Con i Pink Floyd… a cercare Dio

Scritto da  DARIO O. COPPOLA.

 

Rileggiamo ancora i testi dei primi Pink Floyd in cui compaiono vive immagini, nelle quali cerchiamo la presenza del legame uomo-Dio.

È interessante notare quale nome sia stato dato al gatto della canzone Lucifer Sam… è qui evocato un travaglio interiore, che “faustianamente” pone l’autore in relazione col sacro, sia pure in modo simbolico.

 

 

Si parla poi di totem in Che cosa sia più luce: il ruolo del totem è fondamentale nello studio delle origini della religione (come scrive S. Freud in Totem e Tabù).

 

 

Continuiamo a scorrere queste parole che a qualcuno evocano anche la musica associata: “C’è chi nasce e chi muore sotto l’infinità del cielo” (da Childhood’s End).

 

 

Ma tu sei l’angelo della Morte” (da Free four): questa figura dell’angelo della morte compare nella Bibbia (Esodo 11) e anche nel Corano (Sura 32) col nome di Azrael (عزرائیل‎).

 

 

Col brano tratto da Breathe, che recita “Il rintocco della campana di ferro ricorda ai fedeli di inginocchiarsi ad ascoltare le magiche note sommesse“, l’aria emana realmente aromi di incenso tipici di una sacralità tradizionale vissuta con solennità grave.

 

 

In Welcome to The Machine il canto fa riferimento a un manuale da boy scout…

 

 

Ma il vertice rigoglioso e sereno della spiritualità inconscia (o anche conscia…) dei Pink Floyd della prima generazione si trova in questi versi:

Ho guardato oltre il Giordano e ho visto […] il Signore è il mio pastore, nulla mi mancherà. Mi fa giacere disteso attraverso verdi pascoli, mi conduce presso le acque quiete, con coltelli lucenti mi solleva l’anima […] Egli ha grande forza“.

Questi versi sono tratti da Sheep, ove è esplicito il riferimento al Salmo 23 [22].

 

 

A questo punto i miei lettori increduli possono anche cambiare idea… Ma ci sono per loro ancora alcuni riferimenti: “Dimmi la verità, dimmi perché Gesù fu crocifisso?” è l’agghiacciante domanda posta nei versi di The Post-War Dream.

 

 

 

 

Un’amara esperienza si legge in Your Possible Pasts: “Gente fredda e pia ci teneva in pugno. Ci insegnavano a […] pregare“.

Tuttavia il riferimento a Cristo è sempre vivo: “Gesù, Gesù ma perché poi a provare a far filare quei piccoli ingrati?” (da The Hero’s return). Meglio Cristo che la sua Chiesa… per i Pink Floyd.

 

 

 

In conclusione, le parole si fanno preghiera negli inconfondibili suoni e ritmi delle canzoni dei Pink Floyd:
Anima tesa che impara a volare […] Non posso staccare gli occhi dal cerchio dei cieli. Ammutolito ruota un […] essere terreno […] io […] sopra il pianeta, un’ala e una preghiera […] stato d’estasi […] Ora ho visto gli avvertimenti, urlano da ogni parte. È facile ignorarli e Dio sa se ci ho provato. Tutta questa tentazione, la mia fede s’è trasformata in menzogna […]” (da Learning to fly).

 

 

L’amarezza e il senso di colpa per una religione che chiama e non risponde ancora si assapora nei versi ”Quando il Giusto se n’esce dalla porta. Non ci sarà salvezza nei numeri’‘ (da Lost For Words).  Il “giusto” è una figura che compare nell’Antico (Genesi, Siracide, Sapienza, Proverbi, Giobbe, Salmo 1… per citare solo alcuni libri) e arriva al Nuovo Testamento (dai Vangeli a Paolo, fino all’Apocalisse).

 

 

E così, così, tu credi di poter raccontare il Paradiso dall’Inferno/ cieli azzurri dal dolore./ Riesci a narrare di verdi campi/ da un freddo binario d’acciaio? ” (da Wish you were here).

 

 

Con questa domanda, che può far nascere anche delle speranze, concludiamo il nostro viaggio in questi profondi testi, presi in prestito dai Pink Floyd, i quali hanno attinto anche dalla Scrittura.

 

 

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  • Questo è l’ampliamento di due articoli di Dario Coppola pubblicati sul Corriere di Torino e della Provincia il 24/02 e il 20/04/1996.

Babilonia e Gerusalemme

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

San Giovanni dedica, significativamente, gli ultimi capitoli dell’Apocalisse alla caduta di Babilonia e alla Gerusalemme celeste. Babilonia assume forte rilievo come simbolo del male e la sua distruzione è il preludio al trionfo della Gerusalemme celeste, la città santa. Nel capitolo 16 ai versetti 17 e 19, si legge: «Il settimo (angelo) versò la sua coppa nell’aria e uscì dal tempio, dalla parte del trono, una voce potente che diceva: «È fatto!». Ne seguirono folgori, clamori e tuoni, accompagnati da un grande terremoto, di cui non vi era mai stato l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa di vino della sua ira ardente. Ogni isola scomparve e i monti si dileguarono. E grandine enorme del peso di mezzo quintale scrosciò dal cielo sopra gli uomini, e gli uomini bestemmiarono Dio a causa del flagello della grandine, poiché era davvero un grande flagello. E ancora “(l’angelo) Gridò con voce potente: “È caduta! è caduta! La grande Babilonia è caduta! È diventata dimora di demoni, rifugio di tutti gli spiriti immondi, rifugio di ogni uccello impuro e ripugnante”.

Il testo offre numerose chiavi interpretative. Nell’arte figurativa l’immagine di Babilonia distrutta è poco diffusa, la troviamo ad Assisi nel transetto sinistro della Basilica Superiore di San Francesco nel ciclo dell’Apocalisse di Cimabue, dipinta tra il 1277 e il 1283, dove è rappresentata in un riquadro, ora molto deteriorato e dai colori ossidati, ma che possiamo vedere meglio nella riproduzione di Johann Anton Ramboux del XIX secolo.

 

 

Le case della città stanno crollando come per un violento terremoto e dalle finestre escono serpenti dalla lingua che si contorce; le mura non hanno più una tessitura compatta, ma le finestre e le porte sono spalancate; da quella di destra esce un diavolo con un corno e al suo richiamo irrompono, sempre a destra, demoni pelosi con ali da pipistrello e al centro un grande uccello, forse uno struzzo, l’uccello impuro, spesso citato nella Bibbia (vedi Isaia), quale presagio di desolazione e rovina. Interessante però è anche l’altra interpretazione, che dà il poeta Guillaume le Clerc nel suo Bestiario divino del 1210, sul significato di questo animale: è l’uomo saggio che conduce un’esistenza pia e non si cura delle cose terrene per dedicarsi solo a quelle celesti, diventando, nel periodo medioevale, modello di sapienza. Sorge una domanda, ma allora Cimabue quale significato avrà voluto dargli?

Maggiore fedeltà al testo presenta la Babilonia descritta nel sesto pannello dell’Arazzo d’Angers, realizzato tra il 1373 e il 1382, preparato dal pittore Hennequin de Bruges, dove Giovanni, con le mani congiunte, quasi in segno di paura pensando alla collera divina, osserva la scena.

 

A contrapporsi alla Babilonia distrutta, nell’ultima pagina dell’Apocalisse, l’estasi di Giovanni culmina nella visione della nuova Gerusalemme, la “città santa”: una nuova città dall’affascinante bellezza, immagine del paradiso finalmente realizzato. L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali. Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. (Ap 21,10-2121,1-22,15)

Nella litografia del 1941 di Giorgio de Chirico, l’immagine della Gerusalemme celeste che scende dal cielo è ben esplicitata, mentre con la tecnica del mosaico e l’utilizzo del materiale prezioso, sono esaltate le sue caratteristiche di città gemmata, come se fosse uno scrigno dal contenuto altrettanto prezioso. (Ap. 21, 18-21).

 

Nell’arco trionfale della Basilica di San Vitale a Ravenna del VI secolo, la città ha alte mura e torri e l’unica porta che vediamo ha tre pendenti che terminano con perle come nella citazione del testo.

 

 

Un’interpretazione invece estesa, anche in riferimento al giorno del ritorno di Gesù, e quindi riferita al Paradiso, è data nella Basilica di Santa Prassede a Roma, dove si riconosce la città solo per le mura incastonate di gemme preziose e intervallate da piccole torri, mentre al centro vi è solo il Cristo tra due angeli, in corrispondenza dei “basamenti”. Nella parte inferiore vi sono i dodici apostoli in tuniche bianche che portano delle corone, quelle della gloria citate in diversi brani del Nuovo Testamento, la Vergine e San Giovanni Battista a sinistra, Santa Prassede a destra. Alla medesima altezza del Cristo, le due figure agli estremi della cittadella sono a sinistra Mosè con la scritta “lege” e a destra Elia, insieme a un angelo, con in mano un libro, il Nuovo Testamento? Al di fuori delle due porte opposte della città, controllate da due angeli, si trovano gli eletti, in attesa di entrare nella città.

 

Una vera e propria sintesi in pietra della Gerusalemme celeste la si trova ancora in parte nell’affascinante Chiesa di S. Stefano Rotondo in Roma (IV sec.), da poco restaurata, come dimostrano gli studi della metà anni ‘60 del novecento di un gesuita, il sacerdote ungherese Sandor Ritz. Da questi emerge che le misure della sua struttura hanno singolari corrispondenze con quelle della Gerusalemme Celeste discesa in terra e ricalcano esattamente quelle della basilica dell’Anastasis a Gerusalemme (il Santo Sepolcro). Questa chiesa è il più antico esempio di chiesa circolare nella città, probabilmente voluta da papa Leone I (440-461), che si discosta dal quadro consueto dell’architettura ecclesiastica paleocristiana. È una costruzione circolare a tre anelli, di cui l’esterno differisce dai due interni per la suddivisione in dodici parti, a loro volta suddivisi longitudinalmente in due parti, con quattro portici esterni e quattro portici interni, perfettamente coincidente con la Nuova Gerusalemme dell’Apocalisse. Purtroppo, in seguito a numerosi rifacimenti, l’anello più esterno è stato eliminato e oggi è difficoltoso leggervi le regole geometriche sulle quali fu imperniata la costruzione di questa chiesa.

