Orrore (Genova 935)

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II CAPITOLO “In cui si narra della tormentata vita di una meretrice”

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Qui il pdf del  II CAPITOLO

Anna non intendeva entrare in convento. Quella della preghiera non era la sua strada, non dopo che il dio della Cattedrale aveva permesso che le strappassero il figlio dal grembo, non dopo aver visto la morte in faccia nei deliri della febbre, non dopo che il suo Seamus se n’era andato, minacciato da suo padre, con la promessa di tornare col denaro sufficiente a mantenere lei e i figli che sarebbero venuti e di sposarla senza che portasse con sé alcuna dote. Era passato ormai tanto tempo da quando era partito e a volte lo sconforto diventava un macigno. La donna, di quando in quando, cedeva alla disperazione, si lasciava andare al pensiero che Seamus non sarebbe tornato, che forse era morto o che, magari, avesse sposato un’altra donna dimenticando ogni impegno preso. Qualsiasi cosa fosse successa al suo uomo, non sarebbe comunque mai entrata in convento. Doveva scappare oppure minacciare suo padre di dire a tutti che era rimasta incinta fuori dal matrimonio e che lui l’aveva fatta abortire. Ci aveva ragionato: non c’era alcun dubbio che Consalvo l’avrebbe ammazzata picchiandola col bastone così come già tante volte aveva picchiato lei, la sorella, la madre. Solo il fratello si salvava dalle botte. Una delle sue sorelle non era sopravvissuta alle percosse del padre. Il mercante aveva detto a tutti che la piccola Bruna era caduta dalle scale, invece era stato proprio lui a sbatterle la testa contro il muro in preda a una furia cieca, fino a spaccarle il cranio. La poveretta aveva solo cinque anni ed era colpevole di aver impiegato troppo tempo a portare la zuppa al padre scendendo dalle scale di legno che univano la casa alla bottega. No, l’unica soluzione era fuggire e non c’era tempo da perdere. Come fare, però? Aveva provato a chiedere aiuto alla zia, ma anche lei aveva paura del fratello. Le soluzioni che aveva ipotizzato erano due. La prima era quella di imbarcarsi su una nave come mozzo. Era forte ed era disposta a fare i lavori più umili. Era scesa al porto e aveva chiesto a tutti un imbarco, ma le avevano di no perché una donna a bordo porta sfortuna. Aveva preso allora la decisione più dura, quella che non avrebbe mai voluto prendere ma che reputava comunque meglio del convento. Sapeva che in una casa lì vicino c’erano delle prostitute. Lo sapeva perché la madre le aveva detto di non andare mai in quella strada e di non avvicinarsi a quella casa. Invece lei si era diretta sicura verso il postribolo e aveva bussato. Ad aprire uno spiraglio della porta era stata una giovane donna molto bella che sembrava avere appena qualche anno più di lei. Allora Anna si era cercata dentro tutto il coraggio che poteva racimolare e aveva detto tutto d’un fiato che era lì perche voleva fare la prostituta, ma che non poteva farlo a Genova e che doveva scappare e subito. La donna le aveva aperto la porta. Era vestita di un abito rosso molto lungo di buona stoffa pesante, drappeggiato sul seno. <Entra, che non è una decisione da prendere alla leggera. Bisogna che ne parliamo> le aveva risposto. Varcando la soglia, Anna aveva spalancato gli occhi perché era nella casa più bella che avesse mai visto. Il pavimento era di mosaico, le pareti erano tutte intonacate e sopra c’erano disegnati corpi di uomini e di donne impegnati negli amplessi più diversi, ma non c’era niente di volgare perché quei disegni erano un’opera d’arte. Adelaide, la prostituta, aveva preso per mano la ragazza e l’aveva condotta in una stanza dove ardeva il fuoco. L’aveva fatta sedere su una panca coperta di morbidi cuscini colorati e, dopo averle versato un bicchiere di birra, si era accomodata su una grande sedia imbottita rivestita di stoffa rossa. <Perché vuoi fare la prostituta, ragazza? Non è un bel mestiere> aveva cominciato Adelaide tentando di guardare l’ospite negli occhi, ma si era accorta presto che Anna non la stava ascoltando. La giovane si stava guardando attorno incantata. Godeva del caldo del camino e fissava il crepitare il fuoco il cui tepore le aveva fatto dimenticare in fretta l’umidità di quella giornata grigia che le era entrata nelle ossa. Guardava i mobili, le tappezzerie di stoffa che coprivano delle pareti, le tende, i bicchieri, le brocche, passando lo sguardo su ogni cosa, una ad una, e soffermandosi su quello che le sembrava più bello. Aveva ammirato gli orecchini della prostituta, lunghi e pesanti pendenti dove erano incastonate pietre preziose di diverse forme e colori e ai quali era agganciata una pietra più grande che sembrava una goccia di sangue. Infine aveva spostato lo sguardo sulla spilla tutta di oro sbalzato che aveva al centro un cavaliere con elmo e armatura e sul pendaglio che calava in mezzo agli occhi della donna dalla fascia della stessa stoffa rossa del vestito che le copriva la fronte. <Tu guardi tutto quello che c’è qui dentro, ragazza, ma non sai il prezzo che ho pagato per averlo>. Bastò per scuotere la ragazza. Adelaide si era tolta la fascia e sulla sua fronte, adesso, era ben visibile una lettera marchiata a fuoco. <Sai leggere, ragazza?>. Anna aveva scosso vigorosamente la testa per spigare che non ne era capace. <Questa è una lettera “P”. L’iniziale della parola “prostituta” – aveva ripreso Adelaide -. Mi hanno marchiato a fuoco come una bestia. È successo anni fa a Pavia per ordine del vescovo di quella città, perché certi suoi preti erano miei clienti. Lo sapevano tutti, ma a un certo punto un mercante col quale uno di questi santi uomini aveva avuto una lite per questioni di denaro decise di fare una pubblica denuncia e così scoppiò lo scandalo. Pensi forse che abbiano fatto qualcosa contro i preti che mi venivano a cercare? No. La mia punizione pubblica bastava e avanzava per lavare le loro coscienze. Mi hanno picchiato, frustato e marchiato. Mi hanno tenuto in carcere per due lune dandomi solo un po’ d’acqua e, ogni tanto, una minestra e alla fine mi hanno poi buttata fuori dalla città. Questa “P” è solo il segno esteriore delle sofferenze che ho dovuto sopportare per la maggior parte degli anni che ho vissuto. Vedi i miei vestiti colorati, ragazza? Per te sono belli, ma per me sono una condanna. Devo vestire in questo modo perché tutti sappiano che sono una prostituta, anche quando vado al mercato, anche quando cammino per la strada. Così anche i bambini pensano di avere il diritto di insultarmi e di sputarmi addosso. Tutti, soprattutto quelli che vorrebbero fornicare con me, ma non hanno i soldi per pagarmi. Per questo non esco mai di casa e sono costretta a inviare i miei servi per comperare il cibo o per andare a prendere l’acqua. E io, tra tutte, sono fortunata perché posso mantenere diverse persone al mio servizio. Ma la maggior parte delle donne che fanno questo mestiere non guadagna abbastanza. Molte muoiono a volte poco più che bambine per le malattie, le percosse dei clienti più depravati, la fame>. Anna aveva sgranato ancora di più gli occhi. Lo stesso sguardo che prima riservava ai gioielli adesso era tutto per la P marchiata sulla fronte di Adelaide. <È bene che io ti racconti la mia storia perché tu non possa pensare che tutte le cose che vedi io le abbia conquistate col mestiere>.

