La caduta dell’Impero Romano (7/8)

Caduta dell'Impero Romano, La caduta dell’Impero Romano (7/8), Rome Guides

LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO (7/8)

Come già anticipato nei precedenti articoli, questa serie di otto articoli del Blog ha lo scopo di dettagliare, in modo completo seppur non esaustivo, le principali informazioni inerenti struttura, composizione, amministrazione, gestione, punti di forza e di debolezza dell’esercito nell’Impero Romano, che in questo specifico articolo analizza le ragioni della caduta dell’Impero Romano, dettagliando anche in che modo le modifiche nel comparto militare la abbiano potuta velocizzare.

Si tratterà di una schematizzazione relativamente semplificata (esistono intere enciclopedie focalizzate sulla materia), che però speriamo possa essere utile al fine di comprendere le caratteristiche salienti dell’esercito romano, sia dal punto di vista organizzativo che militare. Al termine di questo lavoro verrà inserito un glossario che consentirà di richiamare alla mente alcuni dei termini adoperati nel corso degli articoli.   

DA COSTANTINO ALLA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO

Costantino (306-337 d.C.), anche grazie ad un Impero assai lungo se paragonato a quanto avvenuto per i suoi predecessori e successori, mise in atto ulteriori trasformazioni in ambito militare.

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Per prima cosa, arruolò fra gli auxilia un gran numero di Germani dell’area del Reno. Quindi, perfezionò il meccanismo degli eserciti mobili ma soprattutto creò un gran numero di nuove legioni: alcune continuarono a mantenere la denominazione originaria (la Legio V Macedonica, ad esempio, continuerà a portare questo nome fino al VI secolo, in piena epoca giustizianea), mentre molte altre scelsero nuovi nomi, che potevano derivare dal numero di origine (Legio Undecimana) o dal luogo in cui era stanziata la guarnigione (Legio Divitensis, perché stanziata a Divizia sul Reno).

Gli Equites Singulares, una vera e propria scorta imperiale che era stata fedele a Massenzio durante la guerra del 312 d.C., vennero definitivamente sciolti ed i loro compiti furono affidati alle scholae, unità di cavalleria pesante composte da 500 uomini ciascuna, occasionalmente rafforzate anche con truppe di frontiera.

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I NUMERI DELLE FORZE DI FRONTIERA

Costantino divise inoltre l’esercito in due settori perfettamente distinti: le forze mobili, dette comitatenses, e le forze di frontiera, dette limitanei, che venivano eventualmente riunite in esercito sotto gli ordini di un comandante (Dux).

Appoggiati da milizie di qualità inferiore, alle quali toccava il presidio di piccole strutture fortificate di sorveglianza, i limitanei dovevano controllare le aree di confine. Essi erano sempre composti dalla struttura classica (legioni, cohortes, alae), ma con un organico profondamente mutato, così come mutate erano le fortezze di epoca tardo-antica, come dimostrato anche dalle numerose evidenze archeologiche.

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Le dimensioni di queste strutture erano assai ridotte rispetto a quelle di uno o due secoli prima, poiché anche le guarnigioni, rispetto al II secolo d.C., erano assai meno numerose. Solo al fine di dare dei numeri esemplificativi, è possibile dire che all’epoca di Diocleziano ciascuna ala contava al massimo 120 uomini, stesso numero degli Equites Sagittarii (cioè gli arcieri a cavalli) di supporto alle legioni; quanto alla fanteria, le legioni non superavano di solito i 1000 uomini, mentre le Cohortes di solito si attestavano sulle 165 unità.

L’unica eccezione rispetto a questo sistema era l’Africa dove, considerati i lunghi massicci montuosi ed i territori desertici e semidesertici, era necessario ricorrere quasi esclusivamente ad eserciti mobili (Praepositi Limitis) per sorvegliare le frontiere, senza particolari strutture fisse.

I NUMERI DELLE FORZE MOBILI

Quanto ai comitatenses, dai testi che ne parlano è possibile intuire che i numeri della fanteria variassero fra i 500 uomini del distaccamento ai 1000 uomini della legione, mentre quelli della cavalleria restavano al di sotto delle 300 unità (con la sola eccezione delle scholae, che come detto potevano raggiungere le 500 unità).

La cavalleria continuava la sua inesorabile ascesa a livello di prestigio ed importanza: si pensi solo che, quando gli equites non erano in battaglia, essi avevano il diritto di requisire per sé fino ad un terzo degli alloggi della città in cui fossero stanziati, cosa che provocò spesso frizioni e tensioni con la popolazione civile.