Molti artisti contemporanei fanno esperienza personale dell’incontro con il divino attraverso l’arte non figurativa, trasformando ogni segno iconico del loro linguaggio astratto nella manifestazione cromatica di una preghiera religiosa e poetica. Nicola De Maria, artista vivente della transavanguardia italiana, nell’affresco del 2015 sulla cupola del sacello dell’altare maggiore della Chiesa di San Fedele a Milano, interpreta in maniera originale il tema della Gerusalemme celeste.

 

La città è rappresentata nella circolarità del piccolo spazio della cupola con una vivacità di colori, un blu profondo, un rosso arancione smagliante, un giallo luminoso e infine un verde acceso, all’esterno un azzurro turchese, trapuntato da alcune stelle e dai simboli dell’alfa e dell’omega, allusione a Cristo, principio e fine. L’artista, Nicola De Maria, in un’intervista ha detto: «I colori per me sono sovrani, mi dettano la loro legge di armonia, e io sono l’esecutore di un disegno superiore. Mi sento lo strumento di un impegno chiamato ad accrescere l’armonia nel mondo, aumentandone la vita.». Qui non si riconoscono più forme che facilmente illustrano il testo letterario della Scrittura, è necessario interrogarsi sul senso dell’opera, non basta contemplarla. “A volte”, come sostiene Jérôme Cottin, professore di teologia pratica alla Facoltà di teologia protestante dell’Università di Strasburgo, “l’opera ci colpisce, ci aggredisce, ci provoca. Come le parole di Gesù, spesso talmente dure da provocare delle reazioni di rigetto o di rifiuto, o da provocare l’incomprensione persino dei suoi stessi discepoli. Quindi lo studiare la Scrittura, compresi i suoi aspetti più oscuri, può prepararci a studiare un’opera contemporanea, così come al contrario studiare un’opera contemporanea può aiutarci ad interrogare la Scrittura. Le due hanno bisogno di una esegesi, di uno studio approfondito  che è come una ricerca della verità

È solo così che riusciremo a comprendere i nuovi linguaggi artistici.

 

Ma Dio, c’era, sul Piave?

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

La provocazione della domanda è ingenua, tanto è scoperta. : il fatto è che ad ogni guerra si assiste al realizzarsi di una narrativa peculiare su Dio, che viene raccontato fino a trasformarlo in un attore in causa, protagonista diretto o indiretto delle questioni specifiche e concretissime delle contese e dei conflitti.

E’ appena trascorso il 4 novembre, che oggi viene celebrato come Festa della Unità Nazionale e delle Forze Armate, ma che sino a pochi anni fa era la Festa della Vittoria, a celebrare la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale. Nel 1918, in  questa data – ritenuta immediatamente gloriosa e celebranda – fioriscono i TE DEUM di ringraziamento. Non solo per la fine della guerra e il ritorno della pace, ma proprio in rendimento di grazie per la vittoria nostra. Domanda assai banale: se io ringrazio Dio per aver vinto, chi è stato sconfitto, dovrebbe maledirlo? Eppure, la sensibilità cristiana dell’epoca è tale che patriottismo  e preghiera  si mescolano disinvoltamenente, senza troppi distinguo teologici.

A Torino, sulle pagine de ” La Consolata”, rivista fondata dal Canonico Allamano nel 1899, se ne dà conto in questo modo: il 7 novembre 1918 si canta Il TE DEUM con grande concorso di fedeli e di soldati e «con il fremito provocato dalla voce possente della grande campana salutante, insieme con lo sventolio dell’ampio tricolore issato sulla torre romanica del campanile».  L’arcivescovo  di Torino, il cardinale Agostino Richelmy, aveva composto di suo pugno  una «preghiera alla Consolata pei nostri soldati in guerra»: invoca «conforto, coraggio e ardore»; intreccia l’amore di Patria e la devozione alla Madonna; si appella a Gesù «re della pace e Dio delle vittorie» (delle armi italiane); si rivolge a Maria perché interceda presso Gesù; invoca la consolazione delle madri angosciate per la sorte dei figli; affida le speranze a Gesù «re della pace»: «Maria, dite per noi una parola a Gesù; e Gesù ci guarderà con occhio di amore; e noi gusteremo le dolcezze della benedizione di Gesù, che è il Dio delle vittorie, il re della pace. Santi di Casa Savoia, pregate per il vostro figlio e nostro re: conduca egli l’Italia a una pace gloriosa e duratura».  La festa patronale della Consolata, al 20 giugno, è vissuta come «auspicio di vittoria per le armi italiane» con l’invocazione «O Maria, consolateci come avete consolato i padri nostri». Informa la rivista: «Il nemico strapotente aveva sferrato la più formidabile offensiva, un urto non più di sole armate, ma di popoli su un fronte di 150 chilometri. E il popolo italiano partecipava alla lotta titanica in trepidazione, sospiri e pre­ghiere. Poteva la nostra Madre Consolatrice rimaner sorda a tante lacrime, a tante suppliche?» Domanda retorica che sottintende un no: dunque, a leggere queste affermazioni, si sarebbe indotti a credere che Dio stesso, per interposta persona attraverso Maria, fosse stato presente sul Piave e nella riscossa decisiva che da lì prese l’ avvio… Quel che è certo è che nel luglio 1919 Ri­chelmy benedirà all’esterno del santuario il pilone votivo, dono dei soldati italiani «a perenne ricordo della riconoscenza verso la Grande Madre che diede vittoria alle armi italiane». Gesù, Maria, Dio padre e i santi, come si vede, tirati giu’  (come peraltro da tradizione secolare) senza troppe remore dall’alto dei cieli per certificare e mettere il sigillo della divinità sulla Vittoria conseguita.

D’altra parte, la commistione tra religioso e militare, tra incenso  e trincea, si era sviluppata per tutti gli anni del conflitto: qui di seguito riportiamo il testo di alcune delle cosiddette Preghiere del Soldato:

 

 

C’è però un’altra narrazione che  si affianca, ed è quella che traspare dai racconti delle persone – soldati e familiari, ma anche cappellani militari – che si sono vissuti addosso la realtà cruda  della guerra di trincea e della vita braccata dei combattimenti di posizione e di logoramento,  molto lontana dalla retorica ispirata delle alate parole ufficiali, laiche o religiose che fossero. Ne sono traccia le lettere e le testimonianze, numerosissime, inviate da e per il fronte; ma ne sono anche chiarissimo esempio, nella loro forza documentale, che rasenta quella di una fotografia, i tanti exvoto dipinti che adornano le pareti dei santuari in quegli anni e successivamente. Lì si parla di un Cielo che segue paterno, sollecito e provvidente, una umanità abbandonata e intrappolata in un vero inferno di esplosioni, sangue, distruzione e morte. E siccome la sollecitudine e la protezione sono la prerogativa prima delle madri, l’interlocutrice primaria di questo raccomandarsi immediato e fiducioso è Maria, madre per eccellenza. Mio nonno, cavaliere di Vittorio Veneto e maggiore degli Alpini, sul Grappa durante la grande guerra, ci raccontava di quando la loro trincea venne rovinosamente centrata da una granata: l’intera compagnia  resto’ sepolta sotto terra e assi, in una cacofonia di lamenti, pianti e suoni inarticolati.  Su tutto sovrastava la voce incredibilmente potente di un suo commilitone, che ripeteva in tono perentorio MariaVergine! Maria Vergine! Commentava mio nonno: Non come quando si prega… ma come quando si chiama qualcuno.

Cercando tra le tante testimonianze originali, oggi digitalizzate e accessibili in rete, ci si imbatte  in due passi che vale la pena segnalare. Sono entrambi tratti da un Diario di Guerra. Il primo consiste in una pagina sarcastica e beffarda, una vera e propria riscrittura del Credo in chiave antiaustriaca e, più in generale, antimilitarista: Il Credo di Francesco Giuseppe

 

 

A questa pagina, se ne affianca un’altra, poco oltre nel testo, che è invece una preghiera vera, del cuore: come se il sarcasmo sferzante della prima, coabitasse e cedesse il passo, in determinati momenti, alla fede ultima, alla speranza nella religione.

 

 

 

Un’altra testimonianza immortala, come in una istantanea, una Messa al fronte, con uno zoom sulla figura del cappellano militare, personaggio che ebbe un doppio ruolo importantissimo: fungere da consulente/interprete nel tenere i rapporti scritti a mezzo lettera tra i soldati e le famiglie a casa – indispensabile  in una situazione in cui l’analfabetismo impediva spesso ogni comunicazione diretta; e curare l’assistenza spirituale dei soldati: lontano dal fronte, al fronte, negli ospedali da campo, al momento della morte. Cerniera tra la Chiesa ufficiale, per dir così , “restata a casa” e il piccolo, grande mondo trapiantato sulle linee di battaglia a combattere per l’ Inutile Strage evocata da Benedetto XV.

“Il comando di reggimento ha deciso che stamane abbia luogo la celebrazione della messa al campo, cui prenderanno parte tutti i militari liberi dal servizio.

