I N T E R V I S T A


Articolo di Barbara Guidotti

Approda il 20 gennaio a Fidenza – sul palco del Teatro Magnani – il nuovo spettacolo di Gene Gnocchi, che torna in “patria” nelle vesti di segretario del Partito del Nulla, presiedendo una “convention” che sta riscuotendo consensi in tutti i teatri italiani. Dopo l’esordio, con una campagna elettorale alternativa a quella che ha preceduto le votazioni del 25 settembre, il “partito” di Gene, con le sue disincantate e paradossali dichiarazioni d’intenti, è uscito dalla dimensione dei media e dei social, portando la satira politica a misurarsi direttamente col pubblico in sala.
Il successo del Nulla dice molte cose: dice che Gene Gnocchi ha avuto una felice intuizione, maturata dopo anni di frequentazione dei talk show nelle reti pubbliche e private, dice che la gente è stanca delle promesse disattese, dice che tanto vale dire chiaro e tondo che non c’è più nulla da promettere, se non il Nulla stesso.
La disillusione si nasconde dietro l’ironia, e mette in scena l’amarezza che dilaga in tutti noi di fronte a una politica che rispecchia le tante contraddizioni e incongruenze di chi la pratica.
Lo sguardo stralunato di Gene che occhieggia dai manifesti elettorali è quello di sempre, forse con qualche ombra in più che lo rende ancora più vero; come uno di noi che cerchi di capire e dare un senso a quello che gli sta succedendo intorno, disorientato da una realtà che riesce sempre a superarsi nei propri fallimenti.
Intanto, di teatro in teatro, la messa in scena sconfina nella vita vera, la finzione viene presa sul serio, la macchina del Nulla miete proseliti; Off Topic ne ha incontrato il leader per approfondire la genesi del suo spettacolo, e capire quale direzione abbia preso la nave del Nulla: ne è scaturito il ritratto  di un uomo e di un attore per cui la comicità è molto di più che una cifra stilistica, perché  rappresenta una chiave di lettura della realtà e insieme una via di salvezza al non-senso del quotidiano.

Come è nata e ha preso corpo l’idea del Nulla? È stata da subito un progetto articolato, o si è strutturata strada facendo?
L’idea è scattata durante quest’ultima campagna elettorale. Avevo già impostato il movimento del Nulla quando facevo “Di Martedì” da Floris, ma poi era scoppiata la pandemia e quindi tutto si è fermato. Invece, con questa campagna elettorale, vedendo le promesse fatte… il milione di dentiere… mi è venuto in mente di farlo rinascere; strada facendo mi sono reso conto che questa cosa aveva un certo seguito, perché vedevo che la gente era molto stanca di questa politica, al punto che molti mi hanno chiesto anche, durante le elezioni, come mai non ci fosse il simbolo, pensando che fosse una cosa strutturata e seria. La era, in effetti, però non pensavo avesse questo tipo di appeal. E da lì in poi è nata l’idea di far diventare il Nulla un movimento, con tutte le caratteristiche che un movimento vero e proprio ha. Diciamo che lo spettacolo è una presa in giro della Leopolda di Renzi, quindi è una specie di convention in cui il leader dice a tutto tondo all’elettorato cosa intende fare, com’è strutturato il partito, quali sono eventualmente gli apparentamenti, i gadget… Tutto fatto ad hoc.

Quindi l’esperienza fatta nei tanti talk show di carattere politico è stata determinante.
Si, assolutamente. Mi ha fornito moltissimo materiale.

Se promettere il nulla equivale a smascherare, attraverso il paradosso, la menzogna della politica e le sue promesse impossibili, allora non significa anche tentare di ristabilire un’etica?
Si, il senso è quello. Anche perché il programma del Nulla è proprio quello di desertificare la politica, infatti io lo dico esplicitamente. Quello che non è riuscita a fare la pandemia, quello che non è riuscita a fare la guerra perché troppo circoscritta, quello che non è riuscito a fare l’asteroide che ha sempre rischiato di colpirci ma non ci ha mai colpito, questo si prefigge il Nulla: azzerare, e permettere alle nuove generazioni di ricostruire da niente, da zero.