 

Mi hanno buttata fuori dalle mura di Pavia come un cane rognoso gridandomi “Tu, donna, sei la porta e lo strumento del Diavolo, tu hai circuito quello stesso sant’uomo che il diavolo non osava attaccare di fronte. È a causa tua che il figlio di Dio ha dovuto morire; tu dovrai fuggire per sempre in gramaglie e coperta di cenci”. Sono affamata, ho le vesti strappate, la schiena devastata dalle frustate e le ferite sono tutte infette. Ho la testa, le ascelle e il pube tormentati dalle pulci. I miei carcerieri mi hanno violentata a turno tutti i giorni che ho passato in prigionia, anche in due o tre assieme. Qualcuno di loro mi ha anche picchiata. Altri, invece, dopo avermi usata, mossi da compassione mi portavano un pezzo di pane nero come “ricompensa”. Sono arrivata a premiarli per questo cibo supplementare che mi ha consentito di sopravvivere regalando loro, la volta dopo, la massima collaborazione e impegnando tutte le mie arti. Quando ti hanno ucciso l’anima non hai alcun ritegno a piegarti per evitare anche solo una piccola pena tra le moltissime che ti stanno infliggendo. Adesso cammino senza scarpe e senza meta per le campagne. È inverno e sto morendo di freddo. I piedi mi sanguinano e non li sento più: sono così gelati che nemmeno percepisco più il dolore. Anche le mani sono ghiaccioli.
Vedo un fuoco poco distante in uno slargo vicino al sentiero: è la mia unica speranza di sopravvivere. Mi avvicino con prudenza, ma abbastanza da riuscire a scorgere un mercante che si è accampato e sta arrostendo degli uccelli spennati lì vicino e infilzati su un ramo. Ho paura di avvicinarmi: ormai so cosa è capace di fare un uomo. Nel carro c’è una coperta arrotolata in un angolo dietro ad alcune botti e ad alcune piccole casse di legno. Decido di rubarla. Scivolando tra i cespugli arrivo dietro al carro. Appena allungo una mano verso la stoffa, il mercante, che si è accorto di tutto e ha fatto il giro in senso opposto per prendermi alle spalle, mi balza addosso. Con la sua mano piccola e tozza agguanta il mio polso e mi gira il braccio dietro la schiena. Quindi mi spinge e mi piega sul carro dandomi un colpo sulla schiena dolorante, ancora martoriata dalle frustate. Nonostante io tenti di divincolarmi non gli è difficile alzare e stracciare definitivamente quello che rimane della mia veste. Poi, con forza, tenta di aprirmi le cosce, ma io lotto per non consentirglielo. Che importanza fa se mi violenta uno di più visto che non ne so più tenere il conto? Nessuna, ma l’istinto è più forte della ragione. Con l’altra mano, dopo avermi palpato ovunque così forte da farmi male, si tira su la tunica. E siccome non apro le gambe per consentirgli di soddisfare la sua voglia e sono piegata sul carro, decide che gli sarà più facile sodomizzarmi. Sai cosa vuole dire, vero, ragazza? A tutti gli uomini piace più di un rapporto secondo natura. A tutti, meno a quei pochissimi che lo aborrono totalmente, ma il mercante non è tra questi. Il dolore è forte e io so che opporsi serve solo a peggiorare la situazione e, in certi casi, ad aumentare il piacere di colui che ti sta usando violenza. Perché sono in tanti a provare piacere del dolore di una donna, fisico o psicologico che sia. Allora riesco a recuperare lucidità, mi lascio andare e proprio in quel momento il respiro di quel porco si fa affannoso, il ritmo rallenta. Il suo coso… – sì, hai capito di cosa parlo? – si affloscia. Poi quel bastardo tira un grido rauco. Si accascia sopra di me a peso morto, sbava sulla mia spalla. Io riesco a divincolarmi e d’istinto corro via. Lui cade a terra. Tira un grido. Rantola. Poi più nulla. Dopo pochi metri mi fermo e torno indietro. Mi avvicino lentamente, passo dopo passo per timore che si alzi all’improvviso. No, non respira più. Lo guardo per la prima volta in faccia da vicino. Ha pochi capelli lunghi solo sopra le orecchie e sulla nuca, la faccia rosea che sembrava proprio quella di un maiale. Gli occhietti piccoli, di un azzurro chiarissimo, liquido, sono rimasti sbarrati. Sulle labbra ha una smorfia. Tento di muoverlo con un piede. È morto, sì, morto stecchito. È come se il dio, lo stesso dio del vescovo che mi ha fatto frustare, avesse deciso di punire l’uomo per il suo peccato di lussuria – dubito che si sarebbe scomodato “solo” per impedire la violenza perpetrata nei confronti di una donna, per di più prostituta – fulminandolo proprio nell’istante del piacere. Mi chiedo perché non l’abbia fatto prima, quando le guardie mi tormentavano e quasi non mi lasciavano il tempo di dormire per godere del mio corpo un turno dopo l’altro. Non è il momento di fermarsi a pensare: stacco in fretta il cavallo dal carro, prendo la coperta e la bisaccia che il morto ha legata in vita. L’istinto è quello di fuggire. Penso di non avere tempo di aprire le casse di legno per vedere se c’è qualcosa di prezioso e arraffo solo un coltello, qualche pagnotta e del formaggio che il mercante teneva in un sacco. Poi penso anche che una donna da sola non può girare da quelle parti con una bisaccia piena e una coperta addosso. Così decido di spogliare il morto. Certo, mi fa impressione. Ma è ancora caldo e se lo faccio subito farò meno fatica. Mi faccio forza. Lo tocco appena con due dita. Poi torno a pensare che devo fare in fretta, prima che arrivi qualcuno. La disperazione è un’ottima consigliera, certe volte: abbandono ogni paura e gli tolgo le calze, la cintura, la guarnacca, che è di una bella pelliccia calda e infine la tunica. Raccolgo anche il mantello che ha persino il cappuccio e mi accorgo subito della bella spilla d’oro che serve per chiuderlo. Poi strappo un pezzo della mia tunica per fare una fascia che copra il marchio sulla mia fronte. Infine tiro via la cuffia al cadavere. Non è facile sistemarci dentro i miei lunghi capelli