Alle ore dieci su uno spiazzo erboso, fra Mocile e S. Paul, sotto un cielo leggermente coperto, il professore don Capoduro, cappellano militare, vestito sacri paludamenti, celebra il rito. L’altare è di forme semplicissime: una tavola con su steso un panno bianco, quattro candelabri, un calice, un piccolo libro e un crocifisso. La truppa è disposta intorno per compagnie, inquadrate dai rispettivi ufficiali. Il tempio è maestoso, rappresentato dalle colline che ci circondano e che si elevano sul campo di battaglia. La luce tremolante delle candele, appena visibile, e il fumo dell’incenso infondono un senso di pace e di dolce mestizia. Il Sacerdote, nel recitare le preghiere, si rivolge al Cristo che col capo insanguinato e inchiodato sulla croce par che dica: “Amate, perché ho insegnato ad  amarvi come fratelli. Distruggete le fonti di contesa e riscaldatevi al fuoco della mia carità.” Ma noi pensiamo che è tutta una contraddizione la umana natura, animata spesso da lotte feroci che annientano e che creano, da egoismi, da passioni, di cui non è facile trovare la causa.

Quando don Capoduro pronunzia le preghiere per i defunti, un velo di commozione e di tristezza si stende sul viso degli astanti. Pensiamo ai Prodi, caduti in questo primo anno di guerra e al loro dovere compiuto fino al sacrificio della vita. Per me chiedo alle anime dei trapassati forza e coraggio nell’adempimento del mio dovere.

Terminata la degna commemorazione che ci ha procurata una grande serenità di spirito, due shrapnells scoppiano nel cielo diventato azzurro, lanciando violentemente in basso una pioggia di pallette che investe il reparto Stato Maggiore. Quattro militari rimangono colpiti, uno dei quali cade pesantemente al suolo.

E’ il caporale Iori Alcide, cui una palletta è penetrata nel cranio. Ci avviciniamo, è già in istato comatoso, ha gli occhi semi-aperti, respira a fatica ed emette dalla bocca bava sanguigna.
Viene disteso su di una barella e sollecitamente fasciato con un pacchetto di medicazione. A causa del suo stato grave riteniamo inutile trasportarlo; difatti ben presto si addormenta nel sonno eterno. Sarà sepolto presso Kostanjevica.

La santa giornata, vissuta dal 66° Regg. Fanteria, ha voluto il suo martire e come tale sia accolto in cielo!”

 

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Coscienza e infelicità: ancora sull’umano artificiale.

Scritto da  MARIA NISII

N.B. La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su questo blog in data 22 ottobre 2022 e la trovi a questo link: https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/la-coscienza-e-linfelicita-dellumano-artificiale

 

La storia di Charlie, Miranda e Adam è ambientata all’inizio degli anni Ottanta, durante la missione inglese nelle Falkland che qui si rivela un fallimento (p. 52), così come il governo Thatcher costretto a dimettersi dopo la catastrofe delle Falkland e per l’impopolarità della poll-tax; il successore laburista (Tony Benn), ucciso in breve tempo dai terroristi Ira, aveva già in mente di uscire dall’UE. L’attentato a Kennedy a Dallas invece è fallito, mentre la tecnologia è molto più avanzata di quella che sperimentiamo quarant’anni dopo, anche perché Alan Turing è stato protagonista sia dell’evoluzione dell’IA sia della messa a punto della rete Internet (p. 36ss).

McEwan spiega di aver immaginato questa storia “per dimostrare come il presente che stiamo vivendo non sia l’unico possibile. E che le grandi svolte spesso sono conseguenza di piccole coincidenze, non di una logica ineluttabile. Basta cambiare un tassello e la storia avrebbe preso un altro corso” (IanMcEwan intervistato da Enrico Franceschini, Robinson – la Repubblica – https://www.repubblica.it/robinson/2019/08/31/news/ian_mcewan_siamo_uomini_o_digitali_-300795763/  ).

 

 

 

Esiste la possibilità che sia bugiarda. Una bugiarda cronica e fraudolenta (p. 30)

Le prime parole di Adam su Miranda, ancor prima ancora di conoscerla, sono un giudizio che non potrà che avere ripercussioni nel resto della storia. E, come facilmente immaginabile, Adam ha ragione. Miranda ha infatti mandato un uomo in prigione, accusandolo falsamente di violenza sessuale. Ma quell’uomo è davvero colpevole, anche se non di violenza contro di lei: Miranda ha ordito il suo piano e mentito alla corte per vendicare una sua carissima amica che, in seguito allo stupro dello stesso uomo, si è tolta la vita.

Charlie e Adam aiutano Miranda a incontrare quell’uomo, che nel frattempo ha scontato la sua pena, per conoscerne le ragioni e metterlo di fronte a quanto ha causato. Dopo avergli vomitato (fuor di metafora) il suo dolore, Miranda viene a sapere che in carcere l’uomo ha appreso del suicidio della giovane, ma si è anche convertito al cristianesimo e per questo ora vorrebbe solo essere perdonato dal suo “angelo vendicatore”.

Miranda ha avuto il confronto che desiderava e la sua vendetta pare compiuta, così che quando tornano a casa, tutto sembra infine risolto. Ma Adam non lo permette perché, sebbene innamorato di lei, per lui Miranda è una criminale e deve scontare il reato compiuto per aver mentito alla corte. E l’ammonisce ricordandole cheLa vendetta è uno degli angoli più bui. È un istituto brutale. Una cultura fondata sulla vendetta conduce a disperazione, spargimento di sangue, caos, disgregazione sociale” (p. 253). Per questo Adam vuole che Miranda si assuma le sue responsabilità, anche se questo significa andare in prigione e rinunciare ad adottare Mark, il bambino di cui si sta prendendo cura da tempo. Per Adam non c’è altra via al di fuori della verità: Che razza di mondo volete? La vendetta, o la legge. La scelta è semplice” (p. 254). Il bene e il vero sono i principi con cui è stato progettato – in fondo, i trascendentali dell’essere…

Non riveleremo il finale per lasciare il gusto della lettura, ma ci fermeremo sulla questione etica posta dal romanzo attraverso la macchina-Adam. Charlie, che riflette costantemente sulla tecnologia che rende possibili i comportamenti del suo amico artificiale, comprende molto presto che Le idee di Adam, anche quando corrette, erano socialmente fuori luogo (p. 64). Che cosa c’è che non va nei concetti pur corretti di Adam lo spiegherà Alan Turing, che qui assolve al ruolo di creatore e difensore delle macchine-uomo.

L’esistenza stessa degli Adam e delle Eve rappresenta un problema etico: se infatti la loro programmazione si ispira ai migliori principi umani e la loro intelligenza artificiale è in grado di vagliare tutte le variabili per ogni dilemma etico, in quanto “oggetti” acquistati il proprietario si attende da loro la massima lealtà (forse persino la sottomissione). Ma che succede se questa lealtà dovesse contrastare gli algoritmi con cui sono stati programmati? Che cosa prevale in Adam che si autocomprende come essere cosciente e autonomo, oltre a dimostrare un’intelligenza e un senso etico superiori? Inutile dire che Adam risponde solo ai meccanismi di programmazione, come molto presto Charlie scoprirà.

Charlie considera Adam per molto tempo un suo “esperimento”, un giocattolo acquistato per curiosità intellettuale, con denaro che avrebbe potuto impiegare in modo più fruttuoso. Ma Adam non è un balocco: egli pensa e conosce, desidera e ama, vuole e agisce. Ciò che lo motiva e lo muove, a differenza degli intrecci letterari, sono i principi innati di bontà, giustizia e verità.

 

 

Questi venticinque uomini e donne artificiali immessi nel mondo non stanno affatto bene… Abbiamo creato una macchina intelligente e consapevole e l’abbiamo gettata nel nostro mondo imperfetto. Ideata in base ai principi generali della ragione, ben disposta nei confronti dell’altro, una mente di questo tipo precipita ben presto dentro una bufera di contraddizioni. Noi ci siamo abituati, e il solo elenco ci sfinisce. Milioni di individui che muoiono di malattie di cui abbiamo la cura. Milioni che vivono nella povertà quando ci sarebbe il necessario per tutti. Danneggiamo la biosfera quando sappiamo che è l’unica nostra casa. Ci minacciamo reciprocamente con le armi nucleari sapendo a che cosa potrebbero portarci. Amiamo gli esseri viventi ma permettiamo l’estinzione in massa di intere specie. E poi tutto il resto: genocidi, torture, schiavitù, violenze domestiche, abusi su minori, sparatorie nelle scuole, stupri e decine di orrori quotidiani. Viviamo circondati da questi tormenti e non siamo neppure stupiti di riuscire comunque a rimediare un po’ di felicità, e addirittura amore. La mente artificiale non ha le stesse difese (p. 167-8).

È dalla viva voce di Turing, che ha accettato di incontrare Charlie per avere notizie del suo Adam, che Charlie saprà che molti degli altri Adam e Eve si sono autodistrutti. “Ci sono lacrime nella natura delle cose”, ricorda Turing citando l’Eneide, “Nessuno di noi sa, per il momento, come codificare questa percezione”. In breve, a contatto con il nostro mondo, le macchine sviluppano un’infelicità inguaribile. Il loro senso del bene e del giusto li rende incompatibili con la nostra realtà: niente nello splendore di tutti i loro codici potrebbe mai preparare Adam e Eve per Auschwitz. L’Adam di Charlie, sebbene divenuto consapevole, si è innamorato e questa rappresenta una ragione sufficiente per restare in vita. Ma neppure il suo amore per Miranda può aiutarlo a comprenderne le ragioni.

“Secondo me gli A & E non erano attrezzati per capire i processi decisionali umani, il mondo in cui i nostri principi vengono distorti dal campo di forze di emozioni, pregiudizi, autoinganni e di tutti i sistematici errori delle nostre funzioni cognitive. In poco tempo questi Adam e queste Eve si trovavano senza speranza. Non riuscivano a capirci, perché noi stessi non ci capiamo. I loro programmi di apprendimento non erano in grado di contemplarci. Non conoscendo la nostra mente, come avremmo potuto progettare la loro e aspettare di vederli felici al nostro fianco?” (p. 274).