Conscio della ormai evidente differenziazione dei due reparti, Costantino nominò due diversi comandanti in capo: il Maestro dei Cavalieri (Magister Equitum) e il Maestro dei Fanti (Magister Peditum), a quali spettarono una serie di funzioni militare un tempo appannaggio del Prefetto del Pretorio, che dal canto suo continuò ad essere incaricato di curare l’approvvigionamento e la logistica).

Questa mossa, che fu evidentemente di natura politica, era volta ad evitare di concentrare tutti i poteri in un unico comandante: la situazione, infatti, poteva presentare risvolti pericolosi, come si scoprirà tra la fine del IV secolo e l’inizio del V secolo con il generale Stilicone, che salì al vertice della gerarchia militare dell’Impero Romano d’Occidente.

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I numeri sono quindi impietosi: benchè sulla carta fossero ancora formidabili, sostanzialmente le forze militari dell’Impero Romano erano sempre meno numerose e sempre più difficilmente sostituibili. Nella battaglia di Strasburgo contro gli Alamanni (357 d.C.) l’esercito agli ordini dell’Imperatore Giuliano era composto da appena 13.000 uomini; sei anni dopo, lo stesso Imperatore era riuscito a raccogliere solo 63.000 uomini per invadere la Persia. Al solo fine di formare un termine di paragone, nella prima Campagna Dacica l’Imperatore Traiano si avvalse di 150.000 uomini, divisi fra un enorme numero di Vexillationes ed un consistente ammontare di Legiones (le Legiones I Adiutrix, I Italica, I Minervia, II Adiutrix, II Traiana Fortis, IIII Flavia, V Macedonica, VII Claudia, X Gemina, XI Claudia Pia Fidelis, XIII Gemina, Legio XIIII Gemina Martia Victrix, XV Apollinaris, XXI Rapax e XXX Ulpia Victrix).

Il fenomeno, tra l’altro, andò costantemente aggravandosi.

I GENERALI BARBARICI

Il reclutamento diventava sempre più difficile, e non era neppure sufficientemente incentivato. Se è vero che gli ufficiali potevano mettere da parte una piccola fortuna, in grado di garantire loro una vita dignitosa, per i soldati semplici che avessero la fortuna di sopravvivere a 20/25 anni di servizio la ricompensa all’atto del congedo era una piccola concessione di terra coltivabile, spesso insufficiente persino a sfamare la propria famiglia. È vero che giocavano a loro favore una serie di incentivi e di esenzioni fiscali, ma si trattava pur sempre di un riconoscimento assai modesto.

Questa congenita difficoltà di reclutamento indusse gli Imperatori a tentare diversi provvedimenti.

Diocleziano, ad esempio, rese obbligatoria una forma di servizio militare “ereditario”: i figli dovevano proseguire la carriera militare dei padri. Inoltre, tassò i grandi proprietari terrieri non solo dal punto di vista fiscale, ma anche con l’obbligo giuridico di “prestare” all’Impero alcuni dei propri coloni per trasformarli in reclute.

Valentiniano I, nella seconda metà del IV secolo, aumentò la disponibilità di truppe con una mossa “burocratica” assai semplice e di comodissima attuazione: ridusse la statura minima richiesta ai legionari, includendo così anche uomini di modesta altezza.

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La mossa che però tamponò questa fase emergenziale fu il reclutamento, in proporzioni sempre maggiori, di truppe ausiliarie tra le popolazioni barbariche, in particolare fra i Germani, e persino fra i prigionieri di guerra. Alcuni di essi riuscirono a raggiungere vette piuttosto elevate all’interno dell’esercito romano: trascurando il caso eccezionale del già citato Stilicone, che era figlio di un ufficiale di cavalleria di origine vandala, è possibile citare uno dei generali dell’Imperatore Valente, che era un Alamanno rapito ancora bambino dagli eserciti dell’Imperatore Giuliano.

Almeno in un primo tempo, a dispetto delle nefaste previsioni della vetusta aristocrazia romana, gli episodi di tradimenti da parte degli auxilia germanici furono rarissimi, per non dire inesistenti. Tutto cambiò drammaticamente, purtroppo per i Romani, dopo la disfatta di Adrianopoli (378 d.C.) ad opera dei Goti (perfettamente esaminata da Alessandro Barbero nel lungo video allegato), quando i veterani e le truppe ordinarie vennero falcidiate orrendamente, costringendo i vertici a reclutare un numero enorme di truppe ausiliarie barbariche, prive di qualsiavoglia disciplina e comandate dai loro stessi capi i quali, consci dell’evoluzione, iniziarono ad influire anche dal punto di vista politico, esigendo terre, cibo, denaro e privilegi.

