magistratura cittadina: pur dando prova di grande moderazione e imparzialità, il poeta si trovò in conflitto con il papa Bonifacio VIII e si trovò costretto a sottoscrivere il bando dei cittadini più faziosi, fra cui il famigerato Corso Donati e il vecchio amico Guido Cavalcanti.

Durante la sua attività politica, Dante maturò la consapevolezza della crisi in cui versavano le istituzioni comunali, incapaci di assicurare la giustizia e la coesione interna alla comunità a causa degli interessi particolari delle famiglie, e inefficienti nel garantire l’autonomia della città dalle ingerenze esterne. La minaccia più vicina era proprio rappresentata da Bonifacio VIII, che tese, come vicario dell’imperatore assente, ad allargare la propria influenza sui Comuni dell’Italia centrale; le discordie interne non fecero altro che favorire le manovre pontificie.

La lotta di parte, dunque, ben presto avrebbe travolto anche lui. Infatti, scaduta la carica di priore, Dante restò comunque al centro dei rivolgimenti politici intestini, intervenendo in numerose occasioni sempre in aperta ostilità alle ambizioni del Papato. Nell’autunno del 1301, mentre Dante si trovava in delegazione presso la Curia per sondare le reali intenzioni di Bonifacio, Carlo di Valois, fratello del re di Francia, entrò con la forza in Firenze, depose il governo in carica, consentì il rientro dei Neri fuoriusciti. Il nuovo governo, capeggiato dl podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio, attuò una sanguinosa repressione degli esponenti bianchi e aprì un procedimento contro Dante, condannandolo a due anni di esilio e al pagamento di una multa di cinquemila fiorini per il reato di baratteria (cioè di corruzione e di guadagno illecito durante l’esercizio delle cariche pubbliche): la tipica accusa per sbarazzarsi di un avversario politico! Non essendosi presentato a difendersi, il 18 e il 27 gennaio 1302, l’Alighieri fu condannato a morte in contumacia e alla confisca di tutti i beni. Il poeta, che aveva lasciato Firenze in qualità di ambasciatore, non vi avrebbe fatto mai più ritorno[12].

Gli spostamenti del poeta negli anni dell’esilio non ci sono noti con certezza. Egli stesso dichiara nel Convivio (I 3): «Per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato». È noto, comunque, che nel 1303 Dante partecipò a un’alleanza “tattica” dei Bianchi con i vecchi capi ghibellini, nel tentativo di rientrare in patria per via diplomatica. La successiva scelta delle armi da parte dei compagni indusse l’Alighieri a prendere le distanze dalle loro iniziative, proprio alla vigilia della grave sconfitta che gli esiliati subirono nella battaglia della Lastra (20 luglio 1304), vicino alla città. Costretto a cercare ospitalità lontano da Firenze, Dante con i suoi figli si spostò da una corte all’altra dell’Italia centro-settentrionale: fu una prima volta a Verona, presso Bartolomeo della Scala, poi a Treviso e di nuovo in Lunigiana (presso i Malaspina), a Lucca e infine nel Casentino.

Nel 1308, intanto, veniva eletto imperatore Arrigo VII di Lussemburgo e grandi erano le speranza di Dante quando il sovrano scese in Italia nel 1310, come dimostrano alcune epistole civili in latino, in particolare l’Epistola V ai signori e alle città d’Italia. Gli esiti dell’impresa imperiale, volta a ristabilire il potere legittimo sulla penisola, si rivelarono ben presto deludenti, e la morte dell’imperatore nel 1313 mise fine a ogni illusione. Nel periodo che va dal 1303 al 1308, nel frattempo, Dante aveva composto due trattati, il Convivio e il De vulgari eloquentia, che riflettono le posizioni politiche e intellettuali che l’autore aveva maturato. Entrambe le opere rimasero incompiute, presumibilmente a causa del progetto della Commedia. Nello stesso giro d’anni Dante si era dedicato all’Inferno (compiuto forse già nel 1308) e al Purgatorio (forse già terminato verso il 1312).

L’essersi schierato apertamente e appassionatamente a favore della causa imperiale, alla quale sarebbe rimasto per sempre fedele con coerenza, aggravò per l’Alighieri le condizioni dell’esilio, data la diffusa ostilità dei signori locali (non solo guelfi) al progetto di riunificazione regia. Perciò, tra il 1313 e il 1319 Dante soggiornò a Verona, alla corte di Cangrande della Scala; a quel periodo, probabilmente, risale il terzo trattato, la Monarchia. Nel 1315 il Comune fiorentino concesse a tutti gli esiliati bianchi un’amnistia, a patto che pagassero una multa e si pentissero pubblicamente: Dante rifiutò l’offerta con sdegno, rivolgendo a un ignoto intercessore l’Epistola XII; perciò, a lui e ai figli fu riconfermata la condanna a morte.

Tra il 1318 e il 1321 il poeta si trasferì a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove fu accolto altrettanto benevolmente che presso gli Scaligeri di Verona, ottenendo incarichi diplomatici e formandosi un circolo di ammiratori e di allievi. Aveva da poco compiuto il Paradiso, quando la morte lo colse, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, fra il 13 e il 14 settembre 1321. Fu sepolto in un tempietto adiacente alla Basilica di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) con grande onore; e in tal luogo si trovano tuttora i suoi resti, inutilmente richiesti in seguito dai Fiorentini.

 

London, British Library. Yates Thompson MS 36 (1444-1450 c.), Dante Alighieri, Divina Commedia, f. 159. Pd. XVII Dante bandito da Firenze.

 

La Firenze di Dante

Dante parla spesso di Firenze nelle sue opere, in particolare nella Commedia. L’immagine che ce ne fornisce è inevitabilmente influenzata dalle vicende del tempo: una comunità cittadina divisa da scontri violenti, in cui sembrano assenti i valori etici e civili, che l’avevano resa grande e prospera nel secolo precedente.

Ma com’era davvero la Firenze di Dante?

In effetti, era molto diversa dalla città ricca di palazzi e monumenti dell’età rinascimentale. Molti di questi simboli Dante non ebbe mai modo di vederli: Palazzo Vecchio, Santa Maria Novella, Santa Croce, il campanile di Giotto e la cattedrale di Santa Maria del Fiore alla fine del XIII secolo erano stati appena iniziati.

Dante visse in una realtà in rapida trasformazione: spesso rimpiangeva la Firenze del passato, sobria e onesta, che forse, però, non era mai davvero esistita. La città, infatti, aveva già cominciato la sua metamorfosi dalla fine del XII secolo, ben prima che Dante nascesse. In quell’epoca fu costruita la seconda cinta muraria per inglobare i borghi oltre il corso dell’Arno; la popolazione aumentò per il trasferimento dei contadini entro le mura cittadine; nacquero le Corporazioni (notai, tessitori, tintori, fabbri, conciatori, muratori, medici, ecc.). Molti mercanti e banchieri, arrivati da fuori città, non potevano di certo vantare un’origine aristocratica di lunga data, ma, forti delle loro ricchezze, diedero la scalata all’economia e al potere, relegando a un ruolo di secondo piano famiglie – come quella degli  «Alagherii» – che avevano radici fiorentine molto più antiche, ma una condizione patrimoniale più modesta.

Questo processo si andò rafforzando nel XIII secolo, quando i membri delle famiglie mercantili iniziarono a imparentarsi con la nobiltà magnatizia, di origine feudale. Lusso e ricchezza aumentarono, la circolazione del denaro divenne sempre maggiore; una terza cinta muraria sancì l’ulteriore ampliamento della città.

Dante si mostra critico verso queste trasformazioni in vari passi della Commedia. Il poeta vedeva con fastidio l’avanzata dei nuovi ricchi, la «gente nova» recentemente inurbata e affermatasi grazie ai «sùbiti guadagni», gli arricchimenti facili e improvvisi su cui egli non mancava di gettare un’ombra. Il problema per lui era soprattutto di ordine morale: la società comunale era in preda alla febbre del guadagno, travolta dall’«avarizia» (l’avidità, allegorizzata nella «lupa» di If. I) insieme all’invidia e alla superbia. Il legame tra avarizia e «gente nova» è esplicitato in If. XV, dove sono condannati «orgoglio e dismisura», ovvero l’arroganza e la mancanza di misura, in contrapposizione alla cortesia e alla sobrietà del passato.

Un esempio negativo del nuovo tipo di cittadino è presentato, in If. XXX, nella figura di Gianni Schicchi, condannato per aver falsificato il testamento di un ricco mercante fiorentino per ereditarne le ricchezze: il suo peccato è grave, ma per Dante lo è ancora di più, perché il dannato, proveniente dal contado, è accusato di aver portato in città la corruzione, alterando i costumi onesti della Firenze antica. Questo tema ricorre anche nei canti centrali del Paradiso (in particolare, il XV e il XVI), in cui Dante, incontrando il suo trisavolo Cacciaguida, ribadisce che «sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade» (Pd. XVI, 67-68). Nell’atteggiamento di Dante si riflettono, dunque, la crisi della piccola nobiltà e l’avversione per i nuovi ceti, che facevano della ricchezza liquida lo strumento della propria ascesa economica e politica.

 

London, British Library. Add MS 6891 (metà XIV sec.), Dante Alighieri, Monarchia, f. 1r. Omnium hominem quos ad amorem.

 

Dante e gli antenati

Ma che importanza avevano per Dante gli antenati? Nella Firenze del suo tempo tutti coloro che socialmente contavano potevano vantare di discendere da grandi personalità. Eppure, la città era piena di gente che non poteva permettersi tanto, anzi era immigrata dalla campagna, e nella maggior parte dei casi la memoria familiare non andava oltre i propri nonni. I magnati, invece, ai propri antenati tenevano moltissimo: discendere da una lunga genìa di persone importanti, il cui nome ancora era ricordato in città, perché avevano governato il Comune nel secolo precedente o avevano fatto la guerra con il loro scudo, sul quale avevano esibito lo stemma del proprio casato, era motivo di orgoglio. Ecco questo nella Firenze di Dante voleva dire qualcosa. Quando infatti nella Commedia, in If. X, il poeta racconta l’incontro con lo «sdegnoso» Farinata, il grande capo della fazione ghibellina, questi domanda al pellegrino: «Chi fuor li maggior tui?» (v. 42), cioè “Chi furono i tuoi antenati?”. È bellissimo perché Dante, che in altri luoghi del poema è così pronto e accurato nel riportare il discorso diretto del proprio personaggio (come se ci dicesse: “Io gli ho parlato proprio così”), in questa occasione non racconta che cosa abbia detto sul conto dei propri avi allo spirito magnanimo; tuttavia, assicura: «Non gliel celai, ma tutto gliel’apersi; / ond’ei levò le ciglia un poco in suso» (vv. 44-45). E, infatti, Farinata commenta con orgoglio: «Fieramente furo avversi / a me e ai miei primi e a mia parte, / sì che per due fïate li dispersi» (vv. 46-48).

Più avanti, in Pd. XV-XVII Dante decide di presentarci il più illustre dei suoi antenati, Cacciaguida, il trisnonno che era stato cavaliere. Ora, avere cavalieri in famiglia era segno di lustro e di nobiltà. Sappiamo che il padre di Dante, Alagherio il Giovane, non fu cavaliere, bensì uomo d’affari e forse usuraio; che il nonno paterno avesse esercitato la medesima attività; del bisnonno, invece, non si sa quasi nulla. È probabile che a Dante bambino, in casa, i parenti abbiano narrato le gesta di Cacciaguida, «cinto» cavaliere dall’imperatore Corrado III di Svevia, al seguito del quale avrebbe partecipato alla seconda Crociata (1147-48) e sarebbe morto combattente in Terrasanta. Ci sarà qualcosa di vero? Non è dato saperlo, ma di sicuro questo è quello che raccontavano in casa Alighieri. E Dante decide di parlarne proprio nel Paradiso per far vedere a tutti che anche lui poteva dire di avere gli antenati!

Ora, quando Dante compose questi canti, come si è detto, era un esule, lontano dalla sua Firenze ormai da anni. Viveva alla corte dei principi che erano disposti ad accoglierlo (i marchesi Malaspina, i signori Della Scala, ecc.); insomma, il poeta si ritrovò a passare gli ultimi anni della propria esistenza in un mondo completamente diverso da quello della propria patria, in una civiltà creata da una profonda tradizione cavalleresca, da nobili orgogliosi del proprio lignaggio: per star bene in mezzo a loro Dante aveva bisogno di dire “Anch’io posso vantare di avere gli antenati; anch’io sono uno di voi!”.

È curioso che, finché aveva vissuto a Firenze, l’Alighieri avesse detto cose molto diverse: la città, dalla metà del XIII secolo, era stata retta da un governo di Popolo, cioè a comandare erano stati mercanti, uomini d’affari, banchieri e artigiani – tutti uomini che diffidavano dei milites. Certo, i nobili cavalieri erano tutte persone rispettabili, eppure spesso avevano dimostrato di essere troppo orgogliosi, perfino prepotenti e violenti. La gente che lavorava e che amministrava il Comune preferiva tenere a debita distanza i facinorosi – e la prova di ciò si ravvisa negli Ordinamenti di giustizia del 1293 e del 1295.

Quanto a Dante, anche lui era dunque un esponente del Popolo, un plebeo, benché la sua famiglia si era nel tempo arricchita. Insomma, finché egli restò a Firenze, quello che diceva a proposito della nobiltà era ben diverso: scrisse perfino una canzone su questo tema, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, commentata in Cv. IV I 3-8. Avendo in quel periodo studiato l’Etica Nicomachea di Aristotele, Dante si era convinto di aver scoperto in che cosa consistesse la “vera nobiltà” ed era deciso a divulgarlo ai propri lettori, esaminando e confutando l’opinione di quanti sostenevano che la nobiltà si fondasse su un’antica ricchezza e che si trasmettesse di padre in figlio. Secondo lui, asserire che la nobiltà, che è sinonimo di perfezione, equivalesse alla ricchezza, che è cosa vile e perciò imperfetta per sua natura (in quanto chi la possiede non s’acqueta mai nel suo desiderio di accrescerla), era un’enorme fola! Dimostrata la falsità di opinioni simili, Dante sostenne che la “vera nobiltà” fosse naturale predisposizione alla virtù, alla gentilezza, al valore – tutte qualità individuali. La “nobiltà di sangue”, invece, non era altro che un’invenzione dei magnati per legittimare la loro posizione sociale.

Poi, come si è visto, a Dante capitarono tante cose – fra l’altro, il caso di essere cacciato dalla propria città, di finire in esilio. Così, passando da una corte all’altra e vivendo in quella nuova realtà, si rese presto conto che vantare un antenato cavaliere avrebbe potuto far comodo anche a lui!

 

La visione del mondo

Dante Alighieri è stato il fondatore non solo della nostra letteratura, ma anche della tradizione culturale dell’Europa moderna. Egli è, allo stesso tempo, un ricapitolatore e un grande innovatore: infatti, rivela la propria appartenenza alla civiltà medievale nella tendenza a interpretare la realtà sulla base di principi universali e gerarchici che la collocano in strutture organiche e coerenti. D’altra parte, però, mostra anche una sensibilità nuova, che si potrebbe definire “moderna”, nella costante problematizzazione del pensiero e nella sua tensione verso posizioni sempre nuove. In altre parole, Dante ha saputo attingere alla cultura antica e coeva a lui, rielaborandone i temi più importanti, innovandoli e aprendoli a una dimensione più ampia.

A lui era del tutto estranea la specializzazione del sapere: egli poteva infatti occuparsi nello stesso tempo di politica e di spiritualità, di linguistica e di scienze naturali, di filosofia e di storia, di arte e di poesia, non come dilettante, ma esprimendo per ognuno degli ambiti idee adeguate al livello del dibattito del suo tempo (e in non pochi casi dimostrandosi perfino superiore a esso). In Dante si configurava, al suo livello più avanzato, la tendenza all’integrazione dei saperi e all’unità dell’uomo che caratterizzava la civiltà medievale.

Alla base del pensiero di Dante stava la visione religiosa della realtà: era questa a dare unità a tutti i fenomeni. Da tale concezione, alimentata in particolare dalla formazione aristotelico-scolastica, dipendeva una visione della Storia come rivelazione progressiva e lineare delle verità cristiane. Il momento discriminante e centrale dell’Incarnazione di Cristo e della sua predicazione divideva la storia dell’umanità, separando la fase pagana da quella cristiana; tuttavia, tale momento non era percepito come origine di un conflitto tra due civiltà: infatti, anche il mondo antico era inserito all’interno della prospettiva aperta da Cristo, ed era concepito come sua preparazione o come suo annuncio.

In Dante, come nei suoi contemporanei, mancava ogni valutazione della specifica diversità del passato. In altri termini, anche il passato era guardato dal punto di vista del presente: tutta la civiltà precristiana era reinterpretata alla luce del Cristianesimo. Tale tendenza, perciò, consentiva l’assunzione di un auctor antico, pur vissuto prima della compilazione dei Vangeli e a essi del tutto estraneo, a modello non solo formale, ma persino morale. Uno dei motivi centrali dell’opera dantesca consiste dunque nella fusione di modelli classici e di rinnovamento cristiano (sincretismo)[13].

Dante pose le basi per un nuovo modo di narrare il rapporto fra biografia e creazione letteraria. Nella sua opera, la verità umana e storica dell’individuo si collegava a una prospettiva collettiva e universale. L’epicentro di questa storia era Firenze; dentro la città però si riflettevano non solo la vicenda di Dante, ma anche la storia dell’Italia e il destino dell’uomo e della Terra, definita nella Commedia come l’«aiuola che ci fa tanto feroci» (Pd. XXII, 151). Lungo questo asse si definiva perciò il ruolo dell’intellettuale, che il poeta adattava alle stagioni della sua vita, senza però venire mai meno all’amore per la verità e per il bene comune (che è il primo dovere dell’uomo colto). Per questo Dante, anche dopo l’esilio, mantenne forte l’impegno letterario e civile e lo rilanciò in un’ottica non più circoscritta alla sola Firenze, ma allargata all’Italia e al mondo intero. Persino le battaglie più specifiche, come quella in favore del volgare rispetto al latino, furono da lui affrontate non in chiave tecnica e linguistica, ma in nome di ideali etici e politici.

Raffaello Sanzio, Dante (dettaglio), da La disputa del Sacramento. Affresco, 1509. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Signatura.

 

La concezione della poesia e dell’amore

Sin dagli esordi, l’esperienza di Dante si inscrive nel segno dell’amore, che a sua volta si collega alla poesia. Le prime prove dell’autore, infatti, rivelano un rapporto particolarmente stretto con la tradizione provenzale e siciliana. Per un poeta del suo tempo, del resto, il confronto con questi nobili modelli era inevitabilmente, ma Dante lo visse in modo del tutto originale, ravvivandolo per mezzo di un fitto dialogo con i suoi contemporanei. Dopo aver guardato infatti all’esperienza di Guittone d’Arezzo, Dante se ne distaccò per aderire alla tendenza poetica che lui stesso (in Pg. XXIV) definì «Stil novo», condividendo, in particolare, con Guido Guinizzelli e con l’amico Guido Cavalcanti temi come il servizio d’amore, la nobiltà d’animo e il valore dell’amicizia.

Si potrebbe indicare come data della svolta stilnovistica il 1283 circa, anno in cui Dante, come si è già ricordato, compose il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core e lo inviò a vari poeti fiorentini da lui definiti «fedeli d’Amore», tra cui lo stesso Guido Cavalcanti. Il 1283 fu poi anche l’anno in cui Beatrice concesse il saluto al poeta, segnando di fatto l’inizio dell’innamoramento per lei. Come si nota da questo intreccio di circostanze, l’amore, l’amicizia e la scrittura poetica erano sin dall’inizio legati da un nodo molto stretto, che per Dante implicò la condivisione con altri poeti e interlocutori.

Lo «Stil novo», fra l’altro, coltivava un ideale assoluto di amicizia, intesa come un legame profondo che s’instaura in nome della stessa visione dell’amore e di un comune codice culturale. Ma l’amicizia che si può individuare nelle liriche del giovane Dante non era soltanto un’idea astratta, ma si fondava su una reale condivisione di esperienze e di situazioni che solo i protagonisti potevano comprendere pienamente per il fatto di averle vissute o comunque sentirle allo stesso modo. Ciò produsse un’inevitabile selezione del pubblico a cui quelle poesie erano rivolte: la produzione giovanile di Dante aveva per destinatari i cuori «gentili», nobili nell’animo, e le donne che potevano comprendere la passione amorosa (che avevano, cioè, «intelletto d’Amore»).

 

Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Cod. It. IX 276, fol. 53 (1380-1400). Dante Alighieri, Divina Commedia. Pd. II Beatrice conduce Dante in Paradiso.

 

Beatrice, «donna della mente»

In queste liriche sono esplorate la natura del sentimento amoroso e la funzione nobilitante dell’incontro con la donna, senza escludere accenti più cupi e violenti – cavalcantiani – in cui sono mostrati gli effetti dolorosi della passione. Gli esiti della riflessione dantesca su questi temi sono, però, del tutto originali, per certi versi rivoluzionari, e troveranno piena evidente nel «libello» giovanile della Vita nova, pensato, messo insieme e realizzato all’insegna dell’amore.

Beatrice, la «donna della mente», riassorbe, annullandole, tutte le donne cantate da Dante in precedenza; l’amore per lei non solo produce un ingentilimento del cuore, ma genere un nuovo modo di far poesia, che si realizza esclusivamente nella lode dell’amata. Si assiste così al superamento del canone cortese, in cui la donna deve ricompensare il poeta per il suo servizio d’amore, in favore di un’esperienza che non chiede nulla in cambio, se non di potersi esprimere nel canto poetico.

Altro passaggio cruciale nella visione dantesca dell’amore è rappresentato dalla morte improvvisa e precoce di Beatrice (nel 1290), che comporta la tragica fine di un sentimento terreno, ma getta anche le basi per la sua spiritualizzazione. La donna non è più solo paragonabile per bellezza a un angelo (come in Guinizzelli), ma diventa ella stessa angelo, tramite esclusivo tra l’uomo e il divino.

L’amore per Beatrice continua dunque ad agire in Dante anche dopo la scomparsa di lei, fino ad assumere un significato metafisico. La prima conseguenza di questo processo è la crisi dell’amicizia con Cavalcanti. Entrambi vedono nel sentimento amoroso qualcosa che va oltre la dimensione emotiva e lo indagano sul piano filosofico, ma gli esiti a cui provengono non possono essere più divergenti: per Guido l’amore annienta le facoltà intellettive dell’uomo; per Dante, all’opposto, l’amore potenzia quelle facoltà, è dotato di un fine salvifico e consente di pervenire ai gradi più alti della conoscenza. Nonostante questo processo di spiritualizzazione, Beatrice conserva in tutte le opere in cui è presente il suo carattere di persona storica, di donna amata prima sulla Terra e poi in Cielo.

Nel poema l’amore viene esplorato in tutte le sue manifestazioni, da quelle più terrene e tragiche (Paolo e Francesca, If. V) a quelle più alte e salvifiche, perché solo in un desiderio libero dalla schiavitù del peccato si può cogliere il riflesso dell’«amor che move il sole l’altre stelle», cioè di quel principio superiore che unisce il Creatore al Creato. Amore e conseguenza si compenetrano fra loro, secondo la lezione di sant’Agostino, che aveva sostenuto che si può conoscere solo ciò che si ama e che si ama solo quello che si conosce nel profondo.

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. Français 112 (1470), Tristan de Léonis, f. 239r. Tristano e Isotta giocano a scacchi e bevono il filtro d’amore su una navicella.

 

Nel celebre sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime LII), che fa parte della prima fase della produzione lirica dantesca e figura nella raccolta delle Rime, il poeta si rivolge all’amico Cavalcanti, esprimendogli il desiderio di essere posto da un buon mago, insieme a lui e a un terzo comune amico (il poeta Lapo Gianni) e con le rispettive amate, su un vascello guidato dall’amore e dal desiderio dei passeggeri. È un sogno di evasione costruito secondo il gusto del plazer provenzale, intessuto di riferimenti culturali ai cicli arturiani dei romanzi francesi; vi si esprime, tra l’altro, la nostalgia del poeta per un ideale armonioso di civiltà messo in crisi dalla logica mercantesca dei Comuni. D’altronde, è qui testimoniata l’appartenenza di Dante all’ambiente stilnovistico, al quale appartiene l’esaltazione dell’amicizia come valore integrato al tema erotico (si noti il riconoscimento “corale” del tema della donna e dell’amore!).

Metrica sonetto con rime secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE EDC.

 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento

e messi in un vasel, ch’ad ogni vento

4   per mare andasse al voler vostro e mio;

 

sì che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento,

anzi, vivendo sempre in un talento,

8   di stare insieme crescesse ‘l disio[14].

 

E monna Vanna e monna Lagia poi

con quella ch’è sul numer de le trenta

11 con noi ponesse il buono incantatore:

 

e quivi ragionar sempre d’amore,

e ciascuna di lor fosse contenta,

14 sì come i’ credo che saremmo noi[15].

 

Il sonetto restituisce molto bene il clima di condivisione e di unità di menti e di cuori che animò lo «Stil novo» fiorentino. Dante lo concepì come un invito al viaggio rivolto a due poeti amici, Guido Cavalcanti e (probabilmente) Lapo Gianni, e alle loro donne. Tre uomini e tre donne riuniti su una navicella: per andare dove? Dante non lo dice, ma avverte che la virtù magica di Merlino protegge questo viaggio da qualsiasi ostacolo esterno. Il riferimento al personaggio del mago, presente in molti romanzi cortesi, l’indeterminatezza dei riferimenti spazio-temporali, il battere e ribattere sul tema del desiderio (misto a nostalgia e malinconia) rivelano la natura letteraria e ideale dell’esperienza vagheggiata. Eppure, il sogno diventa più vero del reale grazie non tanto agli incantesimi, ma al potere della poesia.

Il vero contenuto del sonetto è «l’assoluta separazione dal reale che si converte in amicizia» (Gianfranco Contini). Gli stessi esponenti dello «Stil novo» alimentano l’immagine di un gruppo di poeti amici che «ragionano» d’amore in virtù di una sensibilità e di una cultura fuori dal comune. L’amicizia e la poesia d’amore, infatti, sono topoi tipici della loro corrente letteraria.

L’altro aspetto legato all’amicizia è la ricerca dell’isolamento. Per nutrire il sentimento amoroso è condizione necessaria partecipare a un ideale di gentilezza, intesa come elevazione etico-culturale e come aristocratica distinzione, da cui discende il disprezzo verso la «noiosa gente».

La fuga dal mondo, attraverso il «vasel» (v. 3), dei tre amici e delle loro amate è l’immagine di quell’agognato isolamento. La nave, sottratta agli ostacoli del «tempo rio» (v. 5), si trasforma in luogo di immutabile contentezza («e ciascuna di lor fosse contenta, / sì come credo che saremo noi», vv. 13-14), divenendo una nuova forma di locus amoenus. Il privilegio stesso dell’inclusione in questo spazio ideale definisce i limiti di un’appartenenza negata al resto del mondo.

Isolamento non significa però solitudine. Non a caso, molte liriche chiamano in causa dei destinatari identificabili nella cerchia dei poeti; spesso – come in questo caso – alludono a esperienze o circostanze concrete, ben presenti al pubblico a cui erano rivolte, mentre sono per noi difficili da comprendere (v. 10), e davano luogo a un vero e proprio scambio epistolare in versi. A Dante, infatti, risponderà Cavalcanti con il sonetto S’io fosse quelli che d’Amor fu degno, in cui Guido declina l’offerta dicendosi in preda a una profonda prostrazione amorosa, che neanche la prospettiva del viaggio potrebbe addolcire. In questo periodo, probabilmente, i due poeti condividevano ancora un orizzonte comune, nonostante le sfumature diverse con cui analizzano la passione.

Dal punto di vista del genere letterario, il sonetto rimanda a un particolare tipo di plazer (componimento diffuso nella lirica provenzale), in cui si elencano una serie di cose piacevoli che il poeta si augura o augura ai suoi destinatari. L’originalità di Dante consiste nell’aver sostituito agli oggetti concreti del desiderio un’esperienza ideale e fantastica come il viaggio su una barchetta incantata.

I nuclei tematici si riflettono perfettamente nella simmetrica organizzazione del testo:

 

  • la prima quartina, che si apre con il vocativo («Guido, …», v. 1) e chiama in causa i tre soggetti maschili, contiene l’invito al viaggio;
  • la seconda quartina esprime il valore dell’amicizia intesa come unità d’intenti. L’invincibilità del sentimento è evidenziata dall’antitesi tra le parole in rima: a due rimandi dal valore semantico negativo («rio» e «impedimento», vv. 5; 6) si oppongono due sostantivi legati al tema del desiderio («talento» e «disio», vv. 7; 8);
  • la prima terzina introduce le tre figure femminili che accompagneranno i tre amici e riprende la parola chiave «incantamento» (v. 2) della prima quartina attraverso il sostantivo «incantatore» (v. 11);
  • la seconda terzina ridisegna i confini della combriccola, la cui occupazione sarà quella di «ragionar sempre d’amore» (v. 12), e riprende dalla seconda quartina il tema della perfetta unità di intenti e della reciprocità dei sentimenti (vv. 13-14).

 

L’uso delle forme verbali privilegia, in sintonia con il tema di fondo, la dimensione del desiderio: dal condizionale «vorrei» (v. 1) all’insistenza del congiuntivo con valore ottativo in tutto il sonetto.

L’idea della fuga da una realtà sociale degradata ha da sempre esercitato una notevole suggestione sull’immaginario contemporaneo, attraversato da movimenti tesi all’estrema semplificazione dei rapporti sociali e alla valorizzazione utopica dell’amore e di una società basata sull’amore, anche con intenzione polemica: a questo proposito, basti pensare ai movimenti hippy negli anni Sessanta del XX secolo e ai “figli dei fiori”. Inutile, d’altra parte, sottolineare le profonde differenze con la proposta dantesca di questo sonetto. L’analogia va limitata all’intenzione di costruire un sogno d’evasione e di amore che neghi gli orrori della società presente (con i suoi conflitti d’interesse). È d’altra parte nell’approdo favoloso, che il sogno dantesco fa balenare davanti ai nostri occhi, che resiste ancora oggi il fascino e il valore di questo testo.

 

Andrea del Castagno, Dante Alighieri, dal ciclo degli ‘Uomini e Donne famosi’. Affresco, trasferito su legno, 1450 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

Tra sperimentalismo e difesa del volgare

L’opera di Dante – si è detto – è vasta, varia e complessa, sempre nuova e sempre diversa, sempre tesa al superamento della meta momentaneamente raggiunta. La produzione artistica del poeta, insomma, è multiforme e tuttavia vi si possono rintracciare alcune costanti anche sul piano formale.

Innanzitutto, lo sperimentalismo, che agisce su più piani: stilistico-contenutistico, linguistico e metrico. Per quanto riguarda lo stile e i contenuti, Dante passa dalle rime «dolci e leggiadre» dello Stil novo e della Vita nova al linguaggio “comico” e persino sguaiato della tenzone con Forese Donati – dove alla lode si sostituisce il vituperium – e poi alle rime cosiddette “petrose”, che rappresentano un rovesciamento completo dei canoni stilnovistici, con una certa asprezza stilistica come strumento espressivo di un amore violentemente sensuale.

Sul piano squisitamente linguistico, lo sperimentalismo dantesco si manifesta anche nella continua tensione verso il plurilinguismo, che porta il poeta ad accogliere nello stesso testo lingue o volgari differenti. Ne sono un esempio le terzine provenzali inserite a chiusa di Pg. XXVI 136-137[16], oppure il ricorso a espressioni proprie del volgare nativo dei personaggi via via incontrati nel poema, come in If. XXVII 21, il lombardismo «istra» [ora] o in Pg. XXIV 55, il lucchesismo «issa» (con lo stesso significato).

Uno dei più spettacolari pezzi di plurilinguismo poetico medievale è sicuramente la canzone trilingue Aï faus ris, pour quoi traï aves, in cui Dante alterna lingua d’oïl, latino e italiano all’interno di ciascuna strofa, secondo uno schema preciso. Ma lo sperimentalismo linguistico arriva anche alle estreme conseguenze della creazione di numerosi neologismi, soprattutto nel Paradiso, laddove la lingua normale non basta a descrivere ciò che il poeta vede e sperimenta.

Sul piano metrico, sono notevoli la probabile invenzione da parte di Dante della terzina, che è alla base della Commedia, e il recupero, per la prima volta nella poesia italiana, dell’artificiosa sestina, inventata dal trovatore provenzale Arnaut Daniel.

Dante compose il De vulgari eloquentia probabilmente tra il 1304 e il 1305 (M. Tavoni ha avanzato l’ipotesi che sia stato scritto tra la metà del 1304 e il 1306), ma il progetto rimase interrotto: dei quattro libri previsti l’autore non completò neppure il secondo. Forse l’avvio della stesura del grande poema è stato il motivo principale di questa interruzione. Il nucleo del pensiero linguistico svolto in questo trattato consiste nella valorizzazione e nella difesa del volgare, e per dimostrare perché il volgare avesse pari dignità rispetto al latino, Dante scelse di utilizzare proprio quest’ultimo per rivolgersi ai doctores illustres, invitandoli a servirsi di un «volgare illustre» per raggiungere un pubblico più vasto.

Dopo aver dato la definizione di linguaggio umano (distinto da quello animale e da quello degli angeli) e aver ricostruito la storia delle lingue dalla creazione di Adamo, passando per l’episodio biblico della Torre di Babele, e arrivare al suo presente, Dante introduce la mappa dei volgari italiani e apre la questione del loro uso letterario. Postosi alla ricerca della «lingua del sì», l’autore giunge quindi alla definizione di un vulgaris illustris, quello parlato e scritto dai membri delle curiae (cioè delle “corti”) e dai poeti famosi, la cui diffusione avrebbe consentito la rinascita politica dell’Italia, ovvero la sua coesione civile.

Evidentemente per Dante il problema linguistico e la questione politica del suo tempo erano inseparabili: da questo punto di vista, egli è stato il primo scrittore italiano a porsi coscientemente il problema di una lingua italiana unitaria, facendosi promotore dell’uso del volgare in ogni ambito letterario, sfruttandone tutte le potenzialità e la duttilità sia sul piano teorico sia sul lato pratico, con la sua poesia.

Dante, inoltre, affrontò tematiche politiche soprattutto nella Commedia: l’incontro nell’aldilà con alcuni personaggi gli offrì l’occasione per riflettere sull’attualità. In particolare, il canto VI di ogni cantica è esplicitamente di argomento politico: nell’Inferno, l’incontro con Ciacco permette al poeta di parlare delle lotte intestine a Firenze; nel Purgatorio, il dialogo con Sordello avvia una violenta invettiva sulla situazione italiana; nel Paradiso, l’incontro con l’imperatore Giustiniano porta a una critica di Guelfi e Ghibellini.

 

Jean-Léon Gérôme, Dante. Olio su tela, 1864.

 

L’esilio del cantor rectitudinis

Il distacco da Firenze, sancito dalla condanna del 1302 e riconfermato in seguito, obbligò Dante a un cambiamento radicale: l’orizzonte limitato del Comune era ormai alle sue spalle, il mito di sé come garante della concordia cittadina inesorabilmente tramontato. Il poeta fu costretto a ridefinire il proprio ruolo intellettuale anche alla luce di un pubblico diverso, che non era più quello elitario della sua gioventù, ma quello più ampio delle corti centro-settentrionali d’Italia. Per attuare questa trasformazione, l’Alighieri ripartì dall’esilio, dal trauma personale destinato a diventare il mito su cui costruire una nuova identità. Nacque così la figura dell’exul inmeritus [«esule immeritatamente»], vittima dell’ingratitudine fiorentina, che aprì la strada al cantor rectitudinis [«poeta della rettitudine»], chiamato a una nuova missione culturale e morale, di cui l’esilio divenne un segno distintivo: se anche la giustizia era stata bandita dalla Terra, l’esperienza dolorosa cui il poeta era stato condannato divenne un motivo d’onore e non di vergogna.

Gli aspetti che contraddistinsero la rinnovata identità erano:

 

  • il confronto con una dimensione sovramunicipale, in cui la crisi di Firenze si ricollegava a quella dell’intera Penisola;
  • l’idea di una poesia impegnata, strumento di rigenerazione etico-civile;
  • il ruolo di un filosofo laico, garante della libertà e della giustizia;
  • il rivolgersi a un pubblico identificabile soprattutto nella classe dirigente delle città e delle corti settentrionali, che doveva essere educata ai principi etico-politici affinché governasse rettamente;
  • la centralità dei temi della politica e del vivere civile;
  • la ricerca di una lingua comune.

 

È ignoto il destinatario dell’Epistola XII di Dante. Si è pensato che possa trattarsi di un religioso, dato l’appellativo di pater che il poeta gli rivolge. Senz’altro si tratta di un fiorentino in rapporti di amicizia con lui, interessato a favorirne il ritorno in patria. Dalla lettera si evince che l’Alighieri aveva ricevuto, dal destinatario e da altre fonti, notizia del condono stabilito con bando del 19 maggio 1315 per tutti i fuoriusciti, valido a patto che si piegasse a pagare una multa, riconoscendosi colpevole di ciò per cui era stato esiliato e poi condannato a morte. Dante rifiutò con gentilezza (nei confronti dell’intercessore) ma con sdegno (nei confronti del Governo fiorentino autore del provvedimento) di umiliarsi, confermando la propria assoluta innocenza e la conseguente decisione di non tornare mai più a Firenze, se non in forme confacenti alla propria fama.

Si tratta, questo, di uno dei documento cui comprensibilmente si sarebbe appoggiato – per secoli – il mito della sdegnosa dignità di Dante.

 

Dalla vostra lettera, ricevuta con la dovuta reverenza e con affetto, compresi, con mente grata e studio minuzioso, quanto vi preoccupi e vi stia a cuore il mio rimpatrio […] Anche se la risposta al contenuto della lettera non sarà quale forse desidererebbero alcuni pusillanimi, affettuosamente vi chiedo che, prima di ogni giudizio, sia sottoposta all’esame della vostra saggezza.

Ecco dunque che attraverso le lettere vostre e di mio nipote, nonché di parecchi altri amici, mi è comunicato che, per un ordinamento appena fatto a Firenze sull’assoluzione degli sbanditi, potrei essere assolto e subito ritornare, se accettassi di offrire una certa quantità di denaro e sopportare il disonore dell’oblazione […].

È questa la benigna revoca per la quale Dante Alighieri è riconvocato in patria, dopo aver sopportato l’esilio per quasi tre lustri? Questo ha meritato un’innocenza manifesta a chiunque? Questo il sudore e il continuo impegno nello studio? Non si addice a un uomo studioso di filosofia una bassezza di cuore così sconsiderata da sopportare di essere offerto, quasi sconfitto, al modo di un qualsiasi Ciolo o di altri infami! Non si addice a un uomo che predica la giustizia, dopo aver sopportato l’ingiustizia, pagare con il proprio denaro, come benefattori, proprio coloro che hanno commesso l’ingiustizia.

Padre mio, non è questa la via del ritorno in patria; ma se prima voi, e poi altri, ne troverete un’altra che non violi la fama e l’onore di Dante, quella accetterò, non con lenti passi; e se non si entra a Firenze per quella, mai rientrerò a Firenze. E che? Non vedrò forse ovunque la luce del sole e degli astri? Forse non potrò ovunque, sotto il cielo, meditare le dolcissime verità, se prima non mi sarò restituito alla città, senza gloria, anzi con ignominia, per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà.

 

Da questo testo emergono con evidenza:

 

  • la rivendicazione da parte di Dante della propria dignità;
  • la consapevolezza del proprio valore intellettuale e morale;
  • il rifiuto di piegarsi al compromesso in cambio del ritorno in patria;
  • la costruzione intorno a sé del mito dell’exul inmeritus, vittima dell’ingratitudine degli ex-concittadini;
  • la volontà di farsi cantore di valori morali sinceri, proprio in risposta all’ingiustizia subita.

 

Nella parte conclusiva affiora l’idea che il ritorno a Firenze non debba avvenire a ogni costo e che, se la condizione di esule ha sradicato Dante dalla sua città natale, ha fatto però del mondo la sua unica e vera patria.

 

Sandro Botticelli, Ritratto di Dante. Tempera su tavola, 1495 c. Cologny, Fondazione Martin Bodmer.

 

La concezione dell’uomo

La visione dantesca dell’uomo è una visione totale, che non trascura alcun aspetto dell’esistenza; in essa il dato autobiografico è presente con forza, ma non si esaurisce nel racconto di sé; l’esperienza storica e umana va oltre il dato contingente e diventa narrazione allegorica, acquisendo un significato più profondo. Infatti, nella Commedia la prospettiva individuale si allarga fino a comprendere una dimensione collettiva e universale, inserendosi in un disegno più ampio. Così il poema, vero e proprio poema-mondo, è il testo che meglio esprime tale visione totale dell’uomo: l’autore non si stanca mai di ribadire i concetti di dignità e di libertà, da lui appresi nello studio di Aristotele, Boezio, Sant’Agostino e San Tommaso.

Ma che cosa significa «visione totale» dell’uomo? Nella cultura medievale l’essere umano era sentito in profonda relazione con l’universo, la cui forma concentrica e unitaria aveva per centro la Terra (secondo il modello geocentrico), immobile in un sistema mobile. Si pensava che le sfere dei cieli le ruotassero intorno, creando un insieme pluricircolare governato da Dio e mosso dal suo amore. L’uomo, pur essendo stato esiliato dal Paradiso terrestre a causa del peccato originale, era secondo nella scala delle creature solo agli angeli e portava in sé la scintilla divina del Creatore. Negli umani Dio avrebbe infuso la capacità di conoscere se stessi, di produrre concetti astratti attraverso l’intelletto, da cui deriverebbe anche la facoltà di parola. Grazie alla ragione e alla parola, l’umanità ha potuto realizzare l’attitudine a vivere in società e a interessarsi alla pólis, secondo la nota teoria aristotelica che faceva l’uomo un animale politico. In base a tale assunto, lo scopo dell’umanità nel mondo dovrebbe essere quello di superare l’interesse egoistico a vantaggio del bene collettivo, nel rispetto delle leggi garanti della giustizia. In questo modo, la dimensione etica si collega con quella politica, che ha per obiettivo il conseguimento della felicità terrena e razionale, assicurata dall’esercizio della filosofia e dalla guida dell’autorità imperiale.

Lucca, Biblioteca Statale. Codex Latinum 1942 (XII sec.), c. 9r. Ildegarda di Bingen e l’Uomo al centro dell’universo.

Secondo il pensiero medievale, l’uomo detiene in comune con Dio, oltre all’intelletto, anche l’esercizio della volontà, con cui si realizza il libero arbitrio. Non basta infatti conoscere il vero bene, ma occorre anche volerlo fare; e ciò nell’uomo avviene per libera scelta e non per istinto – come invece accade negli animali. Per queste sue caratteristiche, l’uomo si pone come mediatore tra la dimensione terrena e quella celeste, tra materia e spirito, abbracciando tutti gli stati dell’essere: da quelli più bassi, che portano al peccato, a quelli più alti, che conducono alla beatitudine. Per conquistare la felicità celeste, l’umanità dovrà affidarsi alla Grazia e al sapere teologico del papa.

Secondo Dante, Dio ha affidato alle due autorità terrene – imperatore e pontefice – il compito di guidare gli uomini alla duplice felicità. Ma è stata l’alterazione dei rapporti tra i due poteri a condurre alla crisi del suo tempo. La Chiesa, detentrice del potere spirituale, ha preteso di estendere il proprio controllo sul potere temporale (di competenza regia), minando così all’equilibrio voluto da Dio. Per Dante, allora, l’unica soluzione consisterebbe nel ripristino dell’autorità politica dell’imperatore. Quando, dopo anni di vacanza imperiale, fu incoronato Arrigo VII di Lussemburgo, con l’assenso di papa Clemente V, l’evento sembrò all’Alighieri il segno di un nuovo corso. La discesa in Italia del sovrano, nel 1310, alimentò le speranze in una presenza più diretta dell’imperatore quale arbitro nelle vicende italiane. Purtroppo le cose non andarono nel modo atteso: la scomparsa improvvisa di Arrigo VII nel 1313 allontanò ogni possibilità di realizzare il disegno politico immaginato da Dante. Ciononostante, il poeta non cambiò le proprie convinzioni e la certezza di una necessaria collaborazione e piena sovranità, nei rispettivi ambiti, della Chiesa e dell’Impero.

Quello riportato è uno dei passi più famosi della Monarchia (III xv, 3-15 passim, testo latino), il trattato politico che Dante compose durante l’esilio. S’impone all’attenzione perché vi si espone la tesi sui rapporti tra Chiesa e Impero, e sulla loro discendenza diretta da Dio. L’immagine iniziale, che paragona l’uomo all’orizzonte, pur non essendo originale, è straordinariamente potente e affascinante.

 

[3] Bisogna sapere che l’uomo solo fra tutti gli esseri occupa il mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili; perciò i filosofi lo paragonano giustamente all’orizzonte, che è a mezzo tra i due emisferi. [4] L’uomo infatti, se lo si consideri secondo entrambe le parti essenziali, cioè l’anima e il corpo, è corruttibile; se lo si consideri invece secondo una sola, cioè l’anima, è incorruttibile […]. [5] Se dunque l’uomo è un che d’intermedio tra le cose corruttibili e le incorruttibili, poiché tutto ciò che è intermedio risente della natura degli estremi, è necessario che l’uomo risenta dell’una e dell’altra natura. [6] E, poiché ogni natura è ordinata a un fine ultimo, ne consegue che per l’uomo vi sia un fine duplice: cosicché, come tra tutti gli esseri è il solo a partecipare dell’incorruttibilità e della corruttibilità, così è anche il solo tra tutti gli esseri a essere ordinato a due fini, dei quali l’uno è quello a cui ordinato in quanto è corruttibile, l’altro invece in quanto è incorruttibile.