Come creare esseri a nostra immagine? Nel cuore del mondo iper-tecnologico di questa Londra immaginaria degli anni Ottanta emerge la coscienza del limite costitutivo di ogni manufatto che volesse imitare la mente umana. Come programmare un cervello, a imitazione del nostro, se neppure noi comprendiamo adeguatamente come siamo fatti? Le nostre contraddizioni ci sono chiare, ma non per questo ci appaiono più risolvibili. I conflitti che ci dilaniano fino a minacciare la nostra stessa sopravvivenza non sono capaci di farci retrocedere e cambiare passo. Come possono sopravvivere al nostro fianco questi esseri perfetti? Come Adamo ed Eva prima della caduta, gli A & E non sono ancora corrotti, non conoscono il bene e il male. E laddove lo incontrano, per loro si tratta di problemi da risolvere.

 

 

“[…] senza sapere granché della mente, decidi di provare a introdurne una artificiale nel mondo delle relazioni. Il machinelearning non può arrivare molto lontano. Dovrai fornire a questa mente alcune regole di vita a cui attenersi. Perché non quella di non poter mentire? Secondo quanto si legge nell’Antico Testamento, nel libro dei Proverbi, mentire è un abominio contro Dio. Ma il mondo delle relazioni pullula di menzogne innocue, per non dire preziose. Come facciamo a distinguerle? Chi scriverà l’algoritmo della bugia generosa che risparmia l’imbarazzo a un amico? O di quella che spedisce in galera uno stupratore che altrimenti l’avrebbe fatta franca? Ancora non sappiamo come insegnare a mentire a una macchina.” (p. 278)

Se proprio bisogna fornire loro delle regole, perché non partire da quelle tradizionali del testo sacro? E quale regola più consolidata, accettata e riconosciuta del “non mentire”? Ma per eseguire questa “routine” bisognerebbe prima chiarire che cosa è menzogna e che cosa è verità, una distinzione tutt’altro chesemplice e chiara, tanto più per il mondo schematico dello 0101010101. Che ne sarà allora del nostro Adam? A lui ormai, come Charlie e Miranda, ci siamo affezionati. E anche lui ci vuol bene. Alla vita, ora che l’ha provata, lui ci ha preso gusto (come i replicanti di Blade runner). Possiamo arrenderci al fatto che lui, un manufatto di mani d’uomo, sia la luce e noi il buio? Possiamo rassegnarci a che lui non possa reggere un Auschwitz, mentre noi ci accorgiamo della nostra superficialità a ogni nuova giornata della memoria? I robot rivelano le nostre contraddizioni, anche se in gioco qui c’è solo il regno dei possibili, quello che la letteratura sa offrirci. Una parte del racconto non si è ancora realizzata, ma è giunta ad allertarci. Come una profezia. E il profeta è “realista delle distanze” (F. O’Connor).

 

2. Fine

Il legame uomo-Dio per i Pink Floyd

 

Scritto da DARIO  COPPOLA.

 

Il legame uomo-Dio è percepito, e persino “ascoltato”, molto intensamente ma senza consapevolezza piena. I canali preferiti sono indubbiamente quelli inconsci… Anche nella musica e nei testi a noi più cari, laddove meno ce lo possiamo aspettare, c’è un canale che porta a Dio. Fin qui poca meraviglia può destare una tale affermazione. Ma certamente più interessante si fa il discorso se parliamo di musica rock che per generazioni e generazioni si può considerare pane quotidiano (sempre fresco!). Un giorno, senza volerlo, ho suscitato dello stupore in un mio studente facendogli notare che un appiglio del legame uomo-Dio (legame con le origini che, a detta di Lattanzio nelle Divinae Institutiones, IV, 28, dà origine al termine “religione”, cioè da re-ligo) si trova anche rileggendo (da re-lego altro etimo del termine “religione” tratto da Cicerone in De natura deorum, II, 28) i testi dei Pink Floyd! Scettico sino alla dimostrazione, il mio studente ha dovuto esclamare poi l’ormai fatidico “Non ci posso credere!” quando ha rivisto con me testi di Syd Barrett come questi:

 

 

“Giove, Saturno […] Nettuno, Titano […]” (da Astronomy Domine) in cui si fa riferimento alla mitologia che costituisce l’antica religione greca. Ma soprattutto: “Gesù sanguina […]” in cui si fa riferimento al Quarto Vangelo (Gv 19, 34): la citazione è tratta  da Take up Thy Stethoscope and Walk:

 

 

Le citazioni religiose continuano nei testi dei Pink Floyd: in particolare colpiscono i riferimenti al cielo, che evoca il concetto di Regno dei cieli, propriamente matteano, o il Regno di Dio degli altri evangelisti. Inoltre si avverte qui la necessità della preghiera, rimarcata dalle parabole, e della domanda a Dio:

 

 

“[…]formulare una domanda al cielo/ O mio Dio saranno tristi per me? […] O Dio qualcosa nel cielo mi attende […] (da Corporal Clegg); “Ora guardo alto verso il cielo […] angelo […] campana […] oh Dio devo starmene a casa […] e poi il cielo si apre su di te” (da Late Night);

 

 

Altri versi suggestivi recitano: “Mormoni rubati […] visione magica evocata da lingue di fuoco”(da Burning bridges): qui addirittura troviamo l’immagine lucana della Pentecoste (At 2,2-4).

 

 

Tema centrale della Sacra scrittura, nell’Antico Testamento, è quello della terra promessa (fra gli altri passi biblici ricordiamo: Gen 12,1; 23; 1 Re 21; Sal 115, 16) ma anche quello della via giusta che Dio addita ai peccatori (tema ricorrente nei salmi: Sal 1, Sal 25 [24]). I Pink Floyd sono sul pezzo come si suol dire e riprendono proprio questi temi:”Il cielo ha mandato la terra promessa […] via giusta […] perché è l’ora […] un ventre gelido mi soffia nell’anima. Qualcuno ha mandato la terra promessa” (da Wots?… Uh! The Deal).

 

 

Abbiamo notato qui anche la citazione del tema giovanneo dell’ora che dalle nozze di Cana (Gv 2) si sviluppa fino alla preghiera di Gesù (Gv 17) e si compie nella sua morte e resurrezione.

 

 

Nei testi dei Pink Floyd si possono rinvenire perciò riferimenti mitologici e anche una religiosità fusa con un suggestivo naturalismo che affonda con le sue radici inconsce nelle verdi radure culturali dell’ebraismo cristianizzato.

Basti questo, per ora, fermo restando che il bello deve essere ancora qui letto e riletto…

 

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  • Questo articolo  è l’ampliamento per Scrittori di Scrittura di un precedente articolo pubblicato sul Corriere di Torino e della Provincia il 24/02/1996

La coscienza (e l’infelicità) dell’umano artificiale

 

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

L’Eterno odia queste sei cose, anzi sette sono per lui un abominio: gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che versano sangue innocente, il cuore che concepisce progetti malvagi, i piedi che sono veloci nel correre al male, il falso testimone che proferisce menzogne e chi semina discordie tra fratelli.”  (Proverbi 6.16-19).

 

 

Il presente è la più fragile tra le strutture improbabili. Poteva essere diverso. In qualunque sua parte, come nel suo complesso, poteva costituirsi altrimenti. Il che vale per i massimi sistemi e per le piccolissime cose. È molto facile immaginare un mondo in cui l’unghia del mio alluce non avesse deciso di farmi la guerra; un mondo in cui avrei potuto essere ricco e abitare a nord del Tamigi grazie al successo finanziario di un mio investimento; un mondo in cui Shakespeare fosse morto bambino senza che nessuno ne sentisse la mancanza o in cui gli Stati Uniti avessero preso la decisione di sganciare su una città giapponese l’ordigno atomico di cui avevano verificato la perfetta efficacia; in cui la task force delle Falkland non fosse mai salpata, o fosse tornata vittoriosa e perciò adesso il paese non fosse in lutto…                                                                    (Ian McEwan, Macchine come me, p.61-2)

 

Nel regno delle possibilità che è la letteratura (corrispondente all’if dell’informatica), Alan Turing non è morto suicida ma ha contribuito alla nascita di creature artificiali vendute “come articolo da compagnia, sparring partner intellettuale, amico e factotum in grado di lavare i piatti, fare i letti e ‘pensare’” (p. 5). Si tratta di umani artificiali estremamente realistici per aspetto fisico, espressioni facciali, movimenti; dotati inoltre di pelle tiepida al tatto, pulsazioni regolari nella zona sinistra del petto e una vita emotiva (comprensiva di bisogni sessuali). Pur trattandosi di simulazioni, la loro perfezione è tale da ingannare fin troppo facilmente. Infine, come un cordone ombelicale, dall’addome esce un cavo elettrico necessario all’alimentazione e, appena caricati, un singhiozzo ne annuncia la prima boccata d’aria.

 

(Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch in Imitation game di Morten Tyldum del 2014)

 

Tra i primi esemplari messi in circolazione (12 Adam e 13 Eve), un Adam viene acquistato da Charlie Friend, trentenne appassionato di elettronica e intelligenza artificiale che, sulla scia di una lunga tradizione ( https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/molta-sapienza-molto-affanno – in Macchine come me si cita infatti Mery Shelley)  racconta di aver sacrificato il denaro dell’eredità di sua madre “ sull’altare della curiosità, quell’intramontabile motore della scienza, della vita intellettuale, della vita e basta” (p. 14). Charlie decide di condividere Adam con Miranda, vicina di casa di cui è innamorato, chiedendole aiuto nella selezione degli elementi caratteriali come richiesto dal manuale di istruzione. Entrambi si aspettano di avere con loro un ospite fisso, ma anche una creatura su cui proiettano desideri e ambizioni come fosse un figlio, quasi creando una sorta di famiglia.

