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Per Freud dunque quanto neghiamo – se la negazione è tale, cioè negazione di qualcosa – non può esserci totalmente altro. In questo senso, non può esserci ignoto.
Ma non solo non ci è ignoto. Non ci è nemmeno indifferente. Non ci è cioè insignificante affettivamente. E non può essercelo, perché nulla di quanto viviamo ci è per davvero, per Freud, affettivamente estraneo. Non lo è perciò nemmeno quanto neghiamo. Non lo è nemmeno quando neghiamo che qualcosa ci appartenga o coinvolga. Anche quanto neghiamo contiene sempre infatti un nucleo affettivo che – per quanto possa essere sordo, attutito o rimosso – ci tocca. Quando la negazione nega qualcosa, quindi, riconosce innanzitutto il significato, affettivamente investito, che viene negato. Tale significato non ci è dunque ignoto e ci tocca.
Tuttavia, quando tale significato è negato, la relazione con esso non si limita a questi riconoscimento e coinvolgimento affettivo. Il significato negato viene sì riconosciuto, ma insieme viene, appunto, negato. Cioè tale significato lo teniamo dinanzi. Ma non vi aderiamo. Tanto più quanto più la negazione è rivolta a cosa che può riguardarci davvero – e quindi è avvolta da adeguate intensità e forza emotive – tale significato, negandolo, quindi lo distanziamo. Cioè, con gesto logico ma anche affettivamente innervato, ce ne dissociamo.
Il significato negato – ci dice dunque Freud – non ci è quindi mai estraneo. Spesso anzi ha a che fare proprio con quanto più ci tocca nel vivo; con quanto – proprio perché rifiutato – mostra anzi così di starci profondamente a cuore, tanto da spingere a investirvi – per esempio nel caso del rimosso – tutta l’energia necessaria per mantenerlo persino inconscio. Non ci è estraneo. Ma tuttavia lo distanziamo.
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La negazione è quindi struttura – esistenziale oltre che logica – complessa. E’ gesto e forza protesi a tenere lontano e fuori un certo significato. Ma nell’allontanare ciò che nega vi si aggancia, in qualche modo vi si lega. Nel cancellarlo, vi accenna. Il significato negato, rifiutato, cioè, attraverso la negazione, fa pure capolino. In qualche modo così emerge.
In tal modo – così ci dice Freud – “la negazione … è già una revoca della rimozione“. Anche se revoca ancora lontana dall’essere completamente tale, perchè purtuttavia è ancora lontana dall’essere “un’accettazione del rimosso“.
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Questo revoca del rimosso, che la negazione innesca, senza però comportare per ciò stesso l’inclusione di quanto rimosso nell’Io che lo nega, è possibile – per Freud – perché la negazione ha quindi una natura anfibia. Da un lato è infatti, per Freud, una funzione intellettuale, ma insieme è per lui anche sempre, tanto o poco che sia, investita di affettività
Più precisamente: per Freud la negazione è una funzione intellettuale la cui genesi dipende dal “gioco dei moti pulsionali primari”, i quali di affettività sono pregni. La funzione intellettuale, certo, se ne stacca, ma l’energia che, pur trasformandosi, circola e le dinamiche di fondo – sia della negazione che dei moti pulsionali – restano sempre le stesse.
In origine infatti l’Io, del tutto regolato e giocato secondo il principio di piacere, include e esclude inghiottendo e espellendo. L’Io-piacere perciò vuole innanzitutto mangiare oppure sputare, introdurre in sè o escludere fuori da sè. Vuole cioè in qualche modo introiettare tutto il bene e rigettare da sè tutto il male. Il fuori è quindi performativamente il negato. Ciò che è dentro è buono (e il buono va perciò inghiottito, assimilato); il cattivo è fuori (e là va espulso e cacciato).
Eros (la pulsione di vita) così unifica e aggrega, Thanatos (pulsione di morte) separa. E la dinamica imposta da queste due forze resta la stessa dovunque. Anche al livello del giudizio, perciò, Eros unisce e quindi si può dire che affermi; Thanatos separa e dunque nega. Freud lo dice esplicitamente: “l’affermazione – come sostituto dell’unificazione – appartiene all’Eros e la negazione – che è una conseguenza dell’espulsione – alla pulsione di distruzione“.
Ma ciò non significa che Eros (affermante) sia davvero per l’Io sempre bene, nè che Thanatos (negante) sia sempre male. Le cose in realtà sono assai più complesse. Anche la negazione è infatti vitale per l’Io. Lo salva infatti (ci salva) – vedremo – dall’inghiottimento fusivo, in cui l’Io perde sè, a cui Eros di per sè condannerebbe.
Separazione (e negazione) salvano dalla coazione al piacere. Aprono l’Io al mondo, rendendo possibile l’indispensabile esame della realtà.
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Anche se la genesi della negazione è radicata “nei moti pulsionali primari”, tale funzione intellettuale – ci ricorda Freud – è però resa effettivamente possibile soltanto con la creazione del segno (riconducibile al simbolo logico della negazione) in cui ogni “no” (anche) consiste. La presenza di un segno (di negazione) nel linguaggio cosciente è la condizione necessaria perchè la negazione possa esistere e svolgere la sua funzione nell’intelletto.