ormai tutti un nodo, ma alla fine riesco a farceli stare. Sfilando al morto le scarpe per togliere le calze mi ero già accorta che per me sarebbero state troppo grandi. Le infilo comunque, dopo aver avvolto i miei piedi con alcuni brandelli di stoffa della mia vecchia tunica, poi tiro i lacci e li lego stretti. Non sono proprio comodissime, ma almeno sono calde. E poi ormai andrò a cavallo, non più a piedi. Arriverò presto in un posto dove potrò comprare nuove calzature più adatte a me. Mi guardo attorno e vedo che ancora non c’è anima viva all’orizzonte. È scesa anche un po’ di nebbia. Allora mi permetto di perdere un po’ di tempo per frugare sul carro. Trovo una scatola di legno, chiusa dentro un sacco ben nascosto tra le botti. Dentro ci sono moltissime monete d’oro e d’argento. Tante che non le ho mai viste tutte assieme e probabilmente nemmeno in tutta la mia vita. È venuto il momento di allontanarmi velocemente col mio bottino. Cavalco fino a quando il buio copre ogni cosa cancellando i pochi colori che la nebbia lasciava percepire. Mi addentro a piedi in un bosco di alberi alti portando il cavallo per le briglie. Ho paura, ma non degli spiriti. Quelli non mi hanno mai fatto male. Ho paura degli uomini perché non hanno pietà nemmeno di chi gli fa provare piacere. Tutti sanno che i briganti non sono affatto rari da quelle parti. Dopo aver mangiato un po’ di pane e formaggio, cerco di dormire, ma non ci riesco. Fa freddo, poi ogni rumore mi fa saltare il cuore in gola. Così appena il cielo schiarisce riprendo il cammino. Cavalco per altre due ore fino a quando incontro un fiume che scorre placido attraverso la pianura. La nebbia si sta alzando finalmente, ma fa sempre più freddo. All’improvviso, sotto l’argine, vedo un ospizio, una chiesa e diverse capanne di contadini. Andando avanti vedo che ci sono anche un castello e un porto fluviale con delle barche e una larga zattera che, grazie a corde tirate da muli, va avanti e indietro unendo una sponda all’altra. Entro in paese e nella prima bottega compero dei vestiti nuovi, sempre da uomo. Voglio evitare che qualcuno possa riconoscere gli abiti del mercante. Finalmente porto addosso roba pulita e della mia misura. Il mantello lo scelgo più ampio, che nasconda meglio le mie forme di donna. Poi vado da un calzolaio che mi cuce le nuove scarpe nel tempo in cui io scambio il cavallo per un mulo e qualche moneta. So di perderci, ma in questo modo, penso, darò meno nell’occhio. Quindi entro nell’osteria per mangiare una minestra calda, la prima dopo molto tempo. Ordino un zuppa che si rivela gustosa e ricca di cereali, un bicchiere di birra e del pesce di fiume arrostito e mentre parlo con l’oste mi rallegro tra me e me del fatto che il freddo della notte mi abbia resa rauca la voce, così sarà più difficile capire che sono una donna e non un ragazzino. Al mio stesso tavolo sono seduti alcuni mercanti. Ascoltando i loro discorso scopro che mi trovo sulla via chiamata Francigena, ma questo mi dice assai poco. Stanno discutendo del viaggio che li porterà fino a una città che si chiama Genova, che, dicono, è un porto di mare. Lì compreranno merci appena sbarcate dalle navi. Faccio qualche domanda, mi offrono del vino. Mi chiedono dove stia andando e io rispondo che sono un giovane appena rimasto orfano in cerca di fortuna. Mi propongono di seguirli dicendomi che andare in giro da solo è pericoloso e che a Genova certo troverò un lavoro. Qualcuno, per mettere in imbarazzo l’adolescente impacciato che sembro, aggiunge ridacchiando che troverò persino una fidanzata. Uno di loro mi indica la ragazza che serve ai tavoli e mi chiede cosa le farei se l’avessi tra le mani. Mi tornano in mente le violenze, le guardie, il mercante. Per fortuna tutti scambiano l’ira che mi arrossa il volto con l’imbarazzo di un giovane timido e scoppiano in una fragorosa risata. Mi chiedono come mi chiamo e quanti anni ho. Colta alla sprovvista, incespico nella mia stessa ligua e di nuovo mi prendono in giro. Ho il tempo di ragionarci un attimo e dalla mia bocca esce il nome “Teudiperto”, quello di uno dei miei vecchi clienti, e che di anni ne ho 13. In questo modo durante il viaggio i miei compagni non si chiederanno perché a questo strano ragazzo non cresce la barba, perché la mia voce è così sottile e perché sono così minuto. Il freddo che fino ad ora è stato un fastidio adesso diventa una fortuna, perché sotto il mantello e la guarnacca, il mio seno, che ho fasciato stretto, è ben nascosto. In quel momento qualcuno entra e chiama i mercanti: è il loro turno di salire sulla chiatta e attraversare il fiume. Raccolgono tutte le loro cose ed escono. Io li seguo. Un porto è senza dubbio un buon posto dove esercitare la professione della prostituta, mi dico. Ammesso che riesca a trovare la forza di consentire di nuovo a un uomo di toccarmi. L’idea di viaggiare da maschio in compagnia di una decina di uomini non mi dispiace affatto. Quando arriviamo sulla sponda, prima vengono spinti sulla chiatta i nostri muli e qualche pecora di un contadino che le ha appena comperate al mercato, poi possiamo salire anche noi. Quindi la chiatta si muove, tirata dall’altra sponda. Sbarchiamo tutti, per primi gli animali, e ci incamminiamo. Non siamo soli. Altri mercanti si uniscono, anche solo per un breve tratto di strada, fino alla propria destinazione, altri si aggregano lungo il cammino. Si forma una vera e propria carovana. Sulla via troviamo i corpi di due uomini che sembrano morti da poco perché il loro sangue versato sul terreno non si è ancora raggrumato. Certamente erano due mercanti e sono stati sgozzati dai briganti. I malviventi gli hanno tolto persino i vestiti, come ho fatto io con l’uomo che mi ha violentata.