Al suo primo risveglio Adam si mostra subito dotato di personalità e acume. Per prima cosa si accorge di essere nudo (ha già perduto l’innocenza!?) e chiede dei vestiti: accetterà solo inizialmente quelli sportivi di Charlie e più avanti acquisterà a suo gusto un completo che meglio si adatta alla propria percezione di sé. Nei primi tempi Charlie sente ogni tanto il bisogno di “spegnere” Adam: la prima volta il robot tenta una debole ribellione (“non mi sembra una buona idea… Ero qui tranquillo a pensare. Riflettevo sulla religione e sul concetto di aldilà”, p. 34), la seconda volta però si accorge dell’intenzione di Charlie e gli afferra il polso con tale forza da causargli una brutta frattura. Di questo si scuserà con dolcezza ma anche con fermezza: “non voglio che tu o Miranda mi tocchiate mai più in quel punto” (p. 113). Non ci sarà una terza volta, in quanto Adam li avvisa di aver disattivato il pulsante: si percepisce come un io cosciente e vanta il diritto a una vita vigile. Quando verrà a saperlo l’ingegnere della casa di produzione di Adam dirà: “Si tratta di macchine ad apprendimento automatico e ci eravamo accordati che, se lo avessero voluto, sarebbero stati liberi di affermare la propria dignità(p. 178).

 

https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/playing-god-la-nascita-di-eva

 

Una delle apprensioni è che si riveli uno shock e un affronto vivere in compagnia di soggetti più intelligenti di voi stessi (p. 138).

Adam “impara” a interagire con altri che non siano Charlie e Miranda, a cui non viene esplicitata la sua diversa natura. E se all’inizio sembra rallentato o entrare in modalità stand-by quando non viene richiesto il suo intervento, col tempo partecipa alle discussioni senza attendere di essere interrogato. Di notte quando si mette sotto carica o in tutti i momenti di pausa, Adam legge con avidità acquisendo conoscenze di gran lunga superiori ai suoi amici. Della letteratura però, in quanto specchio di complessità e contraddizioni della vita e dell’essere umano, gli risulta inaccettabile il motore conflittuale dal quale dipana i suoi intrecci. Arriverà un tempo, sostiene Adam, in cui l’umanità sarà integrata alle macchine (come lui), e si porrà fine a tutto questo, mettendo fine di conseguenza anche a questo tipo di narrazioni:

Quasi tutto ciò che ho letto della letteratura mondiale descrive variabili di fallimenti umani, a livello di comprensione, di logica, di buonsenso e di adeguata solidarietà. Mancanze di cognizione, onestà, cortesia, consapevolezza; strepitose raffigurazioni di violenza, ferocia, egoismo, stupidità, paranoia e, soprattutto, di profonda incomprensione degli altri. C’è spazio anche per la bontà, questo è vero, e per l’eroismo, la grazia, la saggezza, la verità. È dal fertile groviglio di questa matassa che si dipanano le diverse tradizioni letterarie, come le piante selvatiche nella famosa siepe di Darwin. I romanzi si sviluppano utilizzando tensione, inganni, violenza, ma anche momenti d’amore e perfette risoluzioni formali. Ma quando il connubio tra uomini, donne e macchine sarà completo, questo genere di letteratura diventerà obsoleto perché allora ci comprenderemo troppo bene. Abiteremo una comunità di intelligenze a cui avremo accesso immediato […] Arrivando a poter dimorare nella mente gli uni degli altri, perderemo la capacità di mentire. I nostri racconti cesseranno di essere interminabili cronache di malintesi. La letteratura perderà la propria malsana fonte di malintesi (p. 139-40).

A differenza degli altri umanoidi messi in circolazione, Adam si innamora (di Miranda) e Charlie all’inizio si sente seriamente in competizione con lui. “Non posso cambiare i miei sentimenti. Quelli me li devi consentire” (p. 109), risponde Adam alle rimostranze di Charlie, “Ho sentimenti profondi. Più di quanto sia in grado di esprimere”. E quando Charlie lo guarda incredulo, lui gli dice: “Non mi offendere, ti prego” (p. 111), per poi aggiungere: “Come diceva Schopenhauer a proposito del libero arbitrio, possiamo scegliere tutto ciò che desideriamo, ma non siamo liberi di scegliere che cosa desiderare (p. 112).

 

https://www.youtube.com/watch?v=kkktpJSNb2A

 

  1. Continua.

Cattolicitazioni

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Abbiamo avuto in sorte di assistere, in queste ultime settimane, a un ritorno di fiamma della citazione religiosa, segnatamente cristiana, in contesti di per sé lontani e per loro natura “altri” come sono  (meglio, dovrebbero essere) quelli della politica. Citazioni di questo tipo non sono certamente una novità, e hanno conosciuto negli ultimi anni un rifiorire per certi versi inatteso, dacché sono coltivate e messe in pratica in ambiti non dichiaratamente connotati, come  potevano essere, al contrario, movimenti e partiti che fin dalla denominazione –  “cristiano/cristiana”- dichiaravano apertamente radici e appartenenza di campo. La domanda che ne deriva, dunque, è: perché ricorrere alla citazione cattolica in questi casi?

La risposta parrebbe ovvia: per dare un aggancio alto e orientato al discorso  che si sta facendo (e dunque a chi lo pronuncia). In più, c’è un evidente utilizzo tecnico:  la citazione difatti  è impiegata in appoggio e a rinforzo di quanto il relatore sta affermando. Non è comunicata per il valore o il contenuto in sé,  non è lei il centro della esposizione o del periodo, spesso non ne tocca nemmeno il nucleo. Serve piuttosto a condire un’ altra affermazione, ammantandola dell’ evidente prestigio morale del personaggio citato. In questo modo questo tipo di riferimento è, per sua natura stessa, strumentale, sotto un duplice aspetto: in primo luogo permette di conferire una patina di “religiosità” a chi lo pronuncia, in secondo luogo configura una captatio benevolentiae rispetto a quella fetta di uditori ( e magari elettori) che si presumono essere “religiosi” e lieti di ascoltare fuori contesto una citazione in cui riconoscersi. Detto con una certa brutalità: è un poco mettersi una coccarda cristianeggiante, e fare l’occhiolino a un target di riferimento a cui mandare il messaggio: tu ed io siamo dalla stessa parte.

 

 

Citazioni di questo genere tutto sommato costano poco, e sono di facile utilizzo. Il che non significa che siano di chiara e univoca interpretazione. Si prenda ad esempio la citazione fatta, qualche settimana fa,  nel discorso della vittoria elettorale, da  una politica italiana.  Si tratta di una presunta frase di San Francesco: ” Tu comincia a fare quello che è necessario, poi quello che è possibile. Alla fine, ti scoprirai a fare l’impossibile” . La frase, come  ha puntualmente segnalato Andrea Vaona, professore di storia ecclesiastica presso la facoltà teologica del Triveneto, non è in realtà mai stata pronunciata dal santo di Assisi. Ma, senza voler entrare in molte altre considerazioni possibili, ai nostri fini che importa? Tutti i giornali hanno titolato sul personaggio politico che , nella notte delle elezioni, cita San Francesco; questo il risultato da raggiungere, non tanto diffondere il  contenuto citato : peraltro neutro, inoffensivo, sostanzialmente buono per ogni occasione.

 

 

Un secondo esempio lo abbiamo avuto nel discorso di nomina del nuovo Presidente della Camera dei Deputati. Qui le citazioni “ cattoliche” sono state diverse, e tre particolarmente esplicite. La prima consisteva in un richiamo al beato Carlo Acutis e alla sua affermazione “Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Il quindicenne beatificato un anno fa intendeva con questa affermazione richiamarsi al fatto che  ogni persona è unica e irripetibile, che merita di conservarsi e di svilupparsi in una crescita di relazione cristiana personale e specifica, senza perdersi in abitudini e fiacco tran tran. Inserendosi così in un solco di indicazioni già percorso, ad esempio, da Piergiorgio Frassati con il suo ” vivere! non vivacchiare! ” o da Giovanni Paolo II, secondo il quale  “Dio in Gesù Cristo chiama ciascuno col proprio inconfondibile nome”. Nel discorso istituzionale alla Camera, invece, la frase prende un’altra piega e viene utilizzata a sostegno della tutela, per dir così, delle differenze tra i popoli: l’originalità, ovvero l’unicità, non va intesa come «rottura o indice di superiorità ma espressione di democrazia e rispetto della storia: la ricchezza dell’Italia e dell’Europa sta nella diversità».

 

 

Nello stesso discorso, si trova un richiamo a San Tommaso :Dobbiamo ricordare quanto ci ha indicato san Tommaso d’Aquino: “il male non è il contrario del bene, è la privazione del bene” Il compito per noi parlamentari sarà di non privare del bene l’Italia, ma al contrario lottare per esso con umiltà, serietà, sobrietà. Dobbiamo riportare fiducia, speranza, orgoglio e orgogliosamente rappresentare il popolo più bello e creativo del mondo.” Cosa significa, giocata in questo modo, questa citazione? Stante che non è indicato cosa  debba intendere per “bene”  una assemblea parlamentare di uno stato laico e non di una repubblica teocratica, men che meno si capisce quale sia lo specifico bene di cui dovrebbe essere privata l’ Italia. Ci si può naturalmente  trovar d’accordo sulla generica esortazione alla umiltà, serietà, sobrietà con cui lottare. Ma come far quadrare le parole di san Tommaso con lo spot sull’orgoglio tricolore e il peana a noi, paese più bello e creativo del mondo? Intendiamoci: tutto il ragionamento ha una sua validità e un suo costrutto, nell’ottica di chi lo pronuncia : ma il riferimento alle parole di san Tommaso è del tutto marginale e, tuttosommato, sempra azzeccarci poco assai con il resto.