Dunque la negazione – già solo in quanto necessariamente segno oltre che in quanto segno di negazione – di per sè sempre apre la distanza dalla cosa di cui è segno. Il segno “non” è così un marca, che marca – appunto – la distanza. Consentendo in tal modo al pensiero – così ci dice Freud – “un primo livello d’indipendenza dagli effetti della rimozione e con ciò anche della costrizione esercitata dal principio di piacere“. La negazione – per quanto comunque, più o meno, investita di affettività – libera dalla costrizione del vincolo assoluto al perseguimento del piacere immediato e ad ogni costo. In questo svincolo dal piacere, rende così possibile e praticabile uno spazio nuovo. Le pulsioni primarie si trasformano e, quando configurano la forma intellettuale del giudizio, questa può subentrare a quelle. Si aprono così all’Io ciò che per l’Io sono i suoi spazi propri: da un lato il mondo e dall’altro la mente.
La emersa funzione intellettuale dal giudizio persegue così, da un lato, la stessa finalità – seppure su una altro piano e livello – che già operava originariamente, nelle fasi iniziali di sviluppo dell’Io, sulla base del principio di piacere; ma apre anche, d’altro lato, all’Io spazi nuovi d’esperienza e d’azione.
La funzione del giudizio ha – per Freud – infatti due possibili decisioni da prendere: la prima consistente nel concedere o rifiutare una certa qualità a una certa cosa; la seconda consistente nell’accordare o contestare l’esistenza nella realtà a una certa rappresentazione ideativa. La prima forma del giudizio si fonda perciò sul meccanismo originario regolato dal piacere che fa valere la qualità come buona o cattiva, utile o dannosa. Ma la seconda presuppone che l’Io abbia alfine appreso che altrettanto importante del fatto che un certo oggetto abbia o non abbia una qualità buona o cattiva è che tale oggetto esista davvero, cioè stia nel mondo esterno in cui perciò è disponibile. Per ciò serve l’esame di realtà da parte dell’Io e per metterlo in atto in modo adeguato la funzione di giudizio, nella sua seconda forma, è indispensabile.
Ogni rappresentazione, peraltro, per Freud è sempre traccia mnestica di qualcosa di già percepito. Per cui il problema del giudizio di realtà è di fatto ritrovare, o meno, nella realtà esterna qualcosa che nelle mente già c’è (rappresentato) perché fu percepito. A questo livello ciò che è non-reale è quindi quanto è presente solo come rappresentato, cioè esistente sì, ma solo a livello mentale; mentre ciò che è reale è ciò che esiste anche fuori, nel mondo reale.
Il pensiero perciò rappresenta quanto, reale, fu percepito. Ma non garantisce né può mai garantire di per sé stesso che quanto è pensato sia anche per ciò stesso reale perché il pensiero certo riattualizza sempre il percepito in assenza d’oggetto, ma ciò non implica di per sè anche l’esistenza reale dell’oggetto. L’esperienza infatti ben presto insegna che gli oggetti di piacere percepiti poi possono anche andare perduti. Ulteriore esperienza insegna poi inoltre che la rappresentazione, in vari modi per commistione con altro o altri motivi, può deformare, nel ricordo, il dato originario.
Il valore di realtà delle rappresentazioni va quindi sondato, testato. A tal fine l’esame di realtà, che affermazione e negazione consentono, è irrinunciabile.
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Il pensiero sonda così la realtà. La sua funzione originaria è infatti per Freud proprio questa: testare – mentalmente e quindi in forma particolarmente cauta e protetta – il fuori. Prolungando la funzione degli organi di senso, nella loro capacità di protendersi verso l’esterno investendo energia nei loro sensori più esterni – i quali vengono così cautamente rivolti all’esterno per essere immediatamente retratti alla minima avvisaglia di un qualche pericolo – anche il pensiero a suo modo è, volto verso l’esterno, un assaggiare e ritrarsi.
Ma insieme è l’aprirsi dello spazio mentale che consente la sosta – ossia il differimento dell’azione e della scarica – nella pausa e nell’attesa, nelle quali il giudicare può maturare la scelta e, quindi, l’attuazione ponderata dell’azione motoria. Il giudicare intellettuale è infatti affermare e negare. Prende certo forma da investimenti energetici e trasformazioni morfologiche delle pulsioni primarie. Ma poi si rende funzione autonoma e si alloca nella sua sede che è l’intelletto. Qui, nella funzione cosciente, affermando o negando i contenuti ideativi, i giudizi intellettuali contribuiscono alla decisione e all’azione.
Qui, nello specifico, prendono forma il sì e il no. Qui, in particolare, si insedia il no che, in quanto tale, allontana dalla presenza mentale il contenuto nella negazione intravisto, ma che peraltro – ci dice Freud – quando è rivolto al (non) riconoscimento della presenza nell’Io di un contenuto affettivamente significativo è anche “un contrassegno della rimozione“.