Qualche volta dormiamo all’aperto. Altre volte incontriamo un borgo e possiamo riposare e mangiare in un ostello. Resta, però, sempre qualcuno sveglio a fare la guardia. Perché si dice che i rapinatori assassini non agiscano solo sulla strada, ma anche negli ospizi, d’accordo coi proprietari. Si racconta di certe stazioni di posta dove i soffitti delle camere, fatti di pesanti tronchi d’albero assocurati con robuste corde, vengano fatti cadere di schianto sui mercanti addormentati che ne vengono schiacciati e che, dopo, i locandieri cerchino tra le budella e i brandelli di cervello e di ossa monete e oggetti preziosi.
I miei compagni sono molto piacevoli. Mi trattano tutti come fossi un figlio. Mi anticipano i pericoli che incontreremo lungo il percorso, mi insegnano a riconoscere gli animali e a cacciarli, anche se io non sembro molto portata anche perché non riesco a tendere l’arco. Mi aggiustano il basto del mulo che io non riesco mai a sistemare bene. La sera c’è sempre qualcuno che racconta una storia o un’avventura e quando credono che io dorma, mi rimbocca la coperta. Mi sento coccolata e mi fa uno strano effetto, perché è la prima volta che accade nella mia vita di orfana. Perché orfana lo sono davvero, da quando avevo appena sei anni. Sì, i miei compagni sono tutti meravigliosi, forse perché mi credono maschio come loro e mi coinvolgono in un cameratismo alla quale noi donne non siamo avezze, intente come siamo, sin da bambine, a gareggiare con le altre per grazia e bellezza. Solo uno di loro, Maione, sembra che mi corteggi come se se sapesse che non sono un ragazzino. Mi guarda con certi occhi languidi e negli accampamenti si mette sempre a dormire vicino a me. Una notte mi sveglio e scopro che ha allungato la sua mano sotto la coperta, il mantello, la tunica e che mi sta toccando il sedere. La sua carezza è leggera come una piuma, perché io non abbia a svegliarmi. Sento che ansima. Certamente si sta masturbando. Lo conosco questo modo di comportarsi degli uomini, ma speravo, in quanto maschio, di essere immune dalle molestie. No, nemmeno da uomo mi lasciano stare, è questo il mio destino. Il giorno dopo mi avvicino a Bartolomeo, il mercante più vecchio. Sottovoce gli racconto quello che è successo e gli dico che mi fa schifo e che ho paura mettendo su la migliore maschera da bimbetto spaventato che riesco ad imitare. Mi risponde imbarazzato che, sì, lo sa bene, anzi, lo sanno tutti: al suo compagno piacciono i ragazzini quanto le donne. Aggiunge che, personalmente, nulla ha da ridire se gli uomini con cui si apparta il compagno di viaggio sono consenzienti, ma nel caso in cui, come me, non lo siano occorre subito mettere un freno al suo comportamento prima che nella comitiva nascano inizimicizie. Mi raccomanda di svegliarlo, anche di notte, se dovesse succedere ancora, poi gira il cavallo e raggiunge Maione. I due parlano un po’, poi Bartolomeo torna in testa alla carovana e l’altro cavalca tutta la giornata con la testa bassa. La sera mi sistemo a dormire vicino al mercante più anziano e i miei problemi terminano lì. Mi chiedo se sarebbe stata la stessa cosa se Bartolomeo avesse saputo che sono una donna. Se si sarebbe preso comunque la briga di intervenire e se Maione avrebbe smesso di molestarmi come ha fatto pensandomi uomo o, piuttosto, avrebbe risposto a Bartolomeo di farsi i fatti suoi o se, ancora, passandosi la voce, tutti non si sarebbero fatti avanti, branco di lupi su una preda incapace di reagire e di sfuggire.
Il giorno dopo superiamo un fiume varcando un vecchio ponte romano ancora in ottime condizioni e passiamo per le vie centrali di un paese, dove è allestito un grande mercato. Finalmente, le discese e le salite finiscono e la strada si inoltra in una vallata pianeggiante tra le colline. Ci fermiamo poco dopo in una cittadina, dove si trova l’abbazia benedettina di Santa Maria. I più devoti tra noi vogliono rendere omaggio a Dio. Entriamo dentro la chiesa. Mentre qualcuno prega io mi guardo attorno. Mi stupisce un grande capitello. Rappresenta un essere bestiale. Forse un lupo, forse un diavolo, dalla cui bocca esce un tralcio con grappoli d’uva. Mi dico che è un segnale rassicurante. Che a volte da una cosa cattiva può nascere un futuro migliore, che dalla violenza che ho subito la mia vita ha avuto una svolta. Ora devo solo giocarmela bene. Il giorno dopo riprendiamo il cammino e dopo un po’, all’improvviso, mi si para davanti una pianura che sembra in movimento. È come se un immenso campo di grano spazzato dal vento si fosse tinto improvvisamente di blu, di grigio e di verde scuro, con alcuni puntini bianchi. Senza accorgermene, fermo il cavallo. Bartolomeo torna indietro per vedere cosa mi sia successo. Mi guarda in faccia, poi sposta lo sguardo seguendo la direzione del mio e, infine, scoppia a ridere. <Pare che il giovane Teodiperto non abbia mai visto il mare> spiega agli altri. Allora, mi dico, è quello il mare! Quella massa che si muove è acqua, acqua fino a dove i miei occhi arrivano a vedere. Percorriamo ancora un po’ di strada e la riva si avvicina sempre di più. “Il mare, il mare” ripeto ossessivamente. Sì, il mare non è fermo come io credevo. Il mare si muove. Quando arriviamo sulla spiaggia, alla foce del fiume, scendo da cavallo. Bartolomeo mi raccomanda di non bagnarmi le scarpe e i vestiti, <perché è inverno e poi moriresti dal freddo> dice. Io mi avvicino alle onde che si spingono verso la spiaggia e lì si infrangono con un boato. Arrivo appena a toccare la spuma bianca, quella che l’acqua spinge più in su, prima che ricada nella grande massa che oscilla, si alza, arretra, sospira, ulula. Faccio qualche passo avanti, sui sassi bagnati, e poi devo correre indietro perché sta arrivando un’altra onda. Questo segreto che mi si è rivelato vale per me tutte le pene passate. Dalla bocca del diavolo, mi dico, è