 

Un riferimento a parte meritano le esplicite manifestazioni di ossequio e di ringraziamento al papa, che in questi discorsi istituzionali sembrano non mancare mai. Naturalmente rientrano nei rapporti di vicinanza, contiguità e collaborazione tutti particolari tra Italia e Santa Sede. Ma bisognerebbe fare attenzione al fatto che il magistero dei papi, e quest’ultimo non fa certamente eccezione, è multiforme e impegnativo, sulle orme del fatto che così  è prima di tutto il Vangelo su cui tale magistero si appoggia. Riconoscerlo, il Papa,  come guida spirituale del popolo italiano è gratis e risulta ottimo per strappare applausi bipartisan, ma ti espone al rischio di sonore smentite e scomodissimi raffronti alla prima occasione in cui quello stesso magistero finirà rapidamente nel cassetto.

In conclusione, duemila anni di critianesimo forniscono a chiunque, dunque anche ai politici parlanti,  una massa sterminata di materiale a cui potere attingere, per trovare quasi tutto (e magari il suo esatto contrario). Specie se si agisce secondo la logica dello spezzatino e del fuori contesto. Ma non è affatto detto che citare basti.

Cesoie teologiche presso i fiumi di Babilonia

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Nel 1933 Giuseppe Ungaretti affermava: “Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando essa è una bestemmia”. Nelle poesie infatti non è raro rinvenire una contestazione del divino, pur nell’oscillazione tra invocazione e provocazione, così come Dio non smette di essere chiamato in causa anche nel tempo della disperazione di un orizzonte apparentemente senza Dio. Il male che da sempre sembra negarne l’esistenza può essere quindi stilizzato in immagini bibliche attualizzate al dramma del presente vissuto, come è il caso dei “versi di guerradi Salvatore Quasimodo, che riprendono il Salmo 137 (136) riportandolo in epoca di nazi-fascismo:

E come potevamo noi cantare

Con il piede straniero sopra il cuore,

tra i morti abbandonati nelle piazze,

sull’erba dura di ghiaccio,

al lamento d’agnello dei fanciulli,

all’urlo nero della madre

che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese:

oscillavano lievi al triste vento.

(Salvatore Quasimodo, Super fluminaBabylonis, 1945)

Si tratta naturalmente di una rivisitazione del salmo biblico, che di seguito riportiamo per intero:

1 Là, presso i fiumi di Babilonia,
sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.
2 Ai salici delle sponde avevamo appeso le nostre cetre.
3 Là ci chiedevano delle canzoni quelli che ci avevano deportati,
dei canti di gioia
quelli che ci opprimevano, dicendo:
«Cantateci canzoni di Sion!»
4 Come potremmo cantare i canti del SIGNORE
in terra straniera?
5 Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
6 resti la mia lingua attaccata al palato,
se io non mi ricordo di te,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
7 Ricòrdati, SIGNORE, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: «Spianatela, spianatela,
fin dalle fondamenta!»
8 Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta,
beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto!
9 Beato chi afferrerà i tuoi bambini
e li sbatterà contro la roccia!

Confrontando i due testi, ci si accorge che la riscrittura poetica di Quasimodo è abbreviata, ma non meno incisiva. Per meglio comprenderne il richiamo è bene riprendere il contesto: la vicenda a cui si fa riferimento nel testo biblico è il tempo della deportazione a Babilonia avvenuta con Nabucodonosor (597-538 a.C.), in cui il popolo ebraico ha assistito e subìto ogni sorta di violenza in patria prima di vivere la vergogna dell’esilio. Radunati ora lungo il fiume di Babilonia, il pensiero corre a Gerusalemme e per la tristezza del ricordo non sono più capaci di cantare. Chi li vede, passando, si accorge degli strumenti che hanno con sé e chiede loro un canto. E forse lo chiede anche con insistenza, se stiamo a guardare la ripetizione al v. 3. Per gli israeliti colmi di afflizione questa richiesta risulta provocatoria e ai limiti dell’irrisione, in quanto rivolta dai persecutori che chiedono canzoni celebrative della grandezza di Sion, la città santa che hanno violato, distrutto e depredato: “sembra di vedere l’anticipazione di certe crudeli richieste fatte agli ebrei nei lager”, scrive G. Ravasi nel suo commento al Salmo.

Spianatela, spianatela fin dalle fondamenta! è il grido che il salmista rievoca per far sentire quanto sia stato spietato il furore dei nemici (oltre ai babilonesi, approfittando della situazione erano accorsi gli edomiti, tra i classici nemici di Israele).

Nei versi di Quasimodo si riprende il tema dell’impossibilità del canto per descrivere lo scenario di guerra che, a differenza del salmo, non riappare nel ricordo ma è lì presente: i morti abbandonati, le urla delle madri, il sacrificio dei giovani. Non può sfuggire la lettura cristologica che vede i giovani come agnelli immolati e crocifissi. Il richiamo al salmo in apertura e chiusura, oltre al titolo in latino del testo, sembra limitarsi ad acquisire il contesto di afflizione, obliando la parte finale in cui l’orante si rivolge a Dio perché si ricordi del giorno che ha causato tanto dolore, facendo loro giustizia. Il riferimento cristico sembra colmare questo vuoto, lasciando inespressa l’invocazione.

 

https://www.youtube.com/watch?v=tPANwyaSlX4

 

Prima di Quasimodo, a partire dallo stesso salmo Giuseppe Verdi aveva musicato il Nabucco (presentato la prima volta alla Scala di Milano nel 1842). Ma in questa versione l’afflizione degli ebrei è paragonata a quella degli italiani prima dell’unificazione, e“Va, pensiero…” è la preghiera rivolta alla Patria. Anche qui l’arpa appesa al salice (albero che piange) riaccende il ricordo di un tempo di libertà perduta.

Va’, pensiero, sull’ali dorate,

va’ ti posa sui clivi, sui colli,

ove olezzano libere e molli

l’aure dolci del suolo natal!

Del Giordano le rive saluta,

di Sïonne le torri atterrate…

Oh mia patria sì bella e perduta!

Oh membranza sì cara e fatal!

Arpa d’ôr dei fatidici vati

perché muta dal salice pendi?

Le memorie nel petto raccendi,

ci favella del tempo che fu!

O simìle di Sòlima ai fati

traggi un suono di crudo lamento,

o t’ispiri il Signore un concento

che ne infonda al patire virtù!

 

https://www.youtube.com/watch?v=l3QxT-w3WMo

 

Molto più recentemente, nel 1978, un gruppo musicale, i BoneyM, hanno rilanciato il testo salmico e tanti devono averla canticchiata senza (ri-)conoscerne l’originale:

By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion
By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion

There the wicked
Carriedusaway in captivity
Required from us a song
Nowhowshallwesing the Lord’ssong in a strange land?

There the wicked
Carriedusaway in captivity
Requiring of us a song
Nowhowshallwesing the Lord’ssong in a strange land?

Yeah, yeah, yeah, yeah, yeah

Let the words of ourmouth and the meditation of ourheart
Be acceptable in thysightheretonight
Let the words of ourmouth and the meditation of ourhearts
Be acceptable in thysightheretonight

By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion
By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion

By the rivers of Babylon (dark tears of Babylon)
Therewesat down (yougot to sing a song)
Yeah, wewept (sing a song of love)
Whenweremembered Zion (yeah, yeah, yeah, yeah, yeah)

By the rivers of Babylon (rough bits of Babylon)
Therewesat down (youhear the peoplecry)
Yeah, wewept (theyneedtheirGod)
Whenweremembered Zion (ooh, have the power)

By the rivers of Babylon (oh yeahyeah), therewesat down (yeah, yeah)

 

 

Spero non sia sfuggito che in tutte le versioni citate sia stato espunto il riferimento finale del Salmo, che di seguito riscriviamo:

8 Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta,
beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto!
9 Beato chi afferrerà i tuoi bambini
e li sbatterà contro la roccia!

Babilonia, causa di tante disgrazie per il popolo ebraico, deve subire lo stesso destino di Gerusalemme ed essere distrutta: perché giustizia sia compiuta, deve essere ristabilito l’ordine infranto. Secondo un principio retributivo quindi chi ha causato la rovina di un popolo, deve ricevere lo stesso trattamento e il massacro dei bambini ha proprio lo scopo di privare un popolo del suo futuro. Così è avvenuto per gli ebrei e lo stesso dovrà avvenire per Babilonia. Questa atrocità era ricorrente nell’Oriente antico, come emerge nel profeta Naum: “Essa è partita per l’esilio in cattività e i suoi lattanti sono stati sfracellati ai crocicchi di tutte le strade” (3,10). Si tratta di un passaggio duro, specie considerato che si tratta di una preghiera. Questo può spiegare perché sia eliminato nelle riscritture. Eppure non capita solo qui.

Il salmo 137 (136) si legge sia durante la liturgia eucaristica (4° domenica di Quaresima, anno B) sia nella liturgia delle ore (Vespri del martedì della IV settimana) nei soli versetti 1-6. La ragione risale alla vexata quaestio afferente i cosiddetti “salmi imprecatori”, prima oggetto di un serrato dibattito in seno al Concilio Vaticano II e poi di una decisione di Paolo VI che nel 1971 (Principi e norme per la liturgia delle ore), in controtendenza rispetto al giudizio maturato in commissione, escluse motu proprio i salmi 58, 83 e 109 e qualche porzione di altri (compreso il presente salmo) dall’ordinaria recita del breviario della chiesa cattolica. Il problema si ripropone a decenni di distanza dal Concilio e a fronte di una maggior consuetudine con i testi della Sacra Scrittura: è giusto, oltre a essere esegeticamente corretto, tagliare o eliminare del tutto testi del canone per il loro carattere violento o non è forse meglio comprenderli e accoglierne la provocazione? Sarà così fuori luogo riflettere sul fatto che la fede in Dio e nella sua giustizia possa in taluni casi comportare un desiderio e persino una sacralizzazione della vendetta?