[7] Due fini pertanto stabilì che l’uomo perseguisse quell’ineffabile provvidenza: vale a dire la beatitudine di questa vita, che consiste nell’operare della propria virtù ed è raffigurata dal paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nella fruizione della visione divina, a cui la propria virtù non può ascendere, se non sorretta dal lume divino, e che si può intendere per il paradiso celeste. [8] A queste beatitudini, come a diverse conclusioni, conviene pervenire per diversi mezzi. Alla prima, infatti, giungiamo per mezzo delle dottrine filosofiche, allorché le seguiamo con l’operare secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda, invece, per mezzo delle dottrine spirituali che trascendono la ragione umana, allorché le seguiamo con l’operare secondo le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità […]. [10] Perciò, per l’uomo ci fu bisogno, in conformità al suo duplice fine, di un duplice rimedio direttivo, cioè del Sommo Pontefice, che secondo le cose rivelate conducesse il genere umano alla vita eterna, e dell’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale, secondo gli insegnamenti filosofici. [11] E poiché a questo porto nessuno o pochi possono pervenire, e questi con difficoltà estrema, se il genere umano, sedati gli allettanti marosi della cupidigia, non riposi libero nella tranquillità della pace, questa è la meta alla quale soprattutto deve mirare il tutore del mondo, che è chiamato il Principe romano, affinché appunto si viva liberamente con la pace in questa aiuola dei mortali. [12] E poiché la disposizione di questo mondo segue la disposizione inerente alla circolazione dei cieli, è necessario, a ciò che gli universali principi della libertà e della pace si applichino in modo adatto ai luoghi e ai tempi, che questo tutore sia stabilito da Colui che presenzialmente vede la totale disposizione dei cieli. Egli è infatti il solo che l’abbia preordinata, sì da provvedere egli stesso per mezzo di quella a connettere ogni cosa ai suoi ordini. [13] E se è così, Dio solo è colui che elegge, egli solo conferma, perché non ha alcun superiore […]. [15] Così, dunque, è palese che l’autorità del Monarca temporale deriva in lui, senza alcun tramite, dalla Fonte dell’autorità universale: la qual Fonte, unita nella sommità della sua semplicità, rifluisce in molteplici alvei per sovrabbondanza di bontà.

 

La Monarchia è un trattato in latino in tre libri, di datazione incerta (1308; 1312-13; 1317-18). L’ipotesi più accreditata è che sia stata redatta in seguito alla discesa di Arrigo VII (1310). È incentrata su tre questioni:

 

  • la necessità dell’Impero per il benessere dell’umanità (libro I);
  • il ruolo dell’Impero romano nel disegno provvidenziale (libro II);
  • il rapporto tra Chiesa e Impero (libro III).

 

Il trattato fu condannato dalla Chiesa per le teorie esposte sul potere temporale del papa e per la critica che l’autore muove nei confronti della cosiddetta Donazione di Costantino, documento con cui l’imperatore romano avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione su Roma, sull’Italia e sulla parte occidentale dell’Impero.

Il brano riportato costituisce la parte conclusiva del trattato e affronta il tema dei rapporti tra Impero e Chiesa. Il discorso di Dante prende le mosse da un motivo a lui caro: la doppia natura dell’essere umano, da un lato vincolato alla sua materialità e dall’altro partecipe della divinità. Per questo, sottolinea il poeta, i filosofi hanno paragonato l’uomo all’orizzonte, la linea che delimita i due emisferi della materia e dello spirito.

Ciascuna delle due componenti raggiunge il proprio fine attraverso percorsi diversi, ma complementari: la beatitudine terrena attraverso la filosofia, quella celeste tramite la fede. Questi due strumenti, però, non bastano da soli a garantire il conseguimento dell’obiettivo. Perciò, Dio ha dispensato all’uomo due guide: l’imperatore, per stimolare gli uomini all’esercizio della ragione, seguendo gli insegnamenti della filosofia; il papa, per illuminare la via che porta alla vita eterna.

Negli ultimi paragrafi, Dante affronta i seguenti principi:

 

  • la figura dell’imperatore, detentore del potere temporale, dipende direttamente dalla provvidenza divina, che regola i destini sulla Terra;
  • il pontefice, detentore del potere spirituale, non può avere giurisdizione anche sulla scelta dell’imperatore né esercitare il potere temporale;
  • le due autorità sono indipendenti l’una dall’altra, ma complementari, perché entrambe sono emanazione della volontà divina.

 

L’argomentazione, condotta con stile serrato e rigoroso, non è nuova, in effetti; Dante s’inserisce nel dibattito filosofico e politico sulla natura dei rapporti tra potere spirituale e potere temporale. Gli ambienti filopapali, naturalmente, sostenevano che il successore di San Pietro fosse anche l’unico tramite attraverso il quale Dio conferiva il potere regio (teoria del Sole e della Luna: il Sole, che ha luce propria, era allegoria del potere pontificio, e la Luna, che ha luce riflessa, del potere imperiale). Da posizioni opposte si sosteneva che il potere imperiale derivasse direttamente da Dio (teoria dei due Soli: i due poteri godevano, ciascuno indipendentemente dall’altro, di luce propria)[18].

 

Dio crea Adamo a sua immagine e somiglianza (particolare). Mosaico, 1143. Palermo, P.zzo dei Normanni, Cappella Palatina.

 

La Vita nova

La Vita nova è l’opera più importante composta da Dante prima dell’esilio; il periodo di elaborazione si colloca tra il 1292 e il 1295 circa, anche se recentemente lo studioso Marco Santagata ne ha ipotizzato una stesura definitiva tra il 1294 e il 1296. L’opera risponde al genere del prosimetrum («prosimetro»), ovvero un testo misto di prosa e di versi, e si articola (secondo la proposta del filologo Michele Barbi) in 42 capitoli, all’interno dei quali figurano 31 testi lirici (25 sonetti, 3 canzoni, una ballata, una stanza di canzone e una doppia stanza di canzone). Il modello più prossimo è quello del De consolatione philosophiae di Boezio.

La Vita nova è essenzialmente un racconto autobiografico che ruota intorno all’amore del protagonista, fin dalla più giovane età, per una donna chiamata Beatrice. Nell’opera il soggetto narrante non è mai indicato come Dante, anche se non è difficile associarlo all’autore. Per quanto riguarda l’identità della donna, Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante non aveva dubbi che si trattasse di Bice (cioè Beatrice) Portinari, figlia del banchiere Folco, andata in sposa a Simone de’ Bardi e scomparsa all’età di ventiquattro anni, l’8 giugno 1290. È quanto avviene anche alla Beatrice della Vita nova, la cui morte è annunciata nel cap. XXVIII. Ciò che sorprende è il fatto che l’opera non si chiuda su questo tragico evento, ma prosegua con le reazioni dell’autore: il dolore, i tentativi di consolazione, lo sviamento e il ravvedimento finale. In questo modo, la figura di Beatrice viene innalzata, al di là della sua identità storica, fino a diventare una presenza centrale della scrittura dantesca.

Il titolo del «libello» (così definito dall’autore all’inizio dell’opera) si ricava dal capitolo d’esordio, in cui Dante scrive: «In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit Vita nova». Il titolo ha un significato duplice, in quanto l’aggettivo nova gli conferisce il valore di «vita giovanile», ma può attribuirgli anche il valore metaforico di «vita rinnovata», sia sul piano spirituale sia su quello poetico, grazie all’incontro con Beatrice.

Le vicende raccontate nell’opera possono essere raggruppate in tre nuclei narrativi: l’innamoramento del poeta, la poesia in lode di Beatrice, la crisi dell’autore a seguito della morte di lei e il suo ravvedimento. All’interno di queste sezioni acquistano rilievo tre canzoni, d’importanza strategica nel racconto: Donne ch’avete intelletto d’amore (cap. XIX); Donna pietosa e di novella etate (cap. XXIII); Li occhi dolenti per pietà del core (cap. XXXI).

Dante incontra Beatrice per la prima volta all’età di nove anni; l’evento si ripete esattamente nove anni dopo, questa volta con l’aggiunta del saluto salutifero da parte della donna. Segue il cosiddetto sogno del cuore mangiato, in cui Amore nutre la ragazza con il cuore del poeta. In coincidenza con questa visione, Dante dice di aver composto un sonetto, che invia ad altri poeti per chiedere loro di interpretare il sogno. Tra le risposte in versi che gli pervengono, viene ricordata solo quella di Guido Cavalcanti, che da quel momento sarebbe diventato il primo degli amici dell’autore e a cui la Vita nova viene dedicata. Per stornare la curiosità dei pettegoli (i «malparlieri»), Dante si serve di un espediente caro alla tradizione cortese: finge di riservare attenzioni a un’altra persona, la «donna dello schermo». Ma i pettegolezzi intorno a una presunta nuova passione del poeta suscitano lo sdegno di Beatrice, che decide di negargli il saluto.

Il protagonista cade in uno stato di disperazione, che culmina nel cap. XIV con l’episodio del «gabbo» (la “beffa”, “presa in giro”): nel corso di una festa di nozze, Dante avvista Beatrice in un corteo di donne; l’effetto dell’apparizione è talmente forte che il poeta viene meno, e la ragazza, vistolo, si prende gioco di lui insieme alle sue compagne. Nei toni dolorosi che dominano le liriche di questa parte è evidente l’influsso della visione angosciosa d’amore tipica di Cavalcanti.

A questo punto dell’opera matura la svolta della poesia della «loda»: la felicità consiste nel lodare la donna senza attendersi nulla in cambio. Questo passaggio è segnato dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore: Beatrice assume sempre più i connotati soprannaturali della donna-angelo, che genera amore in chiunque la incontri. In questa parte risulta evidente l’influenza di Guinizzelli, come dimostrano i sonetti Amore e ‘l cor gentil sono una cosa (cap. XX) e Ne li occhi porta la mia donna Amore (cap. XXI). Nel frattempo, muore il padre della ragazza tra il compianto generale (cap. XXII); Dante cade malato per nove giorni e viene assistito da una giovane donna «pietosa», legata a lui da un rapporto di parentela. Nella seconda canzone, Donna pietosa e di novella etate (cap. XXIII), il presagio della morte di Beatrice si manifesta in un incubo popolato di donne scapigliate e piangenti, insieme con segni naturali apocalittici, simili a quelli che nei Vangeli accompagnano la morte di Gesù. Beatrice viene così accostata alla figura di Cristo: il suo breve passaggio miracoloso sulla Terra rinnova la funzione salvifica e messianica di Gesù, prefigurando il ruolo che la donna avrà nella Commedia. Gli effetti del passaggio della «gentilissima» sono esaltati in altri due sonetti della lode: Tanto gentile e tanto onesta pare e Vede perfettamente onne salute (cap. XXVI).

Il temuto evento della scomparsa di lei, infine, accade: il poeta esprime la sua profonda tristezza nella canzone Li occhi dolenti per pieta del core (cap. XXXI). Il dolore provato è lenito dalle attenzioni di una donna «gentile», a cui Dante cede per consolarsi, tradendo così la memoria di Beatrice (capp. XXXV-XXXVIII). Quest’ultima, però, nell’ora nona di un giorno imprecisato, gli appare vestita di rosso come nel primo incontro e lo richiama a sé (cap. XXXIX). Il «libello» si conclude con una «mirabile visione», che suggerisce al poeta di ritornare con il pensiero a Beatrice e di trattare più degnamente di lei in futuro («dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna», cap. XLII). Considerata a posteriori, questa conclusione contiene in sé quasi un annuncio del progetto della Commedia.

Le vicende che Dante racconta sono ambientate in un contesto dai tratti volutamente indeterminati; ma si colgono riferimenti a luoghi cittadini (chiese, vie, un fiume), tuttavia mai indicati con nomi reali. Eppure, non è difficile scorgervi Firenze. Prevalgono nell’ambientazione spazi aperti: del resto, nella vita comunale le occasioni di incontro fra le persone, soprattutto fra uomini e donne non legati da vincoli di parentela, erano quasi sempre pubbliche – in chiesa, per strada, durante feste e cerimonie (nozze e funerali), nelle quali una giovane donna non era mai da sola. Alla donna sono attribuiti gesti di grande rilievo (il saluto, la sua negazione, il «gabbo»), ma poche sono le situazioni in cui la si vede interagire con chi le sta intorno: è come se ella si muovesse in una dimensione di superiorità, che traspare già dal suo nome, «colei che dà la beatitudine», cioè che rende salvo Dante con la sua sola apparizione.

Nel racconto non ci sono date esplicite, se non quelle ricavabili dalle perifrasi che segnano i momenti di snodo della vicenda o da testimonianze esterne (come quella di Boccaccio). Pur nell’incertezza della cronologia, è possibile indicare alcuni punti fermi:

 

  • il primo incontro con Beatrice può essere fissato al Calendimaggio del 1274;
  • il secondo incontro, di conseguenza, è da collocare nel 1283;
  • la morte del padre della giovane, Folco Portinari, è avvenuta nel 1289;
  • quella di Beatrice cade l’anno successivo;
  • a un anno di distanza, Dante ne celebra l’anniversario con il sonetto Era venuta ne la mente mia.

 

Nello sviluppo degli accadimenti assume una rilevanza particolare il nove, indicato dall’autore anche come il numero del miracolo e di Beatrice stessa, dato che, nella versione latina del nome, Beatrix, le ultime due lettere IX sono anche le cifre romane corrispondenti a quel numero. L’ipotesi che si può ricavare è che Dante abbia costruito ad arte una sequenza cronologica a partire dal valore simbolico di questo numero (quadrato di tre, numero della Trinità) per suggerire la natura provvidenziale del ruolo della donna. Non possiamo escludere, però, un’altra ipotesi: se la Vita nova ha una qualche corrispondenza con la realtà, la ciclicità del nove potrebbe essere stata effettivamente presente nelle vicende; il poeta, dunque, verosimilmente avrebbe sviluppato il significato simbolico del nove proprio a partire da circostanze reali. Quanto ai riferimenti astrologici, Dante registra l’ora precisa degli avvenimenti cruciali della sua storia d’amore collocandoli sempre su uno sfondo cosmico: per esempio, il primo incontro avviene quando «lo cielo stellato era mosso verso la parte d’Oriente de le dodici parti l’una d’un grado», e così via. Queste precisazioni, che a volte ci possono sembrare astruse, hanno la funzione di proiettare la vita di Beatrice oltre la banalità quotidiana, in una dimensione di misteriosa fatalità.

Insomma, in generale, nella sua ricostruzione Dante procede secondo criteri di verosimiglianza, ma è comunque lontano dal conferire precisione a un racconto in cui la dimensione simbolica è prevalente.

Nella Vita nova Dante ha saputo compiere un’operazione inedita rispetto ai suoi predecessori. Egli infatti ha inserito i propri testi poetici in un’opera nuova, reinterpretandoli alla luce del sentimento per Beatrice. La Vita nova non è dunque un’antologia di liriche dedicate a «madonna», ma un’opera unitaria e organica, in cui sono ricostruiti i momenti salienti della vicenda amorosa giovanile e del rinnovamento interiore che lo ha segnato. Per questo motivo il «libello» si articola in una successione di eventi, come un vero e proprio racconto.

Sarebbe però fuorviante pensare alla Vita nova come a un’autobiografia in senso moderno: la voce narrante, all’inizio, afferma che copierà dal «libro» della memoria «se non tutte [le parole], almeno la loro sentenzia», cioè il senso, l’interpretazione generale. Questo vuol dire che le «parole», cioè le poesie, recuperate dal passato e collegate tra loro, dovranno essere interpretate secondo un significato simbolico-allegorico. In questo modo, l’autore intende conferire un carattere universale alla propria vicenda personale, creando un’autobiografia ideale e allegorica, che si ispira alle Confessiones di sant’Agostino (354-430), primo esempio nella letteratura cristiana di analisi introspettiva e psicologica.

Molti dei testi inseriti nella raccolta risalgono effettivamente a un momento anteriore alla stesura del libro: sono state scritte, cioè, in circostanze diverse da quelle narrate e per altre figure femminili. Nel momento in cui il poeta le seleziona e le inserisce nella trama del racconto, ne ridefinisce il significato alla luce della vicenda amorosa con Beatrice. In questo senso, la Vita nova può essere letta come una storia della poesia dantesca: dall’influsso di Guittone d’Arezzo, alle liriche d’ispirazione cavalcantiana e alle rielaborazioni dei temi guinizzelliani. Dante, tuttavia, va oltre lo «Stil novo», com’è dimostrato dalla natura della sua poesia della lode e soprattutto dal significato simbolico della scomparsa di Beatrice. Nella tradizione lirica amorosa che precede il poeta, infatti, la morte dell’amata segnava la fine del canto poetico; la Vita nova è il primo libro in cui ciò non accade. Al contrario, il luttuoso evento alimenta un sentimento che continua a dare impulso alla poesia. Lo fa grazie alla memoria, che consente a Dante di recuperare dai suoi ricordi l’amore per la donna e di attribuire un nuovo significato a quel sentimento (quasi come se, azzardando, la «gentilissima» abbia dovuto per forza morire per poter dare compimento al proprio ruolo salvifico!). Infatti, proprio con la Vita nova nascono il culto e il mito di Beatrice nella poesia dantesca: la sua presenza ha un significato miracoloso, come dimostrano sia l’insistenza sul valore allegorico del numero nove sia il ricorrere del motivo del sogno e delle visioni, che sottolineano le svolte fondamentali del racconto. È come se l’autore avesse proceduto a una santificazione dell’amata, associata a Cristo. Alla luce di ciò, si è perfino parlato della Vita nova come di una vera e propria Legenda sanctae Beatricis, quasi si trattasse di un’opera agiografica! Qui, però, il vero miracolo compiuto dalla bella è quello di aver generato nel suo devoto la spinta a una poesia più alta, destinata a superare lo «Stil novo».

Ma a chi voleva rivolgersi Dante con questo libro? In alcune circostanze, la voce narrante fa riferimento a destinatari o interlocutori fra i cosiddetti «fedeli d’Amore», di cui facevano parte Guido Cavalcanti, il fratello di Beatrice, altri poeti e amici, tutti chiamati in causa mai con il loro nome ma attraverso perifrasi. La natura esclusiva di questo pubblico rinvia chiaramente allo «Stil novo» e al suo ideale di amicizia, come condivisione di valori. Dante indica anche le donne come sue interlocutrici, purché siano «gentili», cioè nobili d’animo, e abbiano conoscenza diretta dell’esperienza amorosa (donne che «hanno intelletto d’amore»). Ma la Vita nova, proprio per la sua tendenza a dare un carattere più alto alle vicende autobiografiche, si rivolge idealmente anche a un pubblico più ampio, a cui Dante intendeva proporsi come esempio di una maturazione umana e intellettuale resa possibile dall’amore per Beatrice.

Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile. Ms. 67 (fine XIV sec.), Dante Alighieri, Divina Commedia ‘degli Obizzi’. Dante allo scrittoio.

La brevissima introduzione all’opera, da Dante stesso chiamata «proemio» (Vn. XXVIII), è incentrata sulla metafora della «memoria» come libro, frequente nella letteratura medievale. Scopo dichiarato del racconto è la possibilità di ricavare un senso dai fatti narrati, con implicito riferimento al valore simbolico riconosciuto alle vicende contingenti.

 

In quella parte del libro de la mia memoria[19] dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere[20], si trova una rubrica[21] la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole[22] le quali è mio intendimento d’assemplare[23] in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia[24].

 

È questo il primo capitolo vero e proprio dell’opera. In esso Dante racconta dell’incontro con Beatrice, avvenuto quando entrambi avevano nove anni: il numero nove, simbolo di perfezione secondo le teorie numerologiche medievali anche perché multiplo perfetto del tre della Trinità, ritorna in questo capitolo e poi nell’intera opera di Dante come legato indissolubilmente a Beatrice e al favorevole destino del poeta. La presenza della donna provoca nel poeta conseguenze descritte secondo la tradizione lirica d’amore guinizzelliana e soprattutto cavalcantiana; e da Cavalcanti è ripresa anche la teoria degli spiriti come forze psico-fisiologiche abitanti nell’individuo e preposte al suo governo. Ma Dante si distacca poi dall’amico nella concezione dell’amore, qui rappresentato come opportunità positiva per il soggetto, frutto della scelta anche razionale di questi, in contrapposizione alla visione tragica e fatale dell’amore come fenomeno irrazionale e devastante, propria di Cavalcanti[25].

 

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione[26], quando a li miei occhi apparve[27] prima[28] la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare[29]. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo[30] lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado[31], sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore[32], umile ed onesto[33], sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia[34]. In quello punto[35] dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente[36]; e tremando, disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi»[37]. In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni[38], si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso[39], sì disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra»[40]. In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro,[41] cominciò a piangere, e piangendo, disse queste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!»[42]. D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata[43], e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente[44]. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere[45] questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedèala di sì nobili e laudabili portamenti[46], che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero[47]: “Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Deo”. E avegna che la sua imagine, la quale continuamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me[48], tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire[49]. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse[50]; e trapassando molte cose, le quali si potrebbero trarre de l’esemplo onde nascono queste[51], verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi[52].

 

Dopo l’esordio, il racconto narra il primissimo incontro con Beatrice, qui definita «angiola giovanissima». L’evento è contrassegnato da un fitto simbolismo che gioca sui colori, sui numeri e sul movimento degli astri. Beatrice appare per la prima volta a Dante vestita di rosso («sanguigno»), colore che tornerà in altri momenti importanti della Vita nova, sempre come distintivo della donna: Beatrice è avvolta in un drappo rosso nel sogno del cuore mangiato; è vestita di rosso quando appare al poeta per rimproverargli le attenzioni che, dopo la sua morte, rivolge a una «donna gentile»; anche nella Commedia, nel Paradiso terrestre, ella compare vestita di questo colore.

Fondamentale ai fini della costruzione del mito di Beatrice è poi il numero nove, contenuto nella forma di numero romano persino nel suo nome (BeatrIX). Il primo incontro cade alla fine del nono anno di età per Dante; esattamente dopo nove anni avviene il secondo incontro, accompagnato dal dono del saluto; nella prima delle ultime ore della notte, la nona, si verifica il sogno del cuore mangiato. Il nove è detto il numero del miracolo, perfetto per colei che venne «da cielo in terra a miracol mostrare».

Le complesse perifrasi astronomiche usate per indicare l’età anagrafica dei due protagonisti contribuiscono a dare alla vicenda un respiro cosmico e universale, proprio come sarà l’itinerario del pellegrino nella Commedia.

Gli effetti dell’incontro con la donna costituiscono la seconda sequenza del racconto. Il tema appartiene alla lirica stilnovistica e più in generale alla tradizione amorosa. Dante lo sviluppa ricorrendo alla personificazione degli spiriti, che, secondo la filosofia e la medicina del tempo, governano le funzioni vitali dell’uomo: lo spirito vitale, quello animale e quello naturale presiedono rispettivamente al cuore, al cervello e al ventre; tutti e tre sono scossi dalla vista di Beatrice, producendo una serie di reazioni fisiche. Si tratta di un motivo tipico della poesia di Cavalcanti.

Tuttavia, nella parte finale del capitolo Dante segna il suo distacco dal modello dell’amico: la visione della donna non suscita in lui una passione distruttiva, come per Guido, ma esalta la funzione positiva di Amore. Nonostante gli effetti fisici, la passione non sottomette la ragione e non ne annulla le funzioni. Per esprimere questa idea, Dante si serve di una metafora giocata sul doppio significato della parola «ragione», che ai suoi tempi indicava tanto la facoltà razionale (che pone un limite agli istinti) quanto la giustizia. La mente umana è dunque implicitamente paragonata a una città: come nelle istituzioni comunali il prefetto deve appoggiarsi al tribunale, così Amore non può agire senza il contributo della ragione. Se ne deduce che l’amore che Beatrice suscita sublima la passione e la trasforma in un sentimento alto e capace di guidare l’amante.

Henry Holiday, Incontro fra Dante e Beatrice sul Ponte Santa Trinita in Firenze. Olio su tela, 1883. Liverpool, Walker Art Gallery.

 

Il secondo incontro fra Dante e Beatrice avviene quando hanno entrambi diciott’anni, esattamente nove anni dopo il primo incontro. Si verifica un momento fondamentale nella trama del “libello”, il saluto seguito dalla prima delle grandi visioni presenti nell’opera (Vn. III).

 

Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima[53], ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo[54], in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade[55]; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso[56], e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo[57], mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine[58]. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona[59] di quello giorno; e però che[60] quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puòsimi a pensare di questa cortesissima[61]. E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione[62], che me parea vedere ne la mia camera una nèbula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé[63], che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus»[64]. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente[65]; la quale io riguardando molto intentivamente[66], conobbi ch’era la donna de la salute[67], la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum»[68]. E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente[69]. Appresso ciò, poco dimorava[70] che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo[71]; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato[72]. E mantenente[73] cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte[74] stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte[75]. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti, li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore[76]; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: “A ciascun’alma presa”.

 

Florence Camm, Il sogno di Dante. Vetrata, 1911. Birmingham Museum and Art Gallery.

 

A ciascun’alma presa, e gentil core,

nel cui cospetto ven lo dir presente,

in ciò che mi rescrivan suo parvente

4      salute in lor segnor, cioè Amore[77].

 

Già eran quasi che atterzate l’ore

del tempo che onne stella n’è lucente,

quando m’apparve Amor subitamente

8      cui essenza membrar mi dà orrore[78].

 

Allegro mi sembrava Amor tenendo

meo core in mano, e ne le braccia avea

11    madonna involta in un drappo dormendo[79].

 

Poi la svegliava, e d’esto core ardendo

lei paventosa umilmente pascea:

14    appresso gir lo ne vedea piangendo[80].

 

Questo sonetto si divide[81] in due parti; che la prima parte saluto e domando risponsione[82], ne la seconda significo a che si dee rispondere[83]. La seconda parte comincia quivi: “Già eran”. A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie[84]; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: “Vedesti al mio parere onne valore”. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. […]

 

Il III capitolo del libro contiene un momento fondamentale per la trama della Vita nova: il primo saluto rivolto da Beatrice a Dante, che attribuisce al gesto un valore simbolico altissimo, considerandolo il tramite della nobilitazione e della salvezza della propria anima. Il brano contiene anche la prima delle numerose visioni che costellano il testo e ne segnano le svolte narrative fondamentali. Proprio dalla visione del cuore mangiato discende, secondo quanto riporta l’autore, la composizione del primo sonetto inserito nel “libello”: A ciascun’alma presa e gentil core. Egli afferma di averlo inviato ai poeti «fedeli d’Amore»: il sonetto segna anche l’inizio dell’amicizia con Guido Cavalcanti, qui designato come il «primo de li miei amici».

Il secondo incontro con Beatrice esalta la forza nobilitante dell’amore, che si insedia nel «cor gentile»: il «saluto» della donna può coincidere con la «salute», ovvero la salvezza dell’anima di chi lo riceve con la giusta predisposizione. Dante recupera questo tema dalla poetica di Guinizzelli. Altro tema stilnovistico è quello della visione della donna, come dimostra il ricorrere insistente di termini relativi al campo della vista (vedere, visione, apparire, parere). Nella prima parte del capitolo siamo di fronte alla visione reale di Beatrice, che si mostra al poeta scortata da due «gentili donne» e vestita «di colore bianchissimo». L’importanza del momento è sancita dall’ora nona, che ribadisce la natura miracolosa della donna, contrassegnata dalla dolcezza del saluto e dal colore bianchissimo della veste. Questi elementi le attribuiscono le caratteristiche di un angelo.

Alla vista di Beatrice fa seguito la descrizione della reazione dell’innamorato: il desiderio di ritirarsi in solitudine, il sonno e il sogno. Questo è dominato dalla figura temibile di Amore e dalla scena di Beatrice che mangia il cuore di Dante. Si tratta per lui di una «maravigliosa visione», tale cioè da suscitare stupore. Proprio per il suo forte impatto e per le reazioni che suscita nel protagonista, essa ricorda altre visioni dal significato profetico e mistico presenti nella tradizione classica e biblica.

E di capitale importanza resta l’immagine del cuore mangiato. Si tratta di un motivo di ampia diffusione nella letteratura cortese, che indica in maniera metonimica (un’idea astratta resa in modo concreto) la completa fusione spirituale fra i due amanti: l’immagine dell’assimilazione del cuore indica l’appartenenza dell’innamorato alla donna amata, in un legame totale e inscindibile. Il tópos sarebbe stato poi ripreso anche da Giovanni Boccaccio in due sue novelle.

I temi chiave del capitolo rimandano alla poetica dello «Stil novo». Il campo semantico della vista compare qui con particolare rilievo. Ma anche i vocaboli che esprimono dolcezza, gentilezza, beatitudine sono di derivazione stilnovistica. Nella seconda sequenza – quella del sogno – la particolare natura della visione comporta un addensarsi di parole che esprimono reazioni opposte a quelle della prima parte: paura e angoscia nel protagonista, esitazione e pianto nella donna. Nella terza parte, successiva al risveglio del poeta, il ritmo si fa più disteso e assume l’andamento della riflessione e della scrittura («pensare», «pensando», «giudicassero», «propuosi di farlo sentire», «propuosi di fare un sonetto», «scrissi»).

Il brano è altresì intessuto di allusioni alle Sacre Scritture e ai testi religiosi: a partire dalle parole che Amore pronuncia («Ego dominus tuus») ricalcate sul primo dei Comandamenti. La veste di Beatrice, «di colore bianchissimo», sembra evocare un’immagine angelica, ma anche la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor. Si compie così una sovrapposizione fra ambito sacro e profano, che evoca i modi della poesia stilnovistica, ma nel contempo li supera: nella prospettiva dantesca, la beatitudine che la donna porta dev’essere letta anche in chiave religiosa.

Dante Gabriel Rossetti, The Salutation of Beatrice. Olio e foglia d’oro su tavola di conifera, 1859-1863. Ottawa, National Gallery of Canada.

Al centro della Vita nova, preceduta dalla crisi per la presagita morte dell’amata e dal confronto teorico con la poetica cavalcantiana, sta il frutto artisticamente più consapevole della nuova maniera dantesca: la lode di Beatrice. Essa è affidata a due sonetti di tema affine e complementare, inseriti nel capitolo XXVI. Ci concentriamo sul primo.

 

Questa gentilissima donna, di cui ragionato è[85] ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti[86], che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea[87]. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade[88] giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi[89] né di rispondere a lo suo saluto: e di questi molti, sì come esperti[90], mi potrebbero testimoniare[91] a chi no ·llo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava[92], nulla gloria[93] mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare[94]!». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano i ·lloro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere no ·llo sapeano[95]; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare[96].

Queste e più mirabili cose[97] da lei procedeano virtuosamente[98]: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stile de la sua loda[99], propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur[100] coloro che la poteano sensibilemente[101] vedere, ma li altri sappiano di lei quello che per le parole ne posso fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: “Tanto gentile”.

 

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

4    e li occhi no l’ardiscono di guardare[102];

 

ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

8    da cielo in terra a miracol mostrare[103].

 

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

11  che ’ntender no ·lla può chi no ·lla prova[104]:

 

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

14  che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

 

È questa una delle pagine più note della Vita nova, in virtù della presenza di Tanto gentile e tanto onesta pare, forse il sonetto più famoso della letteratura italiana. La lirica porta al massimo livello lo «stilo de la loda» e contemporaneamente segna la fine delle «rime in vita» di Beatrice, la cui esistenza terrena sta per volgere al termine. Dante esalta in questi versi gli attributi stilnovistici della donna, e una trama di corrispondenze lessicali mostra lo stretto rapporto di questo testo con i componimenti di Guinizzelli e di Cavalcanti. Ma proprio nel momento in cui più compiuta appare l’adesione dell’Alighieri allo «Stil novo», egli lo supera: la morte dell’amata non annulla la sua virtù salvifica, ma la potenzia in chiave spirituale.

La situazione evocata nella parte in prosa e riproposta in rima prende avvio dal passaggio della donna per le vie della città; al di là della verosimiglianza, nella scena è facile riconoscere uno dei tópoi della poesia stilnovistica: il riferimento al saluto si inscrive poi entro una cornice tipicamente guinizzelliana. Il ritratto di Beatrice, soprattutto nel sonetto, è tutto giocato sull’indeterminatezza: gli effetti che la sua apparizione produce ci danno la misura della sua eccellenza più ancora dei particolari fisici, limitati a poche notazioni. I primi due aggettivi che qualificano Beatrice, «gentile» e «onesta» (v. 1), rinviano alla sfera interiore più che a quella esteriore, ma è soprattutto l’anafora dell’avverbio di qualità «Tanto» (v. 1) a trasmettere la forza inaudita di tali qualità. Sempre all’ambito morale si collegano l’avverbio di modo «benignamente» e il sostantivo «umiltà» (v. 6), mentre un accenno alla dimensione fisica si coglie nell’attributo «piacente» (v. 9), che dà luogo a un’iperbole: la bellezza di Beatrice genera una dolcezza talmente grande che può essere compresa solo da chi la prova. Persino il riferimento concreto al volto («labbia», v. 12) sfuma in un alone di estasi («pien d’amore», v. 13). La forza della donna è tutta nella perifrasi dei vv. 7-8: «una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare». «Cosa» qui indica una creatura destinata da Dio a incarnare un «miracolo».

Gli elementi stilnovistici dell’episodio, e soprattutto della sua versione poetica, sono testimoniati dai richiami a testi di Guinizzelli e di Cavalcanti. Nel caso di quest’ultimo, gli echi sono più sottili ma altrettanto forti: la stupefazione causata dal passaggio della donna, rappresentato come un evento soprannaturale; il motivo dell’ineffabilità della dolcezza suscitata dall’apparizione. In Dante, però, la cupezza e il pessimismo di Guido sono dissolti nell’atmosfera trasognata dell’apparizione e nel sospiro finale.

Il sonetto si offre a noi in uno stile piano e in un lessico semplice tanto da richiedere solo in pochi casi una spiegazione. Ma dietro questa apparenza si celano scelte molto ponderate, che rinviano a un linguaggio tecnico (di matrice stilnovistica) o comunque usato con significati diversi da quelli a cui siamo abituati. Partiamo dalla coppa iniziale di aggettivi «gentile» e «onesta»: la gentilezza di Beatrice è la stessa di cui parlano altri poeti dello «Stil novo», ovvero non un semplice atteggiamento garbato, ma una qualità dell’animo basata sull’eccellenza morale; allo stesso modo, la sua onestà rinvia al significato etimologico latino, che designa il decoro del portamento, riflesso esteriore delle doti interiori. L’espressione «la donna mia» (v. 2) non indica semplicemente “la mia donna”, ma “colei che è mia signora”: così non è l’uomo Dante ad avere il controllo su Beatrice, ma è lei che domina la mente e il cuore di lui. Un altro esempio di significato particolare riguarda il verbo «pare», che ricorre più volte e assume la funzione di parola chiave. A differenza dell’uso attuale, questo verbo va inteso non come “sembra”, ma come “si manifesta, appare nella sua piena evidenza”.

Altro tratto distintivo del sonetto è il ricorrere di espressioni indefinite: «altrui», «ogne lingua», ecc. Questi elementi, insieme all’indeterminatezza spazio-temporale in cui si muove la donna, stacca la situazione dalla sfera soggettiva e autobiografica per proiettarla in una dimensione assoluta e universale.

 

Dante Gabriel Rossetti, The Salutation of Beatrice. Olio su tela, 1859. National Gallery of Canada. Dettaglio – In aedem.

 

Invitato da due «donne gentili» a mandare loro alcune rime, nel capitolo XLI Dante mette insieme una essenziale antologia poetica di tre testi, il terzo dei quali (il sonetto Oltre la sfera che più larga gira) compone per l’occasione. Alla riaffermazione gloriosa di Beatrice è dedicata la conclusione della Vita nuova, in cui il poeta informa di una nuova meravigliosa apparizione dell’amata e si ripromette di non scriverne più fino al momento in cui non sia in grado, più maturo artisticamente e più consapevole da ogni punto di vista, di raccontare di lei cose mai dedicate a nessun’altra donna: un misterioso annuncio della Commedia?

 

Oltre la spera che più larga gira

passa ’l sospiro ch’esce del mio core:

intelligenza nova, che l’Amore

4    piangendo mette in lui, pur su lo tira[105].

 

Quand’elli è giunto là dove disira,

vede una donna, che riceve onore,

e luce sì, che per lo suo splendore

8   lo peregrino spirito la mira[106].

 

Vedela tal, che quando ’l mi ridice,

io no lo intendo, sì parla sottile

11  al cor dolente, che lo fa parlare.

 

So io che parla di quella gentile,

però che spesso ricorda Beatrice,

14  sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care[107].

 

La conclusione della Vita nova, suggestivamente definita la «profezia di una profezia», sembra costituire, con il riferimento all’Empireo del sonetto, il primo germe del progetto della Commedia. Dante si propone di cantare la «benedetta» in modi mai prima sperimentati e dopo un lungo studio. Con il capitolo finale del «libello» cala un lungo silenzio sulla poesia in lode di Beatrice.

Nel sonetto Dante ci mostra la sua donna trionfante tra i beati dell’Empireo: a lei si avvicina il «peregrino spirito» (v. 8) del poeta che, in forma di sospiro spinto dalla forza motrice di Amore, è giunto fino in Paradiso. Viene dunque rappresentato un itinerarium mentis ad Deum alla maniera dei mistici medievali, che nel raptus dell’estasi vivevano una sorta di separazione tra corpo e anima, chiamata a contemplare il mistero divino. Beatrice è dunque la meta finale di un percorso religioso e il punto d’arrivo del «libello».

Nemmeno nel sonetto finale, però, il poeta abbandona la poesia di lode: la beata Beatrice «riceve onore» (v. 6), «luce» (v. 7), cioè risplende, ed è talmente mirabile che l’essenza della sua bellezza non può essere espressa in parole umane. Quando il sospiro del poeta torna sulla Terra, Dante non comprende altro che il nome di Beatrice (vv. 12-13), l’unica cosa distinguibile della visione e condivisibile con le donne, che si confermano come le destinatarie privilegiate del canto («donne mie care», v. 14).

Sandro Botticelli, Il cielo delle stelle fisse (Paradiso, canto XXIV). Inchiostro su pergamena, 1490-1496. Berlin, Kupferstichkabinett.

 

Le Rime.

All’interno della complessiva opera dantesca prende oggi il nome, generico e convenzionale, di Rime l’insieme delle composizioni poetiche attribuite a Dante non incluse nella Vita nova né nel Convivio (poesie «estravaganti»). Non si tratta pertanto di un’opera d’autore: non spettano infatti al Sommo, ma ai moderni editori sia il titolo della raccolta, sia la selezione dei testi, sia il loro ordinamento.

Anche per questa ragione le Rime comprendono componimenti di argomento e stile assai vari, assegnabili a tempi diversi e lontani fra loro della produzione dantesca. Si tratta di cinquantaquattro testi di sicura attribuzione (trentaquattro sonetti, quindici canzoni e cinque ballate), cui si aggiungono ventisei liriche di attribuzione incerta e ventisei di “corrispondenti”, fra i quali Guido Cavalcanti, Cecco Angiolieri e Cino da Pistoia. Secondo l’edizione del 2005, curata da Domenico De Robertis, le liriche sicuramente attribuibili all’Alighieri sarebbero trentatré.

Stando alle assegnazioni cronologiche più probabili, le rime più antiche risalgono al 1283 e le più tarde al 1307, abbracciando quindi il primo venticinquennio dell’attività creativa di Dante.

Nella grandissima varietà di stili e di poetiche, due sono le costanti di fondo: un’inesauribile ricerca sperimentale e una tendenza alla definizione realistica della materia trattata, anche in presenza di una poetica stilizzata e piena di convenzioni com’era quella stilnovistica. È come se Dante, scrivendo questi testi, si fosse messo continuamente alla prova, accogliendo o rifiutando i vecchi modelli e tentando nuove soluzioni. Vi è poi una terza costante dalla quale restano esclusi pochissimi componimenti: la centralità del tema amoroso.

Larghissimo è il riferimento ai modelli e particolarmente importante quello alla tradizione siciliana e stilnovistica nella prima fase (impiego di uno «stile dolce») e quello ai trovatori provenzali nella seconda. Ma un certo rilievo occupa anche il modello guittoniano (impiego di uno «stile aspro»), seppure rifiutato a livello teorico-critico. Vitale è poi il rimando a Cavalcanti, dapprima imitato nei suoi aspetti più leggeri e disimpegnati, poi (in corrispondenza della fase più originale della Vita nova) criticato e respinto nella concezione tragica dell’amore, infine (nelle “rime petrose”) ripreso ed estremizzato nella visione pessimistica e tragica, ma con un rinnovamento radicale dello stile.

È possibile suddividere le Rime in cinque gruppi, secondo criteri tematici, stilistici e cronologici:

 

  • le rime stilnovistiche, di argomento erotico, composte parallelamente nello stesso periodo della Vita nova (1283-1293 c.);
  • la Tenzone con Forese Donati (collocabile probabilmente tra il 1290 e il 1296), comprendente tre sonetti dell’Alighieri e tre di Forese, appartenenti al genere “comico” e vigorosamente realistici;
  • le poesie allegoriche e dottrinali (ultimo decennio del secolo XIII) sul genere delle canzoni commentate nel Convivio;
  • le cosiddette “rime petrose” (1296-1298 c.), dedicate all’amore sensuale per donna “Petra” (un probabile senhal);
  • le rime dell’esilio (post 1302), di argomento vario con prevalenza di interessi civili.

 

Firenze, Biblioteca Riccardiana. Cod. Ricc. 1040 (1440-60), Rime di Dante, c. 1r. Ritratto di Dante (attr. a Giovanni del Ponte).

 

 

La «tenzone» con Forese Donati.

Nel novero delle Rime un posto a sé stante occupa la «tenzone» con Forese Donati, breve e violento scambio di sonetti con l’amico, scomparso nel 1296. Si tratta di un’esercitazione in chiave comica (tre sonetti di Dante e tre di risposta dell’amico), che mette in scena un linguaggio oltraggioso e risentito, giocato su allusioni malevole e ingiurie. I sonetti di Dante si reggono su una tale asprezza lessicale e ritmica che le cadenze popolari fiorentine ne risultano deformate. Su questa linea comica, importante per il linguaggio dell’Inferno, Dante ha scritto, con ogni probabilità, altri testi, andati però dispersi.

La «tenzone» era un genere letterario che prevedeva lo scambio tra due poeti contrapposti di componimenti a botta e risposta, spesso di carattere aggressivo e insultante: una specie di alterco in versi. Spesso le composizioni di una «tenzone» si rispondevano simmetricamente, e talvolta riprendevano le stesse rime (un uso che si rispecchia nel modo di dire, ancora attuale, «rispondere per le rime»!).

Nella Commedia Dante immagina di incontrare l’amico Forese in Purgatorio, tra i golosi: egli era membro dell’illustre casato dei Donati, figlio di Simone e fratello di Corso e di Piccarda, lontano cugino della moglie di Dante, Gemma. Dalla «tenzone» si deduce che Forese fu rimatore e particolarmente dedito a una vita gaudente e spendereccia: Dante, infatti, gli rinfacciava scherzosamente una spropositata ghiottoneria, la miseria economica, dubbie origini, impotenza sessuale e una vaga passione per il furto (gli dà del «piùvico ladron», cioè del “ladro patentato”)! Forese, dal canto suo, oltre a ricambiare alcune offese, imputava a Dante una serie di torti nei confronti del padre Alighiero, a sua volta velatamente incolpato di aver esercitato l’usura.

Forese apparteneva, dunque, a quel tipo di giovani ricchi e dissipati che furono i poeti burleschi di fine Duecento, quali Cecco Angiolieri, Rustico Filippi o Folgòre da San Gimignano. Comunque sia, rispetto ai particolari giocosi, la «tenzone» costituisce una sorta di “antefatto” all’incontro oltremondano, dove se ne fa chiara ammenda, quasi una specie di “contrappasso”. E tutto l’episodio di Pg. XXIII è svolto come in controcanto a quel botta e risposta della giovinezza; Dante presenta qui il periodo della frequentazione di Forese come quello del suo traviamento dalla «diritta via» di If. I, quasi fosse una stagione da dimenticare: «Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente. / Di quella vita mi volse costui / che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda / vi si mostrò la suora di colui”, / e ’l sol mostrai […]» (Per cui gli risposi: “Se richiami alla mente quali noi fummo un tempo l’uno con l’altro, sarà ancora penoso ricordarsene adesso. Da quella vita mi distolse colui che mi precede, pochi giorni fa, quando vi si mostrò piena la sorella di quello là”, e indicai il sole…, vv. 115-121).

Di seguito si riportano i primi due sonetti dell’alterco.

Il primo affondo della tenzone spetta a Dante. In Chi udisse tossir la mal fatata (Rime LXXIII), il componimento più «scandaloso», il poeta prende in giro l’amico – e sua moglie – con pesanti allusioni all’insufficienza sessuale di lui, e alla cronica mancanza di piacere per lei. Un attacco provocatorio e castigatore a un marito che passa le notti fuori casa!

 

Chi udisse tossir la mal fatata

moglie di Bicci vocato Forese,

potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata

4    ove si fa ’l cristallo in quel paese[108].

Di mezzo agosto la truovi infreddata;

or sappi che de’ far d’ogni altro mese!

E non le val perché dorma calzata,

8    merzé del copertoio c’ha cortonese[109].

La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia

no l’addovien per omor ch’abbia vecchi

11  ma per difetto ch’ella sente al nido.

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,

dicendo: «Lassa, che per fichi secchi

14  messa l’avre’ ’n casa del conte Guido!»[110].

 

Il sonetto è imperniato sulla perenne influenza della moglie di Forese: la poveretta non fa che tossire tutto il tempo, ma non si tratta di un male stagionale. Nella è sempre infreddata perché di notte il suo «copertoio», ovvero la sua coperta, non la copre bene, essendo «corto-nese». La battuta è volgaruccia: Forese è qui accusato di non “coprire” bene la propria moglie, cioè di non soddisfarla sessualmente, perché è poco dotato, perciò vien meno ai propri doveri maritali. La banalità dell’insinuazione tuttavia si riscatta proprio attraverso il gioco di parole, effettivamente divertente, sul «cortonese».

London, British Library, Egerton MS. 943. Dante Alighieri, Divina Commedia (prima metà del XIV sec.), f. 104v. Pg. XXIII. Dante incontra Forese Donati.

 

Forese risponde alla provocazione di Dante alzando la posta con L’altra notte mi venne una gran tosse (Rime LXXIV). Ora, lui sarà anche squattrinato e impotente, ma che dire dell’Alighieri e della sua famiglia? Specie del padre, che Forese immagina qui di sorprendere in una situazione – e posizione – alquanto imbarazzante.

 

L’altra notte mi venne una gran tosse,

perch’i’ non avea che tener a dosso;

ma incontanente che fu dì, fui mosso

4    per gir a guadagnar ove che fosse[111].

Udite la fortuna ove m’addosse:

ch’i’ credetti trovar perle in un bosso

e be’ fiorin coniati d’oro rosso;

8    ed i’ trovai Alaghier tra le fosse[112],

legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,

se fu di Salamone o d’altro saggio.

11  Allora mi segna’ verso ’l levante:

e que’ mi disse: «Per amor di Dante,

scio’mi». Ed i’ non potti veder come:

14  tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio[113].