Fu l’inizio della fine.

LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO

Quella di Adrianopoli non fu una disfatta, ma una strage. I soldati perduti non vennero mai più rimpiazzati. Il potere dell’Imperatore apparve quanto mai esausto.

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Teodosio I, Imperatore dal 379 al 395, dovette concedere ai Goti di stanziarsi al di qua del Danubio. Alla sua morte, pur contrastati inizialmente dal generale Stilicone, i barbari dilagarono verso ovest, mentre il contemporaneo crollo del limes sul Reno nel 406 d.C. apriva la strada ad una massiccia invasione delle Gallie. Fu un massacro: ne fece le spese anche la stessa Roma, con il sacco dei Visigoti del 410 d.C.

In un Impero Romano d’Occidente, sgomento dalle invasioni e squassato dalle continue guerre civili, il vero potere era ormai detenuto non più dagli Imperatori, ma dai generali militari che comandavano le forze imperiali, come Costanzo o Aezio, che tentarono di difendere almeno l’Italia, spesso ricorrendo al sotterfugio di aizzare le varie tribù barbariche l’una contro l’altra.

Nel 444 d.C., dopo che i Vandali occuparono anche l’Africa, l’Imperatore Valentiniano III dovette riconoscere l’impotenza e la resa, economica e militare, dell’Impero Romano d’Occidente. Alla sua morte nel 455 d.C., quasi fosse un segno del destino, Roma venne nuovamente saccheggiata e messa a ferro e fuoco, questa volta dai Vandali. Fu il segnale dell’ineluttabile caduta dell’Impero Romano.

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Al contrario di quanto avveniva ad ovest, l’Impero Romano d’Oriente, economicamente assai più forte e sostanzialmente al riparo dalle invasioni, superò indenne la crisi del V secolo, guardando al fato di un Occidente ormai privo di un’autentica struttura militare e costretto a ricorrere sempre più ai mercenari barbarici.

Un esempio fa capire in modo perfetto la situazione alla fine dell’Impero. Quando Romolo Augustolo, ultimo Imperatore d’Occidente, fu deposto nel 476 d.C. dal re degli Eruli Odoacre, che inviò in Oriente le insegne imperiali, la Cohors IX Batavorum, che si vantava di essere ancora fedele all’Imperatore, accolse la notizia inviando a Roma alcuni emissari, al solo scopo di reclamare le paghe arretrate.

Questo esempio spiega in modo chiarissimo come fossero solo gli stipendi a tenere in qualche modo insieme (spesso solo sulla carta) i singoli reparti; al loro venir meno corrispose la caduta dell’Impero Romano, e a difendere le antiche frontiere non rimasero che pietre e sassi.

IN BREVE – L’ANALISI MILITARE

Il tramonto dell’Impero Romano coincise con il dissolversi di un esercito che fu per secoli ritenuto invincibile e chiamato, nel corso della sua storia plurisecolare, a svolgere i compiti più variegati.

Fino alla fine della Repubblica, la principale missione fu il letterale annientamento delle forze nemiche; in seguito, con il sostanziale abbandono della politica di conquista, lo scopo principale divenne la garanzia di sicurezza lungo le estesissime frontiere dell’Impero.

Si arrivò ad una fase, durante l’Impero, in cui non era possibile distinguere distintamente lo stato di pace e lo stato di guerra. Nacque così il doppio concetto strategico della “difesa a sbarramento contro le infiltrazioni sporadiche” e della “difesa profonda contro attacchi in forze”: il concetto del limes fortificato rappresentò un’intuizione geniale, che si dimostrò valida anche in epoca moderna (la Linea Maginot o il Vallo Atlantico ne sono due esempi perfetti).

Queste difese di frontiera, che avevano come primo scopo evidente quello di bloccare le incursioni nemiche, potevano ovviamente essere sfondate da un contingente di assaltatori molto numeroso, che però era costretto naturalmente a raggrupparsi, venendo poi condizionato nelle successive direttrici di marcia, potendo quindi essere intercettato e distrutto in territorio imperiale.

In aggiunta a ciò, i Romani comprendono come sia fondamentale fare opera di “dissuasione militare”, intimorendo il nemico prima ancora di respingerlo: ecco quindi le sporadiche penetrazioni in territorio nemico, al fine di colpire preventivamente le orde barbariche mentre esse sono ancora lontane dalle frontiere. Si trattava di una vera e propria ostentazione di forza.  