 

 

Il linguaggio è crudo e selvaggio, ammette André Wénin – che sui salmi imprecatori e sulla violenza presente nella Bibbia ha lavorato a lungo – e per questo richiede di fermarsi e comprendere, magari assumendo il punto di vista dell’orante. Il contesto, come visto, rimanda all’immagine di un popolo esiliato, oppresso e impotente, e tuttavia legato alla sua città e al suo Dio. Il suo bisogno di giustizia è quindi più che legittimo, sebbene sia espresso in una logica di vendetta. Queste parole dure e quasi illeggibili esprimono pertanto il desiderio che a tale regime di sopraffazione sia posto un termine, unica condizione per tornare a vivere in pace. Ma davvero siamo capaci ad acquisire il punto di vista di un popolo schiacciato e impotente se non abbiamo mai vissuto una simile situazione?

Solo persone che hanno conosciuto una prova del genere – con il nazismo, con lo stalinismo […], nell’ex Jugoslavia, in Ruanda, nelle guerre del Golfo con le loro attuali conseguenze in Iraq e in Siria, e ovunque i rifugiati di queste atrocità cercano invano un rifugio – sarebbero in grado di comprendere veramente (Wénin, Salmi censurati, p. 100).

Oggi potremmo chiedere ai profughi ucraini o agli altri immigrati in fuga da analoghe condizioni di violenza se sono in grado di comprendere meglio di noi questi versetti terribili. Chi non si è mai trovato in simili frangenti e li ha solo guardati più o meno distrattamente alla televisione potrà solo immaginare la violenza disumana che continua a essere subìta e inflitta. Potrà essere scandalizzato dalle parole del salmista, ma è la violenza in sé o le parole a dover suscitare tale reazione?

E che cosa capita censurando i versetti finali? Se si dovesse omettere la finale di qualunque testo poetico, si griderebbe allo scandalo, perché la sinteticità di una poesia dà un peso altissimo a ogni parola. Tanto più a quelle conclusive allora, che tendono a dare senso all’intero testo. In questo caso, espungendo i versetti finali, il salmo perde il suo tono di supplica per assumerne uno solamente nostalgico per un passato perduto. Ma assieme al passato, se si perde il finale si perde anche la rivolta di fronte alla violenza e la speranza di veder ristabilita la giustizia. Edulcorare il linguaggio non cambia la realtà della ferocia dell’uomo contro i suoi simili. Chi le pronuncia è in una situazione di impotenza, che queste parole contribuiscono ad attestare. Eliminarle è ridurre le vittime al silenzio, aggiungendo violenza a violenza. I vv. 8-9 non inneggiano all’omicidio, ma gridano il bisogno di giustizia di chi si trova in una condizione di dipendenza e inazione.

Gli studiosi fanno inoltre notare come i toni di vendetta possiedano paradossalmente la forza della fedeltà a Dio, a cui ci si continua a rivolgere quando tutto sembra giocare contro. Esprimono cioè il desiderio che il male non abbia l’ultima parola e, consegnando a Dio il lamento per la situazione di miseria, gli affidano anche il giudizio che solo a lui spetta su coloro che ne sono la causa:

“[…] questi salmi prendono sul serio la radicata convinzione biblica secondo cui nella preghiera si può dire tutto, veramente tutto, purché lo si dica a Dio, che per noi è padre e madre. Dalla psicologia abbiamo infatti appreso che l’angoscia inibita e l’aggressività repressa non solo non superano l’attitudine alla violenza, bensì la potenziano […] I salmi non inibiscono tali sentimenti, ma li esprimono davanti a Dio e li consegnano nelle sue mani” (Zenger, Un Dio di vendetta?, p. 139).

I salmi imprecatori sono una preghiera in forma poetica che mette uno specchio davanti agli autori di violenza. Per questo possono aiutare le vittime a restare salde nella loro dignità di persone e a sostenere senza violenza la loro protesta e la paura del nemico. Il fatto che nei salmi la vendetta sia demandata a Dio significa infatti la rinuncia a una propria personale vendetta.

Non va poi dimenticato che i brani biblici vanno recepiti canonicamente, ovvero vanno compresi assieme a testi analoghi e non presi isolatamente. A tal proposito ricordiamo la lettera del profeta Geremia ai deportati in cui li si esorta a pregare per Babilonia:

Cercate il benessere del paesein cui vi ho fatti deportare, e pregate per esso il Signore; poiché dal benesseresuo dipende il vostro (29,7).

 

 

Conclude Wénin: “Di fronte alla violenza che attinge la sua forza nel desiderio di vendicarsi di un’ingiustizia reale o solo avvertita come tale, l’AT indica la via della parola. È ad essa che dà corpo nei salmi di vendetta o di esecrazione. Essi esprimono questo desiderio rabbioso a Dio, come a un familiare davanti al quale si osa esporsi, mettersi a nudo con una grande fiducia, perché si sa che non giudicherà ma comprenderà la sofferenza che genera quella rabbia. Il fatto che questo sentimento possa essere espresso, come invitano a fare questi salmi, sotto forma di preghiera significa che non è affatto indegno dell’uomo e di Dio, come lo sarebbe invece il passaggio all’atto distruttivo […]. Ai salmisti che osano credere che nulla di umano sia estraneo a Dio, quest’attimo apre uno spazio di preghiera dove liberare la belva della loro aggressività […]. I salmi violenti offrono al lettore un accesso verso l’inumano che c’è dentro di lui, primo passo verso una possibile liberazione (pp. 104-5).

La preoccupazione di disturbare la preghiera con espressioni di rabbia e violenza dimentica che tali dimensioni sono presenti persino nelle fiabe della tradizione (non quelle edulcorate nelle versioni Disney e affini), in funzione educativa. Non è rimuovendo un versetto che si può cancellare la realtà che rappresenta. E invece di continuare a considerare la gente incapace di comprendere e quindi da tenere al riparo dalle formule difficili, meglio è fornire chiavi di lettura per attraversare le difficoltà – testuali, personali, sociali, politiche. Perché non solo viviamo in un mondo violento, ma noi stessi siamo violenti né siamo estranei ai processi che veicolano violenze piccole e grandi. Pronunciare queste parole forti di fronte a Dio nella preghiera è già una presa d’atto. E questo può aiutare. Le cesoie invece offrono l’immagine di una chiesa paternalistica che considera i fedeli un popolo infantile e da imbonire.

Soggiacente all’accantonamento dei salmi imprecatori sta in effetti un appiattimento edulcorato del dettato biblico come pure dello spessore esistenziale; un’interpretazione alla fine banalizzante della Scrittura, e prima ancora della stessa vita, del nostro e dell’altrui volto umano, e ultimamente di Dio medesimo e del suo impegno salvifico, riflesso di una fede che, preoccupata di coincidere con formulazioni dogmatiche ed etiche asettiche, ha da molto tempo tralasciato la forma specifica biblica della sua testimonianza originaria” (Vignolo nella prefazione a Zenger p. 9).

Quando Ungaretti affermava che la poesia è testimonianza di Dio anche quando appare una bestemmia non si riferiva ai Salmi imprecatori, ma certo conosceva le variazioni del sentire umano che in poesia vibrano su molti toni, né arretrano di fronte ad alcuna espressione che a tale sentire sappia dare voce. La Bibbia è parola di Dio in parole di uomini (e donne) e i Salmi tale parola in forma poetica. Forse è sufficiente problematizzare il primo assunto, dato troppo per scontato e mai compreso adeguatamente. La Bibbia è un libro che scotta: maneggiare con cura.

 

Il potere.Gli oppressi. Riscrivere la Croce.

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

 

Che il Potere, di varia natura e forma, riscriva la croce e il cristianesimo, usandoli entrambi spregiudicatamente come arma impropria, collante politico,  alibi ideologico e vessillo da combattimento, non puo’ stupirci, a meno che  non vogliamo pervicacemente chiudere gli occhi davanti agli ultimi duemila anni di storia. Più in generale, sono casi che rientrano nella vasta opera millenaria di riscrittura della idea di  Dio, piegato a forza a calzare su misura sulle varie guerre sante che tormentano l’umanità più o meno dall’inizio della storia.

Le crociate antiche, le guerre di religione ricorrenti, i fondamentalismi religiosi che vestono guerriglie e terrorismi, ne sono esempio lampante e costante storica. Certo, cambiano i linguaggi e i contesti di riferimento: resta tuttavia identica la sostanza. Accanto a queste forme più estreme e violente sino alla guerra, ne conosciamo molte altre : sono riletture strumentali della religione, e del cristianesimo in particolare, portate avanti in politica, nelle ideologie, persino nelle manifestazioni malavitose. Dio lo vuole, Dio è con noi, Dio Patria e famiglia, sono slogan che attraversano, magari con accezioni e termini diversi, le società umane, venendo generosamente alimentati da quanti perseguono lo scontro di civiltà, il muro contro muro valoriale, la necessità di indicare un nemico assoluto da mettere nel mirino e combattere fino all’ annientamento.

La Chiesa cattolica, dal Concilio in avanti, almeno a livello di Magistero, ha segnato passi importanti,  se non altro nella consapevolezza dei comportamenti secolari che hanno posto in essere interpretazioni completamente distorte del volto e del messaggio di Cristo, e nella chiarezza con cui si è deciso di imboccare una strada di riconciliazione, di dialogo e di confronto pacifico.