 

All’inizio il sonetto risponde letteralmente a quello di Dante, riprendendo lo spunto della «tosse», stavolta quella di Forese stesso. Agli insulti dell’Alighieri, dunque, il rimatore gaudente risponde inventando un aneddoto altrettanto ingiurioso, ma il cui preciso significato sfugge a chi – come noi – non è al corrente degli antefatti. Privo di indumenti adeguati a coprirlo dal freddo notturno, cioè povero in canna (come gli rinfacciava Dante), Forese si alza all’alba per andare in cerca di guadagni facili. Ma, invece dei fiorini sperati, chi trova? Alighiero in persona, il padre di Dante (già defunto, quando Forese scrive), legato «a nodo ch’i’ non saccio ’l nome, / se fu di Salamon o d’altro saggio»: il morto redivivo lo scongiura di liberarlo. Sul significato metaforico di questo nodo, si sono fatte due ipotesi. Si è pensato che Alighiero fosse un usuraio e che, come tale, morendo fosse stato sepolto in terra sconsacrata: le «fosse» sarebbero allora le fosse comuni che venivano scavate fuori dalle mura delle città. Alighiero pregherebbe Forese di “scioglierlo”, cioè di sanare il suo debito, perché la sua anima possa finalmente riposare in pace. L’altra possibile spiegazione è che Alighiero, o uno della sua stirpe, fosse stato vittima di un affronto non ancora vendicato (la vendetta era compito dei familiari dell’offeso). L’apparizione di Alighiero «tra le fosse» sarebbe dunque dovuta al fatto che l’anima di Alighiero, non ancora vendicata (dal figlio Dante), non possa riposare in pace.

Entrambe le ipotesi sono plausibili. Ma la verità è che l’allusione non si riesce a capire da un lato perché non sappiamo abbastanza delle vicende e dei personaggi che Dante e Forese trattano con tanta familiarità, e dall’altro perché i dettagli del racconto di Forese non sono chiari. Che cosa vuol dire “essere legato a un nodo”? Se è il “nodo del peccato”, di quale peccato si tratterebbe? Qualche interprete ha voluto leggere questo «nodo di Salamone», come un problema piuttosto intricato; altri ancora, invece, più maliziosi ci hanno visto una pratica sodomitica piuttosto indecorosa. E come potrebbe Forese liberare un peccatore, un’anima del purgatorio? Si resta in dubbio. Certo è comunque che le fosse sono le fosse comuni, e che qui venivano sepolti non solo gli usurai e gli eretici, ma anche coloro che non potevano permettersi le spese per una tomba. Un simile sottinteso si accorderebbe benissimo con il principale degli argomenti che i due tenzonanti usano l’uno contro l’altro, la povertà appunto; e spiegherebbe anche l’immagine che apre il sonetto: Forese ammette di essere povero (non ha di che vestirsi), ma sarebbe il tipo di ammissione che si fa nelle ripicche, vale a dire: “Sì, sono povero, ma – come si vedrà subito – tuo padre era messo peggio di me”.

D’altra parte, occorre utilizzare una certa cautela, ricordando come in questo tipo di poesia i rimatori avevano l’abitudine di spararle grosse, senza preoccuparsi della verità dei fatti, ma solo dell’effettaccio dei propri insulti!

 

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Ms. Martelli 12 (fine XIII-prima metà XIV sec. ca.), f. 26r a-b (fasc.4); pagina di Dante Alighieri (n.1265-m.1321), «Così nel mio parlar voglio esser aspro»; con iniziale Maiuscola arabescata su sei righe.

Le rime «petrose»

Un gruppo di Rime piuttosto compatto è costituito dalle quattro poesie dette «petrose» (Io son venuto al punto de la rota; Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra; Amor, tu vedi ben che questa donna; Così nel mio parlar vogli’esser aspro). Dedicate a una donna «Pietra» (probabilmente un senhal), si caratterizzano per l’estrema ricercatezza formale, per il linguaggio difficile e l’asprezza dello stile, soprattutto nelle parole in rima, in cui abbondano i gruppi consonantici duri. La «petrosità» stilistica è chiamata a rappresentare una passione amorosa resa impossibile dalla crudeltà e dalla durezza d’animo della donna, refrattaria proprio come una pietra. Lo stile aspro, visivo, concreto di queste rime, lontanissimo da quello stilnovistico, mostra un Dante alle prese con il confronto con le forme più ardue della poesia provenzale, in particolare con il trobar clus di Arnaut Daniel.

Carattere originale e decisivo, per l’arte dantesca, di questo breve ciclo è proprio la corrispondenza coerente tra materia e modo della rappresentazione al punto che la violenza della passione amoroso e l’ostinata e scontrosa resistenza della donna coincidono con uno stile violentemente realistico, irto di dati concreti, rimandi crudi e persino brutali e con le difficoltà del linguaggio stesso.

Insomma, Dante approda a una poesia che scava a fondo nelle cose e nelle parole: queste rime «petrose» rappresentano un altro passaggio fondamentale verso il linguaggio della Commedia, tanto che alcuni critici fanno risalire queste liriche agli anni della maturità del poeta, intorno al 1304.

 

London, British Library. Ms. Royal 19 B XIII (1320-40 c.), Guillaume de Lorris – Jean de Meun, Roman de la Rose, f. 5v. Confronto tra l’innamorato e la sua dama.

 

 

La più complessa e movimentata delle rime «petrose» è Così nel mio parlar vogli’esser aspro (Rime XLVI), tanto per le scelte metriche quanto per la materia rappresentata, equamente distribuita tra la raffigurazione oggettiva della donna e lo sfogo della soggettività del poeta. Le immagini e lo stile definiscono una materia e una disposizione psicologica violente ed esasperate. Già il verso iniziale mette in evidenza la deliberata ricerca dell’«asprezza», della violenza espressiva: uno stile per cui si può parlare, con un termine che verrà in uso solo nel Novecento, di «espressionismo». Domina inizialmente nel poeta la consapevolezza che la donna sia invulnerabile all’amore. Si passa, quindi, a un proposito di vendetta che rovescia la situazione nel sogno di un incontro carnale degradato in senso sadico.

 

Così nel mio parlar voglio esser aspro

com’è ne li atti questa bella petra,

la quale ognora impetra

maggior durezza e più natura cruda,

5    e veste sua persona d’un diaspro

tal che per lui, o perch’ella s’arretra,

non esce di faretra

saetta che già mai la colga ignuda;

ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda

10  né si dilunghi da’ colpi mortali,

che, com’avesser ali,

giungono altrui e spezzan ciascun’arme:

sì ch’io non so da lei né posso atarme[114].

 

Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi

15  né loco che dal suo viso m’asconda:

ché, come fior di fronda,

così de la mia mente tien la cima.

Cotanto del mio mal par che si prezzi

quanto legno di mar che non lieva onda;

20  e ’l peso che m’affonda

è tal che non potrebbe adequar rima.

Ahi angosciosa e dispietata lima

che sordamente la mia vita scemi,

perché non ti ritemi

25  sì di rodermi il core a scorza a scorza

com’io di dire altrui chi ti dà forza?[115]

 

Ché più mi triema il cor qualora io penso

di lei in parte ov’altri li occhi induca,

per tema non traluca

30  lo mio penser di fuor sì che si scopra,

ch’io non fo de la morte, che ogni senso

co li denti d’Amor già mi manduca:

ciò è che ‘l pensier bruca

la lor vertù sì che n’allenta l’opra.

35  E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra

con quella spada ond’elli ancise Dido,

Amore, a cui io grido

merzé chiamando, e umilmente il priego:

ed el d’ogni merzé par messo al niego[116].

 

40        Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida

la debole mia vita, esto perverso,

che disteso a riverso

mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:

allor mi surgon ne la mente strida;

45  e ‘l sangue, ch’è per le vene disperso,

fuggendo corre verso

lo cor, che ‘l chiama; ond’io rimango bianco.

Elli mi fiede sotto il braccio manco

sì forte che ‘l dolor nel cor rimbalza:

50  allor dico: «S’elli alza

un’altra volta, Morte m’avrà chiuso

prima che ‘l colpo sia disceso giuso»[117].

 

Così vedess’io lui fender per mezzo

lo core a la crudele che ‘l mio squatra;

55  poi non mi sarebb’atra

la morte, ov’io per sua bellezza corro:

ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo

questa scherana micidiale e latra.

Omè, perché non latra

60  per me, com’io per lei, nel caldo borro?

ché tosto griderei: «Io vi soccorro»;

e fare’l volentier, sì come quelli

che nei biondi capelli

ch’Amor per consumarmi increspa e dora

65  metterei mano, e piacere’le allora[118].

 

S’io avessi le belle trecce prese,

che fatte son per me scudiscio e ferza,

pigliandole anzi terza,

con esse passerei vespero e squille:

70  e non sarei pietoso né cortese,

anzi farei com’orso quando scherza;

e se Amor me ne sferza,

io mi vendicherei di più di mille.

Ancor ne li occhi, ond’escon le faville

75  che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,

guarderei presso e fiso,

per vendicar lo fuggir che mi face;

e poi le renderei con amor pace[119].

 

Canzon, vattene dritto a quella donna

80  che m’ha ferito il core e che m’invola

quello ond’io ho più gola,

e dàlle per lo cor d’una saetta,

ché bell’onor s’acquista in far vendetta[120].

 

London, British Library. Yates Thompson 13 (secondo quarto del XIV sec.), Libro d’ore di Taymouth, f. 68v. La dama a caccia.

 

Si è detto che, rispetto al ciclo delle «petrose», questa canzone sembra essere un vero e proprio «manifesto» letterario, perché l’autore vi enuncia un programma di poetica fondato sulla volontà di far corrispondere al contegno duro dell’amata uno stile altrettanto «aspro»: in altre parole, l’asprezza del «parlar» di Dante dipende direttamente tanto dalla severità del sentire del poeta quanto dall’atteggiamento di madonna nei suoi confronti.

Per lamentare l’aggressione da parte di donna-pietra e di Amore, l’autore si serve di immagini crude e di parole rare, il cui suono è «indurito» dai nessi consonantici, specialmente in sede di rima, ma anche conducendo all’estremo la violenza delle immagini: una violenza che si impone con un’ambigua fascinazione, grazie a un effetto di «vicinanza» fisica, di assoluta immediatezza, e a movimenti di esasperata sensualità.

Tutta la canzone, infatti, appare costruita sulla rete di rapporti «drammatici» tra il poeta, Amore e la donna, secondo un’originale linea narrativa, e propone una struttura strofica e un’orchestrazione tonale molto mossa, con un trascorrere rapido di immagini e situazioni. All’abbattimento del poeta seguono l’intervento brutale di Amore, al centro della canzone, e la fantasticheria sul cedimento della donna. Dante si appropria dei topoi della lirica provenzale e stilnovistica (la freccia d’Amore, il tremore e il pallore, il nascondimento, il senhal), per poi lasciarsi andare a una «vendetta» (v. 83) verbale che si colora di violenza. Vita, Amore, Morte e persino Inferno (v. 60) s’intrecciano nel componimento, segnando una tappa fondamentale verso la prima cantica della Commedia.

Le sei stanze della canzone, prima del congedo, possono essere raggruppate a due a due. Nella prima coppia si oppongono la chiusa ostilità dell’amata e il lamento del poeta, privo di difese e incapace di sottrarsi alla crudeltà della donna, che, al contrario, è ben protetta da un’armatura di «diaspro» (v. 5). Di lei non è detto il nome, celato da un eloquente senhal: «bella pietra» (v. 2), da cui si sviluppa il campo semantico della durezza e della freddezza («impietra», v. 3; «maggior durezza», v. 4, ecc.). La terza e la quarta stanza, invece, sono incentrate sul tema tradizionale della battaglia e introducono la figura di Amore, personificazione del sentimento, che, come un guerriero vittorioso e invincibile, esercita sull’innamorato un dominio violento, irrazionale e potenzialmente letale. Nella quinta e sesta stanza, quindi, il poeta immagina di trovarsi con l’amata a parti invertite, giocando con lei come un orso da circo, ammaestrato ma pur sempre feroce, per potersi prima vendicare e poi concederle il perdono. Nel congedo, infine, la canzone diventa essa stessa una freccia d’amore, che dovrebbe colpire l’impenetrabile corazza della donna-pietra.

Tutta la canzone è, inoltre, disseminata di lessico «aspro», appunto, tanto sul piano del significato quanto da quello della sonorità. Ci soffermiamo, in particolare, su tre casi significativi, costituiti da «impietra» (v. 3), «bruca» (v. 33) e «squatra» (v. 54). Si tratta di parole rare, che non si incontrano tanto spesso nella poesia italiana: il primo è un termine difficile, che può essere interpretato come «pietrifica, chiude in sé come pietra», oppure come «chiede e ottiene» (dal verbo impetrare); «bruca», in rima con il latinismo «manduca» (v. 32), è usato in senso figurato per il pensiero d’amore che corrode le facoltà del poeta; «squatra» è un hàpax dantesco, ovvero un termine che s’incontra solo in Dante, e ribadisce l’immagine del cuore mangiato (v. 25). All’efficacia espressiva di queste parole contribuiscono proprio i suoni consonantici, in particolare la r, detta liquida, in -tr-, -br-, in netto contrasto con le parole dolci e «pettinate» dello «Stil novo».

***

Note:

[1] T.S. Eliot, Che cosa significa Dante per me [1950], in Scritti su Dante, Milano 1994, p. 72.

[2] Id., Dante [1929], ibid., p. 50

[3] E. Montale, Dante ieri e oggi (1965), in Sulla poesia, Milano 1977, pp. 32-33.

[4] Bere.

[5] Con qualunque altro impegno a cura lo pungesse, lo occupasse.

[6] Cioè «amico»: questo particolare è ricavato dalle opere stesse di Dante (si ricordi l’episodio dell’incontro con il musicista Casella nel canto II del Purgatorio).

[7] Infiammato dall’amore.

[8] Come.

[9] Straordinarie.

[10] G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, parr. 68-77, passim, ed. P.G. Ricci, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, ed. V. Branca, Milano 1974, v. III.

[11] Grande studioso di retorica, Brunetto possedeva una visione aperta e “moderna” della cultura, anche grazie alla profonda conoscenza di diverse realtà culturali e soprattutto di quella francese. La concezione dantesca dell’attività intellettuale come impegno filosofico e civile dovette senz’altro moltissimo a questo maestro.

[12] Da quel momento il poeta rimase tagliato fuori dalla sua città, che molti anni dopo, ormai vicino alla morte, avrebbe ricordato come «bello ovile ov’io dormi’ agnello / nimico ai lupi che li danno guerra» (Pd. XXV, 5-6).

[13] Convergenza di elementi ideologici già inconciliabili, attuata in vista di esigenze pratiche, nella sfera delle concezioni religiose e filosofiche

[14] vv. 1-8. O Guido, io vorrei che tu e Lapo e io fossimo rapiti (presi) per incantesimo (incantamento), e messi in una barchetta (vasel) che navigasse per mare con qualunque (ad ogni) vento, secondo la volontà vostra e mia, in modo che (sì che) né tempesta (fortuna) né altro tempo cattivo (rio) ci possa ostacolare (dare impedimento), e anzi, vivendo noi sempre secondo un’unica volontà (in un talento), cresca il desiderio (‘l disio) di stare in compagnia. Il dedicatario del sonetto, Guido Cavalcanti, avrebbe risposto rifiutando malinconicamente l’invito, che allarga l’armonia e la fusione spirituale dalla coppia degli amanti alla piccola compagnia di «fedeli d’Amore», qui rappresentata dai tre amici e dalle rispettive amate. La tradizione stilnovistica riconosce in questo Lapo la figura di Lapo Gianni, citato da Dante nel De vulgari eloquentia come maestro di uso maturo, in poesia, del volgare toscano. È stata messa però in dubbio la lezione qui a stampa, ipotizzando la validità della lectio difficilior «Lippo» (Gorni): un altro rimatore fiorentino attivo nei medesimi anni, Lippo Pasci de’ Bardi. Il vasel è la nave magica del mago Merlino, che si incontra nei romanzi del ciclo arturiano, di gran moda nel Duecento.

[15] vv. 9-14. Poi vorrei che il potente (buon) mago (incantatore) mettesse con noi sul vascello anche (e) la signora (monna) Vanna e la signora Lagia insieme a (con) quella donna che ha la posizione trentesima (ch’è sul numer de le trenta), e qui vorrei che si potesse discorrere (ragionar) sempre d’amore, e vorrei che ciascuna di loro fosse contenta, come credo che saremmo tali noi tre. L’armonia deve riguardare anche le tre dame, amate rispettivamente dai tre poeti. Monna era il titolo di rispetto che nella Firenze medievale si dava alle donne, generalmente giovani e di condizione sociale elevata. Quella ch’è sul numer de le trenta, cioè colei che occupava il trentesimo posto nell’epistola in forma di sirventese (purtroppo perduta) scritta da Dante stesso e ricordata nella Vita nova (cap. VII), che aveva per argomento le sessanta donne più belle della città. Non si trattava, però, di Beatrice, che, per ammissione del poeta stesso, occupava il nono posto.

[16] Io mi fei al mostrato innanzi un poco, / e dissi ch’al suo nome il mio disire / apparecchiava grazïoso loco. / El cominciò liberamente a dire: / “Tan m’abellis vostre cortes deman, / qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. / Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; / consiros vei la passada folor, / e vei jausen lo joi qu’ esper, denan. / Ara vos prec, per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha vos a temps de ma dolor!”. [Io mi avvicinai un po’ a colui che mi era stato indicato e gli dissi che il mio animo era ben desideroso di conoscerne il nome. Egli cominciò volentieri a parlare dicendo: “La vostra cortese domanda mi è tanto gradita che io non posso né voglio nascondermi a voi. Io sono Arnaut, e piango e vado cantando; guardo afflitto la mia passata follia e attendo con gioia la felicità che vedo di fronte a me. Ora vi prego, per quella Grazia che vi guida alla sommità del Purgatorio, ricordatevi della mia pena al momento opportuno!”].

[17] Cioè: placati gli stimoli dell’avidità, che allettano ma espongono ai pericoli.

[18] Questa teoria, abbracciata da Dante, è da lui esposta in Pg. XVI, in occasione dell’incontro con Marco Lombardo.

[19] libro de la mia memoria: i ricordi, contenuti nella mente del poeta, così come le parole sono scritti in un libro. Attorno a questa immagine si organizza un sistema metaforico complesso. L’immagine del libro dei ricordi è usata anche altrove da Dante, ad es. nella canzone E’ m’incresce di me (Rime, 20) in cui ai vv. 58-59 si dice «secondo che si trova / nel libro de la mente che vien meno», e anche in If. II 8 («che ritrarrà la mente che non erra»).

[20] dinanzileggere: prima della quale parte non si trovano molti ricordi; l’autore fa riferimento agli anni della propria infanzia, che vengono ricordati in modo impreciso e intermittente. La parte alla quale dunque Dante allude riguarda gli anni che presentano la prima affermazione della coscienza individuale (in relazione, per l’esattezza, all’età di nove anni, come si vedrà nel capitolo seguente). Cfr. a tal riguardo Agostino, Confessiones I, vii.

[21] una rubrica: titolo di capitolo; il termine deriva dal latino ruber (“rosso”), con riferimento al minio con cui anticamente si scrivevano i titoli e i sommari sui manoscritti.

[22] le parole: i ricordi.

[23] assemplare: trascrivere, cioè copiare dall’originale (il libro della memoria); si tratta di un termine tecnico mutuato dal linguaggio della pittura. La Vita nova si dichiara quindi come una copia fedele, benché sintetica, dell’interiorità dell’autore.

[24] sentenzia: il senso, l’interpretazione generale.

[25] Si vd. pp. A165-168.

[26] Nove girazione: Il cielo del Sole era tornato già nove volte, dopo la mia nascita, allo stesso punto, riguardo alla propria rotazione; erano cioè passati quasi nove anni dalla nascita di Dante, avendo il Sole (nella concezione astronomica del tempo) compiuto nove giri. Siamo perciò nella primavera del 1274; e la vasta introduzione astronomica trasmette solennità agli eventi narrati.

[27] a li miei occhi apparve: si mostrò ai miei occhi, con riferimento all’importanza della vista per la nascita dell’amore, secondo l’intera tradizione lirica medievale e stilnovistica (soprattutto); e con riferimento a una concezione della conoscenza quale manifestazione dell’oggetto al soggetto e non, come per i moderni, quale attività del soggetto nei confronti dell’oggetto.

[28] prima: per la prima volta.

[29] fu chiamatachiamare: fu chiamata con il nome di Beatrice anche da molti che non sapevano come si chiamasse. Una delle interpretazioni più probabili del passo vuole che quei molti, che ignoravano il nome della donna, lo indovinassero solamente dagli effetti prodotti dalla sua presenza. Ciò è detto in relazione all’etimologia del nome Beatrix (“colei che dà beatitudine”), secondo la convinzione medievale che esistesse un nesso tra nome e cosa.

[30] ne lo suo tempo: durante la sua vita.

[31] lo cielo grado: il cielo delle stelle fisse si era mosso verso Oriente una delle dodici parti di un grado, cioè erano passati otto anni e quattro mesi, secondo la concezione astronomica dell’epoca. E pertanto, come si legge subito dopo, Beatrice era al principio del nono anno di vita allorché incontrò Dante.

[32] nobilissimo colore: rosso scuro. Al simbolismo numerico si aggiunge qui quello cromatico, essendo il rosso, per un cristiano, il colore dell’amore ardente. Per ben tre volte nella Vita nova Beatrice è rappresentata vestita di rosso scuro.

[33] umile ed onesto: in pregnante valore etimologico (humilis et honestus), i due aggettivi valgono “modesto” e “dignitoso”, riguardano il primo piuttosto la semplicità esteriore del portamento, il secondo piuttosto la nobiltà intrinseca degli atti.

[34] cinta convenia: con una cintura e ornamenti fatti in modo adeguato alla sua giovanissima età.

[35] In quello punto: In quell’istante; la triplice anafora conferisce enfasi e solennità all’attimo dell’innamoramento.

[36] lo spirito de la vitaorribilmente: lo spirito vitale, che sta nella parte più recondita del cuore, cominciò a tremare così tanto che si manifestava in modo pauroso in ogni più piccola arteria. Dante si riferisce qui e nei due periodi seguenti alla dottrina scolastica degli “spiriti”: lo spirito vitale presiede alle funzioni necessarie alla sopravvivenza dell’organismo.

[37] Eccemihi: “Ecco un dio più forte di me, il quale mi soggiogherà con il suo arrivo”. La teatralizzazione del mondo interiore, affidata alle solenni parole latine degli “spiriti”, rientra nel modello cavalcantiano; vi è qui, di peculiare, il riferimento a passi biblici che conferiscono ulteriore solennità religiosa all’arrivo di Beatrice.

[38] lo spiritopercezioni: lo spirito animale è l’anima sensitiva, deputata a raccogliere e organizzare in sede di conoscenza i vari stimoli provenienti dai sensi (gli spiriti sensitivi), avente sede nel cervello (l’alta camera).

[39] parlando spezialmente a li spiriti del viso: rivolgendosi soprattutto agli spiriti della vista (lat. visus).

[40] Apparuitvestra: “Ecco che è apparsa la vostra beatitudine”.

[41] lo spirito naturalenostro: lo spirito naturale è quello deputato alle funzioni del nutrimento e della digestione, perciò risiede nello stomaco e nel fegato.

[42] Heu deinceps!: “Ahi misero me, dato che da ora in poi sarà spesso impedito!”. Infatti, il poeta, tra i sintomi d’amore, accuserà disappetenza.

[43] disponsata: sposata.

[44] e cominciòcompiutamente: l’Amore cominciò a esercitare su di me tanta sicurezza di sé e tanto potere grazie alla forza che gli dava la mia stessa immaginazione, che ero costretto a compiere ogni suo capriccio senza limite.

[45] cercasse per vedere: mi dessi da fare per incontrare.

[46] vedèalaportamenti: la vedevo caratterizzata da modi così nobili e lodevoli.

[47] quella parolaOmero: il poeta era noto a Dante solo in forma indiretta e sporadica.

[48] E avegnasegnoreggiare me: E benché la sua immagine, la quale stava continuamente dentro di me, incoraggiasse Amore a esercitare su di me la sua signoria…

[49] tuttaviaudire: tuttavia Beatrice era di virtù così nobili che non permise mai che Amore mi guidasse senza il fidato suggerimento della ragione in quei campi in cui fosse utile ascoltare tali consigli. L’armonia tra amore e ragione, che rovescia la tragica visione cavalcantiana, implica d’altra parte la moralità intrinseca dell’amore, interdetto a trascendere i confini della dignità e dell’onestà.

[50] E peròesse: E dato che insistere sulle passioni e sugli atti di un’età così giovane pare in qualche modo un parlare favoloso, mi allontanerò da essi.

[51] e trapassandoqueste: e tralasciando molte cose che si potrebbero ricopiare dallo stesso modello dal quale derivano queste; cioè non copiando dal libro della memoria più a lungo in merito agli anni dell’infanzia.

[52] maggiori paragrafi: capitoli più importanti.

[53] Poi chegentilissima: Dopo che furono passati tanti giorni che si erano per l’appunto compiuti nove anni dalla prima apparizione – sopra descritta – di questa gentilissima. Da notare che Dante attribuisce questo superlativo solamente a Beatrice (le altre sono solo gentili).

[54] colore bianchissimo: in questo secondo incontro Beatrice veste il colore della purezza e della castità.

[55] in mezzoetade: fra due nobili donne, più mature di lei.

[56] molto pauroso: molto intimorito. È una reazione tipica degli innamorati, nella poesia dell’amor cortese: la donna è una creatura divina, che quasi impone il tremore e il terrore di un’apparizione sovrannaturale. Ma, al contempo, qui Dante rappresenta realisticamente la propria timidezza, quasi impacciata, di un ragazzo di fronte alla fanciulla che domina i suoi sentimenti.

[57] la quale è oggi meritata nel grande secolo: la quale adesso riceve il suo merito nell’eternità. Fin dai primi capitoli Dante guarda indietro, agli inizi del suo amore, dal punto di vista della fine della storia: Beatrice è già morta mentre il poeta compone il suo “libello”, e quindi sta godendo in Paradiso la ricompensa dei suoi meriti.

[58] vedere tutti li termini de la beatitudine: di toccare il colmo della felicità.

[59] fermamente nona: sicuramente la nona. Corrisponde alle tre del pomeriggio; ancora una volta il numero nove, simbolico di Beatrice e del suo essere, in terra, il riflesso della Trinità divina.

[60] però che: dal momento che.

[61] come inebriatocortesissima: come estasiato, mi allontanai dalla gente e mi rifugiai nel luogo appartato di camera mia, e mi misi a pensare a questa donna cortesissima.

[62] una maravigliosa visione: la visione è così straordinaria che il suo racconto è punteggiato di termini legati al campo semantico della meraviglia: vedere, parere, mirabile.

[63] con tanta: tanto lieto in se stesso.

[64] Ego dominus tuus: “Io sono il tuo signore”. Ripete l’inizio dei Dieci comandamenti: «Io sono il Signore, tuo Dio». Amore viene subito introdotto con i connotati del Dio cristiano.

[65] involtaleggeramente: mi sembrava avvolta delicatamente in un drappo rosso scuro. È lo stesso colore del vestito di Beatrice nel corso del primo incontro.

[66] intentivamente: attentamente.

[67] la donna de la salute: Dante gioca sull’analogia fra le due parole saluto: salute. Beatrice è la donna che, salutando, apporta salvezza.

[68] Vide cor tuum: “Guarda qui il tuo cuore”.

[69] E quandodubitosamente: E dopo aver indugiato alquanto, mi sembrava che Amore svegliasse Beatrice che dormiva; e tanto si sforzava in ogni modo che le faceva mangiare la cosa che teneva in mano, e lei esitante se ne cibava.

[70] poco dimorava: passava poco tempo.

[71] si ne gisse verso lo cielo: se ne andasse verso il cielo. È la prima prefigurazione della morte di Beatrice.

[72] onde iodisvegliato: per cui io soffrivo una così grande angoscia che il mio lieve sonno non poté più resistere, anzi cessò e mi svegliai.

[73] mantenente: immediatamente.

[74] la quarta de la notte: corrisponde all’ora tra le nove e le dieci di sera.

[75] la primanotte: stratagemma per tornare a insistere sul numero di Beatrice.

[76] Pensandofedeli d’Amore: Pensando alla visione che mi era apparsa, decisi di divulgarla a molti che erano famosi poeti a quell’epoca: e dal momento che io avevo già sperimentato personalmente l’arte della poesia, decisi di comporre un sonetto nel quale io salutassi tutti i poeti fedeli d’Amore.

[77] vv. 1-4: A ciascuna anima innamorata e a ciascun cuore gentile, al cui cospetto viene la presente poesia, affinché mi rimandino il loro parere per iscritto, porgo il saluto in nome del loro signore, cioè Amore.

[78] vv. 5-8: Erano giunte quasi a un terzo le ore della notte, il tempo in cui ogni stella brilla in cielo, quando mi apparve improvvisamente Amore, il cui aspetto mi fa paura solo al ricordo.

[79] vv. 9-11: Amore mi sembrava lieto mentre teneva il mio cuore in mano, e nelle braccia aveva la mia donna, che dormiva avvolta in un drappo.

[80] vv. 11-14: Poi la svegliava e faceva mangiare a lei timorosa questo cuore che ardeva: alla fine, lo vedevo andarsene via piangendo.

[81] si divide: è il primo esempio di divisione del testo, secondo i precetti della Rettorica di Brunetto Latini, il maestro di Dante.

[82] risponsione: risposta.

[83] significorispondere: specifico a che cosa si debba rispondere.

[84] di diverse sentenzie: con diverse interpretazioni.

[85] ragionato è: si è parlato.

[86] vennegenti: giunse a essere a tal punto ammirata dalla gente.

[87] ondegiungea: per cui ne provavo una meravigliosa gioia. Come di consueto, Dante rappresenta i propri sentimenti secondo una prospettiva che fa di chi li prova l’oggetto di un’azione che lo raggiunge dall’esterno.

[88] onestade: energia nobilitante.

[89] non ardiaocchi: non osava sollevare gli occhi. Colui che aveva incontrato Beatrice, nel quale è rappresentato, con trasposizione proiettiva, il poeta stesso.

[90] sì come esperti: avendone fatta personale esperienza.

[91] mitestimoniare: potrebbero confermare quanto affermo.

[92] Ellas’andava: Beatrice procedeva interamente concentrata in un sentimento di umiltà. Le metafore della “corona” e del “vestire” ampliano e potenziano l’affermazione.

[93] nulla gloria: nessun vanto.

[94] cheadoperare: che sa compiere tali miracoli.

[95] comprendeanosapeano: provavano in se stessi una dolcezza virtuosa e raffinata, tale da non saperla ripetere. Sono i concetti ripresi poi nel sonetto, anche qui attribuita a una coralità di testimoni con funzione universalizzante.

[96] chesospirare: che non fosse costretto a sospirare [d’amore] fin dal primo momento.

[97] cose: effetti.

[98] virtuosamente: per forza di virtù.

[99] ripigliareloda: volendo riprendere il modello poetico della lode di lei.

[100] non pur: non solamente.

[101] sensibilemente: direttamente con i propri sensi.

[102] vv. 1-4: La mia signora, quando saluta qualcuno, si rivela a tal punto nobile e a tal punto dignitosa, che ogni lingua diviene muta per il tremare, e gli occhi non osano guardarla. È la sintesi perfetta dei più significativi motivi stilnovistici del tema del saluto: alle virtù di perfezione della donna corrisponde la reazione stupefatta e smarrita del soggetto, impedito tanto nelle facoltà percettive (soprattutto la vista!) quanto nelle facoltà espressive.

[103] vv. 5-8: Sentendosi lodare, ella procede atteggiata benevolmente a virtuosa dolcezza; e si rivela un essere venuto dal cielo a mostrarsi come un miracolo sulla terra. La semplicità amabile della ragazza, nella quale la coscienza delle lodi suscitate non provoca orgoglio, è uno dei segni della caratterizzazione celeste, messa qui abilmente in rapporto con una rappresentazione schiettamente narrativa.

[104] vv. 9-14: Si mostra a tal punto bella a chi la guarda, che trasmette attraverso gli occhi una tale dolcezza al cuore, che chi non la sperimenta direttamente non può capire: ed è evidente come dal suo volto emani uno spirito dolce e pieno d’amore che dice all’anima: Sospira. Chiunque assista alla bellezza di Beatrice è immediatamente rapito dall’esperienza di dolcezza e di turbamento; ma chi invece non può contare sulla diretta esperienza del «miracolo» resta comunque escluso dalla comprensione del suo significato, che non può essere descritto pienamente a parole. Infatti, paradossalmente, il componimento si conclude affermando la propria insufficienza costituzionale rispetto alla materia trattata, in se stessa ineffabile.

[105] vv. 1-4: Il sospiro che esce dal mio cuore penetra oltre la sfera celeste [: il Primo Mobile] che la circonferenza più larga: lo tira di continuo verso l’alto una nuova capacità di intendimento, che l’Amore mette in lui attraverso il dolore. Dall’interiorità più intima (core) del poeta si produce uno slancio verso l’alto che raggiunge il Paradiso; il mezzo attraverso cui questi due estremi del discorso (l’io profondo e l’alto cielo) sono messi in comunicazione è il sospiro, che per metonimia indica il “pensiero”. A determinarne lo slancio è proprio Amore, ma attraverso la sofferenza. Quest’ultima non è più la ragione della scrittura, ma un suo movente: la ragione è ora più impegnativa e alta, cioè seguire Beatrice con il pensiero verso l’Empireo. La speragira: secondo l’astronomia tolemaica, si tratta del cielo cristallino o Primo Mobile, oltre il quale la dottrina cristiana poneva l’Empireo, cioè il Paradiso.

[106] vv. 5-8: Quando esso è arrivato là dove desidera, vede una donna che riceve onore e risplende in modo tale che lo spirito pellegrino la contempla per la sua luminosità.

[107] vv. 9-14: [Il mio spirito] la vede così perfetta che, quando me lo riferisce, io non lo capisco, a tal punto parla difficile al mio cuore sofferente, che lo spinge a parlare. Io so [con certezza] che parla di quella donna nobile, dato che ne menziona spesso il nome di Beatrice; e così io lo comprendo bene, o mie care donne. Ad aver mandato lo spirito verso Beatrice è quel cuore stesso che ora, interrogandolo, non ne può capire in profondità le parole (cioè i segni dell’esperienza), benché una cosa almeno gli sia perfettamente chiara: esso parla di Beatrice, dato che ne pronuncia spesso il nome. La apparente, voluta contraddizione tra «io non lo intendo» (v. 10) e «io lo ’ntendo ben» (v. 14) provocò le obiezioni di Cecco Angiolieri, che rivolse a Dante il sonetto Dante Allighier, Cecco, ’l tu’ servo e amico; e non è da escludere che il commento in prosa, eccezionalmente circostanziato, risponda anche all’esigenza di ribattere all’amico. Beatrice: è la prima e unica volta che il nome compare in un testo poetico della Vita nova, ulteriormente segno dell’eccezionalità di questo passaggio.

[108] vv. 1-4: Chi sentisse tossire la sventurata moglie di Forese (vocato) detto Bicci, potrebbe dire che forse si è congelata (havernata) in uno di quei paesi in cui il ghiaccio diventa cristallo [: nel freddo Nord, secondo la credenza medievale che lì il ghiaccio formasse cristallo].

[109] vv. 5-8: Il fatto è che anche a metà (di mezzo) agosto la trovi raffreddata (infreddata): ora, figurati (or sappi) come stia (che de’ far; de’= deve) negli altri mesi…! E non le serve a nulla (non le val) dormire (perché dorma) con le calze (calzata), a causa della coperta (merzé del copertoio) che è corta (c’ha cortonese). C’è allusione oscena alla trascuratezza sessuale del marito, e gioco di parole sia in copertoio = coperta e copertura sessuale, sia in cortonese = corto e di Cortona.

[110] vv. 9-14: La tosse, il raffreddore (’l freddo) e ogni altro malessere (e l’altra mala voglia) non la colpiscono (non l’addovien) a causa di vecchi umori (per omor ch’abbia vecchi; omor = umori), ma perché sente una mancanza là sotto (per difetto ch’ella sente al nido). La madre piange con molto dolore (c’ha più d’una doglia), dicendo: «Ahimè (lassa), con una dote miserrima (che per fichi secchi) l’avrei sistemata (messa l’avre’<i>) [: con le nozze] in casa del conte Guido![: le avrei fatto fare un buon matrimonio]». Gli omorvecchi sono i liquidi organici che si credevano responsabili delle funzioni vitali, dunque Dante insinua che la donna è avanti con gli anni e, forse per questo, poco attraente agli occhi di Forese. Il conte Guido di cui si parla è uno dei conti Guidi del Casentino: la madre di Nella intende dire che con una dote modesta avrebbe procurato alla figlia un ottimo matrimonio, addirittura con una famiglia di antico lignaggio!

[111] vv. 1-4: L’altra notte mi venne un accesso di tosse, perché non avevo nulla da mettermi addosso; ma appena che (incontamente che) fu giorno, me ne uscii per andare a guadagnar qualcosa, dovunque ce ne fosse occasione.

[112] vv. 5-8: Sentite un po’ dove mi portò (addosse) il caso: credevo di trovare perle in uno scrigno di legno pregiato (bosso) e magari dei fiorini appena coniati (d’oro rosso: ancora nel crogiolo); e invece trovai Alighiero in un cimitero (tra le fosse).

[113] vv. 9-14: legato in un nodo di cui non saprei dire il nome, se era un “nodo di Salomone” o di altro saggio. Allora mi feci il segno della croce verso oriente; e quello mi disse: “Per amor di Dante, scoglimi (scio’mi)! E io non riuscii (potti) a vedere come: per cui tornai indietro e tornai sui miei passi.

[114] vv. 1-13: Nel mio modo di parlare voglio essere violento (aspro) così com’è nel suo modo di fare (ne li atti) questa bella donna di pietra, la quale racchiude (impetra) sempre (ognora) maggiore durezza e maggior crudeltà di carattere (natura cruda), e ricopre (veste) il suo corpo di un diaspro tale che grazie a esso (per lui), o a causa del fatto che ella (perch’ella) si tira indietro (s’arretra), non esce giammai dall’arco (di faretra) una freccia che la sorprenda indifesa (colga ignuda); eppure lei uccide (ella ancide) e non serve (non val) che uno (ch’om) si difenda (si chiuda) né che si allontani (si dilunghi) dai colpi mortali, che raggiungono il destinatario (giungono altrui) e spezzano ogni arma, quasi come se avessero le ali; così che io non so né posso difendermi (atarme) da lei. La durezza del linguaggio deve corrispondere alla durezza della dama, cioè l’intero discorso al proprio argomento. La situazione è squilibrata rispetto alla tipologia dell’«amor cortese», data l’invincibile difesa messa in campo dalla donna e data la sua inesorabile capacità di colpire chiunque voglia, facendolo innamorare di sé. Quanto a Petra, forse è un nome proprio oppure un soprannome o un senhal. Il diaspro è una pietra durissima (del genere del diamante) catalogata nei lapidari medievali come capace di proteggere chi la porti con sé a patto che sia casto. Il nesso con l’inattaccabilità (specialmente sessuale) della donna è ben evidente.

[115] vv. 14-26: Non trovo alcuno scudo che lei non mi infranga né riparo che mi nasconda dal suo sguardo (viso): perché ella occupa la cima della mia mente così come il fiore occupa la punta del ramo (di fronda). Mostra di interessarsi (par che si prezzi) del mio dolore (mal) altrettanto che una nave (legno) si cura di un mare calmo; e l’angoscia (‘l peso) che mi abbatte (m’affonda) è così grande che nessuna poesia potrebbe esprimerlo (adequar). L’inizio di questa strofe riprende alcuni termini e concetti della conclusione precedente, secondo il sistema della cobla capfinida: a partire dalla metafora militare si svolge un succedersi di nuove metafore, che si generano automaticamente quasi l’una dall’altra. Ahi lima d’Amore, angosciosa e spietata, che consumi (scemi) in silenzio (sordamente) la mia vita, perché non hai ritegno (non ti ritieni) di mangiarmi (rodermi) il cuore pezzo per pezzo (a scorza a scorza) così come io mi trattengo dal riferire in giro il nome di chi ti dà la forza di consumarmi? Mentre il poeta rispetta le convenzioni cortesi della discrezione, non rivelando l’identità della donna, che dà ad Amore il potere di abbatterlo e consumarlo, ella tralascia di rispettarle. La lima, in quanto strumento di Amore, è, secondo la maggior parte degli interpreti, la donna stessa.

[116] vv. 27-39: Perché, quando penso a lei in un luogo (in parte) dove qualcun altro (ov’altri) rivolga lo sguardo (li occhi induca), per timore (per tema) che traspaia all’esterno il mio innamoramento, così da essere scoperto, mi trema il cuore più di quanto non lo faccia (ch’io non fo) della morte, la quale già mi sta divorando (mi manduca) ogni facoltà sensitiva con i denti di Amore: cioè che il pensiero d’Amore logora (bruca) le capacità dei sensi al punto da annullarne l’attività (n’allenta l’opra). L’aggressione che Amore porta al poeta ne annulla tanto le capacità sensoriali di contatto con la realtà (i sensi) quanto le facoltà intellettive di elaborazione dei concetti (il pensier), facendo emergere un unico elemento interiore, il pensierd’Amore, con il rischio di essere scoperto. Insomma, l’Amore agisce sul soggetto in due modi: da una parte, rendendolo indifeso rispetto al potere della passione; dall’altra, sottraendogli l’autocontrollo rispetto al mondo esterno. L’impiego di immagini fisiche, corporee, accompagnata dalla splendida immagine dei denti d’Amor, dà una forza del tutto nuova al motivo dell’azione logorante della passione, tipica della tradizione cortese. Mi manduca: manducare è un verbo latino parlato che ha progressivamente soppiantato il suo equivalente classico edere, poco utilizzabile per la coniugazione irregolare che lo caratterizza. Da manducare, attraverso il francese mangier, deriva l’italiano mangiare. Le voci latine edere e manducare sopravvivono nell’aggettivo edùle (“commestibile”), proprio del linguaggio scientifico, e nel sostantivo manicaretto (“cibo particolarmente saporito”), che deriva da manducare attraverso il toscano manicare. Egli (e’) mi ha gettato (percosso) a terra, e mi sta (stammi) addosso con quella spada con cui lui (ond’elli) uccise (ancise) Didone, quell’Amore che io invoco (a cui grido) e prego umilmente, chiedendo pietà (merzé chiamando): e lui si mostra intenzionato rifiutare (messo al niego). Come si narra nel IV libro dell’Eneide di Virgilio, Didone, regina di Cartagine, si era suicidata gettandosi sulla spada donatale da Enea, infelicemente amato. Il rimando letterario stabilisce qui un parallelismo tra Dante e Didone (considerata nel Medioevo un esempio di lussuria), puntando sulla conoscenza da parte del lettore del notissimo episodio epico: anche Dante è dunque un innamorato passionale non riamato, e anche lui si ritrova sulla strada del suicidio.

[117] vv. 40-52: Questo spietato (perverso) leva ripetutamente (ad ora ad or) la mano e minaccia (sfida) la mia debole vita, lui [Amore] che mi tiene in terra riverso e impedito in ogni reazione (d’ogni guizzo stanco): allora, mi nascono nell’immaginazione (ne la mente) grida (strida), e il mio sangue, che è distribuito per le vene, corre fuggendo verso il cuore, che lo chiama; per cui io (ond’io) impallidisco (rimango bianco). Egli mi ferisce (mi fiede) sotto il braccio sinistro (sotto il braccio manco) così fortemente che il dolore si ripercuote (rimbalza) nel cuore. Allora mi dico: “Se egli mi colpisce ancora, Morte mi avrà rapito prima che il colpo sia andato a effetto!”. Amore, personificato, è qui rappresentato come un guerriero armato di tutto punto, potentissimo e spietato – con la stessa crudeltà dell’amata.

[118] vv. 53-65: Potessi io vedere (vedess’io) allo stesso modo da lui spaccare a metà (fender per mezzo) il cuore a quella crudele, che squarta il mio; dopo aver visto ciò non mi sarebbe dolorosa (atra: nera) la morte verso la quale corro per colpa della sua bellezza: perché questa bandita assassina (scherana micidiale) e ladra colpisce tanto al sole quanto nell’ombra (nel rezzo). Cominciano a delinearsi qui i conclusivi propositi sadici di vendetta da parte del poeta offeso, con un violento rovesciamento dei ruoli; ad Amore è affidato il compito di avviare lo scenario desiderato. Ahimè, perché l’amata non urla (latra) d’amore per me nel caldo torrente (borro) della passione, come succede a me per lei? Dato che subito griderei: “Io vi vengo in aiuto (vi soccorro)”; e lo farei volentieri, ma in questo modo: l’afferrerei per i capelli biondi, che Amore arriccia (increspa) e colora d’oro (dora) per consumarmi di passione, e la cosa potrebbe piacerle. L’aggressione sadica alla seducente fisicità della donna amata si scatena, concentrandosi soprattutto sui capelli, espressione di femminilità e ragione fondamentale di attrattiva per il poeta. Caldo borro: interpretato anche come riferimento al brucante abisso infernale, cioè secondo la prospettiva della dannazione eterna a causa della passione e in seguito alla morte evocata sopra. A questo proposito, si noti anche la tripla rima in -atra, che ritorna nel canto VI dell’Inferno per l’incontro con il mostruoso cane Cerbero («Cerbero, fiera crudele e diversa, / con tre gole caninamente latra / sovra la gente che quivi è sommersa. / Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e ’l ventre largo, e unghiate le mani; / graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra»). Qui lo stesso desiderato contatto con la donna si proietta in un orizzonte infernale.

[119] vv. 66-78: Se io avessi afferrate le belle trecce, che sono diventate per me frusta e sferza (scudiscio e ferza), afferrandole prima delle nove (pigliandole anzi terza), trascorrerei con esse pomeriggio e sera (vespero e squille): e non sarei pietoso né cortese, anzi farei come l’orso quando scherza; e se ora Amore mi frusta con quelle trecce, io mi vendicherei mille volte tanto. L’allusione all’orso è un riferimento al proverbio: “Non ischerzare coll’orso, se non vuogli esser morso”. E in più la guarderei da vicino e fissamente (presso e fiso) negli occhi, dai quali escono le scintille (le faville), che mi ha infiammato il cuore, che mi porto dentro annientato (anciso), per vendicare tutte le volte che mi ha evitato (lo fuggir che mi face); e poi mi riappacificherei con lei (le renderei con amor pace). Dopo i capelli, gli occhi, altro elemento caratteristico della femminilità, valorizzato dalla tradizione poetica cortese e stilnovistica, ma qui profanato da uno sguardo impudico per insistenza e vicinanza. E, infine, la prospettiva dell’amoroso e rasserenato scioglimento finale della tensione tra i due: compiuta la vendetta, il poeta assicura che tornerebbe possibile l’amore, essendo stato concesso il perdono alla donna.