Lo spettacolo è un monologo, ma cambia qualcosa per te come attore, nel tuo modo di fare teatro, questa idea di mettere in scena una convention?
Si, cambia molto, perché mi ha messo di fronte ad un impegno attoriale che non pensavo fosse così “pressante”. Il monologo io l’ho provato leggendolo, poi mi sono reso conto che in realtà andava trattato come un vero e proprio comizio, e quindi dovevi avere le pause giuste, un po’ di parte letta e parte a braccio, improvvisata; si è venuta così a creare una dinamica completamente diversa, ma soprattutto, è una sfida, perché ogni volta che faccio lo spettacolo mi accorgo che cambia qualcosa, proprio a livello attoriale. Non è mai lo stesso spettacolo.

A teatro uno degli aspetti essenziali è il protagonismo della parola, l’uso del linguaggio. In questo caso che studio c’è, come hai avvicinato la tua prosa al linguaggio politico?
L’impronta comica ha una sua valenza, e anzi direi una prevalenza, però in tutto questo, come ti dicevo, si è inserito il discorso attoriale, che fa sì che tu ti misuri con le tue capacità, ti devi misurare con te stesso tutte le volte, ogni singola volta, perché non è uno spettacolo come al solito, che tu hai memorizzato, conoscendo le battute. Invece, in questo caso, c’è sempre un’aggiunta, un momento che ti coglie di sorpresa, senti una reazione dal pubblico. 

È uno spettacolo più interattivo dei precedenti?
Si, è più interattivo perché è rivolto proprio al pubblico. È come se tu dovessi non solo far ridere, ma convincere il pubblico che la tua idea è quella vincente
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Girando l’Italia, il pubblico reagisce allo stesso modo?
Il pubblico cambia sempre, ma cambia anche negli spettacoli più “tradizionali”; io ho un tipo di comicità che ha le sue caratteristiche, ma in questo caso sei più legato allo specifico di quello che stai mettendo in scena, che è politico ma anche filosofico. Perché l’obiettivo è proprio la “reductio ad nihil” (riduzione al nulla, ndr) che deve essere assolutamente perseguita, ed è la componente fondamentale che mi ha portato a fare questo spettacolo, l’essenza del progetto che c’è alla base.

Si è sempre detto che la tua comicità è “surreale”, ma di fronte a una realtà come questa ha ancora senso usare una definizione di questo tipo? E soprattutto, cosa significa parlare di “surreale” nella comicità?
No, assolutamente. La realtà è ancora più surreale, ma questo da un po’ di tempo, sicuramente. In realtà i miei modelli sono sempre stati il Villaggio di “Chi viene voi adesso?” e dei cammellini di peluche (Paolo Villaggio all’epoca delle gag nelle vesti di Otto Kranz, ndr), Felice Andreasi, i primi Cochi e Renato, Jango Edwards, quindi una comicità che spingeva all’assurdo, e soprattutto autori anche letterariamente comici come Bianciardi, come Flaiano, come Campanile, che attraverso l’ironia ti facevano pensare che il vero stupore fosse vivere, non morire. E quindi l’assurdo era il vivere, tutto era assurdo. Era tutto un domandarsi “cosa mi ha portato fin qui?”, e qui chiaramente ti salva l’ironia, devi assolutamente essere ironico.

Hai mai avuto la sensazione, nel corso di questa tournée che stai facendo, che il Nulla ti avesse preso la mano? Ti ha mai sfiorato l’idea di far diventare la finzione realtà passando alla politica, come ad esempio ha fatto Beppe Grillo? Cosa ti trattiene?
No, non mi hai mai sfiorato. Grillo del resto è partito da tematiche ambientaliste e aveva ben chiaro che il suo obiettivo era schierarsi contro un certo capitale consumistico, cosa che in questo caso non c’è. Qui c’è il paradosso della politica, il promettere oltre, il grado zero della promessa, il promettere troppo. Io ti prometto delle cose talmente assurde che sono irrealizzabili.