uscita la cosa più preziosa, un dono che mai potevo immaginare di ricevere: il mare. Bartolomeo deve letteralmente trascinarmi via, perché, dice, la strada è ancora lunga. Da Luna bisogna risalire le ripide colline infestate di briganti. Mi dicono che bisogna raggiungere Bodetia[1], poi Ad Monilia[2], Segesta Tigulliorum[3], Portum Delphini[4] e poi scendere e salire si nuovo. Ma il mare sarà sempre là, alla nostra sinistra. È vero. A volte scompare dietro la vegetazione e poi riappare dietro una curva e sembra una serie di colline d’acqua verde-blu dietro alle vere colline. A volte, invece, compare ai piedi di una scarpata come una tavola grigia oppure uno specchio azzurro che riflette i raggi del sole moltiplicandoli e si trasforma, così, in un cielo in movimento punteggiato di stelle luccicanti. Ci vogliono ancora alcuni giorni, ma alla fine arriviamo a Genova. Passiamo su un lungo ponte dalle arcate basse che ci consente di attraversare un torrente dalla foce enorme, proseguiamo per i campi e poi ci addentriamo in un borgo di poche case sparse pieno di botteghe che vendono orci e pentolame. Infine arriviamo alla porta della città, che sta su un colle. Quindi la superiamo e discendiamo verso il mare lungo una strada dissestata piena di fango fino al porto grande dove sono ormeggiate diverse enormi navi da carico. Lì, proprio davanti ai moli, arriviamo ad una osteria che mette a disposizione anche alcune camere. Ricoveriamo i cavalli nella stalla, poi ci sediamo ai tavoli dove ci servono una buona minestra e una gustosa focaccia ripiena di verdure e formaggio. Poi saliamo una scala di legno che porta alle camere e lì, tanto siamo stanchi, ci addormentiamo che è ancora giorno. Ci svegliamo tutti di buon mattino. Bartolomeo mi dice che sta andando a trattare alcune merci al porto e mi chiede se voglio seguirlo. Ma io preferisco cominciare a guardarmi in giro e a cercare una casa. Ne trovo una in buone condizioni proprio lì vicino. A dire il vero è molto grande, toppo per una sola persona. Penso che potrò organizzarci un’osteria e vivere così senza dover tornare a prostituirmi. Le finestre di un lato della casa danno proprio sui moli e potrò vedere ogni giorno il mare. La cifra che mi chiedono è eccessiva e penso di chiedere a Bartolomeo di trattare lui per me. Certo, dovrò confessargli che non sono un ragazzo e da quel momento non potrò più dormire coi miei compagni. Ma loro, comunque, tra qualche giorno se ne andranno percorrendo a ritroso la strada che abbiamo fatto per arrivare fino a qui, questa volta molto più lentamente, coi carri appena comprati e carichi di merce. Quando il vecchio mercante torna all’osteria è ormai ora di pranzo. E’ soddisfatto, perché ha comperato a un buon prezzo incenso africano e preziose tinture per le stoffe: il rosso di Tiro e l’indaco, il colore della purezza. Ultimamente, mi spiega, tutto ciò che arriva per mare costa molto di più per via delle scorribande dei saraceni che attaccano le navi da trasporto. Dice che è una fortuna per lui aver comperato a quei prezzi. Il lo lascio parlare. E’ così entusiasta che non mi ascolterebbe se gli sottoponessi il mio problema. Quando ha terminato il suo lungo discorso gli dico, finalmente, che devo parlargli. E che deve essere da solo: non voglio che gli altri sentano. <Vieni, sediamo a questo tavolo, qui, nell’angolino – mi dice -. Dimmi pure ragazza>. Io rimango di pietra, Bartolomeo ha capito tutto. Ma da quando sa che sono una donna e come se ne è accorto? Mi risponde che il mio modo di cavalcare, di parlare, di muovere le mani gli avevano subito suscitato forti dubbi sul mio sesso. La conferma gli era arrivata da Maione. Quella notte in cui mi ero accorta che mi toccava, quando finalmente mi ero addormentata, il mercante aveva frugato sotto la mia tunica senza trovare quel che si aspettava. Ne era rimasto stupito e, quando Bartolomeo gli aveva chiesto la ragione del suo comportamento, gli aveva detto che mai più sarebbe successo informandolo anche della sua “scoperta”. Bartolomeo lo aveva convinto a non dire niente agli altri e con me aveva fatto finta di non sapere. A quel punto non posso fare altro che chiedergli di perdonarmi per la bugia, gli racconto quello che mi è successo, gli faccio vedere la P sulla fronte e gli chiedo di aiutarmi. Lui acconsente e prima di sera la casa sul porto è mia. Bartolomeo ha trattato fin quasi a dimezzare il prezzo rifiutando la percentuale che gli ho offerto. Poi mi ha aiutato a portare tutta la mia roba nella nuova dimora. Ci sono già un tavolo, un giaciglio, qualche cassapanca, appena due sedie. Il mercante che la possedeva è fallito e in casa non aveva quasi più nulla, aveva svenduto tutto per tentare di salvarsi almeno l’onore. Bartolomeo ha portato con se anche una piccola botte di vino che beviamo insieme davanti al camino. È il primo uomo che mi rispetta, che mi tratta come una persona e non come una donna. Ma donna devo tornare e così compero un vestito da signora, e lo indosso, anche se mi sta un po’ largo: ho bisogno di qualcosa da mettere addosso mentre aspetto gli altri abiti che ho commissionato al sarto, scegliendo le stoffe più belle. Finalmente sciolgo e lavo i capelli, ma non riesco a districarli e così, purtroppo, li devo tagliare. Preparo anche una zuppa e imbandisco la tavola con formaggio e pane. Bartolomeo ed io parliamo a lungo. Parliamo e continuiamo a bere. Il caldo e il vino mi fanno scivolare in uno stato di torpore e poi i miei occhi si chiudono. Al mattino mi sveglio completamente vestita, adagiata sul letto. La cassetta delle monete non c’è più. Corro all’osteria, ma il mercante è già partito. Oltre la casa non mi resta altro che l’abito troppo largo che indosso, la spilla d’oro del mercante che mi ha violentava, le stoviglie e i pochi cibi che ho comperato ieri. Devo pagare i vestiti e le scarpe che ho ordinato. E poi devo vivere. Non mi resta altro che vendere la casa o tornare a fare la prostituta. Scelgo la seconda opzione. Coi pochi soldi che mi sono rimasti nella tasca dell’abito, il resto degli acquisti di ieri, compero un abito rosso – la tinta delle puttane – e del minio da darmi sulle labbra per farle più rosse. Tolgo la fascia dalla fronte. Così tutti capiteranno cosa offro. Passeggio per le strade della città. Sorrido agli uomini soli, arrivo fino al porto. È lì che trovo la maggior parte dei clienti, uomini che scendono a terra dopo settimane, a volte mesi, senza aver toccato una donna. Normalmente si sbrigano in fretta e per me è una grande fortuna perché gli uomini, ormai, mi fanno schifo. Credo sia normale quando così tanti hanno voluto e saputo farti male.