[120] vv. 66-78: O canzone, vattene direttamente (dritto) da quella donna che mi ha ferito il cuore e che mi sottrae (m’invola) ciò di cui io ho più desiderio (gola), e colpiscila in mezzo al cuore (dàlle per lo cor) con una freccia: poiché nel vendicarsi si guadagna piacevole onore. È il congedo, rivolto energicamente alla canzone, perché compia essa stessa, con la propria durezza, la vendetta del poeta che Amore di fatto si rifiuta di realizzare. In questo modo, all’autore è possibile recuperare il proprio onore offeso, la dignità distrutta dalla passione e dal desiderio infelice.

***

cfr. R. LUPERINI, P. CATALDI, L. MARCHIANI, F. MARCHESE, La scrittura e l’interpretazione: storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. 1 Dalle origini al Manierismo (1610), I La letteratura italiana nell’età dei Comuni (1226-1310), Firenze 2000, 255-305. G. LANGELLA, P. FRARE, P. GRESTI, U. MOTTA, Letteratura.it: storia e testi della letteratura italiana. 1. Dalle origini al Manierismo, Milano-Torino 2014, A104-120; 152-183. C. BOLOGNA, P. ROCCHI, G. ROSSI, Letteratura visione del mondo. 1A. Dalle origini a Boccaccio, Torino 2020, 240-304.

La concezione dell’uomo secondo Dante

Cfr. C. BOLOGNA, P. ROCCHI, G. ROSSI, 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜. 𝑉𝑜𝑙. 1, 𝑡. 𝐴. 𝐷𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑜𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑖 𝑎 𝐵𝑜𝑐𝑐𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜, Torino, Loescher, 2020, pp. 259-262.

 

Quella dantesca dell’uomo è una visione totale, che non trascura alcun aspetto dell’esistenza; in essa il dato autobiografico è presente con forza, ma non si esaurisce nel racconto di sé; l’esperienza storica e umana va oltre il dato contingente e diventa narrazione allegorica, acquisendo un significato più profondo. Infatti, nella Commedia la prospettiva individuale si allarga fino a comprendere una dimensione collettiva e universale, inserendosi in un disegno più ampio. Così il poema, vero e proprio poema-mondo, è il testo che meglio esprime tale visione totale dell’uomo: l’autore non si stanca mai di ribadire i concetti di dignità e di libertà, da lui appresi nello studio di Aristotele, Boezio, Sant’Agostino e San Tommaso.

Ma che cosa significa «visione totale» dell’uomo? Nella cultura medievale l’essere umano era sentito in profonda relazione con l’universo, la cui forma concentrica e unitaria aveva per centro la Terra (secondo il modello geocentrico), immobile in un sistema mobile. Si pensava che le sfere dei cieli le ruotassero intorno, creando un insieme pluricircolare governato da Dio e mosso dal suo amore.

Lucca, Biblioteca Statale. Codex Latinum 1942 (XII sec.), c. 9r. Ildegarda di Bingen e l’Uomo al centro dell’universo.

L’uomo, pur essendo stato esiliato dal Paradiso terrestre a causa del peccato originale, era secondo nella scala delle creature solo agli angeli e portava in sé la scintilla divina del Creatore. Negli umani Dio avrebbe infuso la capacità di conoscere se stessi, di produrre concetti astratti attraverso l’intelletto, da cui deriverebbe anche la facoltà di parola.

Grazie alla ragione e alla parola, l’umanità ha potuto realizzare l’attitudine a vivere in società e a interessarsi alla polis, secondo la nota teoria aristotelica che faceva l’uomo un animale politico. In base a tale assunto, lo scopo dell’umanità nel mondo dovrebbe essere quello di superare l’interesse egoistico a vantaggio del bene collettivo, nel rispetto delle leggi garanti della giustizia. In questo modo, la dimensione etica si collega con quella politica, che ha per obiettivo il conseguimento della felicità terrena e razionale, assicurata dall’esercizio della filosofia e dalla guida dell’autorità imperiale.

Secondo il pensiero medievale, l’uomo detiene in comune con Dio, oltre all’intelletto, anche l’esercizio della volontà, con cui si realizza il libero arbitrio. Non basta infatti conoscere il vero bene, ma occorre anche volerlo fare; e ciò nell’uomo avviene per libera scelta e non per istinto – come invece accade negli animali. Per queste sue caratteristiche, l’uomo si pone come mediatore tra la dimensione terrena e quella celeste, tra materia e spirito, abbracciando tutti gli stati dell’essere: da quelli più bassi, che portano al peccato, a quelli più alti, che conducono alla beatitudine. Per conquistare la felicità celeste, l’umanità dovrà affidarsi alla Grazia e al sapere teologico del papa.

Secondo Dante, Dio ha affidato alle due autorità terrene – imperatore e pontefice – il compito di guidare gli uomini alla duplice felicità. Ma è stata l’alterazione dei rapporti tra i due poteri a condurre alla crisi del suo tempo. La Chiesa, detentrice del potere spirituale, ha preteso di estendere il proprio controllo sul potere temporale (di competenza regia), minando così all’equilibrio voluto da Dio.

Dio crea Adamo a sua immagine e somiglianza (particolare). Mosaico, 1143. Palermo, P.zzo dei Normanni, Cappella Palatina.

 

Per Dante, allora, l’unica soluzione consisterebbe nel ripristino dell’autorità politica dell’imperatore. Quando, dopo anni di vacanza imperiale, fu incoronato Arrigo VII di Lussemburgo, con l’assenso di papa Clemente V, l’evento sembrò all’Alighieri il segno di un nuovo corso. La discesa in Italia del sovrano, nel 1310, alimentò le speranze in una presenza più diretta dell’imperatore quale arbitro nelle vicende italiane. Purtroppo le cose non andarono nel modo atteso: la scomparsa improvvisa di Arrigo VII nel 1313 allontanò ogni possibilità di realizzare il disegno politico immaginato da Dante. Ciononostante, il poeta non cambiò le proprie convinzioni e la certezza di una necessaria collaborazione e piena sovranità, nei rispettivi ambiti, della Chiesa e dell’Impero.

 

L’uomo, orizzonte tra due fini (Mn. III, xv, 3-15 passim) [testo latino]

 

[3] Bisogna sapere che l’uomo solo fra tutti gli esseri occupa il mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili; perciò i filosofi lo paragonano giustamente all’orizzonte, che è a mezzo tra i due emisferi. [4] L’uomo infatti, se lo si consideri secondo entrambe le parti essenziali, cioè l’anima e il corpo, è corruttibile; se lo si consideri invece secondo una sola, cioè l’anima, è incorruttibile […]. [5] Se dunque l’uomo è un che d’intermedio tra le cose corruttibili e le incorruttibili, poiché tutto ciò che è intermedio risente della natura degli estremi, è necessario che l’uomo risenta dell’una e dell’altra natura. [6] E, poiché ogni natura è ordinata a un fine ultimo, ne consegue che per l’uomo vi sia un fine duplice: cosicché, come tra tutti gli esseri è il solo a partecipare dell’incorruttibilità e della corruttibilità, così è anche il solo tra tutti gli esseri a essere ordinato a due fini, dei quali l’uno è quello a cui ordinato in quanto è corruttibile, l’altro invece in quanto è incorruttibile.

[7] Due fini pertanto stabilì che l’uomo perseguisse quell’ineffabile provvidenza: vale a dire la beatitudine di questa vita, che consiste nell’operare della propria virtù ed è raffigurata dal paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nella fruizione della visione divina, a cui la propria virtù non può ascendere, se non sorretta dal lume divino, e che si può intendere per il paradiso celeste. [8] A queste beatitudini, come a diverse conclusioni, conviene pervenire per diversi mezzi. Alla prima, infatti, giungiamo per mezzo delle dottrine filosofiche, allorché le seguiamo con l’operare secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda, invece, per mezzo delle dottrine spirituali che trascendono la ragione umana, allorché le seguiamo con l’operare secondo le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità […]. [10] Perciò, per l’uomo ci fu bisogno, in conformità al suo duplice fine, di un duplice rimedio direttivo, cioè del Sommo Pontefice, che secondo le cose rivelate conducesse il genere umano alla vita eterna, e dell’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale, secondo gli insegnamenti filosofici. [11] E poiché a questo porto nessuno o pochi possono pervenire, e questi con difficoltà estrema, se il genere umano, sedati gli allettanti marosi della cupidigia, non riposi libero nella tranquillità della pace, questa è la meta alla quale soprattutto deve mirare il tutore del mondo, che è chiamato il Principe romano, affinché appunto si viva liberamente con la pace in questa aiuola dei mortali. [12] E poiché la disposizione di questo mondo segue la disposizione inerente alla circolazione dei cieli, è necessario, a ciò che gli universali principi della libertà e della pace si applichino in modo adatto ai luoghi e ai tempi, che questo tutore sia stabilito da Colui che presenzialmente vede la totale disposizione dei cieli. Egli è infatti il solo che l’abbia preordinata, sì da provvedere egli stesso per mezzo di quella a connettere ogni cosa ai suoi ordini. [13] E se è così, Dio solo è colui che elegge, egli solo conferma, perché non ha alcun superiore […]. [15] Così, dunque, è palese che l’autorità del Monarca temporale deriva in lui, senza alcun tramite, dalla Fonte dell’autorità universale: la qual Fonte, unita nella sommità della sua semplicità, rifluisce in molteplici alvei per sovrabbondanza di bontà.

 

Venezia, Biblioteca Marciana. Il papa e l’imperatore, inginocchiati ai piedi del Divino Legislatore, ricevono rispettivamente la tiara e la spada, miniatura tratta dal Decretum Gratiani, o Concordia discordantium canonum (XIV sec.)

La Monarchia è un trattato in tre libri, compilati in latino e di datazione incerta (1308; 1312-13; 1317-18). L’ipotesi più accreditata è che l’opera sia stata redatta in seguito alla discesa di Arrigo VII (1310). Essa è incentrata su tre questioni: la necessità dell’Impero per il benessere dell’umanità (libro I); il ruolo dell’Impero romano nel disegno provvidenziale divino (libro II); il rapporto tra Chiesa e Impero (libro III). Il trattato fu condannato dalla Chiesa per le teorie esposte sul potere temporale del papa e per la critica che l’autore muove nei confronti della cosiddetta Donazione di Costantino, documento con cui l’imperatore romano avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione su Roma, sull’Italia e sulla parte occidentale dell’Impero.

Il brano riportato costituisce la parte conclusiva del trattato e affronta il tema dei rapporti tra Impero e Chiesa. Il discorso di Dante prende le mosse da un motivo a lui caro: la doppia natura dell’essere umano, da un lato vincolato alla sua materialità e dall’altro partecipe della divinità. Per questo, sottolinea il poeta, i filosofi hanno paragonato l’uomo all’orizzonte, la linea che delimita i due emisferi della materia e dello spirito.

Ciascuna delle due componenti raggiunge il proprio fine attraverso percorsi diversi, ma complementari: la beatitudine terrena attraverso la filosofia, quella celeste tramite la fede. Questi due strumenti, però, non bastano da soli a garantire il conseguimento dell’obiettivo. Perciò, Dio ha dispensato all’uomo due guide: l’imperatore, per stimolare gli uomini all’esercizio della ragione, seguendo gli insegnamenti della filosofia; il papa, per illuminare la via che porta alla vita eterna. Negli ultimi paragrafi, Dante affronta i seguenti principi: innanzitutto, si pone il fatto che la figura dell’imperatore, detentore del potere temporale, dipenda direttamente dalla provvidenza divina, che regola i destini sulla Terra; in secondo luogo, si dichiara che il pontefice, in quanto detentore del potere spirituale, non possa avere giurisdizione anche sulla scelta dell’imperatore né esercitare il potere temporale; infine, si conclude che le due autorità sono indipendenti l’una dall’altra, ma complementari, perché entrambe sono emanazione della volontà divina.

L’argomentazione, condotta con stile serrato e rigoroso, non è nuova, in effetti; Dante s’inserisce nel dibattito filosofico e politico sulla natura dei rapporti tra potere spirituale e potere temporale. Gli ambienti filopapali, naturalmente, sostenevano che il successore di San Pietro fosse anche l’unico tramite attraverso il quale Dio conferiva il potere regio (teoria del Sole e della Luna: il Sole, che ha luce propria, era allegoria del potere pontificio, e la Luna, che ha luce riflessa, del potere imperiale). Da posizioni opposte si sosteneva che il potere imperiale derivasse direttamente da Dio (teoria dei due Soli: i due poteri godevano, ciascuno indipendentemente dall’altro, di luce propria).

Ugo, marchese di Tuscia

di R. PIATTOLI, in Enciclopedia Dantesca (1970)

 

Nato intorno alla metà del sec. X da Uberto, amministratore della Tuscia e figlio a sua volta di Ugo re d’Italia, e da Willa, figlia di Bonifacio di Spoleto e Camerino, Ugo fu uno dei principali fautori della politica ottoniana in Italia.

 

Stemma di Ugo di Toscana. Ricostruzione. Firenze, Casa di Dante.

 

In seguito allo spodestamento del re Ugo a opera di Berengario, Uberto fu privato dei suoi privilegi e mantenne solo il marchesato di Toscana; dopo la dieta di Augusta (agosto 952), il marchese divenne fedele di re Berengario e come tale partecipò alla spedizione contro il cognato Teobaldo marchese di Spoleto. Si ha poi un riavvicinamento di Uberto all’imperatore Ottone I, forse determinato dal matrimonio di sua figlia Waldrada col doge di Venezia Pietro IV Candiano (969-976); si suppone che tale matrimonio fosse stato auspicato e agevolato dall’imperatrice Adelaide. In definitiva però la politica di Uberto non fu mai chiara e determinata, mentre il figlio seguì coerentemente per tutta la sua vita una linea politica favorevole alla casa di Sassonia.

Il primo documento pubblico cui Ugo intervenne è il diploma dei re Berengario e Adalberto per la Vangadizza (961), nel quale, per quanto fosse ancora in minore età, egli è detto marchio Thusciae, benché fosse ancora vivo il padre, che morì fra il 967 e il 970. Durante il regno di Ottone II (973-983), non si hanno quasi notizie dell’attività del marchese di Toscana, ma alla morte dell’imperatore lo troviamo al fianco dell’imperatrice Adelaide per tutelare in Italia i diritti del giovane erede; infatti Ugo, nel 986, assunse il governo delle provincie di Spoleto e Camerino che mantenne fino al 996. Partecipò nella Pasqua del 991 (15 aprile) alla dieta di Quedlimburg, poi seguì la corte fino a Nimega, dove decedette l’imperatrice Teofano (15 giugno 991); subito dopo Ugo fu inviato dall’imperatore contro Capua dove, verso la Pasqua del 993, era stato ucciso il principe Landenolfo. Sistemata questa faccenda, Ugo sposò, tra l’aprile e il maggio di tale anno, una Giuditta di cui è ignota l’ascendenza, ma che si è supposto consanguinea di Corrado II.

Ugo fu in stretti rapporti anche con il papa Silvestro II e assecondò la politica vescovile di Ottone III. È del 22 settembre 1001 l’ultimo diploma dell’imperatore che ricordi il marchese vivo: qualche indizio fa supporre che negli ultimi tempi i rapporti fra i due signori si fossero alquanto raffreddati; un seguente diploma dell’8 gennaio 1002 ricorda ancora il marchese, per quanto egli fosse già morto da 18 giorni: spirò infatti il 21 dicembre 1001 a Pistoia e le sue spoglie furono sepolte nella badia di Santa Maria di Firenze, la cui fondazione gli è attribuita, dove ancora riposano nel bellissimo monumento scolpitogli quattro secoli dopo da Mino da Fiesole.

 

Paris, Bibliothèque Nationale de France. Ms. Par. Lat. 5411, Johannes Berardi, Chronicon Casauriense (1182 c.), f. 185v. Ugo II di Spoleto (dettaglio).

Spirito intimamente religioso, Ugo patrocinò la riforma cluniacense, sovvenne largamente ecclesiastici singoli ed enti religiosi, fondò e dotò con dovizia di mezzi abbazie: questa sua fervida attività in campo religioso appare strettamente collegata allo spirito della politica ecclesiastica ottoniana. Della sua figura subito si impadronì la leggenda: per primo ce ne ha lasciato larga orma s. Pier Damiani; più ampia e ricca di particolari quella raccolta nel 1345 dal notaio Andrea da Strumi. La tradizione leggendaria, ripresa poi dall’antica storiografia fiorentina, fa Ugo, di origine tedesca («credo fosse il marchese di Brandimborgo, perocché in Alamagna non ha altro marchesato», Villani IV 2), uomo eminentemente religioso e fondatore di abbazie. A Firenze in particolare lasciò una vasta impronta: passò infatti lunghi periodi nella città, preferendola a Lucca residenza marchionale, e fece cavalieri membri delle famiglie Giandonati, Pulci, Nerli, Gangalandi, Della Bella (Villani IV 2) e Ciuffagni: stirpi che in suo onore presero il suo blasone addogato rosso e bianco. L’impronta lasciata nella città da Ugo fu notevole e si perpetuò nei secoli: ne è chiaro specchio la menzione di Dante che ricorda appunto il «gran Barone» (Pd XVI 128), titolo che egli ugualmente attribuisce a s. Pietro e a s. Giacomo (XXIV 115 e XXV 17), «il cui nome e ‘l cui pregio / la festa di Tommaso riconforta» (XVI 128-129): qui son ricordate le celebrazioni annuali in memoria dell’antico marchese, fatte in Firenze in occasione della festa di s. Tommaso Apostolo, celebrazioni che si perpetuarono nei secoli fino a epoca recente.

 

 

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Bibliografia ampliata:

 

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KURZE W., Monasteri e nobiltà nella Tuscia altomedioevale, in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo. Atti del 5° Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Lucca, 3-7 ottobre 1971, Spoleto 1973, pp. 339-362.

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TIGLER G., Le origini della Badia Fiorentina e il sepolcro del Marchese Ugo, in MATTEUZZI N. (ed.), Castelli nel Chianti tra archeologia, storia e arte: Atti del Convegno tenuto il 26 Settembre 2015 presso il Castello di Gabbiano, Radda in Chianti 2016, pp. 111-178.

NOBILI M., Le famiglie marchionali della Tuscia, in Gli Obertenghi e altri saggi, Perugia 2006, pp. 125-150.

PUCCINELLI P., Historia di Ugo principe della Toscana, Venetiis 1643.

UBL K., Der kinderlose König. Ein Testfall für die Ausdifferenzierung des Politischen im 11. Jahrhundert, HZ 292 (2011), pp. 323-363 (in part. 331-333).

Dante, Paradiso XI-XII

di U. BOSCO, G. REGGIO (ed.), Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, Milano 2002, pp. 188-225.

 

Il primo di questi due canti è in onore di S. Francesco e in rampogna dell’ordine dei domenicani, che, salvo poche eccezioni, non ha tenuto fede all’insegnamento del fondatore; il secondo, con perfetto chiasmo, è in onore d S. Domenico e in critica dell’ordine francescano, anch’esso in gran parte traviato. «La vita dei fondatori ugualmente perfetta, e la decadenza dei seguaci ugualmente esecrabile» (Auerbach). Dante concepì i due canti unitariamente; lodando l’un santo si loda l’altro, dice ripetutamente (XI 40-42, e con perfetta simmetria, XII 34-36; cfr. anche XI 118-120; una struttura non molto dissimile da questa dei canti XI e XII è quella del canto XXII, su S. Benedetto e la corruzione dell’ordine da lui fondato); pertanto, fece che corrispondessero esattamente non solo per l’argomento, ma anche per la bilanciata architettura, per la distribuzione della materia, per l’equilibrio degli elogi dei santi e dei rimproveri agli ordini, persino per il numero dei versi dedicati a certi temi: per esempio, Dante ritiene necessari non meno di dodici versi per indicare, con solennità e ricchezza letteraria degne dell’argomento, il luogo di nascita di un così grande santo come Francesco; ciò lo obbliga a diffondersi per un numero di versi esattamente uguale quando deve indicare il luogo di nascita di S. Domenico. Parallela la struttura fondamentale: Francesco sposa la Povertà, Domenico la Fede (XII 61-63; e cfr. anche 55-56), così come Cristo sulla croce aveva sposato la Chiesa (XI 31-33). Ciò non toglie, peraltro, che la biografia poetica di Domenico sia assai meno articolata di quella di Francesco; né si può affermare che l’azione di lui contro gli eretici, contenuta in sei versi (XII 97-102), abbia nell’economia del canto l’importanza che ha per S. Francesco la povertà, la quale domina intera la biografia. Questo sforzo di imparzialità tra i due ordini è in sottintesa polemica con la rivalità che li separava e che, forse, era essa stessa effetto, per Dante, del loro tralignamento (imparzialità di cui è anche testimonianza lo scambio ispirato da certa abitudine di reciproca cortesia instaurato tra essi, per cui il panegirico di Francesco è pronunciato dal domenicano Tommaso, e quello di Domenico dal francescano Bonaventura).

Beato Angelico, Incontro tra S. Francesco e S. Domenico. Tempera su legno, 1429 ca. Berlin, Gemäldegalerie der Staatlichen Museen.

 

Secondo una profezia attribuita a Gioacchino da Fiore – che, come sappiamo, fa parte della seconda corona dei “sapienti” – presto sarebbero venuti due uomini («duo viri»), che avrebbero sorretto la Chiesa pericolante, uno da un lato, l’altro dall’altro: unus hinc, alius inde. Dante fa fedele eco: la Provvidenza «due principi ordinò in suo favore, / che quinci e quindi le fosser per guida» (XI 28-36). Tale profezia è il punto di partenza dei due canti gemelli; si noti che qui è implicito il riconoscimento della veridicità delle profezie di Gioacchino, che sarà, in seguito, esplicitamente affermata (Pd XII 141). La profezia era stata accolta nella tradizione francescano-domenicana: lo stesso Bonaventura, autore di quella vita di Francesco che Dante segue da vicino nel canto XI, e che tesserà il panegirico di Domenico nel canto XII, riconoscerà i due santi nei «duo viri» profetati. L’idea che i due “archimandriti” fossero provvidenzialmente associati si trova nella bolla di canonizzazione di S. Domenico del 1234 (Pasquazi); nel 1255, in una lettera inviata congiuntamente dai generali dei due ordini, è sottolineata la provvidenzialità della creazione di questi per la salvezza dei mondo (Stanislao da Campagnola). Due operette pseudo-gioachimite, composte tra il 1250 e il 1270, sottolineano la missione contro la corruzione della Chiesa, simultaneamente affidata da Dio ai due santi (Manselli). La Chiesa – dice il Nardi – aveva due generi di nemici: gli esterni (eretici), contro cui combatté Domenico, e gli interni (ecclesiastici avidi di beni temporali), contro cui lottò Francesco. Del resto, la quasi contemporaneità della fondazione dei due ordini, da parte di santi così geograficamente lontani, portava quasi necessariamente a pensare a un disegno unico di Dio. La leggenda già aveva accomunato i due ordini, attribuendo a papa Innocenzo III la visione in sogno, sia di Francesco sia di Domenico, sostenenti il Laterano in rovina. Probabilmente a quella stessa profezia gioachimita, poiché essa, come ogni profezia, era plurivalente, Dante si rifà quando dice – a lungo insistendo – che luogo di nascita di Francesco non era propriamente Assisi, ma l’Oriente, e poi insiste sull’occidentalità della provenienza di Domenico: i due vengono al soccorso della Chiesa muovendo dai due opposti punti cardinali; il loro campo di battaglia è il mondo in tutta la sua estensione.

 

Giotto di Bondone, Il sogno di Innocenzo III. Affresco, 1295-1299 ca. Assisi, Basilica Superiore.

Nell’esaltazione che ne fa il poeta, i due santi si configurano essenzialmente come indomiti combattenti a favore della Chiesa. Del resto, la santità è, per Dante, sempre battaglia: anche gli Apostoli si erano fatti «scudo e lance» del Vangelo. Lungo i due canti, i termini bellici e cavallereschi si affollano: non solo nel canto XII, ciò che è stato ripetutamente osservato, ma anche nell’XI, anche se naturalmente infittiscono per Domenico. L’azione con cui Francesco «giovinetto» diede primamente prova della sua «gran virtute», è un’azione di guerra, alla quale egli andò impetuosamente («corse») e sulla quale si proietta l’ombra della morte (XI 58): una guerra combattuta secondo la legge della cavalleria, per una donna, la Povertà (XI 59-60). Domenico, a sua volta, è detto «duca» (XII 32) e, con termini cavallereschi, «drudo / de la fede» (XII 55-56); anche «paladino» (XII 142), «atleta» (XII 56): quest’ultima parola è usata nel senso specifico, che aveva spesso nella letteratura agiografica, di «difensore» come in un giudizio di Dio, di campione (e, infatti, i due santi son detti «campioni», XII 44). La madre di Domenico sognò che avrebbe partorito chi avrebbe incendiato il mondo (XII 58-60); il santo chiese «licenza di combatter» (XII 95); poi «ne li sterpi eretici percosse» (XII 100). L’uno e l’altro santo «ad una militaro» (XII 35); i cristiani al cui soccorso essi corrono sono «l’essercito di Cristo», che si muoveva «tardo, sospeccioso e raro», dietro all’«insegna» della Croce (XII 37-39); essi sono come le due ruote di una biga, di un carro da guerra, «in che la Santa Chiesa si difese / e vinse in campo la sua civil briga» (XII 106-108).

 

Paris, Bibliothèque Nationale de France, Par. lat. 10484, f. 272r. Il sogno di papa Innocenzo III, dal Breviarium ad usum fratrum predicatorum (Bréviaire de Belleville), v. II.

 

Certo, per Domenico operava in Dante il ricordo della Crociata contro gli Albigesi, condotta oltre che con le armi della persuasione, con quelle di una vera e propria spietata guerra; né ha rilevanza per l’interpretazione del canto che Domenico, come pare, non si sia macchiato personalmente di sangue, ma contasse soprattutto sulla persuasione, ammesso che Dante fosse a conoscenza di ciò; comunque, egli riteneva quell’energia necessaria e ne lodava Domenico. Ma anche Francesco, in altro modo, ebbe nella sua vita l’animo del combattente, e ciò appare anche in quel che di lui scrisse Bonaventura, la cui Legenda maior Dante – come abbiamo detto – segue assai da vicino (fin nell’inversione cronologica di alcuni episodi della biografia); ma l’accento di Dante batte esclusivamente sull’eroico, lasciando in ombra quel molto altro che c’era nel santo e che Bonaventura, nella sua Legenda maior, aveva messo ben in luce. Un esempio ci farà toccare con mano la trasformazione delle fonti francescane operata da Dante. Ecco Francesco che chiede al papa Innocenzo III l’approvazione della sua Regola. Secondo Bonaventura, Francesco chiede humiliter et instanter («umilmente e insistentemente»). Per Dante, invece: «regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzo aperse» (XI 91-92): quanto più è dura, e tale appare anche al papa, la sua intenzione, tanto più si sente re, sia pure nella negazione di se stesso; il «regalmente» è preceduto e confermato dalla magnanimità: «Né li gravò viltà di cor le ciglia», con cui sta di fronte alla massima potenza del mondo, al papa, e a un papa così terribile nella sua santità, così religiosamente conscio della sua universale autorità come Innocenzo: lui, figlio di un qualunque Pietro Bernardone, lui che era disprezzato da tutti e recava nella sua sparutezza, nelle sue vesti, in tutto il suo aspetto l’impronta di quel disprezzo. Ma, a sua volta, Francesco era ben conscio che la via presa a correre gli era stata rivelata direttamente da Dio: da ciò la sua energia che non piega dinanzi a nulla e a nessuno: Ipse Altissimus revelavit mihi quod deberem vivere secundum formam Sancti Evangelii: così lasciò scritto nel Testamento.

Giotto di Bondone, Conferma della Regola di S. Francesco. Affresco, 1325 ca. dalla Cappella de Bardi. Firenze, Chiesa di Santa Croce.

 

Subito dopo la designazione della patria di Francesco, ha inizio la grande allegoria centrale della biografia poetica di lui; l’amore di Francesco per Povertà, il loro matrimonio. Il primo atto della santità di Francesco è un atto di guerra e contro il padre, al quale egli sostituisce il Padre che è nei cieli; e questa guerra è per una donna tale che, come la morte, non piace a nessuno («ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra», XI 58-60). Ma si noti la violenza di «guerra», l’energia di «corse»: la biografia di Francesco è tenuta da Dante costantemente su questo registro. Il passo corrispondente della fonte bonaventuriana costituisce il miglior commento a tale violenza ed energia. Francesco spende i denari paterni per il restauro di S. Damiano; il padre, perturbatus animo, cucurrit ad locum. At ipse, quia novus Christi erat athleta…, in un primo momento sfugge, nascondendosi, alle ire paterne; ma poi coepit de pusillanimitatis ignavia semetipsum arguere, e va ad Assisi. I cittadini lo insultano come pazzo; il padre lo trascina a casa e lo tormenta con parole, poi con percosse e con catene, verberibus et vinculis. Ritenendolo anch’egli pazzo, lo lega, secondo il costume del tempo. Liberato dalla madre durante un’assenza del padre, Francesco si ritira di nuovo a S. Damiano; qui accorre fremens, appena tornato dal suo viaggio, Pietro Bernardone. Ma questa volta, Francesco, confortatus a Deo, obvium ultro se obtulit patri furenti, libera voce clamans, se pro nihilo ducere vincula et verbera eius (Legenda maior II 2-3). Questa fu la «guerra» iniziale del santo.

Primo marito della Povertà era stato Cristo; dopo di lui, la donna era stata disprezzata («dispetta e scura»), non era stata richiesta in nozze da nessuno («sanza invito»). In ciò, dunque, Francesco è alter Christus, e forse per far rilevare questo, Dante dice, con evidente tensione polemica, che tra Cristo e Francesco per millecento e più anni non c’era stato nessun altro che avesse amato la Povertà (vv. 64-66); ma in questo passo, peraltro, Dante probabilmente intende “povertà” come la intendeva il Cristianesimo originario (Chiesa comunitaria di Gerusalemme), fatto proprio da Francesco e dai suoi seguaci più rigorosi (gli spirituali); cioè come rinuncia assoluta alla proprietà personale: la stessa vita in comune, anche povera, era criticata in quanto i cenobiti, non essendo angustiati dall’incertezza del futuro, non erano veramente poveri: ci si deve sostentare individualmente solo con il lavoro e con l’elemosina (Manselli). L’esaltazione dell’allegorica Povertà tocca l’apice nei versi seguenti: nella sua fedeltà allo sposo Cristo, ella (l’immagine è anch’essa tradizionale) fu più ferma e più coraggiosa della stessa madre di lui (vv. 71-72).

Giotto di Bondone, Rinuncia ai beni terreni. Affresco, 1295-1299 ca. Assisi, Basilica Superiore.

Dante tratta poi fuori d’allegoria dell’opera di Francesco: del fascino esercitato dal suo ideale di santità, del formarsi e rapidamente moltiplicarsi dei francescani, della «gente poverella»; del suo “regale” comportamento dinanzi a papa Innocenzo III; della seconda approvazione della regola, da parte di papa Onorio III. Quindi il viaggio in Oriente: «per la sete del martiro», dice il poeta; desiderio martyrii flagrans, aveva detto Bonaventura (IX 5), che Dante continua a seguir da vicino, anche nell’inversione cronologica fra il viaggio in Terrasanta e la seconda approvazione. Tanto più notabile, perciò, un’altra trasformazione, qui, della fonte. Questa aveva detto (IX 8) che i soldati del Sultano d’Egitto avevano insultato, percosso e incarcerato Francesco e i suoi compagni; ma anche che il Sultano lo avesse ascoltato volentieri, libenter, e anzi lo avesse invitato con insistenza a trattenersi di più presso di lui (ad moram contrahendam cum meo), e che addirittura gli aveva fatto molti doni preziosi. Dante parla, invece, della «presenza del Soldan superba»; e allora, per eliminare la contraddizione tra il poeta e le sue fonti (come se questo fosse necessario e non bastasse a spiegare la diversità l’uso delle fonti stesse come materiale ancor grezzo di poesia) qualcuno ha pensato a una diversa origine, a Iacopo da Vitry, che chiama il Sultano bestia crudelis; ma, anche se Dante lo ebbe qui presente, il che non è davvero sicuro, anche Iacopo non dice sostanzialmente cosa diversa da Bonaventura, dato che aggiunge che quella bestia diventò mansueta alla visione dell’uomo di Dio (in aspectu viri Dei in mansuetudinem conversa). A Dante, invece, interessa far del Sultano un fermo avversario di Francesco, per far risaltare il granitico coraggio di quest’ultimo. Né superba può intendersi «fastosa», come qualcuno ha proposto, giacché qui si parla della volontà del martirio del santo; e la sua umiltà, in contrasto con il fasto orientale, sarebbe qu nota aliena e fuori luogo. La verità è che anche in questo passo Dante vuole insistere sulla magnanima risolutezza di Francesco, anche a costo di forzare un poco la sua fonte.

 

Giotto di Bondone, La prova del fuoco davanti al Sultano. Affresco, 1325 ca. dalla Cappella de Bardi. Firenze, Chiesa di Santa Croce.

Dante continua traducendo Bonaventura, o quasi: sul ritorno di Francesco in Italia; sulle stimmate. Che queste fossero il terzo e definitivo sigillo all’ordine, dato indirettamente da Cristo, aveva già detto Bonaventura (IV 11, XII 12; vd. anche XIII 9). Non diversamente un’altra fonte primaria di Dante, Ubertino da Casale. Poi, la scena del transito: quando a Dio, che lo aveva destinato a fare tanto bene nel mondo, piacque di trarlo in cielo per dargli quel premio che aveva meritato facendosi pusillo, cioè parvulus (come dice due volte Francesco stesso nel Testamento), umile e «dispetto», egli raccomanda ai suoi frati la Povertà, «la donna sua più cara». In verità, non la povertà solamente Francesco morente raccomandò ai suoi fratelli, come a legittimi eredi. Secondo il racconto di Bonaventura (XIV 5), che anche qui Dante piega alle proprie esigenze, Francesco dapprima consolò i frati della sua morte imminente, poi con fraterno affetto li esortò all’amor divino e a lungo parò (sermonem protraxit) circa la necessità di continuare anche per l’avvenire a sopportare pazientemente i mali, ad amare la povertà, ad aver fede nella Chiesa romana. Né diversamente suona il Testamento, nel quale, se raccomanda la povertà, anche nelle chiese, e (che è, in fondo, lo stesso) l’obbedienza ai precetti letterali della Regola, il santo comanda pure il lavoro e insiste – e direi anzi che questa sia la sua preoccupazione maggiore (e s’intende bene il perché) – sulla necessità della sottomissione alla Chiesa in tutti i suoi organismi e della disciplina interna all’ordine. Di tutte queste raccomandazioni del morente, Dante non registra che l’esortazione alla povertà.

Francesco si fa porre nudo sulla nuda terra; vuole che la sua anima si muova così dal grembo stesso della povertà, verso il cielo, senz’altra bara se non la semplice terra («e al suo corpo non volle altra bara»). Forse non è stato avvertito che questo ritorno dell’anima preclara al cielo, suo regno, non è espressione generica e inerte, ma rende una visione concreta. «Preclara» traduce praefulgida e praenitida di Bonaventura, dove questi racconta (XIV 6) la visione di uno dei frati, che subito dopo il transito vidit animam illam beatam, sub specie stellae praefulgidae a candida subvectam nubecula… in caelum recto tramite sursum ferri, tanquam sublimis sanctitatis candore praeniditidam: splendente del candore della sublime santità. Dante umilmente fa sua questa veramente candida visione; cede, forse per l’unica volta in questo canto di battaglia, alla suggestione dell’ingenuo affetto popolare riflesso nelle sue fonti.

Beato Angelico, Compianto di S. Francesco. Tempera su legno, 1429 ca. Berlin, Gemäldegalerie der Staatlichen Museen.

Il canto volge rapido alla conclusione. Se tale fu S. Francesco, Dante – dice Tommaso – può ormai farsi un’idea di quel che sia stato anche il suo collega, che insieme a lui guidò la Chiesa, la barca di Pietro, dritta alla sua meta, nell’alto pericoloso mare delle vicende terrene. Chi segue i dettami di Domenico, si arricchisce di beni spirituali; ma il suo gregge è ghiotto, invece, di nova vivanda, di studi profani, non teologici – intesi al guadagno – o va per vie dottrinali e oratorie diverse da quelle indicate dal fondatore; si spande, si disperde per pascoli («salti») «diversi», lontani da quelli indicati dal pastore; e, perciò, torna all’ovile vuoto di latte, perché non si è convenientemente nutrito. Resta magro esso e non può nutrire gli altri. Il passo è da mettere in relazione con Pd IX 133-135, contro l’incuria dell’Evangelio e dei «dottor magni» a vantaggio dello studio del diritto, e con Pd XII 82-84, dove proprio Domenico è lodato per aver seguito studi solo per amor di Dio. Si pensi anche a Pd XXIX 82 ss., contro i predicatori (e frati predicatori era appunto il nome ufficiale dei domenicani), che non vanno «per un sentiero», tanto sono trasportati dall’«amor de l’apparenza», con la conseguenza che le pecorelle che li ascoltano «tornan del pasco pasciute di vento». Ci sono bensì, è detto del nostro canto, domenicani non degeneri; ma sono così pochi, che a vestirli basta poco panno. Il discorso sulla necessaria povertà, sviluppato nel canto XI, ha la sua continuazione nel XII, con la condanna dei religiosi che trascurano la «verace manna» per i beni temporali.

Certo, Francesco era combattente anche nella Legenda maior di Bonaventura: la prima visione che, secondo quella biografia, egli ebbe fu di armi; conformemente al suo desiderio giovanile di gloria militare, egli interpretò questa visione in senso proprio, egli che invece sarebbe diventato dux in militia Christi (XIII 10), ecc. L’eroico non è invenzione di Dante, è anche in Bonaventura, perché era in Francesco: solo che l’accento del poeta batte quasi esclusivamente su questo, lasciando in ombra quel molto altro che c’era nel santo e quindi anche nella biografia di Bonaventura.

L’ardore serafico di Francesco, accennato all’inizio, resta in sostanza senza sviluppo narrativo e poetico. C’è, per lui come per il «collega» Domenico, una schematizzazione biografica, in vista dell’esemplarità che a Dante preme loro assegnare (Auerbach). L’amore per le creature, l’obbedire di queste ai cenni del santo, il considerarsi loro fratello: non solo la materia caratterizzante dei Fioretti, che Dante poteva conoscere attraverso gli Actus che essi traducono, e di cui molti elementi essenziali erano del resto in nuce nella stessa Legenda maior di Bonaventura – per esempio, la «perfetta letizia» nelle sofferenze e negli insulti Legenda maior II 5; IV 7; VI 1 e 5): ma anche quella del Cantico di Frate Sole è del tutto ignorata. Manca nel Francesco dantesco, tra altro molto, ogni accenno all’assidua e macerante preghiera, alla crudele astinenza e austerità e castità di vita, alle mortificazioni della carne; mancano le profezie, le visioni, le estasi, gli stessi miracoli, di cui sono piene le fonti e l’iconografia – non esclusa quella giottesca.

Giotto di Bondone, La predica agli uccelli. Affresco, 1290-1295 c. Assisi, Basilica Superiore di S. Francesco.

 

Dio esalta il grado eroico di virtù che restano naturali, umane. Lo strenuo guerriero non è in Dante anche pacificatore di guerre, soccorritore di miserie, come, invece, fu nella realtà. Soprattutto, manca nel Francesco di Dante quella specialissima umiltà che è in prima linea nella tradizione francescana: in Bonaventura, anzi, amore per la povertà e umiltà sono la stessa cosa; quella è inconfondibilmente, nel santo, caratterizzata da questa: Apparuit gratia Dei Salvatoris nostri diebus istis novissimis in servo suo Francisco omnibus vere humilibus et sanctae pauperitatis amicis: sono le prime parole della Legenda maior. E manca quasi totalmente, infine, il carattere essenziale di Francesco, il suo essere e voler essere alter Christus. Delle tante conformità fra la vita del Redentore e quella del santo, così attentamente messe in rilievo dai francescani, non ne resta in Dante che una, quella relativa a ciò che solo stava a cuore al poeta: l’essere stato Cristo il primo mistico sposo della Povertà; e questa conformità (che non c’è, almeno esplicitamente, nelle fonti) è tanto più significativa, in quanto per stabilirla Dante – come abbiamo già accennato – deve dimenticare l’esercito di eremiti e di amanti della Povertà che, sia pure con caratteristiche diverse da Francesco, fioriscono nell’intervallo tra Cristo e il santo. Nel racconto di Dante, la figura dell’alter Christus rimane sullo sfondo, non è centrale e determinante come nell’agiografia francescana.

La concentrazione dell’interesse di Dante sulla povertà riceve singolare luce se si mettono a riscontro dell’XI canto le storie di Francesco che qualche anno prima della composizione di questo erano andati affrescando ad Assisi Giotto e i suoi aiuti. Questi partono – si badi – dalla stessa Legenda maior di Bonaventura, ma dei vent’otto grandi affreschi della Basilica Superiore, uno solo, e marginalmente, si riferisce alla povertà, quello sulla rinuncia all’eredità paterna dinanzi al vescovo. Gli altri sono miracoli in vita e in morte, visioni – di Francesco e di altri –, episodi concreti di vita e di apostolato, ecc. Non diversi i temi di altre opere d’arte di altri maestri nella Basilica Inferiore; né quelli dello stesso Giotto in altre chiese (ad esempio, a Santa Croce in Firenze). C’è bensì, nella volta della Basilica Inferiore, l’allegoria del matrimonio di Francesco con la Povertà, ma, com’è noto, essa non è opera del grande pittore e, quel che più ci importa ora, non può essere anteriore al 1317: probabilmente è della terza decade del XIV secolo (A. Venturi; P. Toesca); sicché si può anche pensare a un influsso di Dante su tale iconografia. Comunque, neppure lì la Povertà è predominante, accompagnata com’è dalle gemelle allegorie della Castità e dell’Obbedienza.

Giotto di Bondone, San Francesco dona il mantello a un povero. Affresco, 1296-1299 ca. Assisi, Basilica Superiore di S. Francesco.

 

Orbene, proprio questa disparità tra Dante e Giotto (che assume maggior rilievo se si pensi alla grande fama del pittore, registrata dallo stesso Dante, in Pg. XI 94-96) ci permette di penetrare meglio nelle ragioni storiche della preferenza assoluta data dal primo al tema della povertà. Si rifletta che la Basilica di Assisi era stata voluta da frate Elia, contro l’insegnamento del santo, ribadito nel Testamento, che vietava l’erezione di ricche chiese; che questa basilica dipendesse direttamente dalla Curia; che essa avesse provveduto all’ingente finanziamento e a incaricare della decorazione artisti di sua fiducia; che, appunto, Giotto fosse sua propria creatura. Sicché, quando Dante disegnava diverso, puntando tutto sulla povertà, era in posizione polemica implicita con i conventuali e con la Curia romana.

L’opinione che Dante aveva, che la cupidigia umana, e della Chiesa in particolare, fosse cagione di ogni male, influisce ovviamente sulla concezione del canto, e ciò è stato ripetutamente osservato; ma non si può non riconnetterla, più specificamente, anche alla grande polemica sulla povertà di Cristo e degli Apostoli, che, quando Dante scriveva, già da molti decenni dilaniava l’ordine francescano e tutta la Cristianità, e che proprio nell’età piena di Dante (1313, 1317-1318) e in Toscana aveva assunto aspetti particolarmente aspri e drammatici con le condanne e le persecuzioni degli spirituali; finché, all’indomani della morte di lui, nel 1323, si giunse a una soluzione d’imperio con la definitiva condanna – pronunciata da papa Giovanni XXII – della tesi principale degli spirituali, circa l’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli.

Non è qui possibile, né è necessario, rifare la storia di quella polemica. La posizione di Dante in essa è nota: da una parte, la sua concezione dei mali della cupidigia e del potere temporale doveva portarlo verso gli spirituali – il che significava anche prendere, ancora una volta, posizione contro Bonifacio VIII (che, a sua volta, era acerrimo nemico del movimento); dall’altra, doveva renderlo perplesso un rigorismo che arrivava a negare il diritto di proprietà e aveva altre implicazioni di ordine morale. Sicché, egli giunge a quella posizione intermedia, secondo la quale – contro i rigoristi francescani – egli ammette la possibilità che la Chiesa riceva, come in deposito, i beni di proprietà dell’Impero (che restano sempre tali), ma solo per distribuirne i frutti ai poveri di Cristo (Mn II x 1-2; III x 17). Orbene, nei canti XI e XII (nonché in Pd XII 93, e XXII 79-84) Dante aveva preso nel poema la medesima posizione. Nel canto XII, in particolare, rigetta le posizioni sia dei rigoristi (Ubertino da Casale) sia dei lassisti (Matteo d’Acquasparta); e, quel che più interessa, insiste sulla teoria circa la povertà della Chiesa, quando, tra l’altro, afferma che le decime sono pauperum Dei (Nardi).

Arnolfo di Cambio, Monumento a Bonifacio VIII (fine XIII sec.). Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

Ma quale che fosse la posizione teologica e politica di Dante, le sue simpatie, sul piano umano e morale, non potevano andare che verso un’interpretazione sostanzialmente rigorosa, anche se serena, non estremista, della Regola di S. Francesco. Di ciò abbiamo più di un indizio. Il punto di partenza per la da lui sperata riforma religiosa era, come egli ci dice nella Monarchia, proprio quel passo del Vangelo di Matteo (10: 9-10), da cui parte Francesco per la sua Regola: questo era, per Dante, come per Francesco, il praeceptum prohibitivum che doveva impedire alla Chiesa il possesso di ricchezze. E proprio nella questione specifica, che Giovanni XXII doveva, di lì a poco, troncare, Dante la pensa come gli spirituali. Matteo aveva detto – e Francesco posto a base della sua Regola – che Cristo aveva prescritto agli Apostoli di seguirlo seminudi e scalzi, non solo senza oro né argento, né rame, ma neppure una bisaccia per contenere alcunché. Caratteristica dei francescani è per lui essere magri per l’astinenza e scalzi per la povertà (XI 79-84; XII 130-131). Orbene, gli apostoli Pietro e Paolo sono fatti da Dante francescani avant-la-lettre: anch’essi egli vede non solo magri e scalzi, ma persino elemosinanti («Venne Cefàs e venne il gran vasello / de lo Spirito Santo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello», Pd XXI 127-129); ostiam aveva prescritto ai suoi S. Francesco, secondo la Legenda maior.