Assurde quasi quanto quelle che a volte promettono i politici “veri”.
Sì, il messaggio alla fine è “io vi supero nell’assurdità”. 

Tra una battuta e l’altra, si intuisce che nella realtà ci sia in effetti poco da ridere: la tua messa in scena ha un sottofondo di amarezza e disincanto che vanno a braccetto. Dietro la satira si avverte che c’è un discorso molto serio.
Il comico in fondo è sempre moralista, come diceva Flaiano, perché aspira ad un ordine di cose che è in continuo cambiamento. Non ha mai un punto fermo da cui partire, quindi inevitabilmente è insoddisfatto. Questa è proprio la prospettiva della comicità, almeno io la intendo così, in base alla mia filosofia.

Qual è il feedback più gratificante che ti proviene dal pubblico?
Io ormai sono più di trentacinque anni che faccio questo lavoro e la cosa sorprendente e gratificante è che si è creata dell’affezione nei miei confronti, sento l’affetto. La gente viene a teatro perché vuole sentire cosa avrà da dire “questa persona che ho seguito nel tempo, che mi ha stupito piacevolmente”, e quindi vuole sapere la tua opinione. Ho proprio la sensazione di essere diventato credibile per il mio pubblico. Incontro continuamente persone che dicono di seguirmi da tanto tempo, e questo riesce ancora a sorprendermi ogni volta.

La tua formazione ha inciso sulla formulazione dei temi e dell’impianto progettuale su cui si basa questo spettacolo?
In effetti, io sono arrivato al Nulla attraverso letture filosofiche. Mi sono laureato in filosofia del diritto perché il prof. Mossini, che era il mio insegnante ed era presidente del tribunale di Parma – con cui avevo anche fatto una tesina pubblicata per Giuffrè – mi aveva in realtà indirizzato più che a studi giuridici a studi filosofici. E così mi iscrissi a filosofia per dare alcuni esami, legati soprattutto al sapere e alla filosofia di Gadamer e a un filosofo poco noto in Italia, Enzo Melandri, di cui ho seguito alcune lezioni a Bologna. Melandri era veramente un genio, e ha scritto questo libro fondamentale per la filosofia, “La linea e il circolo”. Da questo, e seguendo Gadamer e tutta l’ermeneutica classica, da cui emerge il concetto che l’essere che può essere compreso è linguaggio e segno, è nato il presupposto da cui partire, come principio di verità. Perché se tutto è segno, se tutto deve essere interpretato, tutto diventa oggetto di una riflessione infinita. E questo ti porta a decodificare talmente e continuamente, che l’approdo è il nulla.

Michael Ende, nel suo romanzo più famoso, parla del nulla come di un qualcosa che avanza e fa sparire la realtà, e che può essere arrestato solo trovando una parola-chiave che rappresenta la salvezza per l’umanità. Se dovessi essere tu ad indicare una parola significativa in grado di contrastare l’insensatezza della realtà, o di smascherarla, quale sarebbe?
È “poesia”; la parola che mi viene in mente è “poesia”, perché da trent’anni frequento i poeti e credo siano le uniche persone che abbiano capito e che continuano a dire con forza che questo mondo è niente, è effimero, che ci sono dati solo sessanta o settant’anni di vita possibili per giocare le nostre carte.

Quali sono i tuoi autori preferiti?
Tutti gli autori del ‘900, da Montale a Caproni, e poi Luciano Erba, che citai vent’anni fa a una trasmissione di Oliviero Beha sorprendendolo, Larkin, Milo de Angelis. Tantissimi. Ormai leggo quasi esclusivamente poesia perché è lì che trovo si dica qualcosa di realmente significativo.


Qui le prossime date:
16 febbraio – Hall, Padova
21-26 febbraio – Teatro Franco Parenti, Milano
10 marzo – Teatro Camploy, Verona