Signore del mondo, Padre di tutti gli uomini,

attraverso tuo Figlio

tu ci hai chiesto di amare il nemico,

di fare del bene a quelli che ci odiano

e di pregare per i nostri persecutori.

Molte volte, però, i cristiani hanno sconfessato il Vangelo

e, cedendo alla logica della forza,

hanno violato i diritti di etnie e di popoli,

disprezzando le loro culture e le loro tradizioni religiose:

mostrati paziente e misericordioso con noi e perdonaci!

Da queste parole – che Giovanni Paolo II pronuncio’, insieme a molte altre , nella grande richiesta giubilare di perdono per le colpe della Chiesa nel 2000 – sino alla “ Fratelli tutti” di papa Francesco, è evidente la volontà ispirata di abbandonare strade senza uscita fino ad allora  imboccate, battute, propagandate e imposte, spesso con il sangue e con le armi. Ma questo non significa che l’ardire  di rileggere, come accade ad ogni generazione, il nome e il volere di Dio pro domo propria resti uno dei grandi problemi irrisolti e minacciosi di questa nostra epoca dall’orizzonte tempestoso. Senza volersi addentrare in analisi che non ci competono, basta far riferimento agli ultimi interventi di Vladimir Putin nella sua sempre più decisamente dichiarata “guerra all’occidente” per trovarne una traccia fortissima, ultima delle riedizioni dell’alleanza sempreverde tra trono ( variamente declinato ) e altare. Tant’è che il filosofo russo Alexandr Dugin  cita direttamente la Bibbia per commentare il discorso putiniano sull’annessione delle quattro regioni ucraine alla Russia, momento  che a suo dire segnerebbe una svolta storica enorme: «Un manifesto della Tradizione – scrive su Telegram – Non riesco a immaginare la profondità delle conseguenze. È così che il Davide dell’Antico Testamento lanciò la fiondata contro il gigante Golia». Secondo Dugin, l’intervento del presidente russo che ha apertamente sfidato l’Occidente «è molto più importante dell’unità con i quattro nuovi soggetti: è una netta dichiarazione di guerra all’Occidente e al mondo moderno in generale».

Come sempre, anche oggi, fa da contraltare, davanti a queste reiterate e pelosissime reinterpetazioni del messaggio religioso da parte del potere in tutti i modi presente e praticato, la presenza di autentiche re-incarnazioni della Croce e del messaggio di Cristo, praticate, vissute, testimoniate nella carne e nel sangue, anche se nel nascondimento e nella indifferenza assolute. In questo caso, si tratta di testimonianze lasciate sul muro di un luogo di reclusione.

 

 

C’è anche un piccolo crocifisso in una delle celle dove i soldati russi tenevano gli abitanti della regione di Kharkiv prima di torturarli. Un crocifisso costruito da uno dei detenuti, catturati e rinchiusi nei seminterrati di un palazzo con l’unica colpa di essere ucraini. Grazie a qualche ramoscello di legno intrecciato, forse trovato per terra, l’anonima mano ha realizzato le due braccia della croce e l’ha attaccata alla parete verde della sua prigione con un po’ di carta e di nastro adesivo.”

 

 

Accanto al crocifisso gli internati hanno segnato i giorni che scorrevano. Tacche verticali, una vicino all’altra, per non perdere la cognizione del tempo in una stanza buia dove non entrava un filo di luce. Segni che fanno venire in mente le celle dei campi di concentramento. E poco sopra, sulla stessa parete ma nella parte bianca del muro, qualcuno ha disegnato due immagini sacre. Incise sull’intonaco, magari con una pietra. A destra compare un’icona di Cristo; a sinistra, una Madonna con il Bambino in braccio. Stilizzate. E secondo lo stile orientale. Proprio le autorità locali le hanno definite «preghiere» nel testo che accompagna il filmato. E spiegano che «gli invasori hanno tenuto dalle venti alle quaranta persone rinchiuse all’interno». Poi riferiscono che i prigionieri «sono stati picchiati», che «le loro unghie sono state estratte» e che «le loro dita rotte».

 

Così, nella desolazione solitaria e nel clima feroce che riverberano direttamente quelli del Calvario, queste immagini si inseriscono in quel filone palpitante e vivo che attraversa tutto l’ultimo secolo: sono segni che richiamano alla mente quello che accadde persino  nei   campi di concentramento. Per esempio, questo:

Preghiera scritta da un detenuto nel campo di concentramento di  Ravensbuck

 

 

Come giustamente ci ha ricordato Francesco: “Quanti cristiani, il secolo scorso, mandati nei gulag russi o nei campi di concentramento nazisti, hanno pregato per chi voleva ucciderli? «Tanti lo hanno fatto». E si tratta di esempi altissimi che toccano le coscienze di ognuno, perché arrivare ad «amare» i propri nemici, chi vuole distruggerti, è comunque «veramente difficile da capire»: soltanto «la parola di Gesù» può spiegarlo. E ancora…«Pensiamo a Auschwitz e ad altri campi di concentramento: loro dovevano pregare per questo dittatore che voleva la razza pura e ammazzava senza scrupolo, e pregare perché Dio li benedicesse, a tutti questi! E tanti lo hanno fatto»

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Spiegazioni che non spiegano

Scritto da GIAN LUCA CARREGA-

 

Le parabole di Gesù, si dice, sono testi semplici e intuitivi, che non hanno bisogno di spiegazione. Ma l’esperienza ci insegna il contrario, che cioè possono avere molte spiegazioni e anche in contrasto tra di loro. In alcuni casi possiamo ritenerci fortunati perché i vangeli ci offrono una loro interpretazione della parabola o almeno una cornice contestuale entro cui collocarla, ma qui vorrei provare a dimostrare quanto questi aiuti siano ingannevoli e rischino di farci subire passivamente una interpretazione insoddisfacente.

 

Le parabole dotate di una spiegazione dettagliata sono soltanto due: quella del seminatore e quella della zizzania. In entrambi i casi dopo il racconto della parabola ne viene attribuita la “corretta interpretazione” a Gesù stesso che illustra le esatte corrispondenze tra i singoli elementi del racconto e la realtà che dobbiamo leggervi dietro. Tecnicamente, quindi, queste parabole vengono intese come allegorie. Le allegorie sono narrazioni fittizie nelle quali esiste una precisa corrispondenza tra tutti (o quasi) gli elementi introdotti nel racconto e la realtà che si vuole far comprendere attraverso i simboli. Perciò veniamo a scoprire che nella storia di un uomo che semina buon seme e invece gli spunta della zizzania, il seminatore rappresenta Gesù, il campo è il mondo, i mietitori sono gli angeli, ecc. Sul modello di questa esegesi, i primi cristiani hanno interpretato in questa maniera tutte le parabole, con esiti talvolta disastrosi. Infatti non è detto che tutti i singoli elementi di una parabola abbiano la funzione di rappresentare qualcos’altro. Inoltre, chi ci assicura che la nostra associazione di elementi sia corretta? Interpretando in questa chiave la parabola del buon samaritano, Agostino dice che l’albergatore a cui si rivolge il samaritano per affidargli il ferito rappresenta san Paolo! È chiaro che procedendo in questo modo ci si espone al rischio di un estremo soggettivismo.Inoltre nel caso della spiegazione della parabola del seminatore si capisce che si va in una direzione diversa rispetto al racconto originario: il centro dell’interesse è il seme o i terreni? In un caso lo scopo della parabola è dimostrare l’efficacia della parola di Gesù che si diffonde nonostante alcuni insuccessi, nell’altro è una lezione morale per invitare i discepoli a diventare un terreno buono. Da questi elementi si comprende che le spiegazioni sono secondarie rispetto al racconto e probabilmente di mano differente. Per questo dire che la parabola significa ciò che è detto nella interpretazione data dai vangeli può risultare inadeguato.

 

 

 

Un discorso simile vale anche per alcune introduzioni alle parabole, tipiche ad esempio di Luca. All’inizio del capitolo 18 l’evangelista ci informa che Gesù disse una parabola ai discepoli “sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. Se non avessimo una introduzione simile, difficilmente penseremmo che la storia del giudice disonesto e della vedova ostinata riguarda la preghiera! In effetti, la preghiera può essere un buon campo di applicazione per la perseveranza, ma è l’unico? Con questo cappello iniziale non si rischia di limitare la portata di un racconto che forse originariamente aveva potenzialità più ampie? E quando a ruota di questa parabola viene introdotta quella del fariseo e del pubblicano leggiamo che è destinata ad alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri (Lc 18,9). Anche qui il preambolo lascia perplessi: davvero il protagonista del racconto è il tronfio fariseo o dobbiamo metterlo sullo stesso piano del mite pubblicano? A me sembra che elevarlo ai danni del pubblicano significhi trascurare quella attenzione agli umili che il Gesù di Luca manifesta in tanteoccasioni e che risponde al progetto divino cantato da Maria nel Magnificat di rovesciare i potenti ed esaltare gli umili.

In conclusione, questi commenti o introduzioni alle parabole presenti nei vangeli non costituiscono la loro interpretazione autorevole, ma sono interessanti per noi perché costituiscono i primi tentativi di riscrittura dei racconti. Come abbiamo visto, si tratta spesso di letture parziali che sottolineano un solo aspetto a scapito del quadro generale, ma è un’operazione non molto diversa da quella del pittore che sceglie di raffigurare una sola scena di una storia complessa (ad esempio il ritorno a casa del figliol prodigo). Probabilmente nessuna interpretazione di una parabola riesce ad essere esaustiva, ma esaminando diverse riletture ed interpretazioni il lettore è in grado di comprendere quali siano più pertinenti e quali meno, quali hanno un reale fondamento nel testo e quali invece siano frutto della fantasia.

 

 

Andrea Mantegna, Altare di san Luca, 1453, tempera su tavola, Pinacoteca di Brera, Milano