Il Manselli, autorevole studioso di storia religiosa due-trecentesca, è deciso nel pensare che Dante fosse assai vicino agli spirituali; tuttavia, non sembra possibile andare oltre a quella simpatia sul piano umano di cui abbiamo or ora parlato. Troppo chiara, infatti, è la posizione mediana da lui presa, in XII 118-126, tra rigoristi e lassisti dell’ordine francescano, cioè tra “spirituali” e “conventuali”. Tale posizione media era poi quella di larghe correnti della Chiesa, a cominciare da papa Clemente V (1312). Il rigetto degli estremisti dell’una e dell’altra direzione era stato, del resto, proprio di Bonaventura, nella sua qualità di Ministro Generale dei francescani; non senza motivo, dunque, Dante lo fa pronunciare da lui. Secondo il Manselli, tale posizione non era lontana da quella di Pietro di Giovanni Olivi, uno dei maggiori esponenti della cultura religiosa del secondo Duecento: Dante dovette aver colti gli echi del suo insegnamento, quando frequentava le scuole dei religiosi a Santa Croce, dove l’Olivi era stato dal 1287 al 1289.

 

Processione religiosa con monaci benedettini, Ospitalieri di Santo Spirito, camaldolesi, francescani ed eremitani di Sant’Agostino. Affresco (frammento), XIV sec. Fabriano, Pinacoteca Molajoli.

 

La degenerazione dell’ordine francescano, dice Bonaventura (cioè Dante), si vedrà al momento della raccolta, quando il loglio sarà separato dal grano e si lagnerà di non essere, come il grano, riposto nell’arca. Ci sono, sì, alcuni francescani fedeli alla Regola, che sono ancora tali quali erano i primi seguaci del santo; ma essi non andranno cercati né tra coloro che seguono l’interpretazione lassista, che Dante impersona in Matteo d’Acquasparta (il quale in tal modo «fugge»; rende vana la Regola stessa) e, neppure, tra i rigoristi, come Ubertino da Casale (che quella Regola «coarta», cioè “stringe troppo, di là dalle intenzioni del fondatore”). L’immagine del loglio deriva evidentemente dalla parabola evangelica della zizzania (Mt 13: 24-30). Questa (lo stesso che «loglio») era stata nottetempo seminata nel campo da un nemico del proprietario (la «mala coltura»); grano e loglio crebbero insieme; i servi avrebbero voluto raccogliere quest’ultimo sceverandolo, ma il padrone si oppose, nel timore che con il loglio si sradicasse anche il grano: al tempo della mietitura (la «ricolta»), il loglio sarebbe stato messo insieme in fasci e bruciato e il grano raccolto nel granaio (in horreum meum). Il Barbi (SD 19 [1935], pp. 128-130), applicando la parabola, intese che i francescani che «per uno o per altro eccesso, si sono allontanati dalla volontà di S. Francesco, piangeranno il loro errore, quando si vedranno esclusi per sempre dal regno dei cieli»; il «tosto si vedrà» di Dante va inteso nel senso che l’ora della verità non può tardare, perché in terra il vivere è «un correre alla morte». Non diversamente intesero Porena e qualche altro. Questa spiegazione, che sembra ineccepibile, è stata, invece, trascurata o rifiutata da molti, che in quel «tosto» preferiscono vedere il preannuncio di un avvenimento terreno prossimo: e questo, sulle orme del Cosmo, ravvisano nella condanna degli spirituali pronunciata da Giovanni XXII nel 1318; nella relativa bolla ci sarebbe, secondo il testo italiano fornito dal Cosmo, una specifica congruenza con il passo dantesco: «in un’arca il frumento si mesce alla paglia». Ciò è sembrato argomento dirimente; sennonché, a parte il fatto che è tutt’altro che sicuro che questi versi siano stati scritti da Dante nel 1318 o dopo, il testo autentico latino della bolla parla di area, cioè di “aia”, non di arca, e dunque la suggestiva congruenza non esiste. Oltre a ciò, Dante non poteva compiacersi dell’allontanamento dalla Chiesa degli spirituali, verso cui andavano le sue simpatie, e di cui condivideva tesi fondamentali; né poteva alludere ai conventuali, ai quali l’arca non fu mai tolta. Del resto, la parabola evangelica verte proprio sulla difficoltà di scernere i buoni dai cattivi e sul pericolo di sradicare quelli insieme a questi: la terzina, dunque, ha valore opposto a quello attribuitole generalmente; è, semmai (ma la cosa è, come dicemmo, assai dubbia per ragioni cronologiche), una presa di posizione di Dante contro la bolla pontificia di condanna degli spirituali. I cattivi francescani, che si accorgeranno presto del loro errore, sono per Dante, invece, quelli che possono dire: «I’ mi son quel ch’i’ soglio»; cioè, probabilmente, coloro che non obbedivano alle raccomandazioni di S. Francesco nel Testamento, di non interpretare cavillosamente la Regola, di non stare a discuterla, ma di osservarla nella sua semplice lettera. Forse a questa raccomandazione allude Dante anche quando dice (Pd XI 114) che Francesco morente comandò (si noti, con il Nardi, questo termine militare) ai suoi fratelli di amare la Povertà a fede (“per fede”), senza sofisticare. Così avevano fatto i «primi scalzi poverelli», che si erano fatti amici a Dio con la semplice fede e non con approcci intellettualistici che possono per troppa sottigliezza fuorviare.

Limiti debbono essere necessariamente posti all’adesione di Dante agli spirituali: gli stessi limiti, e anzi molto più stretti, devono essere posti alla sua adesione alle concezioni gioachimite, così vicine agli spirituali, anche se egli crede alla veridicità delle profezie dell’abate calabrese.

 

Beato Angelico, San Domenico in preghiera. Affresco, 1438-1450. Firenze, San Marco.

Per quel che si attiene specificamente al XII canto, si deve osservare che questo, nel complesso, pare assai meno “convinto” del canto francescano precedente. E ciò non perché Dante, come alcuni dicono, si riconoscesse più in Francesco che in Domenico: semmai potrebbe essere vero il contrario; ma, in verità, in lui, come abbiamo visto, ambedue i santi sono ugualmente energici. Il fatto è che nel secolo intercorso, all’incirca, tra la predicazione di Francesco e la stesura della Commedia, della biografia del santo si era impadronita una ricchissima tradizione francescana, storica e leggendaria; il che non era avvenuto per la biografia di Domenico: e ciò basta a spigare la già da noi osservata minore articolazione di quest’ultima rispetto all’altra. Per esempio, si è osservato che, alla morte di Francesco, sono dedicate tre terzine (vv. 109-117), mentre addirittura si tace di quella di Domenico, sebbene Dante stesso avesse certo visto a Bologna il sepolcro di lui: ma ciò perché il trapasso di Domenico non aveva avuto, secondo le fonti domenicane, la drammaticità inconsueta e l’esemplarità di quello di Francesco, definitivo suggello allo sposalizio con la Povertà. È perciò che la biografia poetica del santo assisiate, dopo la descrizione del luogo di nascita, si sviluppa con i suoi episodi principali (viaggio missionario in Oriente, le stimmate, la morte esemplare) dal v. 55 al 117, per sessantatré versi, mentre quella di Domenico, parimenti dopo la designazione della patria, abbraccia solo ventun versi, dal v. 82 al 102 – senza alcun episodio; e la sua attività vera e propria di difensore della fede contro gli eretici non occupa più di sei versi (vv. 97-102). Ma oltre che della maggiore o minore abbondanza di materiale biografico, bisogna tener conto del fatto che la lotta contro le eresie era, per Dante, sì, un fatto importante, ma la lode della Povertà (cioè della necessità del rigetto, da parte dei religiosi, di ogni bene temporale), costituiva la base stessa del suo pensiero politico-teologico.

Tuttavia, a Dante premeva, per le ragioni già addotte, che i due canti fossero anche quantitativamente pari e ciò lo indusse a diffondersi per quindici versi (vv. 55-66; 73-78) su presagi di santità e di predestinazione divina prima della nascita di Domenico e subito dopo; e per altri nove (vv. 67-72; 79-81) sulle etimologie del nome del santo e di quelli dei suoi genitori, misteriosi presagi anch’essi: l’una e l’altra cosa mancano nella biografia poetica di Francesco, giacché nella mente del poeta si affollano argomenti più importanti. Innegabile pare nel canto XII una certa sovrabbondanza di decorazione letteraria, una certa lentezza nel procedere del discorso. Si considerino i primi ventisette versi, sul sopraggiungere della seconda corona di beati. Dapprima, per darci un’idea della dolcezza del loro canto, il poeta ricorre a due miti (le Muse, le Sirene) e a una nozione scientifica (la luce diretta vince in intensità quella riflessa). Poi, in una similitudine principale (le due corone = doppio arcobaleno) se ne inserisce una subalterna (l’arcobaleno esterno, generato per riflessione da quello interno, è paragonato all’eco che si produce per riflessione del suono), nel quale paragone secondario è inclusa una rievocazione mitologica (la ninfa Eco, ridotta per amore alla sola voce), nella quale ultima, ancora, è inclusa una terza similitudine (l’amore consumò Eco come il Sole consuma i vapori). Da questa complessa struttura a incastro dipendono ancora altre decorazioni: l’arcobaleno richiama il mito di Iris, messaggera di Giunone, e un’altra notazione scientifica (o creduta tale da Dante) sulla causa dell’arcobaleno esterno suggerisce il patto tra Dio e gli uomini dopo il diluvio universale: l’apparizione dell’arcobaleno lo sancì, donde la certezza per gli uomini che il cataclisma non si sarebbe più ripetuto. Infine, le anime sono paragonate a rose che formano ghirlande e, poi, per l’assoluta concordia con cui esse tutte insieme si fermano e cessano di cantare, alle palpebre che si aprono e si chiudono nello stesso istante. La sovrabbondanza è osservabile per tutto il canto: si consideri la terzina vv. 112-114, nella quale due immagini eterogenee, dell’orbita della mola e della botte ammuffita, si giustappongono senza fondersi. Tale sovrabbondanza e lentezza nel discorso è caso non frequente ma non isolato nel poema: si può, per esempio, notare che al principio del canto successivo, ancora a proposito della doppia corona; anche lì probabilmente perché la materia scarseggiava per una giusta misura di canto.

 

Canto XI

London, British Library, MS. Yates Thomson 36, Dante Alighieri, Divina Commedia (1444-1450 c.), f. 147. Dante e Beatrice, nella Cielo del Sole, incontrano la prima Corona dei beati; S. Tommaso, accompagnato da Sigieri di Brabante, introduce la schiera dei Dottori della Chiesa.

 

O insensata cura de’ mortali,

quanto son difettivi silogismi

quei che ti fanno in basso batter l’ali[1]!                                                                        3

Chi dietro a iura, e chi ad amforismi

sen giva, e chi seguendo sacerdozio,

e chi regnar per forza o per sofismi,                                                                            6

e chi rubare e chi civil negozio,

chi nel diletto de la carne involto

s’affaticava e chi si dava a l’ozio[2],                                                                              9

quando, da tutte queste cose sciolto[3],

con Bëatrice m’era suso in cielo

cotanto glorïosamente[4] accolto.                                                                                12

Poi che[5] ciascuno[6] fu tornato ne lo[7]

punto del cerchio in che avanti s’era,

fermossi, come a candellier candelo[8].                                                                      15

E io senti’ dentro a quella lumera

che pria m’avea parlato[9], sorridendo

incominciar, faccendosi più mera[10]:                                                                          18

«Così com’io del suo raggio resplendo,

sì, riguardando ne la luce etterna,

li tuoi pensieri onde cagioni apprendo[11].                                                                   21

Tu dubbi[12], e hai voler che si ricerna

in sì aperta e ‘n sì distesa lingua

lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna[13],                                                                    24

ove dinanzi dissi “U’ ben s’impingua”[14],

e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”[15];

e qui è uopo che ben si distingua[16].                                                                           27

La provedenza, che governa il mondo

con quel consiglio nel quale ogne aspetto

creato è vinto pria che vada al fondo,                                                                        30

però che andasse ver’ lo suo diletto

la sposa di colui ch’ad alte grida

disposò lei col sangue benedetto,                                                                              33

in sé sicura e anche a lui più fida,

due principi ordinò in suo favore,

che quinci e quindi le fosser per guida[17].                                                                  36

L’un fu tutto serafico in ardore;

l’altro per sapïenza in terra fue

di cherubica luce uno splendore[18].                                                                             39

De l’un dirò, però che d’amendue

si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,

perch’ad un fine fur l’opere sue[19].                                                                             42

Intra Tupino e l’acqua che discende

del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende,                                                                               45

onde Perugia sente freddo e caldo

da Porta Sole; e di rietro le piange

per grave giogo Nocera con Gualdo[20].                                                                      48

Di questa costa[21], là dov’ella frange

più sua rattezza[22], nacque al mondo un sole[23],

come fa questo tal volta di Gange[24].                                                                          51

Però chi d’esso loco fa parole,

non dica Ascesi[25], ché direbbe corto,

ma Orïente[26], se proprio dir vuole.                                                                            54

Non era ancor molto lontan da l’orto[27],

ch’el cominciò a far sentir la terra

de la sua gran virtute alcun conforto[28];                                                                      57

ché[29] per tal donna, giovinetto, in guerra

del padre corse[30], a cui, come a la morte,

la porta del piacer nessun diserra[31];                                                                           60

e dinanzi a la sua spirital corte

et coram patre le si fece unito;

poscia di dì in dì l’amò più forte.                                                                              63

Questa, privata del primo marito[32],

millecent’anni e più[33] dispetta e scura

fino a costui si stette sanza invito;                                                                            66

né valse udir che la trovò sicura

con Amiclate, al suon de la sua voce,

colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura[34];                                                                          69

né valse esser costante né feroce,

sì che, dove Maria rimase giuso,

ella con Cristo pianse in su la croce[35].                                                                       72

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,

Francesco e Povertà per questi amanti

prendi oramai nel mio parlar diffuso[36].                                                                     75

La lor concordia e i lor lieti sembianti,

amore e maraviglia e dolce sguardo

facieno esser cagion di pensier santi[37];                                                                      78

tanto che ‘l venerabile Bernardo[38]

si scalzò[39] prima, e dietro a tanta pace

corse e, correndo, li parve esser tardo[40].                                                                    81

Oh ignota ricchezza[41]! oh ben ferace!

Scalzasi Egidio[42], scalzasi Silvestro[43]

dietro a lo sposo, sì la sposa piace.                                                                           84

Indi sen va[44] quel padre e quel maestro

con la sua donna e con quella famiglia

che già legava l’umile capestro[45].                                                                              87

Né li gravò viltà di cuor le ciglia

per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a maraviglia[46];                                                                          90

ma regalmente[47] sua dura intenzione

ad Innocenzio[48] aperse, e da lui ebbe

primo sigillo[49] a sua religïone[50].                                                                                93

Poi che la gente poverella crebbe[51]

dietro a costui, la cui mirabil vita

meglio in gloria del ciel si canterebbe[52],                                                                   96

di seconda corona redimita

fu per Onorio da l’Etterno Spiro

la santa voglia d’esto archimandrita[53].                                                                      99

E poi che, per la sete del martiro[54],

ne la presenza del Soldan superba

predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro[55],                                                                   102

e per trovare a conversione acerba

troppo la gente e per non stare indarno[56],

redissi al frutto de l’italica erba,                                                                              105

nel crudo sasso intra Tevero e Arno[57]

da Cristo prese l’ultimo sigillo[58],

che le sue membra due anni portarno.                                                                     108

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo

piacque di trarlo suso a la mercede

ch’el meritò nel suo farsi pusillo,                                                                            111

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede,

raccomandò la donna sua più cara,

e comandò che l’amassero a fede;                                                                           114

e del suo grembo l’anima preclara

mover si volle, tornando al suo regno,

e al suo corpo non volle altra bara[59].                                                                       117

Pensa oramai qual fu colui che degno

collega fu a mantener la barca

di Pietro in alto mar per dritto segno[60];                                                                   120

e questo fu il nostro patrïarca[61];

per che qual segue lui, com’el comanda,

discerner puoi che buone merce carca.                                                                    123

Ma ‘l suo pecuglio[62] di nova vivanda

è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote

che per diversi salti non si spanda;                                                                          126

e quanto le sue pecore remote

e vagabunde più da esso vanno,

più tornano a l’ovil di latte vòte.                                                                             129

Ben son di quelle[63] che temono ‘l danno

e stringonsi al pastor; ma son sì poche,

che le cappe fornisce poco panno[64].                                                                        132

Or, se le mie parole non son fioche,

se la tua audïenza è stata attenta,

se ciò ch’è detto a la mente revoche,                                                                       135

in parte fia la tua voglia contenta,

perché vedrai la pianta onde si scheggia[65],

e vedra’ il corrègger che argomenta                                                                        138

“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”»[66].

 

 

***

 

Canto XII

London, British Library, MS. Yates Thomson 36, Dante Alighieri, Divina Commedia (1444-1450 c.), f. 150. Dante e Beatrice incontrano S. Bonaventura, mentre S. Domenico predica ai pagani.

 

Sì tosto come l’ultima parola

la benedetta fiamma[67] per dir tolse[68],

a rotar cominciò la santa mola[69];                                                                          3

e nel suo giro tutta non si volse

prima ch’un’altra di cerchio la chiuse[70],

e moto a moto e canto a canto colse[71];                                                                 6

canto che tanto vince nostre muse,

nostre serene in quelle dolci tube,

quanto primo splendor quel ch’e’ refuse[72].                                                           9

Come si volgon per tenera nube[73]

due archi paralelli e concolori,

quando Iunone a sua ancella iube[74],                                                                    12

nascendo di quel d’entro quel di fori[75],

a guisa del parlar di quella vaga

ch’amor consunse come sol vapori[76],                                                                         15

e fanno qui la gente esser presaga,

per lo patto[77] che Dio con Noè puose,

del mondo che già mai più non s’allaga[78]:                                                               18

così di quelle sempiterne rose

volgiensi circa noi le due ghirlande,

e sì l’estrema a l’intima rispuose.                                                                           21

Poi che ‘l tripudio[79] e l’altra festa grande[80],

sì del cantare e sì del fiammeggiarsi[81]

luce con luce gaudïose e blande[82],                                                                          24

insieme a punto e a voler[83] quetarsi,

pur come li occhi ch’al piacer che i move

conviene insieme chiudere e levarsi[84];                                                                      27

del cor de l’una de le luci nove

si mosse voce, che l’ago a la stella

parer mi fece in volgermi al suo dove[85];                                                                30

e cominciò: «L’amor[86] che mi fa bella

mi tragge a ragionar de l’altro duca[87]

per cui del mio[88] sì ben ci si favella.                                                                           33

Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca:

sì che, com’elli ad una militaro,

così la gloria loro insieme luca[89].                                                                                    36

L’essercito di Cristo[90], che sì caro

costò a rïarmar[91], dietro a la ‘nsegna

si movea tardo, sospeccioso e raro,                                                                         39

quando lo ’mperador[92] che sempre regna

provide a la milizia, ch’era in forse[93],

per sola grazia, non per esser degna[94];                                                                      42

e, come è detto[95], a sua sposa soccorse

con due campioni, al cui fare, al cui dire[96]

lo popol disvïato si raccorse[97].                                                                                          45

In quella parte ove surge ad aprire

Zefiro dolce le novelle fronde

di che si vede Europa rivestire,                                                                                       48

non molto lungi al percuoter de l’onde

dietro a le quali, per la lunga foga,

lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,                                                               51

siede la fortunata Calaroga

sotto la protezion del grande scudo

in che soggiace il leone e soggioga[98]:                                                                      54

dentro vi nacque l’amoroso drudo

de la fede cristiana, il santo atleta

benigno a’ suoi e a’ nemici crudo[99];                                                                     57

e come fu creata, fu repleta

sì la sua mente di viva vertute

che, ne la madre, lei fece profeta[100].                                                                         60

Poi che le sponsalizie fuor compiute

al sacro fonte intra lui e la Fede,

u’ si dotar di mutüa salute[101],                                                                                      63

la donna che per lui l’assenso diede[102],

vide nel sonno[103] il mirabile frutto

ch’uscir dovea di lui e de le rede;                                                                             66

e perché fosse qual era in costrutto,

quinci si mosse spirito a nomarlo

del possessivo di cui era tutto[104].                                                                                  69

Domenico fu detto; e io ne parlo

sì come de l’agricola che Cristo

elesse a l’orto suo per aiutarlo[105].                                                                                  72

Ben parve messo e famigliar[106] di Cristo:

che ‘l primo amor che ‘n lui fu manifesto,

fu al primo consiglio che diè Cristo[107].                                                                      75

Spesse fïate[108] fu tacito e desto

trovato in terra da la sua nutrice,

come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.                                                                 78

Oh padre suo veramente Felice[109]!

oh madre sua veramente Giovanna,

se, interpretata, val come si dice[110]!                                                                              81

Non per lo mondo, per cui mo s’affanna

di retro ad Ostïense e a Taddeo,

ma per amor de la verace manna                                                                               84

in picciol tempo gran dottor si feo[111];

tal che si mise a circüir la vigna

che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo[112].                                                                   87

E a la sedia che fu già benigna

più a’ poveri giusti, non per lei,

ma per colui che siede, che traligna,                                                                            90

non dispensare o due o tre per sei,

non la fortuna di prima vacante,

non decimas, quae sunt pauperum Dei,                                                                         93

addimandò, ma contro al mondo errante

licenza di combatter per lo seme

del qual ti fascian ventiquattro piante[113].                                                                   96

Poi, con dottrina e con volere insieme[114],

con l’officio appostolico[115] si mosse

quasi torrente ch’alta vena preme;                                                                        99

e ne li sterpi eretici percosse

l’impeto suo[116], più vivamente quivi[117]

dove le resistenze eran più grosse.                                                                          102

Di lui si fecer poi diversi rivi

onde l’orto catolico si riga,

sì che i suoi arbuscelli[118] stan più vivi.                                                                        105

Se tal fu l’una rota de la biga

in che la Santa Chiesa si difese

e vinse in campo la sua civil briga,                                                                   108

ben ti dovrebbe assai esser palese

l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma

dinanzi al mio venir fu sì cortese[119].                                                                    111

Ma l’orbita che fé la parte somma

di sua circunferenza, è derelitta,

sì ch’è la muffa dov’era la gromma[120].                                                                          114

La sua famiglia[121], che si mosse dritta

coi piedi a le sue orme, è tanto volta,

che quel dinanzi a quel di retro gitta[122];                                                                    117

e tosto si vedrà de la ricolta

de la mala coltura, quando il loglio

si lagnerà che l’arca li sia tolta[123].                                                                            120

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio

nostro volume, ancor troveria carta

u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”[124];                                                           123

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,

là onde vegnon tali a la scrittura,

ch’uno la fugge e altro la coarta[125].                                                                    126

Io son la vita di Bonaventura[126]

da Bagnoregio, che ne’ grandi offici[127]

sempre pospuosi la sinistra cura[128].                                                                  129

Illuminato e Augustin[129] son quici,

che fuor de’ primi scalzi poverelli[130]

che nel capestro[131] a Dio si fero amici.                                                               132

Ugo da San Vittore[132] è qui con elli,

e Pietro Mangiadore[133] e Pietro Spano[134],

lo qual giù luce[135] in dodici libelli;                                                                         135

Natàn[136] profeta e ‘l metropolitano

Crisostomo[137] e Anselmo[138] e quel Donato[139]

ch’a la prim’arte[140] degnò porre mano.                                                                 138

Rabano[141] è qui, e lucemi dallato

il calavrese abate Giovacchino,

di spirito profetico dotato[142].                                                                                  141

Ad inveggiar cotanto paladino[143]

mi mosse l’infiammata cortesia

di fra Tommaso e ’l discreto latino[144];                                                                     144

e mosse meco questa compagnia».

 

***

Note:

CONTRASTO TRA LA VANITÀ DELLE COSE UMANE E LA GLORIA CELESTE (vv. 1-12): Il poeta, accolto nel cielo del Sole dall’ineffabile dolcezza del canto dei beati e dalla danza della «gloriosa rota», pensa, per contrasto, alla vanità dei beni terreni e commisera gli uomini per la loro ottusa cecità: O insensato affanno dei mortali, quanto sono argomentazioni manchevoli quelle che ti tengono legato alla Terra! Chi seguiva le scienze giuridiche o chi quelle mediche, chi prendeva uffici religiosi, chi governava con la forza e con l’inganno, chi rubava e chi deteneva incarichi pubblici, chi si affannava rapito dalle passioni carnali e chi si dedicava all’ozio, quando io, ormai liberato da tutti questi impedimenti, ero asceso al cielo insieme a Beatrice, accolto in maniera tanto gloriosa.

[1] vv. 1-3: O… l’ali: si apre con questa terzina una specie di proemio al canto, in cui il poeta sottolinea il contrasto tra i vari affanni degli uomini, causati dalla cupidigia dei beni terreni, e la condizione felice di chi ha ormai superato le miserie del mondo per opera della Grazia divina. cura: affanno. Il latinismo è forse dovuto alla reminiscenza di un verso di Persio (Sat. I 1): O curas hominum! o quantum est in rebus inane! («O affannose cure degli uomini, o quanta vanità nelle cose umane»). La mossa analoga lucreziana (De rer. nat. II 14) citata da qualche critico, non è pertinente, perché Lucrezio non era conosciuto da Dante. difettivi silogismi: difettose, manchevoli argomentazioni. Sillogismo è un termine filosofico per indicare un’argomentazione in cui da due premesse se ne deduce logicamente una terza. Nei codici prevale la –l– scempia, invece della doppia, e perciò è stato preferito nel testo, come corrispondente maggiormente alla grafia del tempo (così anche per altri casi: palido, Caliopè, Poluce, ecc., per cui vd. Petrocchi, I 447). ti fanno… l’ali: fuori di metafora significa: «fanno volgere gli animi degli uomini ai beni e agli interessi terreni».

[2] vv. 4-9: Chi… a ozio: comincia qui la serie delle vane ambizioni terrene, del vano affannarsi dell’uomo per gli onori e per gli interessi del mondo, sottolineata dalla ripetizione chi…chi…chi, per creare poi il contrasto con la propria condizione nella terzina conclusiva (vv. 10-12). a iura: le scienze giuridiche e precisamente il diritto civile e quello canonico. amforismi: le scienze mediche, studiate allora sul famoso testo di Ippocrate, intitolato appunto Aforismi. Aforisma (o più correttamente aforismo) è propriamente un’espressione concettosa, che racchiude una sentenza: amforisma è grafia trecentesca attestata nei codici fiorentini. sen giva: se ne andava, o semplicemente andava. Il verbo regge dietro a iura, e ancora seguendo, da cui poi dipendono regnar, rubare, civil negozio, che seguono. sacerdozio: qui vale per “uffici ecclesiastici lucrativi, prebende”, cioè quelle cariche che non erano missione sacerdotale, bensì fonti di guadagno e di onori. Una condanna di questi studi non disinteressati, fatti cioè a scopo di guadagno, aveva già pronunciata il poeta nel Convivio (III xi 10): «Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano, ma per acquistare moneta o dignitade…». regnar… sofismi: governare con la violenza e con l’inganno. Il sofisma è propriamente un’argomentazione solo apparentemente rigorosa: qui vale come “frode”, “inganno”. civil negozio: le faccende politiche e, forse, in senso più lato, anche l’amministrazione familiare (cfr. Cv I i 4). Anch’esso è vano, se disgiunto dal pensiero di Dio. s’affaticava: per soddisfare le proprie passioni; il verbo, posto in forte contrasto con ozio, vuole indicare l’inutilità di questo sforzo.

[3] sciolto: ormai liberato.

[4] glorïosamente: l’avverbio, allungato nella dieresi e, per ragioni ritmiche, accentuato su entrambe le parti che lo compongono (gloriòsamènte), collocato inoltre nel centro del verso in posizione di forte rilievo, serve a sottolineare la diversità tra le miserie affannose degli uomini e la privilegiata condizione di Dante, innalzato dalla Grazia al tripudio sereno del Cielo.

DUE DUBBI DI DANTE (vv. 13-27): Dopo che la corona di spiriti luminosi ha compiuto un intero giro su se stessa e ciascuno è tornato nel punto di partenza, S. Tommaso riprende il discorso e, leggendo nel pensiero di Dante, accenna ai due dubbi che tormentano il poeta, l’uno per la frase “U’ ben s’impingua se non si vaneggia”, detta a proposito dell’ordine domenicano (cfr. Pd. X 96), e l’altro per la frase “A veder tanto non surse il secondo”, detta di Salomone (ibid. 114), e dichiara che occorre innanzitutto procedere distinguendo: Dopo che ognuno fu tornato nella parte di cerchio in cui si trovava prima, si fermò, come una candela nel candeliere. Ed io sentì all’interno di quella luce, che prima mi aveva parlato, sorridendo e facendosi sempre più luminosa, incominciare a dire: «Così come io risplendo grazie al suo raggio, così, guardando di nuovo nella luce eterna, capisco da dove provengano i tuoi dubbi. Tu dubiti e desideri che si spieghi in parole più chiare e diffuse la mia affermazione, cosicché ti sia più facile da intendere, quando prima dissi: “Dove ci si arricchisce”, e là dove dissi: “Non nacque il secondo”; e perciò è qui necessario distinguere bene».

[5] Poi che: dopo che.

[6] ciascuno: ognuno degli spiriti, che forma la corona luminosa.

[7] ne lo: rima composta, caratteristica della poesia siculo-toscana, in particolare di Guittone e dei guittoniani, che la usavano con frequenza, ricercando complessi artifici metrici. Va letta accentando il ne e facendo enclitico il lo, come nélo (altri esempi in Dante, If. VII 28; XXVIII 123; XXX 87; ecc.).

[8] come… candelo: come la candela fissa nel candeliere. Candelo è forma antica per candela (cfr. Parodi, Lingua, II, 246, 279). Nel canto precedente uno dei dodici spiriti, Dionigi Areopagita, era stato detto «cero» (Pd. X 115).

[9] quella… parlato: quella luce (lumera) che mi aveva prima parlato, cioè Tommaso d’Aquino.

[10] faccendosi più mera: facendosi più pura (mera), cioè più luminosa. Quando le anime, come questa, si accingono a sciogliere un dubbio di Dante, manifestano con una maggiore luminosità la loro letizia (qui rappresentata dal sorriso) e l’accresciuto loro ardore di carità.

[11] Così… apprendo: come io risplendo della luce di Dio, così, guardando nella sua luce, comprendo donde trai cagione (onde cagioni) dei tuoi pensieri, cioè di dove provengono i tuoi pensieri dubbiosi.

[12] Tu dubbi: tu dubiti. La forma dubbiare è altrettanto e anche più testimoniata nel poema che la forma, oggi solita, dubitare.

[13] che si ricerna… sterna: che si distingua (si ricerna) il mio dire (lo dicer mio) in parole (lingua) chiare e diffuse, cosicché esso si rende facile (si sterna) al tuo intendimento (sentir). Fin da questo esordio si nota come il linguaggio di S. Tommaso si elevi con uno stile retoricamente alto, come conviene al tema agiografico che tratterà. Infatti, convergono  questo linguaggio “sublime” i latinismi e le inversioni, come qui lo dicer mio posposto a ’n sì… lingua e l’inversione sintattica del v. 21.

[14] ove… s’impingua: cfr. v. 96 del canto precedente. Dante non ha compreso bene il significato della precisazione a proposito dell’ordine domenicano e S. Tommaso si accinge ora a chiarirglielo.

[15] e là… secondo: cfr. Pd. X 114. Questo secondo dubbio verrà chiarito da S. Tommaso nel canto XIII. Il Petrocchi ripristina la lezione della stragrande maggioranza dei codici (nacque), anche se non corrisponde all’analogo verso del canto precedente (surse), dimostrando che non occorreva che Dante riproducesse l stessa forma usata in precedenza (cfr. Petrocchi, I 232 s.).

[16] e qui… distingua: a proposito di questi due dubbi, è necessaria una distinzione, perché si tratta di argomenti di grande importanza che comportano due diffuse trattazioni ben distinte. Così per lo più s’intende. Ma non è del tutto da escludere che Dante si riferisca al secondo dubbio (qui) su Salomone, in cui occorre introdurre una distinzione, quella sviluppata nel canto XIII tra i re e gli altri uomini.

S. TOMMASO INCOMINCIA IL CHIARIMENTO DEL PRIMO DUBBIO: I DUE CAMPIONI DELLA CHIESA (vv. 28-42): S. Tommaso inizia il suo discorso, premettendo che, per venire in aiuto della Chiesa, la Provvidenza dispose il sorgere di due grandi campioni che le fossero di guida: S. Francesco e S. Domenico, diversi fra loro, ma necessari entrambi. Dire dell’uno – prosegue l’Aquinate – e dire dell’altro è la stessa cosa, perché entrambi mirarono allo stesso fine: la salvezza della Chiesa: «La Provvidenza, che governa il mondo con quei segni imperscrutabili che vanno al di là della comprensione delle menti mortali, affinché la Chiesa di Cristo, il quale la sposò versando con alte grida il sangue benedetto, andasse verso il suo amato, più sicura di sé e più fedele al suo sposo, dispose due principi in aiuto di lei, che le fossero da guida da una parte e dall’altra. Uno fu pieno di ardore mistico, come un Serafino; l’altro fu splendente, come un Cherubino, per la sapienza dimostrata in vita. Di uno dirò, anche se parlando dell’uno si loda anche l’altro, che si prenda questo o quello, poiché le azioni di entrambe furono rivolte ad un unico fine».

 

London, British Library, MS. Yates Thomson 36, Dante Alighieri, Divina Commedia (1444-1450 c.), f. 148. Tommaso d’Aquino presenta S. Domenico e S. Francesco.

 

[17] vv. 28-36: La Provedenza… guida: ha inizio qui, con questo solenne esordio, l’elogio di S. Francesco, che occupa quasi tutto il canto. Secondo l’uso agiografico del tempo, la biografia del santo si trasforma in un vero e proprio panegirico, in una luminosa esaltazione della figura del Poverello d’Assisi. Come si disse nell’Introduzione, questo e il canto successivo sono costruiti con un medesimo schema oratorio: l’azione della Provvidenza, che aiuta la Chiesa con due campioni (S. Francesco e S. Domenico), l’elogio di uno dei due santi, il biasimo della degenerazione dei due ordini. Si noti che S. Tommaso, domenicano, fa l’elogio di S. Francesco e biasima il proprio ordine; come nel canto successivo S. Bonaventura, francescano, farà l’elogio di S. Domenico e biasimerà la corruzione dei francescani. Pare che fosse uso del tempo che nelle feste dei due santi si invitasse un domenicano a tessere l’elogio di S. Francesco e un francescano a fare il panegirico di S. Domenico. E anche, poiché non mancavano al tempo del poeta, attriti tra i due ordini, Dante ha voluto con questo scambio di panegirici additare la sublime concordia del cielo in contrasto pieno ed evidente con il meschino e stolto astio terreno: si tratterebbe, cioè, di un tacito biasimo del poeta. Così, nello sviluppo di questo canto, come del successivo, il motivo celebrativo e quello polemico (la critica per la degenerazione dei due ordini) sono intimamente uniti e muovo entrambi da una medesima costatazione: la spirituale decadenza dei seguaci dei due santi fondatori. In sostanza, si tratta della presa di posizione del poeta nelle controversie sulla tesi pauperistica, che tormentava la sua epoca. Per più precise indicazioni, vd. Introduzione. Intendi questo ampio esordio così: la Provvidenza, che regola il mondo con i suoi piani imperscrutabili alle creature umane, affinché la Chiesa – sposa di Cristo – potesse procedere più sicura e più fedele al suo Sposo, mandò sulla Terra due campioni, che la guidassero uno da un lato, l’altro dall’altro. consiglio: l’infinita saggezza, l’imperscrutabile disposizione della mente di Dio. aspetto: vista, sguardo – come quasi sempre in Dante; qui vale «la vista dell’intelletto». creato: unito con forte enjambement ad «aspetto»; intendi quindi “proprio di qualsiasi creatura”, angelo o uomo che sia. vinto… fondo: vinto prima di poterlo penetrare completamente. andasse… diletto: si dirigesse verso il suo Sposo mistico: il soggetto è la Chiesa, qui designata con la perifrasi dei due versi seguenti. la sposa… benedetto: perifrasi per indicare la Chiesa. Intendi: la sposa (mistica) di colui (Gesù) che la sposò versando il proprio sangue sulla croce. Tutto il passo è intessuto di elementi scritturali: adquisivit sanguine suo (Act. Ap. XX 28); clamans voce magna (Mt. 27:50; Mc. 15:37; Lc. 23:46). in sé… fida: più sicura di sé e più fedele a lui, allo Sposo. due principi: latinismo; capi (principes): S. Francesco e S. Domenico. ordinò: stabilì, istituì, dispose. È verbo che indica la volontà divina, sia usato transitivamente (If. VII 78; Pg. XXXI 108; e qui), sia intransitivamente (Pd. IX 105). quinci e quindi: da una parte e dall’altra; uno di qua e uno di là, come nella profezia di Gioacchino da Fiore (erunt duo viri, unus hinc, alius inde); o, in senso lato, da Oriente e da Occidente, con riferimento ai due ordini e alla loro azione. Per altri, seguendo il Landino, «con la carità e con la sapienza», con evidente riferimento alla terzina seguente.

[18] L’un… splendore: bella sintesi dei due campioni della Chiesa: Francesco, acceso di mistico ardore di carità come un Serafino, Domenico, luminosamente sapiente come un Cherubino. Dante leggeva in S. Tommaso che Seraphim vero denominatur ab ardore caritatis («vengono detti “Serafini” dall’ardore di carità») e Cherubim… a scientia («“Cherubini”… dalla loro sapienza»), Summa theol. I, q. LXIII, a. 7. Il parallelo era anche in Ubertino da Casale e nella Legenda di S. Bonaventura.

[19] De l’un… sue: parlerò di Francesco, perché, lodando l’uno dei due, qualunque si prenda (in considerazione), si lodano entrambi, avendo essi operato per lo stesso scopo, cioè per il bene della Chiesa. Si noti l’espressione impersonale qual ch’om prende, in cui om (= uomo) è l’equivalente del francese on.

LA VITA DI S. FRANCESCO (vv. 43-117): con parole di piena ammirazione, S. Tommaso traccia un quadro delle grandi virtù di S. Francesco, della sua mirabile unione con Madonna Povertà e delle straordinarie opere del suo apostolato: «Tra Tupino e il fiume Chiascio che scende dal monte Asciano, scelto dal beato Ubaldo, fertile pendio che degrada dall’alto monte Subasio, da cui Perugia riceve il freddo e il caldo da Porta Sole; e dietro al monte, che incombe su di loro, Nocera e Gualdo Tadino subiscono la sua influenza. Da questa parte, in cui il pendio si fa più lieve, nacque un sole (= S. Francesco), come questo sole fa quando sorge dal Gange. Però, chi parla di questo luogo, non dica Assisi, perché sarebbe insufficiente, ma Oriente, se proprio ne vuole parlare. Non era ancora molto lontano dalla nascita, che egli fece in modo che la Terra iniziasse a sentire gli influssi positivi della sua grande virtù; dato che, ancora ragazzo, incorse nell’ira paterna per questa donna (= la Povertà) a cui nessuno, come alla morte, riserva buona accoglienza; e davanti alla curia episcopale di Assisi, in presenza del padre, si unì a lei e, giorno dopo giorno, l’amò sempre di più. Costei, privata del primo marito (= Cristo), rimase mille e cento anni ignorata e disprezzata e fino a Francesco restò senza pretendenti; né valse alla Povertà (per essere invitata o ricevuta) che gli uomini udissero che colui che a tutto il mondo fece paura (= Giulio Cesare), la trovò tranquilla e sicura al suono della sua voce insieme con Amiclate; né le valse essere fedele e fiera al fianco di Cristo, tanto che, quando Maria rimase ai piedi della croce, ella pianse sulla croce stessa con lui. Ma perché io non parli in maniera troppo oscura, sappi che questi amanti di cui sto trattando sono Francesco e la Povertà. La loro concordia e il loro aspetto felice, l’amore, la meraviglia e il loro dolce sguardo, erano il motivo di santi pensieri; tanto che il venerabile Bernardo andò in giro scalzo e corse dietro a tanta pace, ma, pur correndo, si sentiva troppo lento. O ignota ricchezza! O bene fecondo di meriti! Si scalzò Egidio, e anche Silvestro, imitando Francesco, per amore della sposa. Da qui se ne va quel padre e quel maestro con la Povertà e con quella famiglia (=l’ordine), che già era legata dall’umile cordone. Non gli fece abbassare lo sguardo la vergogna di esser figlio di Pietro Bernardone, né l’aspetto da mendicante tale da destare meraviglia, ma espose in maniera regale la propria aspra Regola ad Innocenzo III e da lui ottenne la bolla pontificia per il suo ordine. Dato che i seguaci aumentavano al suo seguito, la cui vita mirabile si celebrerebbe meglio nella gloria dei cieli, il santo intento di questo pastore fu cinto di una seconda corona dallo Spirito Santo tramite il papa Onorio III. E dopo che, per il desiderio del martirio, predicò alla presenza fastosa del Sultano la parola di Cristo e degli Apostoli, e avendo trovato la gente non ancora pronta alla conversione e per non stare ozioso, ritornò in Italia dove la richiesta era abbondante, e sull’Appennino ricevette le stimmate da Cristo, che rimasero sul suo corpo per due anni. Quando a colui che lo indirizzò a tanto bene piacque trarlo in cielo alla vita eterna, che egli meritò per essersi fatto umile, ai suoi frati, così come a giusti eredi, raccomandò la sua donna tanto amata e cara e comandò loro che l’amassero con fedeltà; e quando la sua anima volle lasciare il suo corpo, tornando al suo regno, non chiese per il suo corpo altra bara (che la nuda terra)».

 

Anonimo. Ritratto di S. Francesco. Affresco 1223. Subiaco, Monastero d S. Benedetto (o Santuario del Sacro Speco).

 

[20] vv. 43-48. Intra… Gualdo: l’ampia perifrasi per determinare la posizione geografica di Assisi rientra nel gusto retorico del tempo e se ne trovano altre simili nella Commedia (ad esempio, in Pd. VIII 58-70, nelle parole di Carlo Martello, o di Cunizza nel canto IX 25-27 e poi ancora in bocca di Folchetto, ibid. 82-93). La ricchezza di indicazioni topografiche è, invece, assolutamente evitata nella Vita nuova, dove non è mai neppure nominata la stessa Firenze. Nella Commedia Dante ha creato una geografia (Baldelli). Questa perifrasi, inoltre, corrisponde a quella del canto successivo, che indica il luogo di nascita di S. Domenico: altro elemento che caratterizza il parallelismo dei due canti. Assisi è collocata sul declivio del Monte Subasio, delimitato dalle due valli del Tupino e del Chiascio, e guarda verso Perugia, più precisamente dove si apriva in essa la Porta Sole, oggi distrutta. l’acqua… Ubaldo: perifrasi per indicare il fiume Chiascio, che scende dal Monte Ausciano, sopra Gubbio: quivi il beato Ubaldo Baldassini, poi vescovo di Gubbio tra il 1129 e il 1160, si ritirò a vita eremitica, durante la giovinezza. fertile… pende: la costiera occidentale del massiccio montuoso del Subasio, che degrada (pende) verso Perugia e sulle cui falde è costruita Assisi. Fertile è latinismo che ha questa sola occorrenza in Dante, né si trova prima di lui. Forse ne è stato Dante l’introduttore (Baldelli). Così per ferace, v. 82. onde… Sole: poiché Perugia sorge proprio dirimpetto al declivio del Subasio, essa riceve il riverbero del calore estivo e il freddo invernale dalla parte dove allora si apriva la Porta Sole. piange… giogo: le due città di Gualdo Tadino e di Nocera Umbra, situate dalla parte opposta di Perugia, dietro (di rietro) il massiccio del Subasio, che incombe su di loro (grave giogo), vengono a trovarsi in condizioni climatiche più infelici: per questo se ne dolgono (piange). Questo grave giogo va inteso, quindi, in senso geografico, in armonia con tutto il passo e per contrasto con la fertile costa del Subasio, che guarda verso Perugia. Ma ci fu, anche tra gli antichi commentatori, chi volle interpretarlo in senso politico, con allusione al dispotico dominio di Perugia sulle due città. Anacronistico, invece, il riferimento fatto dal Buti e dal Lana all’oppressione fiscale di Roberto d’Angiò, che all’epoca dell’immaginaria visione non era ancora sul trono.

[21] questa costa: quella del monte Subasio.

[22] là… rattezza: letteralmente: dove spezza, rompe la sua ripidezza, cioè dove il pendio è più dolce.

[23] nacque… sole: S. Francesco, nato nel 1182. L’immagine del sole per indicare il santo era frequente nell’agiografia francescana, oltre che solita nei testi sacri. Bernardo da Bessa, compendiando la Vita S. Francisci di Tommaso da Celano, inizia la trattazione con queste parole: quasi sol oriens in mundo beatus Franciscus vita, doctrina et mirculis claruit («quasi sole che sorge nel mondo, il beato Francesco risplendette per la vita, la dottrina e i miracoli»), e Tommaso da Celano: quasi sol refulgens, sic iste effulsit in templo Dei («quasi sole fulgente, costui rifulse nel tempo di Dio», Vita I iii 1).

[24] come… Gange: come questo Sole (quello nel cui cielo si trova S. Tommaso, che sta parlando) fa, quando sorge dal Gange, cioè dalla parte più orientale del mondo abitato, durante l’equinozio di primavera. In questo periodo, infatti, il Sole è più luminoso e si riteneva che mandasse sulla Terra influssi migliori.

[25] Ascesi: Ascesi e Scesi era la forma solita toscana di Assisi; qualche critico, per altro, ritiene che Dante pensasse a un significato simbolico del nome (secondo il concetto medievale che nomina sunt consequentia rerum): Ascesi da ascendere, in correlazione al concetto di Oriente, o Scesi da scendere, per contrasto. La forma Assisi è propria dei codici dell’area settentrionale.

[26] Orïente: perché vi nacque quel sole spirituale che fu S. Francesco. Si ricordi la nota di Benvenuto: si ergo Franciscus est appellandus sol, bene Assisium est appellandum oriens, a quo, tamquam ab oriente, ortus est dictus sol («se Francesco dev’essere detto “Sole”, ben Assisi è da chiamarsi “Oriente”, da dove, come dall’Oriente, è nato il detto Sole»). Per la genesi Francesco-Sole: Assisi-Oriente, cfr. Bosco, Dante, 321 ss.