IN BREVE – DISCIPLINA E ARMAMENTI

La genialità in campo strategico trovava la sua rispondenza in un perfetto addestramento, nello spirito unitario e nelle buone capacità dei rincalzi: lo strumento bellico divenne pressochè perfetto, e potè essere messo in difficoltà esclusivamente da condottieri spregiudicati e geniali, come ad esempio Annibale.

Fu proprio la sanguinosa lezione impartita dal generale cartaginese ad insegnare ai comandanti Romani quelle manovre avvolgenti che, in epoca imperiale, permisero loro di sbaragliare con irrisoria facilità gli eserciti avversari. La superiorità tattica dell’esercito Romano era talvolta imbarazzante: grazie alla sua duttilità, esso sapeva sfruttare l’orografia del terreno, le condizioni atmosferiche e gli errori tattici dei comandanti avversari, trasformando il combattimento di massa in una serie di combattimenti individuali, che fatalmente premiavano il superiore addestramento ed il migliore armamento del soldato romano.

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Alcune componenti dell’armatura raggiunsero, nel corso dei secoli, livelli di assoluta eccellenza: l’elmo “imperiale gallico”, ad esempio, offriva al contempo massima funzionalità e massima comodità d’impiego. In aggiunta a ciò, l’esercito romano fu il primo nella storia ad introdurre, fin dagli albori dell’Impero, un armamento differenziato a seconda di quale fosse la natura del nemico da combattere.

Quando poi, in epoca augustea, i Romani iniziarono a servirsi con costanza delle artiglierie durante le operazioni belliche, la varietà dei mezzi a loro disposizione divenne letteralmente inesauribile. Specificamente in questo settore, come già raccontato negli articoli precedenti, il genio militare dei Romani dimostra la sua straordinaria versatilità e la sua enorme capacità di soluzioni pratiche innovative: con l’introduzione della carroballista, come spiegato in un precedente articolo, essi risolvono di colpo l’atavico problema dell’inesistente mobilità dell’artiglieria pesante, che ne limitava l’impiego solo alle operazioni d’assedio.  

IN BREVE – LA RIVOLUZIONE BARBARICA

Se è vero che i mezzi di cui i Romani disponevano erano meno efficaci contro le tribù barbariche, che tendevano a non essere strutturate in modo militarmente tradizionale, è altrettanto vero che la lenta e metodica penetrazione nel loro territorio, favorita dalla capacità dell’esercito Romano (ed ignota a qualsiasi altro esercito prima dell’età contemporanea) di costruire rapidamente strade e ponti, permise di metterli immediatamente a tacere.

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Sia chiaro, talvolta queste campagne di conquista richiedevano uno sforzo superiore rispetto al guadagno che da quelle nuove terre si poteva ricavare (cosa che poi indurrà Adriano a “chiudere l’Impero”), ma esse servivano come ostentazione di forza, al fine di tutelare l’Impero da qualsiasi minaccia.

Le legioni diventano potenti unità di combattimento, dotate di piena autonomia operativa ed affiancate dagli auxilia, a cui spettano funzioni di sorveglianza delle frontiere e di reazione a qualsiasi tipo di attacco “a bassa intensità”; spetterà alle legioni respingere invasioni massicce o compiere spedizioni punitive oltre frontiera.

IN BREVE – TRADIZIONE E DIPLOMAZIA

La forza dell’Impero Romano non si basò però soltanto sulla sua superiorità tattica e militare sui campi di battaglia, ma era di un tipo molto più raffinato: essa derivava dall’insieme delle idee e delle tradizioni che componevano l’organizzazione del potere militare romano.

Le priorità tattiche, gli ideali marziali e la connessione fra comparto politico e militare costituirono le chiavi del successo della strategia imperiale. L’uso della forza veniva assai raramente adoperato per l’ottenimento di sporadiche e inutili vittorie, ma assai spesso come strumento di pressione politica.

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Fin dai tempi della Repubblica, i Romani avevano compreso che l’uso migliore che si potesse fare del potere militare era quello politico: come scrisse lo storico militare Edward Luttwak, “i Romani conquistarono il proprio Impero con poche battaglie e molta diplomazia coercitiva”. I Romani ebbero il grande pregio di comprendere a fondo le sottigliezze ed anche i limiti dei poteri deterrenti, intuendo come l’aspetto più importante non fosse l’impiego della forza, ma il fomentare l’opinione avversa circa l’ammontare di quella forza.

Apparire, più ancora di essere.

Ecco la principale ragione del successo storico e militare dell’Impero Romano, affiancata dalla straordinaria capacità di fondere assieme le più diverse culture in un’unica realtà sovranazionale.

Quando tutto ciò iniziò a creparsi, il castello di carte crollò inesorabilmente in seguito alla caduta dell’Impero Romano.

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