Alla fine mi dedico solo ai marinai perché come arrivano se ne vanno e non hanno il tempo di diventare insistenti e noiosi né di affezionarsi. Quanto a me, non corro il rischio che accada. Dopo le violenze che ho subìto a Pavia non li so vedere più come compagni di letto se non per denaro, dopo il furto di Bartolomeo li disprezzo con tutta l’anima e non penso possano essermi amici. Tra i clienti c’è sempre qualcuno che cerca di scappare senza pagare, che chiede di essere insultato o di insultarmi, magari di darmi anche qualche pacca sul culo o di stringere i miei capezzoli tra le dita fino a farmi male. C’è anche chi, quando è soddisfatto e rivestito, tira fuori un coltello per cercare di non versare quanto deve. Presto mi rendo conto di guadagnare abbastanza da potermi permettere un servo che stia dietro la porta, pronto a intervenire. Poi, parlando con alcune colleghe, mi rendo conto che posso fare di meglio: loro hanno bisogno di un posto dove soddisfare i clienti ma non possono comperare una casa. Così spesso sono costrette a pagare al padrone dell’ospizio più della metà di quanto guadagnano. Bene, affitterò a loro le stanze al primo piano della casa e di quel guadagno vivrò smettendo di prostituirmi. Loro potranno pagare un prezzo onesto, un quarto di quanto guadagnano, la metà di quanto spendono adesso. Ho otto stanze oltre quella dove dormo. Guadagnerò ogni mese il doppio di quanto ricavavo prostituendomi. Non dovrò più toccare un uomo in vita mia e non rischierò più di morire di una di quelle malattie con cui gli uomini contagiano le prostitute come le loro mogli, accumunate, per una volta, in un unico destino. Non so come abbia fatto a salvarmene fino ad oggi. Sono fortunata ad essere ancora viva e sana ed è meglio non sfidare ancora la fortuna. L’idea è buona. In pochi mesi riesco a conquistare una posizione stabile. Le ragazze sono contente e io più di loro. Ora i servi sono due. In più, le ragazze ed io paghiamo una donna che si occupa di preparare il pranzo per tutti e di rassettare le stanze. Gli affari vanno a gonfie vele, se ne accorge anche la Curia, che manda un proprio emissario ad esigere la decima. A dir la verità mi sembra incredibile, ma l’uomo che bussa alla porta per pretendere il pagamento dice di essere inviato proprio dal Vescovo. Rifiuta di entrare e si guarda attorno mentre mi parla, per timore di essere scoperto davanti alla porta di un lupanare. Io non mi fido: mi metto un vestito rosso scuro, un po’ meno vivace degli altri e vado fino a San Siro, dove chiedo di essere ricevuta da qualcuno che si occupi di queste cose. Mi fanno entrare e parlo con un monaco che appena capisce chi sono chiama le guardie per farmi buttare fuori dal convento. Mi hanno già afferrato le braccia quando, per fortuna, arriva un prete alto alto, coi capelli brizzolati, gli occhi azzurri come il mare a riva e mani grandi e ben curate. Non è un prete come gli altri perché i suoi vestiti sono molto ricchi e ha al collo una croce tempestata di pietre preziose. Ferma le guardie, congeda il monaco che si affretta a uscire dalla stanza con grandi inchini, camminando all’indietro. Il prete sorride d’un sorriso chiaro, franco, solare. È un bell’uomo, dalla struttura imponente. Mi parla curvandosi un po’, perché è molto più alto di me. Mi guarda diritto negli occhi. Non con la presunzione di chi sa di avere la verità in tasca, ma con la forza interiore della persona che non conosce la menzogna. Per la prima volta sono imbarazzata a confrontarmi con qualcuno, ma mi faccio forza e tento di spiegargli quanto è accaduto. Gli dico dell’uomo arrivato alla mia porta e della sua richiesta, gli spiego che non è mia intenzione non pagare, se questo è quello che devo fare lo farò. Spiego che desidero soltanto sincerarmi che sia tutto regolare e che nessuno stia tentando di truffarmi. Mi rendo conto, a un certo punto, di essere un torrente in piena: parlo, parlo, parlo. Non smetto più di parlare. Di fronte a quel sorriso placido, a quella testa inclinata su un lato che sembra un segnale di benevolenza, a quell’espressione bonaria che è quella di chi vuole capire e capisce il pieno significato di ogni mia parola, mi sembra di dover giustificare quello che faccio, di dover raccontare perché sono arrivata a farlo e così gli dico di quando sono rimasta orfana, di quando ho dovuto prostituirmi per non morire di fame, dalle violenze di Pavia (ovviamente omettendo il fatto che i frequentatori del mio letto fossero soprattutto preti) e di quella che ho subito in strada, infine del furto dell’anziano mercante. Lui aspetta che io abbia finito, poi mi prende le mani, mi chiede qual è il mio nome e mi dice di chiamarsi Alfonso. Allora non ho sbagliato: non è un prete qualsiasi, è l’attendente del vescovo in persona! Mi prega di accomodarmi su una sedia che sta vicino ad un tavolo coperto di libri e si siede anche lui. Non dall’altra parte come mi aspetto, ma proprio di fronte a me. Quindi chiama il servo e gli chiede di portare due bicchieri di birra e infine mi prega di continuare. Ma io mi rendo conto di non saper dire. Gli spiego che sono solo una donna condannata dalla vita ad essere sola e peccatrice. Una donna la cui ansia, esaurita la speranza di poter vivere la vita accanto a un uomo da amare e dal quale essere amata e col quale fare dei figli, è quella di non morire di fame, di non patire il freddo e di vivere in pace. Alfonso mi ascolta, abbassa la testa. Sembra riflettere. Poi alza il volto e recita: <Uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sè e sè. “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”. Volgendosi verso la donna, Gesù disse a Simone: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati? ”. Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvato; va in pace!>. Quindi il prete incalza <Chi sono io per giudicare i tuoi peccati?>. Poi chiude ancora gli occhi e ricomincia: <Non ergo duo mala sunt conubium et fornicatio, quorum alterum peius, sed duo bona sunt connubium et continentia, quorum alterum est melius[5]>. E, infine, aggiunge: <Cum vero vir membro mulieris non ad hoc concesso uti voluerit turpior est uxor, si in se, quam si in alia fieri permiserit[6]>. Contrariamente alla maggior parte delle persone che conosco, so leggere, anche se non scrivo bene. È strano che una puttana sappia leggere e scrivere, ma è proprio perché lo sono che ho imparato a farlo. Me l’ha insegnato un prete a Pavia, uno dei miei clienti, che desiderava gli leggessi frasi della Bibbia e di altri libri santi che gli ricordassero la gravità del suo peccato prima di gettarsi sul mio corpo e, a cose fatte, desiderava che io lo flagellassi per punirlo subito della sua depravazione e saldare subito il conto con l’Inferno. Mi pagava bene e non mi ha mai fatto del male. Anzi, a me piacevano gli incontri settimanali con lui soprattutto perché, quando lo raggiungevo nella sua chiesa, tirava fuori uno dei suoi enormi libri e mi insegnava il significato delle parole. Mi sembrava straordinario poter leggere e capire le frasi scritte tanti secoli prima, dare vita con la mia voce a cose dette da persone morte da centinaia di anni. Quante volte ho letto ad alta voce brani di quel libro che adesso Alfonso sta citando. Tante che le so a memoria e quando lui le recita, io le recito assieme a lui, scandendo la metrica, come mi hanno insegnato. <Chi sei? Una prostituta che conosce Sant’Agostino… Una meretrice che si prende la briga di entrare in cattedrale a discutere le decime…> dice. <Io non le discuto, voglio solo sapere se è vero che è la Chiesa a chiederle o se sono stata presa di mira da un truffatore> gli rispondo piccata. E allora lui sorride e mi spiega che da tempo è così a Roma e ora la tassa è stata introdotta anche a Genova. Mi chiede una descrizione della persona che mi ha bussato alla porta e quando gli spiego dell’omino un po’ curvo, con pochi capelli e sorrido parlando della paura che aveva di essere riconosciuto sulla porta del lupanare mi dice che posso pagare a lui senza timore: è il riscossore della Curia. La sua voce è un sussurro, ma allo stesso tempo ha il calore e la forza di un vento estivo. Quando parla ha le mani poggiate sul grembo. Ecco, ne alza una. Con un gesto delicato ma deciso sposta la fascia che ho sulla fronte e vede la P marchiata a fuoco che mi deturpa il volto. Io gli racconto quanto mi è accaduto con lo sguardo che non può rivolgersi che a terra, cercando di misurare le parole per non offenderlo. Non perché abbia timore della sua reazione, ma perché non voglio che pensi che per l’abito che porta lo accomuno a chi mi ha fatto tutto questo. All’improvviso entra senza bussare un ragazzo mingherlino, dall’aria cupa, completamente vestito di nero con bordi dorati al mantello. Non è un prete, ma ha l’aria austera. Mi lancia uno sguardo sprezzante, disgustato. Fa una smorfia seguendo con gli occhi la mano di Alfonso dalla mia fronte fino al braccio e alla spalla del segretario del Vescovo. Poi fissa il prete negli occhi con odio. <A questo siamo arrivati? Riceviamo le meretrici nel convento> sibila. Solo in quel momento Alfonso distoglie gli occhi dalla mia fronte, abbassa la mano, si volta verso il giovane e comincia lentamente a recitare: <“Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”>. Il ragazzo risponde <“Oh, non sapete che gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il suo Regno”>. Mi stupisce che quel ragazzetto osi sfidare il sacerdote. I due continuano la loro schermaglia verbale per un po’. Alla fine Alfonso pare esausto e chiude la discussione in modo brusco: <“Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. E adesso vai, Gusberto, e la prossima volta che vuoi entrare ricorda di bussare alla porta>. Si capisce che il giovane vorrebbe controbattere, che vorrebbe trovare qualcosa di velenoso da dire. Non ci riesce, invece, e rimane lì, col viso in fiamme. Probabilmente la sua età lo porterebbe a reagire con un gesto violento, magari un pugno ben assestato sulla faccia dell’interlocutore. Ma Alfonso gli indica la porta, lui abbassa la testa, si gira e dà un calcio fortissimo all’asse di legno che si spalanca per poi richiudersi inghiottendolo. Il prete controlla che il ragazzo si sia allontanato, poi si gira verso di me. <È stato un piacere parlare con te, Adelaide. Ora devo andare a riferire al vescovo quanto è accaduto prima che Gusberto lo raggiunga e gli dia la sua maligna versione dei fatti, il che sarebbe un guaio sia per me sia per te. Spero di incontrarti ancora e magari di convincerti ad abbandonare il tuo lavoro da sfruttatrice del meretricio>. Mi benedice, poi mi accarezza la guancia con una mano. E mentre le sue dita sfiorano la mia pelle sento un brivido, un’emozione mai provata prima.