[27] lontan da l’orto: lontano dal momento della nascita. Il latinismo (ortus) è particolarmente appropriato, perché il termine latino è in genere riferito al sorgere degli astri: si continua così la metafora del sole.

[28] ch’el… conforto: accenno ai primi atti di S. Francesco, che, all’età di ventiquattro anni, si spogliò delle proprie ricchezze e cominciò la vita ascetica e di apostolato. L’espressione a far sentir la terra vale «a far sì che la Terra sentisse». Si noti, inoltre, che i termini virtute  e conforto continuano la metafora solare, in quanto con il primo si intendeva la capacità creativa, la potenza fecondatrice, e con il secondo l’influsso benefico della virtù celeste.

[29] ché… unito: perché, ancor giovane, incorse nell’ira del padre per amore di una donna tale, a cui – come alla morte – nessuno fa buona accoglienza (la porta del piacere nessun disserra): e dinanzi alla curia episcopale (spirital corte) di Assisi e in presenza del padre (coram patre), si unì in mistiche nozze con essa. Narrano i biografi che nella primavera del 1207 Francesco, per restaurare la chiesetta di S. Damiano, offrì il ricavato della vendita di alcuni panni e di un cavallo; il padre, infuriato, lo trasse alla presenza del vescovo e pretese la rinuncia all’eredità dei suoi beni. Francesco, felice, non solo rinunciò ad essi, ma si spogliò degli abiti e li rese al padre, dimostrando così di abbandonare tutti i beni terreni e di praticare la povertà evangelica. Il fatto, ampiamente sviluppato nella letteratura francescana, è preso qui a simbolo della vita stessa del santo e il suo amore per tale donna (la Povertà) diventa il filo conduttore di tutto l’elogio posto in bocca a S. Tommaso. In genere, per la vita di S. Francesco, Dante ha seguito le più antiche fonti agiografiche, la Legenda maior e la Legenda minor di S. Bonaventura, le due Vitae di Tommaso da Celano, la Legenda trium sociorum, l’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale, lo Speculum perfectionis di fra Leone. Ma il tema delle nozze mistiche, che forma quasi il fulcro di tutto il «discreto latino» di fra Tommaso, ha il suo più diretto modello nell’opuscolo omonimo Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate.

[30] in guerra… corse: Francesco è rappresentato come un cavaliere dei poemi cavallereschi in atto di combattere per amore di una donna: ma non è forse estraneo a questa immagine il fatto che lo stesso santo assisiate amasse usare termini cavallereschi, come quello di chiamare i propri confratelli «i suoi amici della Tavola rotonda». Così subito, fin dall’inizio, la figura di Francesco appare come quella di un campione, di un paladino, e ne è spia evidente l’espressione correre in guerra di.

[31] la porta… disserra: disserrare la porta del piacere a qualcuno significa «accogliere lietamente qualcuno», «aprire l’animo con gioia a qualcuno». Per un’immagine simile, cfr. «la soglia de l’assenso» di Pg. XVIII 63.

[32] Questa… marito: la Povertà, privata del primo sposo (cioè Cristo).

[33] millecent’anni e più: quanto intervallo c’è tra la morte di Cristo e le mistiche nozze di Francesco.

[34] né valse… paura: né valse alla Povertà (per essere invitata o ricevuta) che gli uomini udissero che Cesare («colui ch’a tutto ’l mondo fé paura»), durante le guerre civili, la trovò tranquilla e sicura al suon della sua voce insieme con Amiclate. Si allude a un episodio di Lucano (Phars. V 519 ss.) in cui era narrato di un povero pescatore, Amiclate, che per l’estrema povertà non aveva timore di lasciare aperto l’uscio della sua umile capanna, nonostante le scorrerie dei soldati cesariani e pompeiani e che rimase tranquillo e imperturbato all’apparire di Cesare stesso. Dante ricordò l’episodio anche in Cv IV xiii 11-12, dove, dopo averne tradotto alcuni versi, aggiunge: «e quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta del pescatore Amiclas venne…». Dante vuol dire, insomma, che a far amare la povertà non basta nemmeno la sicurezza che essa dà.

[35] né valse… croce: né valse alla Povertà la propria costanza e la propria fedeltà verso il suo sposo, Cristo, cosicché, sul Calvario, mentre la Madonna rimase ai piedi della croce, essa salì con Gesù al suo fianco. Allusione evidente al fatto che Cristo fu crocifisso spogliato degli abiti e, quindi, in piena, assoluta povertà. Questo particolare della croce poté essere suggerito a Dante da un passo della Legenda maior bonaventuriana (XIV 4), ma il Cosmo (GD 6 [1898], p. 72) dimostrò che l’idea dantesca proviene piuttosto da un passo dell’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale, stante il contrasto voluto tra la Povertà, che sale sulla croce, e Maria che «rimase giuso». Anche nel Sacrum commercium, sopra citato, si trova qualcosa di analogo: «tu non l’abbandonasti insino alla morte… e in sulla stessa croce, dinudato e spogliato, distese le braccia e le mani confitte e li piedi, tu sola eri con lui…» (versione trecentesca in Mistici del Duecento e del Trecento, a cura di A. Levasti, Milano 1960, p. 347), dove però manca il contrasto con Maria.

[36] Francesco… diffuso: intendi ormai, nel mio esteso discorso, Francesco e Povertà per questi amanti di cui ho parlato finora.

[37] La lor… santi: mentre il senso generale è chiaro e vale pressappoco: «l’esempio di Francesco e Madonna Povertà fu esempio per gli altri», il giro sintattico della frase è meno evidente ed è stato variamente interpretato. Poiché far esser cagion vale semplicemente “essere cagione”, la migliore interpretazione è quella che fa soggetto di facieno tutti gli elementi enumerati nei vv. 76-77. Si può dunque intendere: la loro (di Francesco e di Povertà) concordia e i loro lieti sembianti, l’amore, la meraviglia e la dolce contemplazione, erano cagione di senti pensieri. Altri, invece, fanno soggetto di facieno il v. 76, cioè La lor concordia e i lor lieti sembianti, mentre il v. 77 sarebbe soggetto di esser cagion. Per la discussione sulle tre interpretazioni vd. il commento del Vandelli.

[38] Bernardo: Bernardo di Quintavalle, di nobile e antico casato assisiate, era nato intorno al 1170. Dietro l’esempio di Francesco, egli distribuì le sue ampie ricchezze ai poveri, dopo aver invitato il santo, già da tempo ammirato, nella propria casa, e dopo averlo seguito la mattina seguente. Fondò a Bologna, nel 1211, il primo convento francescano e assistette alla morte del maestro, a cui sopravvisse di parecchi anni. Nella Legenda maior (III 3), Bonaventura lo considera il primo discepolo, assai amato da Francesco per la sua virtù. Questi, infatti, lo considerava il suo primogenito. Fu sepolto nella basilica di S. Francesco ad Assisi.

[39] si scalzò: imitando Francesco, che a sua volta imitava gli Apostoli, che avevano obbedito, anche in questo, al comandamento di Cristo (Mt. 10:10; cfr. Lc. 22:35). Vd. Pd. XXI 127-129.

[40] corse… tardo: pur correndo, gli parve di aver tardato sin troppo a raggiungere la serenità della vita ascetica. La ripetizione del verbo correre e l’enjambement tra i vv. 80-81 che pone il corse in posizione di rilievo, vogliono sottolineare l’ardore del frate nel seguire le gioie della santa povertà. Si noti che Dante poté avere nell’orecchio le parole della Vita di Tommaso da Celano, che proprio a proposito di Bernardo, dicono: «dietro il Santo di Dio (Francesco) corse alacremente (cucurrit alacriter)».

[41] ignota ricchezza: gli uomini, immersi nelle vane gioie terrene, non possono conoscere l’estrema ricchezza spirituale della povertà.

[42] Egidio: nato ad Assisi nel 1190, si unì giovanissimo al santo. Gli antichi biografi lo descrivono come un uomo semplice, retto ed «estatico» per eccellenza. S. Bonaventura (Legenda maior III 4) dice: idiota et simplex ad excelsae contemplationis sublimatus est verticem e dichiara di aver visto con i suoi occhi (oculata fide conspexi) le sue estasi. Morì a Perugia nel 1262.

[43] Silvestro: prete assisiate, che, avendo sognato che la città fosse minacciata da un terribile drago, respinto poi da una croce che usciva dalla bocca di S. Francesco, si fece seguace del santo.

[44] sen va: verso la fine del 1209 (o al principio del 1210), data ai suoi frati la regola, che Bonaventura, forse secondo l’espressione stessa del santo, chiama formula vitae (Legenda maior III 8), S. Francesco si incamminò con loro verso Roma per ottenere l’approvazione papale.

[45] famiglia… capestro: si tratta del primo gruppo dei frati francescani, che formarono appunto la famiglia del santo, dopo che questi ebbe ripudiato quella naturale. Essi erano undici in tutto e portavano, sull’esempio del maestro, i fianchi cinti da una corda (capestro). Capestro è propriamente la fune con cui si legavano per la testa gli animali (cavalli, buoi, ecc.), cioè la cavezza. Francesco la usò al posto del cinturone, in segno di umiltà.

[46] Né… a maraviglia: l’esser figlio (fi’) di Pietro Bernardone, cioè di famiglia umile, e il suo aspetto di povero mendico spregevole (dispetto) da destar meraviglia, non lo costrinsero ad abbassare gli occhi per vergogna. fi’: è forma tronca propria dei dialetti toscani antichi. Pietro Bernardone: padre di Francesco, ricco mercante assisiate; quel poco che si conosce sul suo conto è tratto dai biografi del grande figlio. L’espressione era propria del santo, che, per umiltà, voleva esser detto filius Petri Bernardonis, come si legge in Bonaventura, Legenda maior VI 2.

[47] regalmente: a differenza della tradizionale immagine di Francesco, offerta dalla letteratura agiografica, Dante fece del poverello di Assisi una figura maestosa ed eroica, il santo campione della Povertà. L’avverbio, che il Mestica accosta a Pg. X 66, ben si accorda con le immagini precedenti (cfr. Bosco, Dante, 326 ss.) di una nobile lotta per ottenere il possesso della donna, la Povertà; tutta la vita del santo è intessuta di questa forma di eroica volontà, quasi una nobile ed epica impresa cavalleresca. C’è chi ha pensato ad una contrapposizione tra la modesta e vile apparenza e la fermezza e la dignità del parlare dinanzi al pontefice; c’è anche chi ha posto in relazione questo avverbio con la parabola di S. Francesco al papa, per combattere le obiezioni che gli erano state mosse sull’impossibilità di mettere in pratica la sua regola, così dura e severa; parabola in cui il santo paragonava se stesso e i propri discepoli ai figli del re, che questi ha il dovere di mantenere. Ma è certo che, nonostante ciò, Dante, a differenza della tradizione francescana, ha fatto del poverello assisiate un combattente della fede.

[48] Innocenzio: il pontefice Innocenzo III, al secolo Lotario dei Conti di Segni (1198-1216). Fu indeciso dapprima se concedere l’approvazione alla regola del santo, ma, colpito da un sogno, in cui gli parve di vedere la chiesa di S. Giovanni in Laterano, prossima a crollare, sostenuta dalle spalle di Francesco, si convinse e diede il suo placet orale. Naturalmente, il racconto del sogno, che in Dante non appare, è presente in tutte le antiche biografie del santo, ispirandosi alle quali, l’episodio non manca nella serie di affreschi giotteschi della Basilica Superiore di Assisi.

[49] sigillo: l’approvazione del papa fu solo orale, non accompagnata cioè dalla bolla pontificia di conferma. Si noti e si tenga presente il termine, che tornerà, in significato particolare, al v. 107.

[50] religïone: sta qui per “ordine”.

[51] la gente poverella crebbe: tutti i biografi del santo sono concordi nel ricordare la rapida crescita dell’ordine francescano, ma più significativa è, senz’altro, la testimonianza di un contemporaneo, Iacopo da Vitry, il quale, dopo aver accennato alla straordinaria forza dell’esempio di Francesco, per cui gente d’ogni condizione sociale correva a seguirlo, conclude: tempore enim modico adeo multiplicati sunt, quod non est aliqua Christianorum provincia, in qua aliquos de fratribus suis non habeant («In breve tempo si moltiplicarono a tal punto che non vi fu regione della terra cristiana che non abbia avuto qualcuno dei suoi frati», Hist. occ. cap. XXXII).

[52] meglio… canterebbe: per lo più si sogliono dare due interpretazioni di questo verso: la prima, con riferimento alle parole del Psal. CXIII B 9 (Non nobis, Domine, non nobis; sed nomini tuo da gloriam [«Non a noi, Signore, non a noi; ma al tuo nome dà gloria»], intenderebbe “meglio che alla persona del santo si canterebbe la sua mirabile per celebrare la gloria di Dio”; la seconda, invece, intende “meglio di quanto si faccia sulla Terra, dove i degeneri frati cantano in coro la vita del loro fondatore, si canterebbe la sua vita tra la gloria dei Santi e degli Angeli in Paradiso”. La seconda interpretazione, con il sarcastico riferimento alla degenerazione dell’ordine francescano, sembra poco consona allo spirito della celebrazione di S. Tommaso; meglio perciò la prima. Suggestiva una terza, sostenuta dal Sapegno, in cui si vuole vedere un atto di umiltà da parte di Tommaso: «la mirabile vita del santo è più degna di essere cantata dai cori celesti nell’Empireo, che qui, dalla povera parola del biografo». Un passo di Bonaventura, passato inosservato ai commentatori, sui due santi dice: Hi sunt, ut ad gloriam Dei loquamur, non nostram, duo magna lumina… (Bosco, Dante, 328 n. 14). Il passo potrebbe essere la fonte diretta di Dante e confermerebbe la prima interpretazione.

[53] di seconda… archimandrita: la santa intenzione, il santo proposito (la santa voglia) di questo pastore (archimandrita) fu cinta (redimita) di una seconda corona dallo Spirito Santo per tramite di papa Onorio. Si allude all’approvazione ufficiale della regola, fatta con bolla pontificia nel 1223 da Onorio III papa: di qui, forse, l’immagine dell’incoronazione. La solennità dello stile è data anche dal latinismo redimita e dal grecismo archimandrita, che appartiene al linguaggio ecclesiastico. Qualche antico commentatore, riferendo ad Onorio la leggenda del sogno di Innocenzo, ritiene che l’espressione da l’Eterno Spiro si riferisca alla divina ispirazione di quel sogno.

[54] per la sete del martiro: cfr. Bonaventura, Legenda maior IX 5: desiderium martyrii flagrans.

[55] ne la… ‘l seguiro: allusione al tentativo di Francesco di predicare in Oriente, dove appunto si recò con dodici frati nel 1219. Fu fatto prigioniero a S. Giovanni d’Acri e, durante la prigionia, tentò invano di convertire il sultano Malek al-Kamil e i Saraceni alla fede di Cristo.

[56] indarno: per non stare ozioso. Cfr. Bonaventura, Legenda maior II 7.

[57] nel crudo… Arno: il monte della Verna, nell’Appennino toscano, tra l’alta valle del Tevere e quella dell’Arno. «Il verso che definisce il monte, dove S. Francesco ricevette le stimmate, è di una severità che basta a ritrarre quel luogo come una delle stazioni sacre all’umanità: nulla vi è concesso al pittoresco, tutto mira al significato ideale del luogo: solitario e nudo. Non “monte”, ma sasso; e crudo, in occulta e profonda armonia con la dura vita, con la dura intenzione scandita attraverso tutta la biografia. E intra Tevero e Arno sembra isolare il crudo sasso in una più remota altezza» (Momigliano).

[58] l’ultimo sigillo: ritorna la stessa parola del v. 93. L’approvazione della regola, fatta dai due vicari di Cristo, viene solennemente confermata da Cristo medesimo e la parola sigillo – come si intona perfettamente a proposito dei due pontefici – si adatta altrettanto al miracolo delle stimmate, che sono come il materiale sigillo che Dio impresse sul corpo del santo a immagine diretta della sua passione. L’evento avvenne nell’anno 1224, quando il santo, ritiratosi sulla Verna a far penitenza, chiese a Gesù di fargli provare le sofferenze della sua passione. Cristo gli comparve in figura di Serafino con sei ali e subito apparvero i segni delle piaghe sulle mani, sui piedi e sul costato, che il santo portò fino alla sua morte, due anni dopo. S. Bonaventura, dopo aver narrato il fatto (Legenda maior XIII 3), esce in un’apostrofe a Francesco in cui appaiono queste parole: fer nihilominus sigillum summi pontificis Christi, quo verba et facta tua tamquam irreprehensibilis et authentica merito ab omnibus acceptentur! («porta nondimeno il sigillo del sommo pontefice Cristo, affinché le tue parole e le tue azioni siano da tutti accolte come irreprensibili e autentiche», ibid. 9). Non è escluso che questa bella immagine di Bonaventura sia stata l’ispiratrice di questa terzina dei tre sigilli.

[59] e del… bara: nell’ottobre 1226, sentendo prossima la morte, S. Francesco, fattosi portare alla Porziuncola, ordinò ai suoi fratelli che lo spogliassero e lo deponessero nudo sulla nuda terra, significando così, con questo ultimo atto, la sua totale dedizione alla povertà evangelica. L’episodio si trasfigura, nell’immagine dantesca, nel commiato del santo dalla sua donna nel momento supremo della morte.

 

Giotto di Bondone, L’estasi di San Francesco. Affresco, 1295-1299 ca. Assisi, Basilica Superiore.

 

BIASIMO AI DOMENICANI DEGENERATI (vv. 118-139). Terminata l’esaltazione di S. Francesco, Tommaso ne prende spunto per elogiare l’altrettanta grandezza del fondatore del suo ordine, S. Domenico, e per biasimare, con accorate e dure parole, la degenerazione dei suoi  seguaci. Pochi ormai si raccolgono vicino al pastore, la maggior parte si perde, attirata dai falsi beni della terra. Resta così spiegato, conclude l’Aquinate, il dubbio sorto a Dante dall’espressione “u’ ben s’impingua, se non si vaneggia”. «Pensa ora chi fu il degno compagno eletto a condurre la barca di Pietro (= la Chiesa) sul mare burrascoso [della Storia] sulla giusta rotta; e costui fu il nostro fondatore; pertanto, sei in grado di comprendere bene quali meriti possa avere chi lo segua, obbedendo alla sua Regola. Ma il suo gregge è diventato ghiotto di nuovi cibi, così che non può non disperdersi per pascoli ignoti e lontani; e quanto più le sue pecore, sole e vagabonde, si allontanano dal gregge, tanto più rientrano all’ovile prive di latte. Ce ne sono alcune che per paura dell’errore si stringono di più al pastore; ma sono assai poche, che poco panno basta a fornirle di cappe. Ora, se le mie parole non sono state troppo vaghe, se tu mi hai ascoltato con attenzione e se richiami alla mente quanto ti è stato detto, in parte il tuo desiderio di sapere sarà stato appagato, perché vedrai dove la pianta si scheggia e vedrai che la correzione spiega: “Dove ci si arricchisce, se non si devia dalla Regola”».

[60] Pensa… segno: la terzina segna il passaggio dal panegirico di S. Francesco al biasimo dell’ordine domenicano. Anche quest’ultima parte del discorso di Tommaso è tutta intessuta di metafore, come richiede il linguaggio solenne ed elaborato della sua oratoria. La Chiesa è rappresentata come una barca (la barca di Pietro), condotta dai due santi sulla giusta rotta (per dritto segno) anche attraverso le burrasche dell’alto mare.

[61] il nostro patrïarca: S. Domenico.

[62] ‘l suo pecuglio: il suo gregge, cioè l’ordine domenicano. La degenerazione di quest’ultimo è rappresentata attraverso l’immagine di un gregge, che, attirato da nuove vivande, si disperde, allontanandosi dal pastore, e, quando torna all’ovile, è privo di latte. La metafora – come i termini pecore, pastore, ecc. – è frequente nei Vangeli. Si intendono normalmente, fuori metafora, la «nova vivanda» come i beni terreni e gli interessi mondani e il «latte» come i meriti che non si procurano e di cui restano privi coloro che non seguono obbedienti i precetti del santo. Ma le cariche ecclesiastiche, sebbene respinte dai due santi per i propri frati, in realtà, furono sempre assunte, né d’altronde si trattava di proibizione vera e propria, bensì di raccomandazione. Perciò, sarà forse meglio intendere seguendo la chiosa di Pietro di Dante e del Buti, che interpretavano «nova vivanda» come «scienza mondana»; i frati, cioè, seguendo studi profani e non teologici, tornano all’ovile privi di latte, perché non si sono convenientemente nutriti.

[63] di quelle: ci sono alcuni frati, che, temendo il danno che deriverebbe loro dall’allontanarsi dal maestro, si stringono intorno a lui, cioè ne seguono l’esempio.

[64] che… panno: che basta poco panno a fornirli di cappa. Si noti l’improvviso passaggio dal linguaggio figurato (gregge, pastore, pascoli, ecc.) a quello normale.

[65] perché… scheggia: perché vedrai donde si scheggia la pianta, cioè vedrai la causa della corruzione dell’ordine. Ma si intese anche altrimenti per evitare l’inversione sintattica (d’altronde, non nuova in Dante: cfr., ad esempio, per questo stesso canto il v. 21); vedrai, conoscerai la pianta (cioè l’ordine domenicano) da cui io levo le schegge, cioè «a chi io rivolga il mio biasimo». Altri ancora: vedrai, conoscerai la pianta (l’ordine) di cui si distaccano i più valenti per farne vescovi, alti prelati, ecc. Sembra indubbiamente migliore la prima interpretazione data.

[66] e vedra’… vaneggia: e vedrai che quella correzione (quell’inciso se non si vaneggia) chiarisce e spiega (argomenta) l’espressione: “U’ ben s’impingua”. Sembra la più logica delle interpretazioni, ma ci fu chi lesse correggér, intendendo con questo termine il frate domenicano (detto così per la correggia, onde è cinto, a differenza del francescano capestro) e interpretando il passo così: “intenderai che cosa abbia voluto dire il domenicano che ti sta parlando (cioè io) con l’espressione ‘U’ ben s’impingua, se non si vaneggia’”. Ma, come disse il Petrocchi, accentando, come nella lezione a testo, tale interpretazione «risulta faticosa, mentre con bella perspicuità corrègger viene a ricordare che il precedente detto u’ ben s’impingua venne corretto mediante la condizione se non si vaneggia». Una proposta, che il Parodi definì «molto acuta e da tenerne conto» (Bull. XVIII 303), è stata avanzata dal Porena, che intende corrègger un infinito sostantivato con il valore di “ammonizione”, ma che propriamente continua la metafora. Corregger le pecore significa “guidare, condurre” e il verso varrebbe: “vedrai che guida vorrebbero essere alle pecore dell’ordine le mie parole u’ ben s’impingua, ecc.”

 

Jacobello dalle Massegne, Gruppo di studenti universitari. Bassorilievo, marmo, 1383-86 dalla tomba di Giovanni da Legnano. Bologna, Chiesa di s. Domenico.

 

DANZA E APPARIZIONE DELLA SECONDA CORONA DI BEATI (vv. 1-21): Non appena la benedetta fiamma (= S. Tommaso) ebbe detto l’ultima parola, la corona dei cominciò a ruotare orizzontalmente; e non compì un giro completo, prima che una seconda corona la circondasse, accordando ad essa il proprio movimento e il proprio canto; un canto che vince le nostre Muse e le nostre Sirene in quei dolci strumenti, tanto quanto il raggio diretto [supera] in splendore quello che vien riflesso. Come due arcobaleni concentrici e dagli stessi colori si inarcano in una nube sottile, quando Giunone invia la sua ancella (= Iris) [ai mortali], poiché quello esterno è il riflesso di quello interno, proprio come il suono di quella ninfa (= Eco), che l’amor consumò come il Sole [dissolve] i vapori, e rendono presaga l’umanità, in virtù del patto stretto fra Dio e Noé, del fatto che il mondo non si allagherà mai più, così le due ghirlande di quelle eterne rose ruotavano intorno a noi, in modo tale che quella esterna fosse in perfetta armonia con quella interna.

[67] la benedetta fiamma: Tommaso, che aveva fin qui chiarito il dubbio di Dante.

[68] per dir tolse: prese a dire. Nonostante che il parlare di Dante abbia sempre una ferrea precisione, è consigliabile in qualche caso non eccedere in pedanteria: come qui. L’espressione, a rigore, significa “cominciò a pronunciare l’ultima parola”; si dice che è sconveniente che la corona si metta a ruotare senza aspettare che Tommaso finisca il suo discorso. Ma l’inizio e la fine del dire l’ultima parola praticamente coincidono.

[69] la santa mola: la corona dei beati. Essa si muove in cerchio, orizzontalmente, come la macina del mulino (mola). Anche nel Convivio (III v 14; 18) la rotazione del Sole, vista dal polo, è paragonata alla mola, mentre la stessa rotazione in senso verticale, cioè osservata dall’equatore, è vista «non a modo di mola, ma di rota».

[70] e nel… chiuse: e non compì l’intero giro su se stessa, che un’altra corona di dodici spiriti la circondò. Ognuno dei nuovi lumi corrisponde a uno dei primi e lo spirito di Bonaventura di questa seconda corona, che corrisponde a quello di Tommaso nella prima, tesserà il panegirico dell’altro campione della fede, S. Domenico. Così il parallelismo dei due canti, che è già stato più volte notato, diventa esatto anche nelle singole strutture.

[71] e moto… colse: e accordò moto e canto al moto e al canto dell’altra corona.

[72] canto… refuse: le Muse sono il simbolo della poesia e valgono, appunto, per quella, e le serene (le antiche Sirene, mostri mezzo donna e mezzo uccello) simboleggiano la dolcezza del canto. Così forse è meglio intendere i termini mitologici, secondo il simbolismo di una tradizione secolare. Altri, invece, vorrebbero intendere «i poeti e le cantatrici», che sembrano metafore meno adatte al senso generale della terzina. Si tratta, in sostanza, di quei canti che gli uomini immaginano abbiano il massimo della dolcezza; quello delle Muse e quello delle Sirene. Inoltre, si noti che la maggiore intensità della luce diretta rispetto a quella riflessa, qui affermata, conferma l’interpretazione, del resto certa, data a Pg. XV 16 ss.

[73] tenera nube: «è il pulviscolo acqueo in cui si forma l’arcobaleno, che è come una nube sottile» (Porena).

[74] Iunone… iube: nella mitologia classica, Iris, messaggera di Giunone, quando scendeva fra i mortali, foriera di un ordine divino, lasciava al suo passaggio l’arcobaleno. Si ricordi il verso ovidiano: nuntia Iunonis, varios induta colores («la messaggera di Giunone, vestita di vari colori», Met. I 270): la reminiscenza classica reca con sé il latinismo iube (= iubet) e la grafia latinizzante Iunone.

[75] nascendo… fori: la scienza del tempo credeva che nel fenomeno del doppio arcobaleno, quello esterno fosse il riflesso di quello interno, mentre si tratta di due rifrazioni della luce.

[76] quella vaga… vapori: perifrasi per indicare la ninfa Eco, che, innamoratasi del bel Narciso, ma non ricambiata, si lasciò consumare a poco a poco, fino a essere ridotta a mera voce (Ovid. Met. III 339-510); le sue ossa furono poi trasformate in pietra e di lei rimase una voce errante (vaga) per l’aria.

[77] patto: secondo il racconto biblico (Gn. IX 8-17), Dio, dopo il diluvio, promise a Noè di non mandare altri cataclismi e confermò il patto, facendo apparire l’arcobaleno.

[78] s’allaga: presente con valore di futuro: “si allagherà”.

BONAVENTURA COMINCIA L’ELOGIO DI S. DOMENICO (vv. 22-45): Dopo che la danza e la grande festa del canto e dello sfolgorio luminoso, fatto reciprocamente da quelle luci piene di felicità e di carità, si fermarono, con volontà concorde, nel medesimo istante, proprio come gli occhi che, obbedendo al piacere, si aprono e si chiudono simultaneamente, dall’interno di una delle nuove luci provenne una voce, che m’indusse a volgermi verso di essa come l’ago della bussola fa verso la Stella [Polare]; e disse: «La fiamma di carità, che mi abbellisce, mi spinge a parlare dell’altro condottiero cristiano (= S. Domenico), per il quale qui si parla così bene del mio (S. Francesco). È giusto che, se si parla dell’uno, si parli anche dell’altro: cosicché, poiché combatterono insieme, anche la gloria loro risplende all’unisono. L’esercito di Cristo (= la Chiesa), che fu riarmato a così caro prezzo (= con la morte di Gesù), si muoveva dietro all’insegna (= la croce) lento, esitante e scarso di numero, quando l’imperatore che regna in eterno (= Dio) provvide alla milizia che era nel dubbio, non perché ne fosse degna, ma per la sua sola grazia; e, come è [stato già] detto, soccorse la sua sposa (= la Chiesa) con due campioni (= Domenico e Francesco), le cui azioni e parole indussero il popolo sbandato a ravvedersi.

 

London, British Library, Yates Thompson 13, Book of Hours, Use of Sarum (‘The Taymouth Hours‘), secondo quarto del XIV sec., f. 182v. S. Domenico predica a un gruppo di giuristi.

 

[79] tripudio: latinismo per “danza” (tripudium).

[80] l’altra festa grande: la manifestazione di giubilo, di gioia, che si era esternata nella danza e nel corrispondersi con la luce.

[81] fiammeggiarsi: del rispondere la luce dell’una allo splendore dell’altra, come spiega il Buti. Cfr. Pd. XXII 23-24.

[82] gaudïose e blande: piene di gioia e con ardore di carità.

[83] a punto e a voler: nel medesimo istante e con volontà unanime.

[84] pur… levarsi: proprio come gli occhi, che si chiudono e si aprono simultaneamente, secondo che li muova il desiderio. Cfr. Pd. XX 147. A uno spettacolo o sensazione piacevoli, gli occhi possono reagire sia spalancandosi per possederli interamente, sia chiudendosi per eccesso di gaudio. Cfr. Petrarca, Rime LXXI 29: «Beato venir men!».

[85] l’ago… dove: la bussola era stata inventata poco tempo prima e l’immagine dell’ago, attratto dalla stella polare, era già diventata usuale termine di paragone nei poeti del Duecento. Cfr., ad es., Guinizzelli (ed. Marti, II 55): «che si drizzi l’ago ver’ la stella». Dove con il significato di «luogo proprio» anche in Pd. III 88; XXII 147; XXVII 109.

[86] L’amor: la fiamma di carità.

[87] l’altro duca: S. Domenico.

[88] del mio: di S. Francesco. Chi parla ora è, come si è detto, Bonaventura da Bagnoregio, francescano, che tesse l’elogio di Domenico. Come nel canto precedente, Tommaso d’Aquino, domenicano, aveva fatto il panegirico di Francesco, così ora è un seguace di quest’ultimo ad esaltare la figura dell’altro santo. Parallelismo e consuetudine, di cui si è già parlato nell’Introduzione (vd. supra).

[89] vv. 34-36. Degno… luca: la terzina corrisponde a quella di Pd. XI 40-42. s’induca: «indurre» (lat. inducere) con il costrutto pronominale ha il valore di «venire introdotto», «essere chiamato come partecipe», con significato comune nei classici (Hor. Sat. I ii 22; Cic. de off. III 38). ad una militaro: combatterono insieme, per il medesimo fine. Abbiamo già visto, nel canto precedente, come la figura di S. Francesco sia rappresentata non come quella dell’umile fraticello, quale compare nella letteratura agiografica, ma come quella di un eroico campione che, giovinetto, corre in guerra del padre per la conquista di una donna, che espone a Innocenzo III regalmente la propria dura intenzione. Ancor più marcata la raffigurazione guerresca di S. Domenico. Si vedrà, perciò, nel canto la massiccia presenza di vocaboli militari. luca: risplenda.

[90] L’essercito di Cristo: l’umanità redenta da Cristo con il sacrificio sulla croce.

[91] sì caro… rïarmar: perché Gesù dovette sacrificare se stesso per poter ridare agli uomini quelle armi, che occorrono a difendersi dalle insidie del demonio.

[92] lo ’mperador: Dio. Cfr. If. I 124: «Quello imperador che là sù regna».

[93] in forse: dubbiosa e in pericolo.

[94] per… degna: non perché gli uomini ne fossero degni, ma solo per un atto del suo amore infinito.

[95] come è detto: come è già stato detto da Tommaso (Pd. XI 31-36).

[96] al cui fare, al cui dire: l’espressione sintetica, che può semplicemente valere «al cui esempio e alla cui predicazione», vuol forse anche essere precisazione delle caratteristiche dei due «campioni» della Chiesa.

[97] si raccorse: dal verbo raccorgersi, cioè «ravvedersi». Cfr. Parodi, Lingua, II 288, che riporta un esempio dal Tesoretto, 1057 ss.: «doppo la sua morte [= di Erode] / si son gente raccorte / e sono oltre passati».

 

VITA DI S. DOMENICO (vv. 46-105): «In quella parte [del mondo] dove arriva il dolce Zefiro a far nascere le nuove fronde, che poi rinverdiscono l’Europa, non molto lontano dalle coste percosse dall’Oceano, dietro alle quali, dopo un lungo percorso, il Sole talvolta (= nel solstizio d’estate) tramonta, sorge la fortunata città di Calaruega, sotto la protezione del grande scudo in cui il leone sta sotto e sopra la torre (= stemma di Castiglia): lì nacque l’amoroso vassallo della Fede cristiana, il santo atleta (= difensore della Chiesa), benevolo con i suoi e crudele con i nemici; e non appena la sua anima fu creata, fu subito ripiena di viva virtù, il che indusse la madre a fare un sogno profetico prima che lui nascesse. Dopo che furono celebrate le nozze al fonte battesimale tra lui e la Fede, là dove si donarono la reciproca salvezza, la madrina vide in sogno il frutto meraviglioso che doveva essere prodotto da lui e dai suoi seguaci; e affinché il suo nome corrispondesse alla sua indole, da qui (= dal Cielo) si mosse un’ispirazione a chiamarlo col possessivo (= Domenico, “del Signore”) al quale apparteneva totalmente. Fu appunto battezzato Domenico; e io parlo di lui come del contadino che Cristo scelse come aiutante nel suo orto (=la Chiesa). Sembrò proprio un inviato e un servo di Cristo: infatti il primo amore che si vide in lui fu rivolto al primo consiglio dato da Cristo (= la povertà o l’umiltà). Molte volte la sua nutrice lo trovò sveglio e per terra, come se dicesse: “Io sono nato per questo”. Oh, quanto era davvero Felice il padre! Oh, quanto davvero la madre era Giovanna, se l’interpretazione del suo nome (= Grazia di Dio) è corretta! In breve tempo diventò un grande esperto di teologia, non per i beni terreni, per cui ci si affanna dietro l’Ostiense e Taddeo (= i manuali di diritto canonico), ma per amore della vera manna (= la sapienza divina); a tal punto che si mise a custodire la vigna di Cristo (= la Chiesa), che presto si secca, se il vignaio la trascura. E al soglio pontificio, che un tempo era più benevolo verso i poveri giusti, non per errore suo ma per quello del papa, che devia dalla giusta strada, chiese non di dare un terzo o la metà dei beni ai poveri, non di occupare il primo beneficio ecclesiastico vacante, non le decime, che sono dei poveri di Dio, ma il permesso di combattere le eresie in nome di quel seme (= la Fede) dal quale sono nate le ventiquattro piante (= le anime delle due corone) che ora ti circondano. Poi, con la dottrina e con lo zelo, ottenuto il mandato papale, si mosse come un torrente che sgorga da un’alta sorgente; e il suo vigore colpì gli sterpi eretici, con maggior forza là (= in Provenza) dove vi era maggiore resistenza (= l’eresia albigese). Da lui nacquero in seguito altri ruscelli, dai quali l’orto cattolico è irrigato, così che le sue pianticelle (= i fedeli) sono ravvivate».

 

Andrea di Bonaiuto, Croficissione con i dolenti e un frate domenicano. Olio su tavola, 1370. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

 

[98] vv. 46-54. In quella… soggioga: le tre terzine descrivono il luogo dove nacque S. Domenico e corrispondono a Pd. XI 43-48. In questi versi la designazione topografica è più indeterminata che in quelli che rappresentavano Assisi; là, infatti, il paesaggio era più familiare al poeta. Tale suggestiva indeterminatezza, però, «si fa solennemente misteriosa nell’evocazione del ‘percuotere de l’onde’ di un mare infinito agli uomini ignoto» (Di Pietro). Zefiro, o Favonio, degli antichi, era considerato il vento che soffiava da Occidente e portava i benefici effetti della primavera (cfr. Ovid. Met. I 64; 107-108). non molto… si nasconde: non molto lontano dal litorale percosso dalle onde dell’Atlantico, nel Golfo di Guascogna, dietro le quali, nel solstizio d’estate (talvolta), il Sole si nasconde agli occhi degli uomini, tramonta quasi stanco per il suo lungo corso (la lunga fuga). Durante il solstizio d’estate le giornate sono più lunghe delle notti, perciò il Sole sembra “stanco”. Calaroga: Calaruega, piccolo borgo della Vecchia Castiglia. È detta fortunata per aver dato i natali proprio a S. Domenico. grande scudo: l’insegna del re di Castiglia. in che soggiace il leone e soggioga: lo stemma castigliano è diviso in quattro parti: in una metà dello scudo si inquadrano una torre e un leone, l’una sopra l’altro, nell’altra metà all’inverso (nel quarto alto il leone, nel quarto inferiore la torre). Perciò, è detto che il leone soggiace (alla torre) in una metà dello scudo, soggioga (la torre) nell’altra.

[99]   vv. 55-57. dentro… crudo: i tre versi corrispondono a Pd. XI 49-51. Anche la figura di Domenico è vista in una dimensione eroica (il santo atleta), anzi, tutta la sua azione apparirà quale quella di un combattente e sarà paragonata al violente impeto di un torrente montano. nacque: nel 1170. drudo: la parola è utilizzata nel senso di «vassallo, colui che è al servizio di qualcuno» ed è un termine feudale di derivazione germanica (drud, “fedelissimo”), ma passato attraverso il latino ecclesiastico drudus con il significato di “credente”. In Dante si trova anche con il senso di «amante»; ha valore dispregiativo in If. XVIII 134; Pg. XXXII 155. Cfr. E.D. II, s.v. atleta: il senso della parola, usata da Dante solo in questo verso, è certo quello che aveva nella letteratura agiografica, e cioè di «difensore», «combattente per far prevalere la giusta causa». In quel contesto era frequente l’espressione athleta Dei, o athleta Christi. Infatti, la corrispondente parola latina è usata da Dante nel Monarchia per indicare il combattente nei «giudizi di Dio» (cfr. Mn. II vii-viii). Bonaventura nella Legenda maior (II 2) dice di S. Francesco: novus Christi erat athleta; cfr. E.D. s.v.

[100] vv. 58-60. e come… profeta: secondo la dottrina cattolica, l’anima è infusa nel feto tra il periodo del concepimento e il momento della nascita; perciò l’anima del santo, prima ancora che il corpo vedesse la luce, cominciò a operare prodigiosamente, rendendo profeta sua madre che lo portava in grembo. Si allude alla leggenda che narra che la madre di S. Domenico sognò di partorire un cane bianco e nero (il colore dell’abito dei domenicani), che portava in bocca una fiaccola con cui incendiava il mondo. Si ricordi che tale visione è identica a quella della madre di Ezzelino da Romano (Pd. IX 28-30) e simile a quello di Ecuba, incinta di Paride. Per la vita del santo, Dante seguì, come aveva fatto per Francesco, le antiche biografie, quella di Bernardo di Guido, di Costantino di Orvieto, del beato Giordano e, forse, soprattutto quella di Teodorico d’Appoldia, che compendia tutta la tradizione precedente e che fu scritta per incarico del settimo Generale dell’Ordine, Munione di Zamora, quasi narrazione ufficiale della vita del santo.

[101] vv. 61-63. Poi… salute: la fede, ottenuta per mezzo del battesimo, liberò S. Domenico dal peccato originale ed egli, in contraccambio, la difese combattendo le eresie.

[102] la donna… diede: si tratta della madrina del battesimo, che dà l’assenso a nome del battezzando.

[103] nel sonno: in sogno. Narrano gli antichi biografi che la madrina di S. Domenico sognò il fanciullo con una stella in fronte, simbolo della sua futura missione di guida verso la salvezza; Giordano riferiva questa visione alla madre del santo. Dante poté leggerne il racconto, oltre che in Teodorico d’Appoldia, anche nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais (XXIX 94), opera assai diffusa nel Medioevo.

[104] e perché… tutto: e affinché fosse nel nome (in costrutto) quale era realmente, di qui (quinci = dal Cielo) scese l’ispirazione di dargli come nome il possessivo di colui a cui egli apparteneva totalmente (era tutto). Il nome latino Dominicus è infatti il possessivo di Dominus e vale, cioè, «del Signore». Faceva parte dell’alto stile oratorio, proprio dei panegirici, la figura dell’etimologia, perché si riteneva che esistesse un nesso tra la cosa denominata e il nome che la denominava (nomina sunt consequentia rerum). Dante leggeva in Tommaso (Summa theol. III, q. XVI, a. 3): dominicus denominative dicitur a Domino dominicus viene da Dominus»); ma soprattutto negli antichi biografi poteva leggere, ad esempio, in Bartolomeo di Trento: Dominicus, qui Domini custos, vel a Domino custoditus, etymologizatur, vel quia praecepta Domina custodivit, vel quia Dominus custodivit eum ab inimicis («Domenico, che etimologicamente vale “custode del Signore”, o “custodito dal Signore”, o perché custodì i precetti del Signore o perché il Signore lo custodì dai nemici»). Cfr. la lunga e dotta nota del Parodi in Lingua, II 388 ss. e si ricordi che già nella Vita Nuova Dante aveva usato l’artificio dell’etimologia – e non solo per ornamento retorico – per Beatrice e per la donna del Cavalcanti, madonna Primavera (cfr. Vn. XIII 4; XXIV 4). Cfr. anche Pg. XIII 109. Così sarà anche per il nome dei genitori ai vv. 79-81.

[105] vv. 71-72. l’agricola… aiutarlo: l’agricoltore che Cristo elesse, perché lo aiutasse a incrementare il suo orto (= la Chiesa). L’immagine riecheggia il linguaggio evangelico (si pensi alle parabole del seminatore, dei vignaioli, ecc.). Il termine, riferito a S. Domenico, si trova anche in Guittone (XXXVII 17). Si osservi in questa e nella terzina seguente la parola Cristo, che rima solo con se stessa, contrariamente alle norme retoriche che vietavano la rima con la medesima parola ed erano solo ammessi i termini dallo stesso suono, ma dal significato diverso (rime equivoche), come, ad esempio, porta (verbo) e porta (sostantivo), e simili. Evidentemente, Dante ha voluto, per rispetto al nome di Cristo, che esso non rimasse con altre parole. Cfr. anche Pd. XIV 104, 106, 108; XIX 104, 106, 108; e XXXII 83, 85, 87. Il D’Ovidio ha avanzato l’ipotesi che il poeta volesse con ciò far ammenda dell’aver utilizzato il nome del Signore in una volgare tenzone con l’amico Forese Donati, rimandolo con l’aggettivo tristo. Lo stesso uso profano con la medesima rima in Fiore CXVII 2-3.

[106] messo e famigliar: inviato da Cristo e suo servo devoto.

[107] ché… diè Cristo: il «primo consiglio» è quello dato da Cristo agli Apostoli, riferito da Matteo (6:25 ss.), da cui partì S. Francesco per la sua imitatio Christi, o quello dato dal Salvatore al giovane ricco (19:21)? I due passi sono paralleli, ma in entrambi il consiglio di povertà non è il primo in ordine di successione: sarà da intendere come “primo” per importanza. Altri, invece – e forse meglio –, pensano alla prima beatitudine (beati pauperes spiritu, Mt. 5:3; cfr. Pg. XII 110); ma questa propriamente, per Dante, è un incitamento all’umiltà. Alcuni infatti, anche antichi, interpretano il fatto che la nutrice trovò Domenico «seduto a terra» come segno di umiltà; altri intendono, insieme, di povertà e di mortificazione; vero è, però, che umiltà e amore della povertà, in sostanza, coincidono. D’altra parte, pare che l’accento di Dante batta su «io sono venuto a questo», attribuito al santo bambino, e dato da lui come spiegazione dell’aneddoto; cioè sulla disponibilità di Domenico, notte e giorno, ad affrontare il disagio di compiere il proprio dovere. La povertà e l’umiltà sono i mezzi che permettono tale disponibilità.

[108] Spesse fïate: molte volte.

[109] veramente Felice: felice, non solo di nome, ma di fatto, per essere padre di tanto grande santo. Dice il già citato Teodorico d’Appoldia: Generatur a patre Felice; parturitur, nutritur, fovetur a Johanna Dei gratia matre.

[110] veramente… si dice: sia nei lessici sia in Teodorico Dante leggeva che il nome ebraico Giovanna valeva «grazia di Dio», «piena di grazia»: quindi, anche il nome della madre corrispondeva a una realtà di fatto. Come per il nome di Domenico, anche quello dei genitori rientra in quella figura etimologica di cui si è parlato sopra nella nota ai vv. 67-69.

[111] vv. 82-85. Non… si feo: non per il mondo, per il desiderio di lucro e di onori, ma per amore della vera sapienza (la verace manna), si diede agli studi e in poco tempo divenne un grande dottore. Ostïense: Enrico di Susa, nato al principio del XIII secolo, insegnò diritto canonico a Bologna, a Parigi e, forse, anche in Inghilterra. Nel 1245 fu vescovo di Sisterone nel 1250 arcivescovo di Embrun: poi nel 1262 fu nominato cardinale e vescovo di Ostia, da cui gli venne la designazione di Ostiense. Morì nel 1271. I suoi volumi di diritto canonico gli diedero grande fama e furono testi fondamentali nelle scuole di diritto. L’espressione di retro ad Ostïense vale pressappoco il dietro a iura del canto precedente e va inteso come l’affannarsi dietro allo studio del diritto canonico. Taddeo: secondo alcuni, si tratta di Taddeo Pepoli, bolognese, famoso canonista, contemporaneo di Dante, ma sarebbe ripetizione del precedente. È assai più probabile che Dante voglia alludere a Taddeo d’Alderotto, fiorentino, nato intorno al 1215. Studiò medicina a Bologna e quivi insegnò, fondando una celebre scuola medica, che applicava i principi filosofici della scienza di Galeno e di Ippocrate. Morì nel 1295, lasciando una notevole quantità di opere, che divennero testi importanti e basilari in tutte le scuole medievali. Con il riferimento a questo celebre medico, si completerebbe un’espressione analoga a quella citata sopra a proposito dell’Ostiense, dietro a iura e… ad amforismi («dietro agli studi di diritto canonico e di medicina»).

