fbpx

C’è la massaia che telefona e spiega che le è rimasto dello spezzatino dal pranzo domenicale, magari lo può portare alla mensa dei frati. Lo so, può sembrare strano, persino ridicolo, ma succede. Fa quasi tenerezza: che faccio, lo butto? Sembra un peccato. In questi casi bisogna spiegare che no, non può portare il suo spezzatino, che non si possono raccogliere gli avanzi di tutti. E poi dove li metti? Come li distribuisci? Senza tener conto dell’ufficio d’igiene comunale che infliggerebbe una multa considerevole. Insomma, “la mensa dei poveri” è una cosa seria, professionale. Ci sono cuochi diplomati, norme igieniche da rispettare, scodellatori professionisti. Come a una mensa universitaria. Chi di voi porterebbe lo spezzatino avanzato alla mensa aziendale? Ma non è la stessa cosa, qualcuno potrebbe dire. E perché? Se devo dare da mangiare a qualcuno non devo mica considerare il suo status di povero o di ricco. Di persone, stiamo parlando. Con uguale dignità.

Ma con i poveri sembra che tutto sia lecito. Infatti, poi, ci sono quelli che per liberarsi dei vestiti del caro defunto, riempiono polverose valigie e le portano alla Opera San Francesco. Non è raro che dentro ci si trovi roba vecchia, sporca, dentiere, spazzolini usati. Giuro. Tutta roba da buttare in discarica. In questo caso sono meno indulgente. Va bene la vecchina che vuole portare lo spezzatino avanzato, ma questo lavarsi la coscienza e allo stesso tempo liberarsi gratuitamente del ciarpame lo trovo peloso, furbo. E poco, davvero poco, cristiano.

Per non parlare poi dei vestiti donati. Vivere per strada esige abiti comodi: felpe, jeans, tute, cappellini, magliette. Macché: giacche misto-lana, panciotti, pantaloni con la piega, cappelli a falde. Insomma, l’armadio del nonno. Vabbe’, ma sono poveri, di cosa si lamentano? E io mi chiedo: già queste persone vivono un’esistenza complicata, al limite, difficile, perché dobbiamo trattarle ancora di più come fossero scarti ai quali dare i nostri scarti?

Non vi dico cosa succede quando qualche benpensante scopre che ad ognuno degli assistiti si cerca di procurare un cellulare. Addirittura! Poi passeranno tutto il tempo sui giochini al posto di cercarsi un lavoro! C’è gente che ancora pensa al cellulare come fosse un lusso, senza rendersi conto che, se è una necessità per tutti noi, lo è ancor di più per chi vive per strada: è l’unico modo che hanno per rendersi reperibili, per lanciare un allarme, per contattare un parente. L’unico per sapere dove cercare e trovare chi ha bisogno.

Insomma, dimentichiamo i barboni dei film del neorealismo, o di certe commedie hollywoodiane, togliamo il filtro in bianco e nero e guardiamo la realtà a colori. Che spesso siamo noi per primi – anche chi si crede di essere nel “giusto”, benedetto dal Signore – a cascare a piedi uniti nei luoghi comuni. Per fare un esempio: qui, all’OSF mi hanno raccontato di come funziona l’accoglienza. E di come basti anche solo un documento scaduto, per iscriversi nell’elenco e ricevere una tessera che comporta poi la possibilità di venire alla mensa, farsi una doccia, cambiarsi d’abito, ricevere farmaci e tutto il resto che da decenni i frati erogano ai più bisognosi. Ebbene, qualche lustro fa un giovane rampante della politica meneghina fece la fila e ottenne la tessera. Tutto per dimostrare che i frati la fanno a tutti, che persino lui, borghese pasciuto e in salute, avrebbe potuto usufruire della mensa dei poveri, urlando allo scandalo. In effetti è così, aveva ragione. Anzi: deve essere così. Se qualcuno viene qui vuol dire che ha bisogno. Chi non ha bisogno non viene. È semplice. E se hai bisogno non ti chiedo la dichiarazione dei redditi, la religione, il credo politico. Ti aiuto. Punto.

È così da quando Fra Cecilio, il frate portinaio del convento dei cappuccini, ha iniziato a distribuire pasti caldi durante la guerra a chi ne aveva bisogno. Poi nel dicembre del 1959 arrivò l’imprenditore Emilio Grignani a dargli una mano. Anzi: a mettersi la mano sul portafogli, per essere precisi. Fate caso alla data: siamo nel pieno del “boom economico”, Milano era la città delle opportunità. Quella Milano però sapeva anche che per ogni successo, per ogni scalata, c’era qualcuno che poteva cadere. E che non doveva essere abbandonato.

Imprenditori, volontari, donatori, cittadini, da più di sessant’anni continuano a non perdere la rotta.  Se la città più ricca d’Italia si dimentica degli ultimi è destinata a perdere la sua anima. È destinata alla dannazione, lo dico sinceramente. Io, all’OSF mi sono sentito a casa. Ho conosciuto belle persone, dall’animo grande, volontari, impiegati, frati, bisognosi. Ho visto la mia Milano. Non voglio sfoggiare sentimentalismi di maniera, eppure, a rischio di apparire snob, al rito meneghino dell’aperitivo preferisco un pranzo alla mensa dei poveri. Sono stati più di seicentocinquantamila quelli erogati lo scorso anno. Senza distinzione di sesso, razza, età, religione. Umani fra gli umani, che fanno comunità, che danno e ricevono. Scoprendo, con stupore, che chi dà, a ben vedere, è proprio quello che ha ricevuto di più.

L’autore

Gianni Biondillo è un architetto e scrittore milanese. Pubblica per Guanda dal 2004. Il suo nuovo romanzo in uscita il 12 settembre si intitola Quello che noi non siamo.  

Seguici sui social network