 

<Per la prima volta, ragazza, ho trovato una persona con la quale discutere e confrontarmi senza timore. Perché Alfonso prima che prete è uomo e, bada bene, non ho detto “maschio”. È un uomo buono e onesto come non ne ho mai incontrati. Giusto, convinto della sua fede, generoso con chi ne ha bisogno, sempre pronto ad ascoltare. Non possiamo vederci in cattedrale o in convento e certo lui non può venire qui. Ci incontriamo al trivio del bosco vicino al quale c’è una casa dove possiamo sederci e parlare bevendo un bicchiere di vino e mangiando pane o frutta. Non abbiamo mai avuto contatti carnali. A volte una carezza, in qualche occasione un bacio leggero sulle labbra, più spesso sulla fronte. Dobbiamo stare attenti, perché quel giovane, quel Gusberto, lo odia e farebbe qualsiasi cosa per screditarlo. Cosa direbbe il Vescovo se sapesse che il suo attendente si incontra con una prostituta – perché per tutti io resto quello, ragazza. Io sono “la prostituta” -. Quando riusciamo a incontraci, parliamo ridiamo e mangiamo assieme. Io cucino una zuppa o arrostiamo un pollo e ce lo dividiamo da buoni fratelli. Lui continua ad insegnarmi a leggere e a capire quello che leggo. Una parola dopo l’altra, mi ha convinto ad aiutare le donne che lo vogliono ad abbandonare la prostituzione. Mi aiuta a trovare loro una via di scampo, una sistemazione. Se tu vuoi, stanotte puoi imbarcarti su una nave che salpa dal porto in direzione di Vado Sabatia. Se vorrai approfittare dell’occasione troverai al tuo arrivo una casa dove fare i lavori domestici e badare al giardino e all’orto. Avrai di che mangiare e nessuno conoscerà il tuo passato né alcuno dei tuoi parenti immaginerà mai quale sia il tuo rifugio. Trovati al porto tra la terza e la quarta vigilia. Io sarò là ad aspettarti>. Anna aveva sorriso felice, aveva baciato la mano di Adelaide, le aveva promesso che ci sarebbe stata e di non dubitare del suo arrivo. Si era dimenticata di dire alla prostituta che quel Gusberto era proprio l’uomo che doveva sposare la sorella. Quando se ne era ricordata aveva già percorso metà della strada in salita che la separava da casa. Aveva pensato che avrebbe potuto dirlo quando si sarebbero riviste e si era ripromessa di raccomandare alla donna di vegliare sulla povera Gismunda, se poteva. Adesso era più urgente raccogliere le poche cose che aveva e poteva portare con sé: un pettine d’osso a denti larghi, il mantello pesante e il pegno d’amore del suo Seamus: un ciondolo di ferro con due cuori intrecciati. La ragazza non aveva potuto fare a meno di pensare che forse avrebbe potuto ritrovare il suo amore proprio a Vado Sabatia. Magari stava lavorando in quel posto che le sembrava così lontano, tanto lontano che bisognava arrivarci via mare. Finalmente lei e il suo uomo sarebbero stati liberi di amarsi e di avere figli. Aveva preparato tutto e si sistemata nel giaciglio più vicino alla porta. Quando l’intera famiglia stava dormendo aveva guardato la sorella. Gismunda aveva il sonno agitato. La mattina dopo di sarebbe fidanzata e ad Anna spiaceva che il futuro marito fosse un uomo così maligno, livoroso e cattivo. Aveva esitato un attimo, poi si era detta che non poteva perdere tempo, che ogni secondo che passava rischiava di essere scoperta. Allora aveva sceso le scale di legno badando bene a non farle scricchiolare, poi aveva superato il magazzino di pece, aveva aperto il portone solo un poco, facendo attenzione che i cardini non facessero rumore, ed era scivolata fuori. Si era precipita giù per la strada, evitando quella più ampia e diretta e correndo nei viottoli tra le case che raggiungevano il porto. Il vento freddo che si incanalava su per le strada e sembrava correrle incontro per contrastare la sua fuga le feriva il volto coi suoi aghi di ghiaccio, ma non le importava. Là, in fondo a quel vicolo buio che stava percorrendo sotto la pioggia battente, inciampando su ogni pietra, c’era la sua libertà. Era arriva sul molo che era appena passata la terza vigilia. Si era seduta su un muretto sotto la pioggia e guardava le barche, cercando di indovinare quale sarebbe stata quella che l’avrebbe portata verso la sua nuova vita, una vita nella quale sarebbe stata finalmente libera dal padre padrone. E mentre stava lì a pensare, dando le spalle alla città che non aveva mai amato, che l’aveva vista subire tante cattiverie, che l’aveva vista piangere tante volte, qualcuno le si era avvicinato di soppiatto alle spalle e le aveva spaccato la testa con un grosso bastone. Aveva calato il primo colpo con forza. Poi, quando Anna si era accasciata rantolando, con un fiotto di sangue che le usciva dalla bocca, aveva continuato a batterla fino a fracassarle la testa. Non pago di questo gesto scellerato, l’uomo si era accanito sulla giovane con un grosso coltello e infine, quando ormai era già morta, con quella lama le aveva inciso una “P” sulla fronte coperta di sangue e aveva buttato il suo corpo in mare. All’improvviso aveva sentito un fischio: era il segnale che bisognava scappare. Adelaide e gli uomini dell’equipaggio pronto a salpare stavano arrivando. Lo avevano visto correre via quell’uomo col cappuccio tirato sul capo e il mantello lungo fino ai piedi. Avevano visto una sola ombra, ma avevano sentito i passi veloci di almeno tre persone. Piuttosto che inseguirle, i marinai avevano preferito buttarsi nelle fredde acque del porto per tentare di salvare la donna. L’avevano ripescata e adagiata sul molo con l’aiuto degli altri che nel frattempo erano accorsi. Avevano subito capito che non c’era più niente da fare. Anche chi conosceva Anna aveva faticato a capire che era lei, sfigurata come era dai colpi del bastone e dal coltello. Non restava altro da fare che portare ai genitori il povero corpo. Adelaide, tornando a casa, a metà strada si era dovuta fermare e aveva vomitato. L’orrore non si lava via dalla mente con un battito di ciglia. È indelebile come la “P” marchiata a fuoco sulla fronte della prostituta.

©Monica Di Carlo. Tutti i diritti riservati. Vietati la riproduzione anche parziale del testo e qualsiasi uso non autorizzato dall’autore

NOTE

[1] Bonassola

[2] Moneglia

[3] Sestri Levante

[4] Portofino

[5] <Quindi il matrimonio e la fornicazione non sono due mali, di cui uno è peggio dell’altro, ma sono due beni il matrimonio e la continenza di cui uno è meglio dell’altro>. (Sant’Agostino d’Ippona, “De bono coniugali”

[6] <Ma se un uomo desidera usare il corpo della moglie in un modo non concesso, è più turpe che la moglie lo permetta su se stessa che su un’altra>. (Sant’Agostino d’Ippona, “De bono coniugali”


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