[112] vv. 86-87. tal… reo: adoperò la sua immensa dottrina a favore della Chiesa, paragonata a una vigna che intristisce e si secca (imbianca), se il vignaiolo è cattivo (reo). Il vignaiolo è naturalmente il papa, che, se non adempie al proprio dovere, rovina la Chiesa.

[113] vv. 88-96. E a la sedia… piante: e alla sede pontificia (la sedia), che fu già benevola ai poveri più di quanto sia ora, non per colpa propria, ma per il pontefice (colui che siede), che si allontana dalla retta via (traligna), chiese (addimandò) di non dare solo una parte delle ricchezze destinate ai poveri (o due o tre per sei), non la fortuna del primo beneficio ecclesiastico che diventasse libero (vacante), non le decime che spettano ai poveri di Dio, ma chiese il permesso (licenza) di combattere contro il mondo sviato dell’eresia, in favore di quella fede (seme) da cui sono germogliati i ventiquattro santi (piante), che ora ti circondano (fascian), cioè le due corone di spiriti beati. Il poeta ha riprodotto in queste terzine – e in particolare ai vv. 92-93 – per bollare l’avarizia e l’ingordigia degli ecclesiastici, i termini del linguaggio dei canonisti. La struttura poi del periodo, complessa e di straordinaria efficacia nelle sue ardite inversioni, serve a dare solennità al panegirico del santo, che proprio ora vediamo nella sua azione di strenuo difensore della fede. due o tre per sei: dare solo un terzo o la metà di ciò che si doveva distribuire ai poveri. non decimas… Dei: cfr. S. Tommaso (Summa theol. II-IIae, q. LXXXVII, a. 4): decimae debent cedere in subventionem pauperum per dispensationem clericorum («le decime vanno impiegate per il soccorso dei poveri mediante la distribuzione fatta dai chierici»); cfr. Pd. XXII 82-84. La formula è propria dei canonisti e appare presso il glossatore Odofredo Denari nella sua Interpretatio in Pandectarum libros nella chiosa a Dig. III 5, 36: istae decimae debent dari pauperibus («queste decime devono essere date ai poveri»; in Le origini, a cura di A. Viscardi, B. e T. Nardi, G. Vidossi, F. Arese, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 804). licenza di combatter: l’approvazione dell’Ordine fu chiesta a papa Innocenzo III nel 1215, ma non si poté avere subito perché il Concilio Laterano aveva proibito la fondazione di nuovi Ordini. Pare perciò che il pontefice avesse dato la propria approvazione solo a voce; l’ufficializzazione del provvedimento avvenne nel dicembre 1216 per opera di Onorio III. Precedentemente, però, nel 1205, Domenico si era recato a Roma per chiedere il permesso di intraprendere una campagna contro gli eretici e tra il 1207 e il 1214 cercò di promuovere la conversione degli Albigesi – eresia per la quale era stato fondato l’Ordine dei predicatori – soprattutto con l’ardente zelo, ma senza mai macchiarsi personalmente di crudeltà e di violenza, tanto che nel giorno della terribile battaglia di Muret (12 settembre 1213) egli era in chiesa a pregare.

[114] con… insieme: con la sua grande dottrina e con zelo infaticabile.

[115] con…. appostolico: con l’appoggio e il mandato conferitogli dal pontefice.

[116] e ne li… impeto suo: e il suo impeto urtò (percosse) negli sterpi eretici. Come lo zelo del santo è paragonato a un torrente impetuoso, così le resistenze ereticali sono paragonate a sterpaglia che sbarra il passo alla corrente, la quale, però, travolge ogni impedimento.

[117] quivi: in Provenza.

[118] arbuscelli: i fedeli che seguono l’ortodossia cattolica; l’immagine è in contrapposizione con gli sterpi eretici.

 

Giotto di Bondone, Canonizzazione di S. Francesco. Affresco, 1295-1299 c. Assisi, Basilica Superiore di S. Francesco.

 

BONAVENTURA BIASIMA LA DEGENERAZIONE DEI FRANCESCANI (vv. 106-126): «Se una ruota del carro, con cui la Santa Chiesa si difese e vinse la sua guerra intestina [contro le eresie], fu tale, dovresti capire facilmente l’eccellenza dell’altra (= S. Francesco), di cui Tommaso parlò così cortesemente prima del mio arrivo. Ma il solco tracciato dalla parte superiore della ruota è ormai abbandonato, tanto che c’è muffa dove prima c’erano le incrostazioni (= c’è il male al posto del bene). I suoi frati, che prima seguivano fedelmente coi piedi le sue orme (= di Francesco), ora sono tanto deviati che camminano a ritroso; e presto ci si accorgerà del raccolto della cattiva coltura, quando il loglio (= i francescani degeneri) si lamenterà di non essere messo nel granaio (=coi francescani fedeli). Affermo comunque che, se qualcuno sfogliasse foglio per foglio tutto il nostro volume (= l’ordine), troverebbe ancora delle pagine in cui si legge “Io sono quello che ero solito essere”; ma non sarà il caso di Ubertino da Casale né di Matteo d’Acquasparta, da dove provengono frati tali che uno fugge dalla Regola francescana, l’altro la irrigidisce».

[119] vv. 106-111. Se tal… cortese: questi versi corrispondono a Pd. XI 118-123. l’una… biga: la Chiesa è paragonata a un auriga che sta su un carro a due ruote (biga) – queste sono i due santi. Cfr. Pg. XXIX 107. si difese e vinse: di nuovo due termini guerreschi. civil briga: lotta all’interno della Chiesa contro gli eretici.

[120] vv. 112-114. Ma l’orbita… gromma: questa e la terzina seguente corrispondono a Pd. XI 124-129, in cui si denunciavano le deviazioni e la corruzione dei degeneri seguaci del santo. «In tutto il discorso di Bonaventura, e più che mai, in questa coda polemica, le metafore incalzano e si accavallano con l’impeto, e anche con la confusione, di una improvvisazione retorica» (Sapegno). E ciò, si potrebbe aggiungere, rende meno efficace e vivo questo canto rispetto a quello di S. Francesco, che è più armonicamente coerente, anche nelle immagini e nelle metafore. Nel canto XI l’Ordine domenicano e il suo fondatore erano paragonati a un gregge a al pastore, per cui tutto il discorso si svolgeva su quella metafora con ordine e coerenza. Qui, per indicare la stessa cosa, si passa dall’immagine della ruota e della carreggiata, a quella del tino muffito e del loglio, per finire con quella di un volume e delle sue singole pagine. Si tratta, come si vede, di una straordinaria capacità fantastica, ma anche di un artificio retorico, sia pur quanto si vuole raffinato e sottile.

[121] La sua famiglia: i suoi frati.

[122] che… gitta: verso di difficile interpretazione letterale, anche se, nel significato generale, comprensibile. Esso vuol dire evidentemente: «cammina in senso contrario, in direzione opposta». Si può intendere per il senso letterale: «cammina ponendo la pianta del piede dove S. Francesco (e chi segue la regola) pone il calcagno». Ma il Barbi diede invece questa spiegazione, che sembra la più convincente: «Invece di spingere il piede di dietro, nella direzione di quello davanti, come fa chi vuol procedere nel suo cammino, spingono il piede davanti verso quello posteriore, ossia danno indietro rinculando» (Problemi, I 287; e ricordava la fidanza nei retrosi passi di Pg. X 123).

[123] e tosto… tolta: valga anche qui la precisa interpretazione del Barbi: «L’effetto della mala cultura si vedrà quando il loglio sarà bruciato e non potrà entrare come buon grano nell’arca: ossia i frati che, per l’uno o l’altro eccesso, si sono allontanati dalla volontà di S. Francesco, piangeranno il loro errore, quando si vedranno esclusi per sempre dal regno dei Cieli» (Con Dante, 344-346). L’immagine del loglio è di origine evangelica (la parabola della zizzania, Mt. 13: 24-30). Più difficile intendere, come vogliono alcuni, che qui Dante si riferisca alle bolle di Giovanni XXII di espulsione dall’Ordine degli spirituali dissidenti: ciò, perché nei versi seguenti (vv. 124-126) Dante condanna tutte e due le correnti francescane e non solo una di esse. All’apparente soluzione proposta dal Cosmo aggiungiamo solo, per comodità di confronto, il testo preciso della bolla papale: Quam [la Chiesa Romana] velut validissimam navem divinae gubernationis praesidio communitam nec variarum opinionum atque haererum turbines a suae unitatis conpage divellunt nec tyrannicae potestatis incursus ad ima deprimunt, quin potius inter blanditias terrenae felicitatis at asperitates sacculi felici navigatione media graditur, donec ad portum futurae beatitudinis duce Domino veniatur: in quale, velut in arca animalia munda et immunda servantur, sicut in area frumenta paleis permiscentur, quemadmodum in sagena boni pisces et mali coeunt, in agro zizania et triticum simili generatione concrescunt. (Bolla Gloriosam ecclesiam, Avignone, 23 gennaio 1318: in Bullarium franciscanum, tomo V, Roma 1898, pp. 137-142, n. 302. Il passo è a p. 140). Si noti come tutto il canto sia percorso da immagini tolte al mondo della campagna.

[124] vv. 121-123. chi… soglio: chi sfogliasse il nostro volume (l’Ordine francescano) pagina per pagina, troverebbe qualche carta su cui si potrebbe ancora leggere: “Io sono colui che ero solito essere”. Fuori di metafora il poeta ha voluto intendere che c’erano ancora dei frati che seguivano la regola dettata dal santo fondatore.

[125] vv. 124-126. ma non fia… coarta: ma questa fedeltà alla regola non si può cercare tra le due correnti, l’una dei seguaci di Ubertino da Casale, l’altra tra quelli di Matteo di Acquasparta; di essi il primo tese ad irrigidirla (coarta), l’altro ad allontanarsene (la fugge). Ubertino da Casale, nato a Casale Monferrato nel 1259, entrò nell’Ordine francescano nel 1273 e fu per parecchi anni in Toscana e in Umbria. Inviato poi a Firenze, a Santa Croce, conobbe, e ne subì il fascino, Pietro Pettinaio (cfr. Pg. XIII 128) e Pietro di Giovanni Olivi, di cui propugnò le idee. Dopo il soggiorno fiorentino fu inviato a Parigi dove rimase per nove anni insegnando teologia all’università. Sorto il contrasto in seno all’Ordine tra gli spirituali, che volevano una rigida applicazione della regola, e il resto dei frati, che ne propugnava un’interpretazione più blanda, Ubertino fu tenace difensore della prima corrente. Rimase qualche tempo ad Avignone sotto la protezione dei Cardinali Colonna e Orsini, ma, dopo la condanna papale degli spirituali, dovette passare all’Ordine benedettino; senonché, perdurando la sua tenace difesa degli spirituali, nel 1325 fu accusato di eresia e costretto a fuggire. Da quel momento in poi si perdono le sue tracce, né si conoscono la data e il luogo della sua morte. Durante il pontificato di Celestino V, ebbe il momento del suo maggior trionfo e fu allora che scrisse l’Arbor vitae crucifixae, che certo fu noto a Dante. – Matteo d’Acquasparta, entrato assai giovane nell’Ordine francescano, ne divenne generale nel 1287 e inviato da Bonifacio VIII a Firenze, come legato apostolico, paciere tra le due fazioni dei Bianchi e dei Neri. In realtà, egli fu sostenitore delle idee teocratiche del papa e cercò di avallarne le pretese su Firenze. Morì nel 1302. Durante il suo generalato, Matteo favorì l’interpretazione più blanda della regola e, perciò, Dante lo considera come il capo della corrente dei conventuali. scrittura: la Regola. coarta: latinismo: “irrigidisce”, “restringe”.

 

PRESENTAZIONE DEGLI SPIRITI CHE FORMANO LA SECONDA CORONA (vv. 127-145): «Io sono l’anima di Bonaventura da Bagnoregio, che alle alte cariche ho sempre posposto la cura per i beni mondani. Qui (= nella seconda corona) ci sono Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi, che furono tra i primi seguaci di Francesco che andarono scalzi in povertà, facendosi amici di Dio nel cinto francescano. Ugo da San Vittore è qui con loro, e Pietro Mangiadore e Pietro da Lisbona, il quale risplende in Terra nei dodici libretti che ha scritto; ci sono il profeta Natan e il metropolita Giovanni Crisostomo, Anselmo d’Aosta e quell’Elio Donato che scrisse la prima arte (= un manuale di grammatica). C’è qui Rabano Mauro, e colui che risplende al mio fianco è l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di capacità profetiche. Mi spinse a lodare un tale paladino della Chiesa (= S. Domenico) l’ardente cortesia di frate Tommaso e il suo elegante discorso; ed egli spinse me e queste altre anime a venir qui».

London, British Library, MS. Yates Thomson 36, Dante Alighieri, Divina Commedia (1444-1450 c.), f. 151. S. Bonaventura introduce i dodici spiriti che formano la seconda corona.

 

[126] Bonaventura: S. Bonaventura da Bagnoregio, al secolo Giovanni Fidanza, nacque nel 1221 a Bagnoregio, in Lazio. Entrato nel 1238, o nel 1243, nell’Ordine francescano, ne divenne generale nel 1257. Arcivescovo di York nel 1265, fu creato cardinale nel 1273. Morì l’anno successivo a Lione. Detto il Dottore Serafico, fu il più notevole rappresentante della corrente mistica del francescanesimo. Fu autore di molte opere che seguono per lo più l’indirizzo agostiniano sulla traccia del misticismo di Ugo e di Riccardo da San Vittore. L’originalità di Bonaventura sta nell’aver saputo creare la massima sintesi della mistica cattolica, compenetrandola molto abilmente con la filosofia. Tra le numerosissime sue opere possiamo ricordare almeno i Commentaria ai Libri sententiarum di Pietro Lombardo, il Breviloquium e, suo capolavoro filosofico-mistico, l’Itinerarium mentis in Deum  che Dante conobbe assai bene. Fu autore della Legenda maior e della Legenda minor, le due biografie di S. Francesco, seguite dal poeta: in qualche passo addirittura alla lettera.

[127] ne’ grandi offici: nelle grandi cariche ricoperte (generale dell’Ordine, cardinale, vescovo, ecc.).

[128] sinistra cura: l’interesse per le cose mondane.

[129] Illuminato e Augustin: Illuminato da Rieti e Agostino d’Assisi furono tra i primi seguaci di Francesco. È da pensare che, accanto a costoro, ci siano, innominati, anche altri primi francescani, tre dei quali – Bernardo, Egidio e Silvestro – sono menzionati in Pd. XI 79-84.

[130] scalzi poverelli: scalzi come gli Apostoli («magri e scalzi», Pd. XXI 128); l’accento batte sempre sulla povertà.

[131] capestro: il cordone francescano. Cfr. Pd. XI 87.

[132] Ugo da San Vittore: nato presso Yprès in Fiandra intorno al 1097, fu abate dell’abbazia di San Vittore, presso Parigi, e morì nel 1141. Fu notevole rappresentante della Scuola mistica e autore di opere filosofiche di grande spessore, tra le quali sono almeno da ricordare il De sacramentis christianae fidei e il De laude charitatis – assai lodati da Tommaso d’Aquino.

[133] Pietro Mangiadore: nato a Troyes all’inizio del XII secolo, fu decano di quella cattedrale e cancelliere dell’Università di Parigi nel 1164. Ritiratosi nel monastero di San Vittore, vi morì nel 1179. Fu autore di molte opere di materia religiosa tra le quali la più nota è stata l’Historia scholastica.

[134] Pietro Spano: noto anche come Pietro l’Ispano, Pietro di Giuliano da Lisbona nacque circa il 1226; arcivescovo di Braga e poi creato cardinale nel 1273, fu eletto papa l’8 settembre 1277 con il nome di Giovanni XXI. Morì a Viterbo nello stesso anno. Autore di opere di medicina, materia che insegnò nello studio di Siena, e di filosofia, fu particolarmente noto per il dodici libri delle Summulae logicales, qui ricordate («dodici libelli»).

[135] luce: risplende, è luminoso; cioè “è celebre”. Si noti che nelle Summulae logicales, Pietro Ispano fu avversario del nuovo Aristotelismo inaugurato da Alberto Magno e da Tommaso d’Aquino. Dante lo ricorda non tanto come papa, quanto come sapiente e filosofo.

[136] Natàn: profeta ebraico che rimproverò a David l’adulterio con Betsabea e l’uccisione del marito di lei, Uria. La qualifica di «profeta» accompagna costantemente, nei testi medievali, il suo nome.

[137] Crisostomo: S. Giovanni Crisostomo, nato ad Antiochia intorno al 345, fu patriarca metropolitano di Costantinopoli nel 398. Morì nel 407 in esilio. Fu uno dei principali Padri della Chiesa greca. Di grande eloquenza, egli meritò appunto il soprannome di Crisostomo (= “bocca d’oro”).

[138] Anselmo: nato ad Aosta nel 1033, entrato nell’Ordine benedettino, fu arcivescovo di Canterbury nel 1093. Morì nel 1109. Fu uno dei più famosi teologi e filosofi del Medioevo, autore di moltissime opere, tra le quali assai famoso il trattato sull’incarnazione dal titolo Cur Deus homo?

[139] Donato: Elio Donato, vissuto nel IV secolo, grammatico famoso e maestro di S. Girolamo; le sue opere grammaticali furono assai diffuse nel Medioevo, in particolare l’Ars grammatica, che è pervenuta.

[140] la prim’arte: la grammatica, che era appunto la prima delle arti del Trivio.

[141] Rabano: Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza, nato nel 776, fu monaco benedettino del celebre monastero di Fulda, di cui fu abate dall’822 all’842. Morì nell’856. Anch’egli autore di numerosi testi teologici ed esegetici.

[142] il calavrese… dotato: Gioacchino da Fiore, nato a Celico nel 1130 circa, fu monaco cistercense e nel 1176 abate del monastero di Corazzo. Ritiratosi sui monti della Sila, vi fondò il monastero di S. Giovanni in Fiore nel 1189; morì nel 1202. Il nuovo Ordine florense fu approvato da Celestino III nel 1196. Gioacchino scrisse molte opere tra le quali la Concordia Veteris et Novi Testamenti e l’Expositio in Apocalypsim; in esse propugnò un rinnovamento sociale e religioso della Chiesa, fondandosi su un’interpretazione mistica dei testi biblici. Molte delle sue tesi furono condannate dal Papato, alcune la prima volta nel 1215 nel Concilio Lateranense, e altre una seconda, nel 1245, da una commissione cardinalizia; ma le sue idee si diffusero largamente tra i francescani spirituali. Nelle sue opere, Gioacchino fece alcune previsioni che, secondo il Tocco, non sarebbero andate oltre i limiti dell’accorgimento umano: non profezie, quindi, ma che per tali vennero interpretate. A rendere più credibile ancora il suo spirito profetico, si aggiunsero più tardi, e andarono sotto il suo nome, molti testi di carattere visionario. Si noti che gli spirituali gioachiniani furono aspramente combattuti da Bonaventura e ora Dante lo colloca accanto al frate francescano, così come nel canto X – nella prima corona di spiriti – stava Sigieri di Brabante a fianco di Tommaso. Queste due presenze mostrano chiaramente la larghezza di pensiero di Dante e l’indipendenza del suo giudizio. L’espressione di spirito profetico dotato non è di invenzione dantesca, ma si trova nell’antifona dei Vespri che si recitava il 29 maggio, giorno fissato per la festa di Gioacchino nei monasteri florensi: Beatus Joachim, spiritu dotatus prophetico, decoratus intelligentia; errore procul haeretico, dixit futura ut praesentia.

[143] paladino: poiché con tale nome si designavano i dodici cavalieri di Carlo Magno, addetti alla sua persona, si può notare come, anche questa espressione, continui la rappresentazione eroica del santo.

[144] ’l discreto latino: il preciso discorso, le chiare parole.

 

 

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Cavalcante de’ Cavalcanti

di SANSONE M., s.v. Cavalcanti, Cavalcante de’, EncDant (1970).

Cavalcanti, Cavalcante de’. – Nobile fiorentino, vissuto sin verso il 1280, discendente da famiglia magnatizia di origine mercantesca, imparentato coi conti Guidi e Salimbeni, figlio di Schiatta e padre del poeta Guido, il primo amico di Dante.

 

Stemma della famiglia Cavalcanti. Ricostruzione. Firenze, Casa di Dante.

 

Guelfo, subì il contraccolpo degli eventi fiorentini del 1248 e del 1260. Podestà di Gubbio nel 1257, dopo Montaperti (1260) i ghibellini danneggiarono le sue case di San Pier Scheraggio, presso il Mercato Nuovo. Esule a Lucca, rientrò in patria dopo il 1266. Di lui il Boccaccio dice che fu «leggiadro e ricco cavaliere, e seguì l’oppinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali»; più severamente Benvenuto, parlando del figlio Guido, afferma che «errorem quem pater habebat ex ignorantia, ipse conabatur defendere per scientiam».

Collocato da Dante tra gli eresiarchi (VI cerchio) e specificamente tra gli epicurei, «che l’anima col corpo morta fanno» (If X 15) giace nello stesso avello da cui si leva Farinata, e del canto X dell’Inferno occupa una parte importante (vv. 52-72, 109-114).

Mentre Dante parla col magnanimo Farinata, sorge improvvisamente dalla tomba che aveva, come le altre, il coperchio levato («a la vista scoperchiata»), un’ombra, che resta visibile solo sino al mento, per essersi forse levata in ginocchio. Dopo aver guardato intorno con ansia dubitosa, per rendersi conto se altri, oltre Virgilio, si accompagnasse a Dante, chiede piangendo perché mai il figlio non sia anch’egli con i due poeti, dal momento che Dante ha meritato di compiere il prodigioso viaggio per altezza d’ingegno. E Dante, che l’ha subito riconosciuto per il modo della pena e per quelle sue parole colme di trepidante orgoglio, risponde prontamente che compie quel viaggio guidato da Virgilio, forse cui Guido vostro ebbe a disdegno. Il dannato si drizza d’improvviso come folgorato da un terribile sospetto: se, dunque, il figlio ebbe a disdegno, vuol dire che non può averlo “ora”, che cioè non è in vita. Dante esita a rispondere, sorpreso dal dubbio che poi gli chiarirà Farinata: e Cavalcante, credendo di cogliere in quell’esitazione una conferma del suo angoscioso sospetto, s’abbatte supino nella tomba e più non riappare. Poi Dante, quando Farinata gli avrà chiarita la particolare condizione dei dannati, che vedono il futuro ma non le cose presenti o immediatamente prossime, lo prega di rassicurare Cavalcante che il figlio è ancora tra i vivi, e di dirgli che il suo indugio nel rispondere era dovuto al sorgere improvviso del dubbio che ora Farinata gli ha sciolto.

L’episodio, inserito nell’altro di Farinata, di cui interrompe solo esteriormente la continuità, non solo vi si inserisce con straordinario equilibrio, ma è mirabile per intensa e veloce drammaticità e insieme per la commossa rappresentazione di un chiuso e immenso amore e orgoglio paterno. Più al fondo l’episodio – il cui carattere proprio è nell’eccezionale mobilità di gesti e di tensioni affettive – significa un omaggio di Dante al suo primo amico, Guido Cavalcanti, cui lo avevano legato a lungo identità di indirizzo letterario, e, quasi certamente, anche di suggestioni filosofiche, venate d’averroismo, e dal quale si era poi distaccato, sia per ragioni di poetica che per orientamenti speculativi. Ma è motivo totalmente riassorbito nell’attualità del movimento drammatico e psicologico, che costituisce la reale essenza dell’episodio.

Più aderente al suo rilievo artistico lo sfondo paesistico nel suo funebre silenzio cimiteriale e nel tragico bagliore di fiamme rosseggianti, e soprattutto il rapporto con il contesto, da cui riceve e cui dona rilievo: i due personaggi, Farinata e Cavalcante, vivono – senza che per questo occorra ricercare alcuna significazione o gradazione simbolica – in un’organica e dialettica unità creativa.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Urb. lat. 365 (1478 c.), Dante Alighieri, Commedia, f. 25r. If. X, 31-33 – Farinata e Cavalcante.

La storia critica dell’episodio coincide con quella di tutto il canto e dell’episodio di Farinata in ispecie, alla quale si rimanda.

Dopo che il Foscolo scoprì la singolarità poetica del canto, e pose in luce «il passaggio istantaneo – nel canto – dalle pure memorie e dalle profezie delle stragi civili alla malinconia dell’amico morente», come «uno dei contrasti di sceneggiatura e di chiaroscuro da’ quali risultano gli effetti maggiori, direi quasi tutti, delle arti di immaginazione», seguì la grande interpretazione del De Sanctis, che approfondisce, sviluppa e corregge gli accenni foscoliani, riponendo «l’interesse» dell’episodio «nei vari affetti e sentimenti da cui è travagliata l’anima di un padre» e nella tacita evocazione delle memorie giovanili. Su questa via si tennero i maggiori interpreti che seguirono, dal Parodi al Rossi, al Barbi, e poi, via via, il Romani, il Morello, il Carli e altri. Il Croce vede nell’episodio «il canto della tristezza per l’amicizia che fu già fraterna e poi è stata corrosa, se non infranta, dal corso degli avvenimenti e dal diverso atteggiarsi dei temperamenti e caratteri». Il Gramsci, con una alquanto materiale e arcaica interpretazione del nesso dialettico di struttura e poesia proposto dal Croce, vede nell’episodio, inteso nel contesto del canto, una patente confutazione di quel rapporto, per il fatto che l’episodio, nel suo pregio poetico, non si spiega senza la connessione con la nozione, affatto strutturale, della condizione delle anime di questo cerchio rispetto alla conoscenza del presente e del futuro. Più stimolante il tentativo di estensione del rapporto struttura-poesia all’altro – proposto sempre a proposito dell’episodio di Cavalcante – didascalia-azione teatrale-regia. Le nuove istanze critiche (già indicate a proposito di Farinata) intese a “storicizzare” tutta la lettura della Commedia, a smitizzare la singolarità degli episodi e a riportare a una comune misura simbolica ogni parte e personaggio del poema, espresse primamente dal Vossler e poi dal Rastelli, dall’Aglianò, dal Padoan, dal Bozzetti, dal Montano, hanno visto nell’episodio non la drammatica rappresentazione di un trepidante e disperato amore paterno o un omaggio al primo amico, ma il segno di un chiuso e pervicace orgoglio terreno, di una cecità che non riesce a sospettare che per compiere il divino viaggio non basti la sola altezza d’ingegno. Degne di rilievo inoltre, per equilibrio e novità, alcune pagine dell’Auerbach, che prospetta l’episodio attraverso la sua interpretazione figurale-realistica della Commedia, ponendo l’accento sulla perpetuità e intensità del terreno e paterno atteggiamento di pietà del Cavalcante; e del Bosco, che vede riflessa, come in Farinata, così in Cavalcante la base spirituale del conflitto che era in Dante «tra il dovere verso se stesso e il dovere verso i suoi cari», riproposto qui secondo uno specifico registro, quello del padre orgoglioso del figlio, cui brama sia conservata la dolce luce del sole.

L’episodio è anche importante per alcune notevoli difficoltà esegetiche: a parte quelle minori (la vista scoperchiata, il sospecciar, il cieco carcere, ecc.) sulle quali si è oramai raggiunta una generale concordia, restano, più importanti, il «supin ricadde», a proposito della quale espressione nessuno dei moderni è disposto a riconoscervi come gli antichi un significato simbolico (Ottimo: «“cader supino” è peccare ed è cadere in pena infernale»; Guido da Pisa «supin ricadde, idest retrorsum. Retrorsum vero cadere est peccare et poenam aeternam incurrere»), e soprattutto il verso forse cui Guido vostro ebbe a disdegno, che costituisce ancor oggi una delle più tormentate cruces dantesche. V. Cavalcanti Guido.

 

Cavalcante de’ Cavalcanti alla battaglia di Montaperti (1260). Illustrazione ricostruttiva da un sigillo di fine Duecento. Firenze, Museo Casa di Dante.

 

Bibl. – U. Foscolo, Discorso sul testo… della Commedia di Dante, Firenze 1825, §§ CXXXVIII-CXLI; F. De Sanctis, Saggi critici, a c. di L. Russo, Bari 1952, II 281; E.G. Parodi, Poesia e storia nella “Divina Commedia”, Napoli 1921, 532 ss.; B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1921, 20, 77; V. Morello, Dante Farinata Cavalcanti, Milano 1927; K. Vossler, La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata, Bari 19272, II II 67; M. Barbi, Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze 1941, 153 ss.; D. Rastelli, Restauri danteschi: Proposte per una rilettura del canto di Farinata, in ” Saggi di Umanismo Cristiano ” II (1948) 3-32; S. Aglianò, Il canto di Farinata, Lucca 1953; E. Auerbach, Mimesis, Torino 1956, 182 ss.; R. Montano, Suggerimenti per una lettura di Dante, Napoli 1956; C. Bozzetti, Storia interna del c. X dell’Inferno, in ” Studia ghisleriana ” s. 2, II, Pavia 1957, 79 ss.; G. Padoan, Il canto degli epicurei, in ” Convivium ” XXVII (1959) 12 ss.; R. Montano – G. Padoan, Per l’interpretazione del canto degli epicurei, ibid. XXVII (1960) 707 ss.; R. Montano, Storia della poesia di Dante, Napoli 1962, 422 ss.; U. Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 185 ss. Per le discussioni intorno ai più recenti indirizzi esegetici, cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino 1947, 141-144; Id., Letteratura e vita nazionale, ibid. 1950, 34-35; F. Matarrese, Interpretazioni dantesche, Bari 1957, 3-92, e M. Sansone, Il canto X dell’Inferno, Firenze 1961 (ora in Lect. Scaligera 1307 ss).

Per la vexata quaestio del disdegno di Guido: I. Del Lungo, Il disdegno di Guido, in ” Nuova Antol. ” 10 nov. 1889, 37-67 (poi in Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898); F. D’Ovidio, Studi sulla Divina Commedia, I, Caserta 1931, 235-312; S.A. Chimenz, Il “disdegno” di Guido e i suoi interpreti, in “Orientamenti culturali” I (1945) 179-188; E. Auerbach, Studi su Dante, Milano 1963, 53; Pagliaro, Ulisse 185-224; le minori cruces sono discusse o ricordate in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, Milano 1966, II 159 ss.

Gli ultimi anni di Dante a Ravenna

di NOBILI S., in «Corriere della Sera – La lettura» n° 379, p. 19.

 

Geografie/1 | Analisi sulle attribuzioni.

 

Jean-Léon Gérôme, Dante. Olio su tela, 1864.

Con il suo nuovo libro dantesco, Alberto Casadei sceglie di immergersi nel dibattito critico più recente per chiedersi cosa di Dante siamo riusciti a scoprire fino a oggi, e cosa oggi Dante stesso e la sua opera rappresentino. In Dante. Altri accertamenti e punti critici (Franco Angeli), Casadei parte dallo studio della biografia, di quella vita intorno alla quale abbiamo così pochi documenti e tanti interrogativi, chiarissima nei contorni perché lo scrittore ce ne parla nella Commedia, e altrettanto oscura nei particolari, nelle date, negli incontri, nel numero dei libri letti: come se Dante stesso, e persino gli eredi e amici, si fossero divertiti a nascondere le tracce, per trasformare la ricerca in un’indagine poliziesca che si snoda per accumulo di indizi.

Da qui il lavoro minuzioso di Casadei, che si muove tra due poli, quello dell’accertamento filologico e quello della militanza critica, dove la seconda scaturisce naturalmente dal primo: quali dei testi attribuiti a Dante si possono dichiarare autentici? È vera quella lettera indirizzata all’imperatore Arrigo VII recentemente attribuita allo scrittore, o la discussa Epistola a Cangrande della Scala, così contraddittoria alla luce della Commedia? E quale il titolo definitivo del capolavoro?

Quanto alla falsità della Quaestio de aqua et terra – la tesi universitaria che Dante avrebbe discusso a Verona, dichiarata inautentica in anni recenti perché contiene teorie scientifiche posteriori – Casadei ne trae una conseguenza importante per l’itinerario politico e biografico dell’ultimo Dante: se la Quaestio è un falso, allora Dante non si sposta da Ravenna, dove spende gli ultimi anni della sua vita, per tornare a Verona, e quindi trascorre nella città romagnola un tempo forse maggiore di quanto non si sia mai creduto. Dato certo, oltre alla Commedia e alle opere giovanili, restano le Egloghe, che il poeta scrive proprio a Ravenna sollecitato dall’amico professore di Bologna, Giovanni del Virgilio. Scrivendo a lui, Dante – che pure, a differenza di Petrarca, non svaluterà mai l’esperienza volgare a favore del latino – matura il progetto di diventare un «Virgilio moderno», ponendo così le basi dell’Umanesimo, di cui avrebbe potuto essere il padre se non fosse sopraggiunta la morte. L’ultima opera si salda così con il «teatro» del Paradiso, su cui Casadei si ferma con grande lucidità per mostrarci Dante illustratore di un «mondo possibile», in gara con i pittori del tempo nel descrivere l’aldilà, anzi superiore perché capace di inventare una lingua sempre all’altezza della materia trattata, in una tensione poetica mai sperimentata prima. Ideatore di una «mistica intellettuale» che si conclude con la visione della divinità – un Dio quasi «ologramma» –, Dante si conferma, come disse di lui Eugenio Montale, «non moderno» e tuttavia misteriosamente vicino: un contemporaneo perenne, pure nella sua lontananza.

Petrarca postmoderno

di BONAZZI M., in «Corriere della Sera – La Lettura», n° 379 (3 marzo 2019), pp. 18-19.

Maestri | Il grande poeta trecentesco è stato a suo modo un anticipatore della visione secondo cui non si può giungere a una conoscenza oggettiva della realtà. Si legga il resoconto dell’ascesa al Monte Ventoso: tutto diventa sfuggente, si scompone in un gioco di citazioni. Sullo sfondo c’è la forte rivalità con l’autore della «Divina Commedia».

Illustrazione di A. Silverini.

Quando sia iniziata l’epoca moderna esattamente non si sa. Nel 1492, con la scoperta delle Americhe, magari o nel 1517, con la crisi luterana che spacca in due il mondo della cristianità occidentale; o forse ancora nel 1543, quando Niccolò Copernico afferma che la Terra è a girare intorno al Sole e non il contrario? Difficile rispondere. Di certo sappiamo quando è iniziata l’epoca post-moderna: in un giorno ventoso del 1336, con una passeggiata. E pazienza se è cominciata prima ancora della modernità. Nel mondo del postmoderno non ci sono fatti, ma interpretazioni. Una battuta? In parte, ma la sostanza non cambia. In effetti tutto è iniziato qualche anno dopo, diciamo intorno al 1353, e la passeggiata forse non c’è neppure stata. Non fatti, appunto: interpretazioni.

Il grande progetto della modernità è quello del confronto fra il soggetto e la realtà; una realtà oggettivamente intesa, che il soggetto riesce finalmente a misurare e controllare, forte delle sue conoscenze. Un’illusione, avrebbero poi sostenuto Friedrich Nietzsche e tanti altri pensatori insieme a lui: la realtà che ci circonda è molteplice, enigmatica, oscura; una foresta di segni che rinviano ad altri segni ed entro cui il soggetto ormai frantumato si muove come in labirinto. Solo il gioco di riferimenti e citazioni può allora ridare senso a una realtà che altrimenti rischia di dissolversi. «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine», scriveva Thomas Stearns Eliot nel 1922. È una buona descrizione di quello che aveva detto Francesco Petrarca sei secoli prima.

Lo conosciamo come un poeta; se fosse vissuto ai nostri non avrebbe sfigurato neppure come filosofo, ovviamente postmoderno. Non si tratta soltanto delle invettive furibonde scagliate all’indirizzo di chi pretendeva di ridurre la filosofia a un arido esercizio di logica, come se un ragionamento formalmente corretto potesse mettere ordine nella complessità del mondo. “Barbari”, scriveva, “pronti a calare in Italia da Oxford; incapaci di scrivere, restii a ogni coinvolgimento pratico” – quando il compito della filosofia è coltivare l’arte della parola e l’impegno politico!

Non è questo soltanto. Decisiva è piuttosto la consapevolezza che la realtà da sola non dice nulla; che è solo quando la leggiamo attraverso il prisma di altri testi che essa può acquistare consistenza, in una serie di rimandi potenzialmente infiniti, e di modificazioni continue di significato. Come nel caso della famosa passeggiata sul Monte Ventoso in Provenza.

 

Altichiero, Ritratto di Francesco Petrarca e di Lombardo della Seta. Affresco, 1376 ca. Particolare di San Giorgio battezza re Servio di Cirene. Padova, Oratorio di S. Giorgio.

 

In apparenza è tutto molto semplice. C’era una montagna, bella, alta, famosa, e Petrarca aveva provato a scalarla, in compagnia del fratello Gherardo. Appena ridisceso, aveva scritto una lettera «in fretta e di getto» al frate agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, raccontandogli tutti i dettagli della sua avventura. La conclusione, però, è sospetta: che Petrarca dopo due giorni di scalata, ancora sporco e stanco, potesse vergare una lettera così forbita è da escludere. E infatti, alcuni dettagli suggeriscono che fu composta molto più tardi, una quindicina d’anni dopo. I dubbi ormai invadono tutto. Petrarca questa montagna l’ha scalata o si è inventato tutto? Perché il suo racconto è un po’ troppo fantasioso. La domanda più urgente è però un’altra. Ammettiamo pure che sia salito: ma è arrivato in vetta o no? Che cos’è successo davvero su quella cima? Sono domande difficili, che trovano una risposta possibile in un’altra lettera, indirizzata da Petrarca a un altro grande della letteratura italiana, a proposito di un altro ancora più grande.

Il destinatario era Giovanni Boccaccio, e in discussione era Dante. “Perché non lo ami?”, gli chiedeva il giovane amico, incapace di spiegarsi le ragioni del silenzio di Petrarca, o forse dando prova di una perfidia meravigliosa. Perché Dante, per Petrarca, è quello che l’ispettore Clouseau è per Dreyfus, un incubo capace di togliergli il sonno. Era acclamato come il più grande del suo tempo, Petrarca, e lo sarebbe stato per secoli. Ma anche se non lo ammetteva, lui lo sapeva: sapeva che quel toscano volgare (non sapeva neanche scrivere in un buon latino!) era più grande ancora, il più grande di tutti. Ed era vissuto solo pochi anni prima! Ma si può essere più sfortunati? Ovviamente Petrarca nega, professando un’ammirazione incondizionata. Ma è come Dreyfus, appunto, e l’irritazione traspare in ogni frase, fino a che gli scappa un commento illuminante, e tutto si chiarisce.

È quando Petrarca affonda il colpo basso, buttandola sul personale. Finge di elogiarlo e lascia cadere un giudizio pesantissimo sulla persona e su come si è comportato. È un grande Dante, scrive, e io lo ammiro molto: il suo desiderio di conoscenza era tanto intenso che non si è fatto fermare o distrarre da nulla: «Non le ingiurie dei cittadini, non l’esilio, non la povertà, non l’amore della moglie e dei figli lo distolsero dal cammino intrapreso, dal suo desiderio di gloria». Due piccoli indizi fanno una prova. Il primo: il desiderio di conoscenza che lo spinge sempre oltre. Questo non è un elogio. È una citazione, ed è una critica: Petrarca identifica Dante con il suo personaggio più famoso, con l’Ulisse dell’Inferno. Non era stato Ulisse che per desiderio di conoscenza («fatti non foste a viver come bruti…») aveva abbandonato moglie e figli («non il debito amore…»)? Il secondo indizio è la staffilata finale. È l’allusione al desiderio di gloria, che chiude la citazione: perché poi qual era davvero il desiderio di Dante? Non la conoscenza, ma la gloria – è per la gloria che ha sacrificato tutto, condannando la famiglia a una vita di stenti. Bella persona Ulisse, e bella persona Dante! Ormai siamo a un passo dalla soluzione.

Basta pensare a quale sia il tema del Canto XXVI dell’Inferno: non si parla di viaggio (lo analizza ora, nel bel saggio I giorni di Dio, edito da Mimesis, Massimo Campanini)? Improvvisamente, i viaggi si moltiplicano, e quelli immaginari diventano più importanti di quello reale. Ci sono quelli di Petrarca e suo fratello Gherardo; poi Ulisse e Dante. Sembrava una bella scampagnata, quella di Petrarca. È l sua risposta alla Divina Commedia. Che abbia scalato il monte non lo sapremo mai e non importa. Ma capire che cosa è avvenuto in cima, adesso diventa decisivo.

Iniziamo a mettere insieme le tessere del mosaico, partendo dai due opposti, Ulisse e Gherardo. Quello di Ulisse è il viaggio di chi pretende di poter raggiungere la meta fidando solo nella propria intelligenza, convinto di poter fare a meno del favore di Dio, e per questo miseramente fallisce. Gherardo è l’esatto contrario. Il racconto della sua ascesa sul Monte Ventoso è un’allegoria della sua scelta di vita. Gherardo si è fatto monaco, si è dedicato interamente a Dio. Per questo la sua ascesa è coronata dal successo. In mezzo ci sono i due contendenti, Dante e Petrarca. Apparentemente Dante è come Gherardo e Petrarca come Ulisse. Dante sul monte davanti a cui Ulisse era naufragato (il Purgatorio) era riuscito a salire; mentre Petrarca è svogliato, vacilla, tergiversa, non si capisce bene se raggiunga la meta o no. Ma non importa, in fondo. Perché quello che conta sono proprio esitazioni e oscillazioni: lì è il suo trionfo.

È l’identificazione tra Ulisse e Dante che ritorna su un piano più profondo. La colpa di Ulisse era la convinzione di poter raggiungere Dio con le sue sole forze. Ma non è la stessa cosa che ha fatto Dante, quando ha preteso di aver compiuto un viaggio nell’aldilà, unico tra tutti gli uomini? Non è un «volo» molto più «folle» di quello di Ulisse? Dante non solo è stato un cattivo padre, ma anche – quel che è peggio – uno scrittore empio (lo ripeterà anche Jorge Luis Borges, un altro che di post-moderno s’intendeva, in uno dei suoi stupendi saggi danteschi: «Dante fu Ulisse»).

Ecco perché Petrarca lascia tutto nell’incertezza, quando arriva in prossimità della cima. Se in gioco è la conquista dell’Eden, chi è lui per dire che ce l’ha fatta? La costruzione del racconto è perfetta: Petrarca è lì, fiero (in vetta? Vicino alla vetta? Non si capisce, ma ormai non importa); guarda il mondo dall’alto, sopra le nuvole, come un novello Zeus; apre le Confessioni di Sant’Agostino (un altro libro!) e quello che legge lo gela: «E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti, e trascurano se stessi». Ma chi sei tu? Chi ti credi di essere che non sai nulla e non sei nulla? È una domanda rivolta a se stesso – e ancora di più a Dante, che dal Purgatorio aveva addirittura preteso di volare in Paradiso. Petrarca invece inizia a scendere: silenzioso, racconta, meditando sulla debolezza della sua anima e di quella degli uomini. Trionfante.

Anonimo, Francesco Petrarca nello studium. Affresco murale, ultimo quarto del XIV sec. Padova, Sala dei Giganti nella Reggia carrarese.

È il trionfo dell’umiltà, ma è anche una situazione che rischia di andare fuori controllo. Come in un racconto postmoderno, la realtà si è ormai scomposta in un gioco di citazioni, e tutto si fa più sfuggente. Dio improvvisamente si fa più lontano, sparisce dalla vista. Dov’è? Il viaggio rischia di non giungere mai a destinazione. E se Dio non ci fosse, e la nostra vita fosse un errare senza destinazione? E se fossimo tutti come l’Ulisse dantesco, persi in un labirinto indecifrabile? «Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?». Così scriveva un altro filosofo scalatore, lui pure campione del postmoderno: il solito Nietzsche, in Engadina, asceso «a seimila piedi sopra il livello del mare, e ancora più in alto su tutte le cose umane».

Il cerchio si chiude intorno al povero lettore, che pensava di leggere la cronaca di una scalata e si trova sommerso dai soliti problemi esistenziali. Da dove veniamo, dove andiamo? Non riescono a stare tranquilli neppure in salita, i filosofi. Il viaggio continua.

 

«Tanto gentile e tanto onesta pare» con il commento di G. Contini

di S. Carrai (cur.), Dante Alighieri, Vita Nova, Milano, BUR, 2015 (4^ ed.), 126-128.

 

17 [1] Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi né di rispondere a lo suo saluto: e di questi molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi no ·llo credesse[1]. [2] Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!»[2]. [3] Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano i ·lloro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere no ·llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare[3]. [4] Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stile de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che per le parole ne posso fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile[4].

 

[5] Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l’ardiscono di guardare[5];

 

[6] ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare[6].

 

[7] Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ’ntender no ·lla può chi no ·lla prova:

 

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: Sospira[7].

 

[8] Questo sonetto è sì piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d’alcuna divisione; e però lassando lui, dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era adorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte[8]. […]

 

 

 

Dante Gabriel Rossetti, The Salutation of Beatrice. Olio e foglia d’oro su tavola di conifera, 1859-1863. Ottawa, National Gallery of Canada.

 

Note:

[1] di cui ragionato è ne le precedenti parole: “di cui si è parlato nei paragrafi che precedono”, a esclusione, ovviamente, della digressione sui poeti antichi. – venne in tanta grazia de le genti: “divenne così benvoluta dalla gente”. – quando passava per via: eco di 10.20 «quando va per via», forse incrociato con il ricordo di Guinizzelli, son. Io vogl’ del ver la mia donna laudare 9 «Passa per via adorna e si gentile…». – correano per vedere lei: “accorrevano (al suo passaggio) per poterla vedere”, come per Cristo (Mc. 3, 8 «multitudo magna, audientes quae faciebat, venerunt ad eum»). – mirabile letizia me ne giungea: “me ne derivava una straordinaria gioia”. – non ardia: “non aveva coraggio”, per effetto del pudore. – levare: “sollevare”. – sì come esperti: “per averne fatto esperienza diretta.

[2] coronata e vestita d’umilitade s’andava: “procedeva come se avesse in testa una corona fatta di umiltà e come se fosse rivestita del medesimo sentimento”; metafora simile in Brunetto, Tesoretto 34-35 «voi corona e manto / portate di franchezza». – nulla gloria: “nessuna compiacenza” (De Robertis) o anche “nessun vanto”. – Questa non è femmina: “Costei non è una donna comune”, cfr. 10.12; parafrasato da Cino, son. Li vostri occhi gentili e pien d’ardore 13 «Questa non è terrena creatura». – che benedetto … sae adoperare: “sia benedetto Dio il quale sa fare tali miracoli”; formula di gusto biblico, per es. Ps. 71, 18 «Benedictus Dominus Deus Israel, qui facit mirabilia».