L’origine psicologica della funzione della negazione – quando nega la presenza di qualche contenuto nella mente negante – sta quindi nel suo equivalere dire: “Questa è una cosa che preferirei rimuovere“
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La negazione, perciò, in quanto tale, il negato lo dice, cioè lo indica e lo fa quindi emergere. Ma lo fa emergere e lo indica per spingerlo altrove. Lo vuole distante da quanto (il soggetto della proposizione in cui la negazione consiste) la negazione peraltro evidenzia. Se a essere negato è qualcosa del sé, lo vuole distante da sé.
Attraverso la negazione cioè la cosa che si è rimossa (che si preferisce rimuovere) in qualche modo certo traspare. Ma se ciò – come ci dice Freud – in qualche modo può anche essere una qualche forma di revoca della rimozione, tale revoca si dà solo sul piano dell’intelletto. Non perciò, cioè, il contenuto rimosso è ancora davvero accettato, accolto come parte costitutiva dell’Io che lo ha rimosso.
La negazione in quanto tale è cioè atto del solo intelletto e la revoca del rimosso che essa attua lo dispone in vista sì, ma depotenziato. Il contenuto che emerge è perciò così anestetizzato.
Ma il rimosso comunque in tal modo appare. La negazione comunque arricchisce la platea dei contenuti possibili del pensiero cosciente. La negazione apre quindi orizzonte. Perciò è la necessaria premessa per una eventuale più profonda accettazione di sé (qualora e quando il contenuto negato sia non solo accolto, negato, nello spazio cosciente, ma anche accettato).
Ma anche qualora ciò non avvenga, e l’accettazione non scatti, ad ogni modo la negazione è allora almeno premessa al porre in spicco l’Io. Per sottrazione di ciò che di sé nega, ma proprio perciò costituendolo come tale, per quello che è. E che non è.
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Nell’inconscio, per come si costituisce fin dall’origine, non vi è però negazione. Per l’Io-piacere il cattivo sta tutto fuori. La marca “no” sta solo nel pensiero cosciente e qui , solo qui, può svolgere le sue funzioni.
Se la rimozione è revocata nel no, ma senza accettazione del contenuto rimosso, ciò evidenzia – dice Freud – come “la funzione intellettuale si scinde qui dal processo affettivo“. La negazione porta a una qualche accettazione intellettuale del rimosso, annullando però quindi solo una conseguenza del processo di rimozione (il non far giungere in alcun modo alla coscienza il contenuto rimosso). La rimozione (affettiva) invece persiste.
Questa persistenza della rimozione al livello affettivo è, nei casi in cui essa produca eccessiva sofferenza nevrotica, l’ultimo ostacolo da superare, secondo Freud, verso la guarigione cui la cura psicoanalitica tende. Il passo ulteriore è quindi la presa di coscienza di sé, grazie a cui si comprende ed accoglie il fatto che il significato negato ci tocca perché ci appartiene, è parte di noi. L’io, per guarire, quando ciò è necessario, in qualche modo deve acquisire consapevolezza di avere profondamente a che fare – ma ora consapevolmente, cioè non più subendo soltanto passivamente gli effetti che la rimozione produce – con quanto tenderebbe a negare.
La negazione è quindi il cenno che consente il varco possibile verso la parte più profonda di sé. Quando il rimosso viene affettivamente accettato la negazione verso di esso, a livello intellettuale e affettivo, svanisce. Nell’Io però non tutto può essere accolto e accettato.
Finché c’è Io, l’Io deve quindi (anche) negare. Senza la negazione l’esame di realtà – che orienta l’esistenza reale dell’Io nel mondo – sarebbe impossibile. Senza la negazione sarebbe impossibile il distanziamento dall’onnivoro inconscio e non si realizzerebbe alcuno svincolo dal principio cieco di piacere. La vita dell’Io sarebbe impossibile.
Non solo: sarebbe impossibile anche il fluire dei significati e dei sensi in cui la vita mentale consiste. Anche quando la negazione si limita, infatti, a essere puro cenno intellettuale al rimosso, svela all’Io significati possibili. Fa comunque da ponte tra i piani mentali. Mettendo in comunicazione conscio ed inconscio, rifiutato e accettato, riarticola i sensi e così dispiega ermeneutica. Accennando ciò che non siamo, di cui dunque manchiamo, innesca possibili erotiche. Il no consente di distinguere piani (dando così respiro all’identificazione di un Io), ma il non consente anche il dislocarsi di piano: slittamenti, trasposizioni.
Spazio alla differenza, all’incontro. Ad altro…
Sempre altro no dovrà perciò esserci. Dentro sempre nuovi confini, l’Io ha vita solo entro limiti sanciti da un no.
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… Se poi si riconosce ed accetta (affettivamente) che fosse invece davvero la madre, l’Io amplia conoscenza di sè, si arricchisce, rafforza. Magari guarisce.
…Ma se l’Io ora sa che quella figura è la madre, deve sapere anche che non è figlia o sorella. Non è cielo, nè albero, nè alcuna altra cosa.
… Se la madre è simbolo ed ha perciò ambivalenza semantica, comunque è quel simbolo e non è ciò che non è)
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