[3] di tutti li piaceri: “di ogni attrattiva”. – miravano: “guardavano”. – comprendeano i ·lloro: “concepivano dentro di loro” (si noti qui e nel prosieguo del paragrafo il raddoppiamento consonantico per effetto dell’assimilazione in fonosintassi). – nel principio nol convenisse: “immediatamente non fosse costretto a”.

[4] virtuosamente: “grazie alla sua virtù”. – ripigliare lo stilo de la sua loda: riprendere cioè quella maniera elogiativa della donna illustrata nel paragrafo 10 e messa in pratica nei paragrafi 11 e 12; loda è metaplasmo di genere comune nella lingua antica. – propuosi: “mi proposi”. – dessi ad intendere… operazioni: “facessi capire gli effetti miracolosi e sublimi che promanavano da lei”. – sensibilemente: cioè con i propri occhi. – per: strumentale.

[5] gentile: “nobile”. – onesta: latinismo, “piena di decoro”. – pare: “si mostra”. – altrui: indefinito, “qualcuno”. – ch’ogne lingua… muta: l’apparizione della donna fa ammutolire anche in Cavalcanti, son. Chi è questa che ven che fa tremare 3-4 «che parlare / null’omo pote»; tremando indica il tremore della lingua che tenta di parlare e non riesce a farlo per l’emozione.

[6] benignamente e d’umilità vestuta: modificando si va, “con benevolenza e coperta d’umiltà” (vestuta è sicilianismo della lingua poetica); la metafora, di tradizione biblica, era divulgata da Andrea Cappellano, De amore 2, 3 «humilitatis ornatu verstiri». – par che… mostrare: “sembra che sia un essere mandato dall’alto dei cieli sulla terra per farci vedere che cos’è un miracolo”; cfr. Guittone, Lettere 5, 3 «credo che piacesse a Lui di poner vo’ tra noi per fare meravigliare»; vedi 10.20.

[7] Mostrasi: apre la sirma riallacciandosi all’ultima parola della fronte (mostrare) legando fra loro le due parti del sonetto. – mira: “guarda”. – dà per li occhi una dolcezza al core: “inocula nel cuore attraverso gli occhi un senso di dolcezza”, secondo l’immagine consueta che qui parrebbe risentire di Cavalcanti, son. Veder poteste, quando v’iscontrai 9-11 «quando vied uscire / degli occhi vostri un lume di merzede, / che porse dentr’al cor nova dolcezza». – che ’ntender … no ·lla prova: “che chi non la prova non può comprendere”, concetto di ascendenza mistica per cui cfr. Cavalcanti, canz. Donna me prega perch’io deggio dire 53 «imaginar nol pote om che nol prova». – e par che: replica l’inizio del v. 7 accennando ad un movimento anaforico. – della sua labbia si mova: “dal suo viso si parta”, cfr. Cavalcanti, son. Veggio negli occhi de la donna mia 7 «veder mi par de la sua labbia uscire». – va dicendo: “sta dicendo”.

[8] piano: “facile”. – per lei: “grazie a lei”. – molte: “molte altre”.

 

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Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Chigiano L VIII 305 (inizi XIV sec. c.), f. 7r. Incipit della Vita Nova di Dante.

 

di G. Contini, Esercizio di interpretazione sopra un sonetto di Dante [1947], in Un’idea di Dante, Torino 1970, 21-26.

 

Passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che non richiede spiegazioni, che potrebbe «essere stato scritto ieri»; e si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell’originale. Si pone dunque, anzitutto, un problema di esegesi letterale, anzi lessicale. […]

Tradurre non significa infatti altro se non determinare il nuovo rapporto dei sinonimi e affini nella cultura rappresentata dalla nostra lingua, la nuova ripartizione, per dir così, in parole della realtà che si considera come oggettiva e costante. […]

Ben tre vocaboli del primo verso stanno in tutt’altra accezione da quella della lingua contemporanea. Gentile è ‘nobile’, termine insomma tecnico del linguaggio cortese; onesta, naturalmente latinismo, è un suo sinonimo, nel senso però del decoro esterno (si ricordi l’onestate di Virgilio compromessa dalla fretta); più importante, essenziale anzi, determinare che pare non vale già ‘sembra’, e neppure soltanto ‘appare’, ma ‘appare chiaramente, è o si manifesta nella sua evidenza’. Questo valore di pare, parola-chiave, ricompare nella seconda quartina e nella seconda terzina, cioè, in posizione strategica, in ognuno dei periodi di cui si compone il discorso del sonetto. Sembra assente nella prima terzina, ma solo perché essa si inizia con l’equivalente Mostrasi, il quale riprende l’ultima parola della seconda quartina; non si scordi che il sonetto è una strofe di canzone, in cui le quartine sono i piedi della fronte, le terzine le volte della sirma; e concluderemo che un tal collegamento tra fronte e sirma è quello medesimo che s’incontra con tanta frequenza tra le strofi della canzone arcaica (coblas capfinidas in provenzale), mettiamo la celeberrima Al cor gentile del Guinizzelli. Questo ci ha permesso di metter la mano sul concetto strutturalmente capitale del componimento. Proseguendo, s’avrà minor occasione di scoperte. Ma è opportuno segnare che donna ha esclusivamente il suo significato primitivo di ‘signora (del cuore)’, è insomma un termine con desinenza femminile puramente grammaticale, in cui il genere non segna opposizione (si pensa alla poesia portoghese del tempo, dove si può apostrofare col maschile senhor l’amata, si pensa al provenzale midons); per ‘donna’ la prosa-commento della Vita Nuova usa, in opposizione ad angeli, femmina. Ma a proposito: non bisogna attribuire a codesta prosa sopraggiunta un soverchio valore esegetico nella direzione che c’interessa: si rischierebbe di riferire (come ‘discreta’) l’onesta del sonetto alla «dolcezza onesta e soave» ricevuta in cuore dai contemplanti, o addirittura all’onestade dell’intimidito guardatore, mentre a rovescio queste ne sono una conseguenza. E così non bisogna limitare la portata del v. 6 con la glossa «nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia», che invece ne riceve luce come corollario: quell’umiltà, confermata dal benignamente, è al modo cortese l’opposto della crudeltà e fierezza della insensibile, è la benevolenza. La metafora della veste, così frequente in Dante e nello Stil Novo, ci riporta a quella manifestazione visibile d’un sentimento e d’una qualità che s’è vista concentrata nella parola pare. Anche cosa sta in una rete di rapporti tutta diversa dalla moderna: oggi una cosa è sotto il livello ontologico della persona (una donna può diventare per abnegazione la cosa dell’amante, strumento, oggetto senz’autonomia), qui cosa è più largamente un essere in quanto, precisamente, causa di sensazioni e impressioni. Qui l’effetto è un miracol, glossato dalla prosa come maraviglia; e ciò sarebbe equivoco, una volta di più, se non s’aggiungesse una benedizione al Signore, «che sì mirabilmente sae adoperare» (cioè la prosa riceve luce dalla poesia, non viceversa). «Questo sonetto è sì piano ad intendere», aggiunge il commento stesso, e le terzine descrivono il processo della fisica amorosa in termini tanto ordinari, che poco rimane da aggiungere; ma sempre qualcosa. Piacente (che del resto è l’occitano plazen) non significa la semplice gradevolezza soggettiva per il contemplante: come tutto insiste sulla manifestazione delle qualità, sui rapporti delle sostanze, da un punto di vista dinamico e non statico (e per esempio si ha non ‘volto’ ma ‘fisionomia’), così piacente allude a un attributo oggettivo in quanto si palesa, ‘fornita di bellezza’, ‘determinante l’effetto che la bellezza necessariamente produce’. Non per nulla piacere significa nel linguaggio stilnovistico ‘bellezza’, addirittura ‘bel volto’, e la prosa stessa dichiara: «ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri». […]

Riassumendo in uno schema di parafrasi la nostra esposizione, si ottiene press’a poco: «Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è la mia signora, nel suo salutare, che ogni lingua trema da ammutolirne, e gli occhi non osano guardarla. Essa procede, mentre sente le parole di lode, esternamente atteggiata alla sua interna benevolenza, e si fa evidente la sua natura di essere venuto di cielo in terra per rappresentare in concreto la potenza divina. Questa rappresentazione è, per chi la contempla, così carica di bellezza che per il canale degli occhi entra in cuore una dolcezza conoscibile solo per diretta esperienza. E dalla sua fisionomia muove, oggettivata e fatta visibile, una soave ispirazione amorosa che non fa se non suggerire all’anima di sospirare».

Manfredi di Hohenstaufen

di W. KOLLER, s.v. Manfredi, re di Sicilia, DBI 68 (2007), pp. 633-641.

Manfredi nacque nel 1232, figlio naturale dell’imperatore Federico II (primo di questo nome come re di Sicilia); l’identificazione della madre con Bianca, figlia della marchesa Bianca Lancia, è frutto di una tradizione posteriore, non unanimemente accettata. Federico II, che aveva già avuto da lei la figlia Costanza, la sposò, probabilmente nel 1248, legittimando così Manfredi, anche se la Curia non riconobbe mai questa legittimazione.

Manfredi ricevette un’educazione accurata e dai colti esponenti della corte paterna fu istruito in teologia e filosofia. Nella sua giovinezza, sotto il nome di Manfredi Lancia, godette di una certa libertà di movimento e per breve tempo (tra il 1245 e il 1247) studiò alle Università di Parigi e di Bologna. In quel periodo egli sembra essere stato fatto prigioniero dal marchese Azzo (VII) d’Este e avere stretto amicizia col cardinale Ottaviano degli Ubaldini.

Nel febbraio 1248 sfuggì, con Federico II, alla grave sconfitta di Vittoria. A fine dicembre 1248 (o all’inizio del 1249) sposò Beatrice, figlia del conte Amedeo IV di Savoia, marchesa di Saluzzo, vedova, con la quale era fidanzato già dal 21 aprile 1247. L’alleanza matrimoniale imperiale con i potenti conti di Savoia – che tramite le loro nipoti, le “quatre reines” della casa dei conti di Provenza, erano imparentati con le corti inglese e francese – costituì un elemento importante della politica imperiale in Italia. Manfredi fu investito della Lombardia occidentale e del Regno di Arles e la sua signoria costituì quindi un anello di congiunzione tra l’Italia e l’Impero tedesco, che era sotto il dominio del suo fratellastro Corrado IV. Tommaso di Savoia assunse il vicariato generale per la Lombardia occidentale, il Piemonte e la Savoia e quindi la reggenza per Manfredi.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Pal. lat. 1071 (1258-1266), De arte Venandi cum avibus (Redactio Manfredi regis filii Friderici II), f. 5v. Manfredi con il falcone (dettaglio).

All’insediamento di Manfredi non si arrivò mai perché egli accompagnò l’imperatore nel suo viaggio di ritorno verso la Puglia. Il 13 dicembre 1250 Manfredi fu presente, a Castel Fiorentino, all’improvvisa morte di Federico II che egli comunicò subito a Corrado IV; fece poi trasportare il defunto a Palermo per la solenne sepoltura nel duomo (25 febbraio 1251). Secondo il testamento dell’imperatore Manfredi si trovava al terzo posto per la successione nel Regno di Sicilia, dopo i suoi fratelli Corrado IV ed Enrico e i loro eredi. Per concessione imperiale, confermata dal testamento di Federico II, Manfredi ricevette il Principato di Taranto e le contee di Tricarico, Montescaglioso e Gravina, dalla fonte del Bradano (presso il castello di Lagopesole) sino a Polignano a Mare e da lì sino a Porta Roseti (Roseto Capo Spulico) e anche la signoria di Monte Sant’Angelo, tradizionalmente assegnata alle regine di Sicilia. Egli era quindi il barone più potente nel Regno e disponeva di feudi strategici per il dominio della Puglia, divenuta sotto Federico II regione centrale del Regno. L’imperatore, inoltre, aveva nominato Manfredi, in assenza di Corrado IV, reggente (balius) in Italia e nel Regno di Sicilia.

La morte di Federico provocò tumulti nel Regno di Sicilia, gravato economicamente da pesanti oneri; i ribelli furono sostenuti da papa Innocenzo IV con privilegi. Il diciottenne Manfredi assunse allora la reggenza con inattesa energia; lasciò al fratello Enrico l’amministrazione della Sicilia e della Calabria, mentre egli stesso, col marchese Bertoldo di Hohenburg, represse i tumulti in Puglia. Non ebbe però successo in Terra di Lavoro, contro Capua e Napoli. Nell’estate 1251 intraprese trattative con Innocenzo IV, che però non portarono a nulla.

Nell’autunno 1251 Manfredi tornò in Puglia per organizzare la traversata di suo fratello Corrado IV, che ai primi di gennaio 1252 fu accolto a Siponto con onori regali. I due allora sottomisero definitivamente il Regno: Capua e Napoli capitolarono, i conti di Caserta e Aquino si arresero. I rapporti tra Corrado e Manfredi peggiorarono però rapidamente, probabilmente a causa di attriti con gli ambiziosi Lancia, parenti di Manfredi, che Corrado IV espropriò dei beni e bandì dal Regno. Quando essi si rifugiarono presso la sorella di Manfredi, Costanza, moglie dell’imperatore di Nicea Giovanni Vatatzes, egli pretese che venissero scacciati. La posizione di Manfredi fu indebolita dalla revoca dell’Honor di Monte Sant’Angelo e dal ridimensionamento del Principato di Taranto, mentre Corrado favoriva Bertoldo di Hohenburg e i suoi tedeschi. Per questo molti baroni locali spinsero Manfredi a opporsi al fratello. Quando Corrado morì improvvisamente presso Lavello il 21 maggio 1254 alla vigilia della sua campagna in Italia, corse voce che Manfredi, che si trovava presso di lui, lo avesse fatto avvelenare.

Prima di morire, Corrado IV aveva nominato reggente per suo figlio Corradino non Manfredi, bensì Bertoldo di Hohenburg, ma Manfredi costrinse quest’ultimo in breve tempo a cedergli la reggenza; sotto la pressione dei suoi seguaci, però, dovette trovare un accordo con Innocenzo IV. Il 27 settembre 1254 il papa, in quanto signore feudale del Regno, confermò Manfredi come principe di Taranto (dandogli la contea di Montescaglioso in cambio di Andria) e gli assegnò il vicariato del Regno, esclusi gli Abruzzi, la Terra di Lavoro e l’isola di Sicilia; in luogo delle rendite del Regno Manfredi ricevette solo un modesto appannaggio annuo. Egli, tuttavia, vide tutelata la sua posizione come reggente e il suo diritto alla successione al trono dopo Corradino. Anche per il papa questo risultato fu un compromesso, perché dovette accettare la posizione dell’odiato Svevo.

Pietro Schoepf, Statua funeraria per Corradino di Svevia. Marmo, 1847. Napoli, Basilica di s. Maria del Carmine Maggiore.

Quando Innocenzo IV l’11 ottobre 1254 giunse nel Regno, a Ceprano, per tenere una Dieta a Capua, Manfredi funse da strator e prestò anche il giuramento di fedeltà. I rapporti tra i due peggiorarono presto perché il papa, in quanto signore feudale del Regno, ne avocò a sé il governo e con la diretta concessione di innumerevoli privilegi indebolì la posizione del suo vicario. Questo ferì l’orgoglio di Manfredi che, come Svevo, recava anche sul sigillo le sue origini imperiali (“Friderici filius”, Regesta Imperii, V, 1, 4635, dicembre 1250) e reclamava la preminenza sulla nobiltà del Regno. Si giunse alla rottura quando i seguaci di Manfredi – certamente con la sua approvazione – uccisero, fra Teano e Capua, Borrello d’Anglona, con il quale Manfredi aveva una contesa sulla contea di Lesina, e che lo aveva offeso. Anziché discolparsi personalmente davanti al tribunale del papa, Manfredi fuggì e, con una avventurosa cavalcata attraverso l’Appennino, il 2 novembre raggiunse Lucera inseguito dai suoi nemici. I Saraceni, fedeli amici di suo padre, lo accolsero con entusiasmo e gli consegnarono il tesoro reale. In possesso di quella cittadella sveva e delle sue temibili truppe, egli conquistò Foggia il 2 dicembre e costrinse i suoi nemici, il legato papale e Bertoldo di Hohenburg, a ritirarsi dalla Capitanata.

Innocenzo IV morì a Napoli il 7 dicembre e – mentre il suo debole successore Alessandro IV il 25 marzo 1255 lanciava la scomunica contro Manfredi, i suoi parenti e i suoi seguaci e si adoperava inutilmente per riattivare la candidatura al trono di Edmondo d’Inghilterra – Corradino, il 25 aprile 1255, riconobbe come suo reggente Manfredi che proseguì la sottomissione del Regno. Nell’accordo del 20 agosto 1255 egli costrinse il legato Ottaviano degli Ubaldini e Bertoldo di Hohenburg ad abbandonare definitivamente la Puglia con il loro esercito crociato. Le truppe di Manfredi scacciarono nel 1255 il governatore della Sicilia e della Calabria, Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, che si era schierato dalla parte del papa. Il magnate siciliano Enrico de Abate nel 1256 conquistò Palermo e prese prigioniero il capo delle truppe pontificie, Rufino. Manfredi aveva così in suo potere la maggior parte del Regno.

Federico II di Svevia. Messina, 1230-1250 c. Augustale, Au. 5, 21gr. Verso: Aquila retrospiciente ad ali spiegate.

Già il 2 febbraio 1256 nella Dieta di Barletta Manfredi poté regolare i conti con i suoi nemici: Pietro Ruffo, fuggito in esilio, fu condannato a morte e ucciso nel 1257 a Terracina per ordine di Manfredi; suo nipote Giordano Ruffo fu accecato e morì per le ferite; Bertoldo di Hohenburg, che si era arreso a Manfredi, fu condannato al carcere a vita e comunque morì poco dopo. Del rigore di Manfredi furono vittime anche Marino da Eboli con suo figlio Riccardo, Domenico Francesco, Tommaso da Oria, Ruggero di Morra – che fu accecato – e altri. La fama di Manfredi divenne pertanto così inquietante che nel 1257 Riccardo di Cornovaglia mise in guardia dagli assassini di Manfredi non solo la Curia, ma anche la corte inglese, con le quali Manfredi manteneva rapporti. A Barletta Manfredi ricompensò, inoltre, parenti e alleati: Galvano Lancia divenne gran maresciallo e conte del Principato di Salerno, suo fratello Federico Lancia ebbe confermata la contea di Squillace e divenne vicario per la Sicilia e la Calabria. Nei mesi successivi caddero anche le ultime resistenze al dominio di Manfredi. Nel 1257 naufragò definitivamente la candidatura inglese al trono, che comportava costi troppo elevati.

All’inizio del 1258 Manfredi intraprese il grande viaggio verso la Sicilia che nel 1257 aveva dovuto interrompere, forse a causa di una malattia. In quel tempo si diffuse la voce che Corradino era morto; Manfredi, secondo la diffusa opinione all’origine di tale voce, ne approfittò per realizzare le sue aspirazioni al trono. L’incoronazione di Manfredi a re di Sicilia ebbe luogo domenica 11 agosto 1258, nel duomo di Palermo. Con la scelta della chiesa – tradizionale sede delle incoronazioni e anche luogo di sepoltura dei sovrani di Sicilia – Manfredi dimostrò la continuità e la legittimità del suo regno anche con una cerimonia di tipo tradizionale. La sacra unzione di Manfredi, ancora colpito da scomunica, fu compiuta dall’arcivescovo Rainaldo di Agrigento che celebrò anche la messa dell’incoronazione; fu incoronato dagli arcivescovi Cesario di Salerno, Anselmo di Acerenza e Benvenuto di Monreale, assistenti furono l’arcivescovo di Sorrento e l’abate Riccardo di Montecassino. Tutti questi furono scomunicati dal papa il 10 aprile 1259, come anche i più stretti consiglieri di Manfredi, il conte Riccardo di Caserta, Tommaso d’Aquino conte di Acerra, Federico e Galvano Lancia. Poiché non tutti i nobili e gli ecclesiastici avevano risposto alla chiamata all’incoronazione e molti anche a Palermo cercarono di sottrarsi alla partecipazione, fu chiaro che, nonostante il giuramento di fedeltà e i sigilli apposti all’atto di incoronazione, Manfredi per una vasta cerchia era un usurpatore sicché il Regno era diviso.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Chigiano L. VIII 296 (XIII sec.), Cronica Nuova di Giovanni Villani. Manfredi viene incoronato re di Sicilia.

Dopo la definitiva rottura col papa e con Corradino, Manfredi per rafforzare il suo potere in Italia intensificò il sostegno che già da tempo accordava ai ghibellini. Rinnovò i suoi buoni rapporti con Brancaleone Andalò, nel maggio 1257 nuovamente eletto senatore di Roma; Siena e i ghibellini fiorentini esiliati ricevettero il suo aiuto e, nel luglio 1258, Manfredi appoggiò il tentativo di colpo di Stato ghibellino a Firenze di Ottaviano degli Ubaldini. Nel 1258 inviò truppe in Toscana e alla fine dell’anno Giordano Agliano, suo parente, vicario generale della Toscana, si insediò a Siena. Dal 1257 Manfredi sostenne militarmente con successo Fermo e Jesi. Nel 1258 stanziò truppe a Piacenza, a disposizione del suo parente Ubertino de Andito, e rafforzò gli antichi rapporti col marchese Oberto Pelavicino che nel 1258 confermò vicario generale imperiale in Lombardia.

Le città marinare di Genova (luglio 1257) e Venezia (settembre) strinsero con lui accordi con i quali assicuravano il loro aiuto a Manfredi in cambio di numerosi privilegi commerciali e nuovi insediamenti nel Regno; Venezia gli restituì gioielli del valore di 25.000 lire d’argento che Bertoldo di Hohenburg aveva depositato lì e Genova gli consegnò un trono che a suo tempo Federico II aveva lasciato in pegno. Manfredi entrò così in possesso di preziose insegne del potere. Il capolavoro diplomatico che gli permise di accordarsi contemporaneamente con le due città rivali gli costò però il sostegno di Pisa.

Heidelberg, Universitätsbibliothek. Pal. germ. 848, Codex Manesse (inizi XIV sec.), f. 52r. Combattimento fra cavalieri.

Manfredi fu anche patrono della grande lega ghibellina dell’Italia settentrionale realizzata l’11 giugno 1259 tra nobili e Comuni da Pelavicino che in settembre sconfisse il nemico di Manfredi, Ezzelino da Romano, morto poi per le ferite. Il 4 sett. 1260, grazie alle truppe di Manfredi, Siena inflisse ai guelfi fiorentini a Montaperti una sconfitta così dura che essi dovettero abbandonare la città ai loro nemici ghibellini. Conseguentemente anche in Toscana si formò una lega ghibellina. La Marca di Ancona era ancora ampiamente nelle mani degli Svevi. Roma manteneva buoni rapporti con Manfredi anche dopo la morte di Brancaleone; nell’estate 1260 seguaci di Manfredi uccisero a Roma gli inviati di Corradino presso la Curia, che intendevano contestare la posizione di Manfredi. Il loro capo fu ricompensato per questo con la contea di Catanzaro. Alla fine del 1260 Manfredi fu finalmente eletto dai suoi seguaci senatore di Roma, ma non riuscì comunque a prendere possesso della città.

Nel Regno di Sicilia Manfredi governò con rinforzata autorità. Già nell’autunno 1258 durante un’assemblea a Barletta, in forza del diritto personale, egli procedette alla concessione di numerosi feudi. Alla Dieta di Foggia dell’aprile 1259 stabilì nuove leggi e riformò l’amministrazione che, pur rimanendo fedele ai principî stabiliti da Federico II, fu modernizzata e resa più severa nei dettagli. Così fu regolamentato ex novo l’obbligo da parte dei funzionari di tenere libri contabili e presentare rendiconti da consegnare all’ufficio del maestro razionale allora appositamente creato. Furono allora richiesti i resoconti contabili che non erano stati presentati. Con la riforma dell’amministrazione finanziaria i camerari divennero in tutto il Regno “secreti”, con ridotte competenze giurisdizionali. In pari tempo si iniziò una parziale verifica della titolarità dei feudi e degli obblighi connessi. Furono compilati un nuovo ordinamento della Cancelleria e nuovi regolamenti per i funzionari. L’archivio della corte fu portato a Melfi. Il consiglio dei familiares fu legato più strettamente al governo.

Manfredi promosse anche lo sviluppo economico; su richiesta del suo familiare Giovanni da Procida concesse a Salerno il privilegio di tenere una fiera e di ampliare il porto. Diede impulso anche allo sviluppo di Palermo e di altre città. Nonostante l’impegno per l’efficienza e il controllo, Manfredi si sforzò di mantenere la continuità con i suoi predecessori: i privilegi concessi da suo padre furono confermati, tutelati i diritti ereditari, anche ecclesiastici; corruzione e abusi furono eliminati, per quanto era possibile. A garanzia della continuità M. conservò i leali e fidati collaboratori di suo padre, ai quali aggiunse i suoi parenti materni che, nonostante l’avidità, non erano privi di competenza ed esperienza. Accanto ai Lancia si trovavano elementi locali, come i Maletta, i Capece, i Filangieri, i Dragona, i Rebursa.

Wien, Österreichische Nationalbibliothek. Codex Vindobonensis 93, Medicina Antiqua, raccolta di manoscritti medico-botanici (inizi XIII sec.), f. 73r. Nave con equipaggio.

Alla gran corte, la cerchia più ristretta dei funzionari, appartenevano: il giudice di gran corte Tommaso Gentili; il cancelliere Gualtiero di Ocra; il gran camerario Manfredi Maletta, successore del saraceno Giovanni Moro, che aveva pagato il suo tradimento con la vita; il gran maresciallo Galvano Lancia, che fu per un certo tempo anche capitano generale della parte settentrionale del Regno; il siniscalco Bartolomeo Simplex; il coppiere Giordano Agliano; l’ammiraglio Philippe Chinard di Cipro; e il maestro razionale Iozzolino de Marra, esponente dei banchieri e mercanti di Barletta e Ravello. Giudici di gran corte furono, fra gli altri, Niccolò di Trani, Riccardo di Brindisi, Jacopo di Avellino, Giovanni di Caserta e Andrea di Capua; ai notai appartenevano i magistri Niccolò de Rocca il Vecchio, Pietro de Prece e Jacopo de Tocco, che esercitò anche l’ufficio di giudice di gran corte. Al gruppo dei familiares appartenevano, oltre a quelli già ricordati, anche il medico e magister Giovanni da Procida, Goffredo di Cosenza, Gervasio di Martina e Francesco Simplex. Tramite l’unione tra grandi feudi e alte cariche i seguaci e parenti di Manfredi favorirono il processo di feudalizzazione e oligarchizzazione del Regno. Gli stessi nemici di Manfredi dovettero riconoscere – nonostante le lamentele per la pesante pressione fiscale – che egli governò il Regno con giustizia e mantenne la pace interna.

Michael Z. Diemer, La schola palatina di Palermo. Olio su tela, 1939.

Fu inoltre incoraggiata la continuazione della brillante cultura di corte: le grandiose feste in occasione delle Diete avevano funzione non solo di divertimento, ma anche di integrazione tra la popolazione del Regno. Lo stesso Manfredi si dedicò alla poesia lirica e alla musica, come anche suo zio Galvano Lancia e a corte, tra gli altri poeti d’occasione, soggiornarono anche numerosi artisti tedeschi. Dai tempi della sua giovinezza Manfredi, in abito verde, praticò anche la caccia. Lagopesole e gli altri castelli pugliesi erano i luoghi preferiti per questo intrattenimento regale.

Manfredi uguagliò suo padre anche per l’interesse alla scienza. Rielaborò l’opera di Federico De arte venandi cum avibus aggiungendo integrazioni personali, non certo di grande importanza, perché evidentemente tempo e mezzi non bastavano per la prosecuzione delle ricerche ornitologiche con l’ampiezza di un tempo. Le integrazioni di Manfredi sono edite nel De arte venandi cum avibus, di Federico II, a cura di C.A Willemsen, Leipzig 1942.

Nel 1255, nel corso di una malattia che mise a rischio la sua vita, tradusse dall’ebraico lo scritto pseudo-aristotelico Liber de pomo (Nardi – Mazzantini). Come Federico II, Manfredi ebbe fama di poliglotta ma rimane questione aperta, per esempio, quanto conoscesse l’arabo, visto che per i suoi rapporti con i Saraceni di Lucera nel 1254 ebbe comunque bisogno di un interprete. I suoi interessi erano estesi e comprendevano, oltre la matematica e le scienze naturali, anche la filosofia, la teologia, l’astronomia e, non ultima, l’astrologia.

Schlatt, Eisenbibliothek, Mss 20 (fine XIII sec.), codice miscellaneo di opere aristoteliche e pseudo-aristoteliche, f. 15v. Incipit del Liber de Pomo.

Il desiderio di sapere lo spinse nel 1261 a una disputa col dotto Pietro di Ibernia sulla questione della finalità della natura. Nel 1258 o 1259 egli fece riaprire l’Università di Napoli. Presso la corte erano attivi traduttori come Bartolomeo da Messina, che tradusse molte opere soprattutto aristoteliche e pseudo-aristoteliche, tra cui un trattato di ippiatria, e Stefano da Messina che tradusse lo scritto astronomico Centiloquium Hermetis. Dai fondi della biblioteca di corte, accresciuti in questo modo, l’Università di Parigi e forse anche quella di Bologna ricevettero libri in dono.

Della produzione libraria nell’ambito della corte di Manfredi sono testimoni molti manoscritti miniati, tra i quali la cosiddetta Bibbia di Manfredi, l’operetta di Pietro da Eboli De balneis Puteolanis, presumibilmente il manoscritto sopravvissuto del Liber de pomo e soprattutto l’opera in due volumi di Federico II De arte venandi cum avibus (Biblioteca apost. Vaticana, Pal. lat., 1071, riprodotto in facsimile in De arte venandi cum avibus. Ms. Pal. Lat. 1071, a cura di C.A. Willemsen, Graz 1969).

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. Lat. 36, Bibbia di Manfredi (metà del XIII sec.), f. 58v. Il prodigio della verga fiorita di Aronne.

L’opera storiografica del cosiddetto Niccolò de Jamsilla (la cronaca dalla ascesa di Manfredi sino al 1258), nasce anch’essa nell’ambito della cultura di corte. Djemal ed-Din, ambasciatore del sultano egiziano, rimase così impressionato della cultura di Manfredi che giunse a dedicargli un suo trattatello di logica.

Roma, Biblioteca Angelica. Ms. 1474 (XIII sec.), De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli. Miniatura che mostra il Balneum Tripergulae: in alto, sono raffigurati coloro che soffrono di disturbi allo stomaco e di emicrania intenti alle cure; in basso, Gesù Cristo riemerge dagli Inferi (presso il villaggio di Tripergola, infatti, secondo la tradizione, c’era l’ingresso dell’Averno).

Dopo la Dieta di Foggia del 1259 Manfredi assoggettò con una breve campagna militare estiva la città dell’Aquila, come sempre ribelle, e nell’estate 1260 Erice che, dopo l’uccisione del capitano generale di Sicilia Federico Maletta, parente di Manfredi, si era ribellata con l’aiuto del papa. Il Regno era così pacificato. Le città che si erano ribellate agli Svevi ai tempi della reggenza – per avere, con privilegi papali, maggiore autonomia e tasse più basse – si sottomisero adesso al re; gli strati sociali più elevati di queste città colsero l’occasione per una ascesa sociale con l’acquisizione di cariche amministrative e di status nobiliare, come i Rufolo e i Della Marra. I vescovi e abati che erano rimasti nel Regno per la maggior parte accordarono alla fine il loro sostegno a Manfredi, anche se non sempre di loro spontanea volontà, ma spesso per opportunismo e con la segreta preoccupazione di sanzioni papali.

Fra il 1249 e il 1257 morì Beatrice, moglie di Manfredi, che nel 1249 gli aveva dato la figlia Costanza. Egli sposò quindi Elena, figlia di Michele degli Angeli, despota dell’Epiro, probabilmente all’inizio del 1258 (non come si ritenne a lungo il 2 giugno 1259) in quanto Elena fu incoronata certamente insieme con lui; portò in dote Corfù, Durazzo, Avlona e Butrinto sulla costa orientale dell’Adriatico, che Manfredi aveva già occupato. Dal matrimonio nacquero Beatrice, Enrico, Federico e Azzolino. Manfredi ebbe anche una figlia naturale, Flordelis. La figlia Costanza il 13 giugno 1262 sposò l’erede al trono aragonese Pietro; le nozze erano state concordate tra Manfredi e Giacomo I d’Aragona il 28 luglio 1260, nonostante le proteste del papa.

Territori del Despotato d’Epiro portati in dote da Elena Ducas al Regno di Sicilia.

Con questi matrimoni Manfredi aveva esteso la sua politica dall’Italia al Mediterraneo che, dopo la separazione del Regno dall’Impero, era diventato il campo di azione favorito della politica siciliana. Nel 1259 Manfredi sostenne il suocero nella guerra contro il nuovo signore di Nicea, Michele VIII Paleologo, ma i suoi 400 cavalieri non poterono impedire la disfatta del despota a Pelagonia. Questo cambiamento di alleanza significò la rottura con l’antico alleato e Michele VIII nel 1262 rimandò indietro in Sicilia la sorella di Manfredi, Costanza, vedova del suo predecessore.

Manfredi ebbe buoni rapporti col mondo arabo: con gli Assassini in Siria e con l’Egitto, anche dopo il colpo di Stato dei Mamelucchi. L’emiro di Tunisi continuò a pagare il tributo.

Ai successi di Manfredi la Curia aveva ben poco da opporre, e quando il 25 maggio 1261 Alessandro IV morì a Viterbo Manfredi era al culmine della sua potenza. Il suo successore Urbano IV, eletto il 29 agosto, si propose di definire i rapporti nel Regno di Sicilia con l’esclusione di Manfredi, prima della realizzazione della crociata. Manfredi nell’autunno propose al papa negoziati che furono rifiutati nonostante la mediazione dell’imperatore di Costantinopoli Baldovino II che, dopo la sua cacciata, si era avvicinato a Manfredi. Il 6 aprile 1262 Manfredi fu convocato per il 1 agosto dal papa per essere sottoposto a un processo per eresia davanti alla Curia. Manfredi reagì il 18 giugno con l’offerta di versare una tantum alla Curia, per il suo riconoscimento come re, l’enorme somma di 300.000 onze d’oro e 10.000 onze d’oro l’anno come tributo feudale, ma ottenne solo un rinvio del processo all’11 novembre. Questo gli diede comunque il tempo, dopo la partenza di sua figlia Costanza il 28 aprile per il matrimonio in Aragona, per combattere in Sicilia la rivolta di Giovanni de Coclearia. Questo eremita dell’Etna si spacciava per Federico II ed era sostenuto dal marchese di Catanzaro Pietro (II) Ruffo e da Urbano IV. Manfredi catturò lo pseudo-Federico e lo fece impiccare a Catania nell’estate 1262. Nel frattempo il papa dal marzo 1262 era in trattative col conte Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, per l’investitura feudale del Regno di Sicilia. Luigi IX, che aveva già rifiutato questa offerta per uno dei suoi figli, era contrario al progetto per motivi sia giuridici, sia pratici: riteneva dubbio il modo di procedere del papa e sperava evidentemente nel sostegno di Manfredi per la crociata. Egli, come Giacomo d’Aragona, fece pressione su Urbano IV per costringerlo a intraprendere trattative con Manfredi il quale alla fine di novembre 1262 giunse a Orvieto. Le trattative però naufragarono subito per l’inaccettabile e irrealizzabile richiesta del papa di far tornare gli esiliati e restituire loro i beni espropriati. Manfredi tornò in Puglia e il 29 marzo 1263 il papa gli rinnovò la scomunica.

Baldovino II in maestà. Sigillo, oro, da una carta del 1269: B(alduinus) D(e)i gra(tia) Imp(er)ator [Ro]man(iae) se(m)p(er) Aug(ustus). London, British Museum.
Luigi IX alla fine fece cadere l’opposizione alle trattative di suo fratello perché la Curia sostenne – mentendo – che Manfredi era responsabile del fallimento delle trattative. Al papa servirono ancora due anni di dura lotta perché Carlo d’Angiò sottoscrivesse l’accordo per la sua investitura del Regno di Sicilia: divenne allora inevitabile che la questione del trono siciliano fosse decisa sul campo.

Le scarse fonti in proposito non registrano nulla a proposito dell’attività di Manfredi in quel critico anno 1263: mentre le sue truppe nelle Marche difendevano la loro posizione, sembra che egli abbia proseguito la sua azione di governo. All’inizio di agosto fallì la sua candidatura all’ufficio di senatore di Roma; i Romani scelsero Carlo d’Angiò, a cui procurarono un’importante testa di ponte che egli fece dapprima governare da un vicario. In novembre Manfredi fondò, ai piedi del Gargano, Manfredonia, al posto dell’insalubre Siponto.

In vista dell’incombente arrivo di Carlo d’Angiò, nel 1264 Manfredi prese energiche misure a difesa del suo dominio. In primavera con la flotta diede il suo sostegno a Marsiglia che si era ribellata, senza successo, a Carlo. In aprile convocò una Dieta a Napoli. Per verificare gli obblighi feudali e passare in rassegna la disponibilità militare della nobiltà fu stabilito un nuovo catalogo dei feudi. Allo stesso tempo Manfredi aprì l’offensiva contro Roma e Orvieto, dove risiedeva il papa, e anche contro Perugia, operazioni che furono un totale disastro. L’offensiva contro Roma rimase bloccata nel sud della Campagna. La spedizione contro Orvieto attraverso il Ducato di Spoleto fallì perché il comandante Percivalle Doria annegò nella Nera e le truppe pontificie costrinsero il suo esercito, ormai senza guida, a ripiegare verso Rieti. Solo la guerricciola condotta da Pietro di Vico, con soldati tedeschi, nel nord della Campagna portò a Manfredi qualche successo. Egli si limitò quindi a protestare, nel luglio, contro le trattative della Curia con Carlo d’Angiò e la calunniosa predicazione della crociata. Urbano IV però non si sentiva più sicuro a Orvieto e si affrettò a Perugia, dove giunse già ammalato e dove morì il 2 ottobre. Manfredi ordinò nuovamente un’intensa vigilanza sulle vie di comunicazione terrestri e marittime per Roma.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. Lat. 36, Bibbia di Manfredi (metà del XIII sec.), f. 522v. Manfredi riceve la Bibbia dallo scriptor Giovanni.

Papa Clemente IV, eletto il 6 febbraio 1265, portò a conclusione le trattative con Carlo d’Angiò, che quindi sbarcò a Ostia con una piccola flotta, senza che le forze navali di Manfredi riuscissero a intercettarlo, ed entrò in Roma il 20 o il 21 maggio 1265. Nell’inverno giunse il suo esercito, senza che i ghibellini, che stavano abbandonando Manfredi, ne ostacolassero seriamente la marcia. Il 6 gennaio 1266 Carlo d’Angiò fu incoronato re di Sicilia e il 20 gennaio si mise in marcia per conquistare il Regno.

Prima dell’arrivo di Carlo, Manfredi aveva fatto alla Curia ancora una proposta per un’intesa che però era stata respinta dal papa. Senza risultati rimase anche un tentativo di Manfredi di ottenere ancora una volta il favore dei Romani. In un manifesto fortemente retorico del 24 maggio li incitava a scacciare Carlo come vicario e prometteva la restaurazione della Repubblica e il diritto di elezione e incoronazione dell’imperatore, negando ogni pretesa ecclesiastica a parteciparvi. Reclamò per sé la corona imperiale, come discendente di imperatori. Nel giugno 1265 Manfredi prese altre iniziative militari: organizzò una Dieta a Benevento e mobilitò le sue truppe. In luglio mosse contro Roma passando per Carsoli, ma dovette fermarsi davanti a Tivoli, che non riuscì a conquistare. In agosto interruppe a sorpresa la concomitante spedizione nel Ducato di Spoleto e tornò in Puglia. Ora Manfredi passò alle azioni di difesa: fece presidiare i confini del Regno, preparare i castelli alla difesa e reclutare mercenari in Germania e nel bacino del Mediterraneo. Ma la fedeltà dei suoi sudditi e dei suoi alleati, nonostante il grande impiego di mezzi, cominciava a sgretolarsi.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Chigiano L. VIII 296 (XIII sec.), Cronica Nuova di Giovanni Villani. Battaglia di Benevento.

La strategia difensiva di Manfredi prevedeva evidentemente di ritardare l’avanzata di Carlo e logorare le sue forze in marcia attraverso il territorio di confine scarso di risorse a causa dell’inverno, e quindi sconfiggerlo in uno scontro decisivo. All’inizio del 1266 rafforzò in modo consistente le guarnigioni nelle cittadelle di Rocca d’Arce e San Germano e si acquartierò con il grosso dell’esercito a Capua, fortificata da poco. Così sbarrò la più importante strada di ingresso nel Regno, difendendo allo stesso tempo anche l’importante porto di Napoli e tenendo sotto controllo l’irrequieta Terra di Lavoro. Questa strategia fallì, perché le fortezze di confine caddero dopo una breve resistenza e le truppe di Manfredi, battute, dovettero ritirarsi. Carlo conquistò San Germano il 12 febbraio, poi imboccò non la strada per Capua, ma quella per Benevento, per tagliare fuori dalla Puglia il nemico. Manfredi lo aveva senza dubbio previsto, perché spostò le sue truppe per la via Appia verso Benevento che egli raggiunse prima di Carlo. Quando quest’ultimo, a tappe forzate, si avvicinò a Benevento il 26 febbraio 1266, Manfredi lo costrinse al combattimento davanti alla città. Lo svolgimento della battaglia fu sfavorevole a Manfredi: quando gli assalti dei suoi primi due schieramenti furono battuti, egli stesso si gettò nella battaglia, senza dubbio non per cercare una morte eroica, come vuole la leggenda, ma per imprimere una svolta al culmine del terzo assalto. Ma i baroni del Regno e le loro truppe gli rifiutarono di seguirlo cosicché Manfredi si gettò da solo nel combattimento e cadde.

London, British Library. Ms Royal 16 G VI, Les Grandes chroniques de France (1332-1350 c.), f. 431r. Battaglia di Benevento.

Solo il terzo giorno dopo la sconfitta il suo corpo depredato fu ritrovato, riconosciuto dai suoi parenti presi prigionieri e sepolto dal vincitore senza cerimonie religiose sotto un cumulo di sassi presso il ponte verso Benevento. L’arcivescovo di Cosenza, per ordine di papa Clemente IV, lo fece più tardi riesumare e seppellire in un luogo sconosciuto sulla sponda del Liri per distruggere ogni premessa a una memoria legata al luogo. La moglie Elena non riuscì a fuggire in Epiro e, catturata da Carlo con i figli ancora piccoli, morì in seguito in prigione, come anche, decenni dopo, due dei suoi figli; mentre il terzo riuscì a fuggire. Beatrice fu liberata dopo i Vespri siciliani del 1284.

Manfredi, caduto, fu riconosciuto per la sua bellezza. Era di media statura, biondo, con un bel viso, pelle bianca, guance rosse, occhi stellanti (cfr. Malaspina, 3, 13, che lo accosta alla bellezza di Davide, descritta in 1 Re, 16, 12); è nota la descrizione di Dante: «Biondo era e bello e di gentile aspetto» (Purg., III, 107). Una sua raffigurazione (non certo un ritratto) è contenuta nel già ricordato codice vaticano del De arte venandi cum avibus (c. 5v): un giovane falconiere con un profilo finemente delineato sotto i capelli biondi con una veste verde sotto il mantello rosso.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Holkham misc. 48 (terzo quarto del XIV sec.), p. 62. Purg III: Dante e Virgilio incontrano Manfredi.

Meno univoca è la descrizione del suo carattere. Per i suoi partigiani, come il cosiddetto Jamsilla, era il vero erede delle virtù e dei meriti paterni. Amabile, cavalleresco e coraggioso, magnanimo e tollerante, egli mirava non al conflitto, ma al confronto politico. Dotato intellettualmente e artisticamente, coltivò interessi di vario genere e governò da sovrano abile e giusto. Per Dante (De vulgari eloquentia, 1, 12) Manfredi incarna l’ideale dell’uomo che si perfeziona con la formazione culturale. Gli stessi avversari non gli potettero negare il rispetto anche quando favorirono la légende noire. Un anonimo chierico (Cronica pontificum) lo descrive come meschino, presuntuoso, vigliacco e avido di gloria; sempre pieno di piani grandiosi, non ne portava a compimento nessuno; magnanimità e valore erano solo una simulazione. I nemici di Manfredi lo calunniarono chiamandolo sultano di Lucera, epicureo, adultero, assassino di suo padre e del nipote che gli era stato affidato; con l’accusa di libertinaggio e stregoneria costruirono la caricatura di un sovrano moralmente corrotto.

Anche il giudizio moderno su Manfredi è controverso: da una parte egli è considerato un debole epigono, certamente simpatico, valoroso e colto, ma debole, indeciso e non dotato come comandante militare e come politico e la sua usurpazione è ritenuta tradimento della casa sveva. Dall’altra egli appare il nobile giovinetto svevo trasfigurato, nel suo declino, in una tragica figura luminosa, oppure l’energico innovatore del suo Regno, prefigurazione dello Stato nazionale italiano.

Arme di Manfredi di Hohenstaufen: “d’argento all’aquila di nero imbeccata, lampassata e membrata di rosso“.

La scarsità delle fonti non consente un’interpretazione unitaria. Certamente Manfredi fu umanamente attraente anche se non privo di durezze; la sua mancanza di scrupoli rientra nel quadro della consuetudine dell’epoca. Egli realizzò energicamente la sua ascesa con abilità militare e capacità diplomatica. La prontezza al compromesso nasceva certamente non solo dal calcolo tattico, ma anche dalla convinzione che senza pace, la prosperità e la cultura non sopravvivono. Come reggente e come re si adoperò per la giustizia e l’ordine; condusse la sua politica estera con prudenza e abilità. Alla fine soccombette, prematuramente, a una preponderante coalizione tra il potere ecclesiastico, il denaro dei guelfi e le armi francesi al comando del più abile condottiero di quei tempi.

Decollazione di Corradino e morte di Manfredi in battaglia. Affresco, fine XIII sec. da Tour Ferrandes. Pernes-les-Fontaines.

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