La componente simulativa è stata sempre di fondamentale importanza per la costruzione del nostro senso della realtà e in particolare per l’attività ludica, infatti essa ci permette di entrare in altri ruoli e sviluppare una cultura empatica del mondo sociale, senza il turbamento dovuto alle conseguenze che potrebbero sopraggiungere in una situazione nuova. La ripetizione che offre una circostanza simulatoria diviene una caratteristica positiva, didattica: se nella società spesso non ci sono seconde occasioni, non si può rimediare a un errore che viene sanzionato, nelle situazioni aventi una componente ludica ciò non avviene, anzi, l’errore è auspicabile e viene incoraggiato. Ci si trova altresì difronte a un esercizio buddista che insegna come accettare lo sbaglio, e in certi casi, ammettere la propria finitudine: non a caso, la morte nel gioco prefigura ed esorcizza la morte reale (Alessio Ceccherelli, 2007).

Imparare a simulare

Quando da piccoli fingiamo di essere il poliziotto, la principessa, l’astronauta di turno, non solo rappresentiamo con la nostra performance una figura del nostro immaginario, ma ne sperimentiamo i comportamenti facendoli nostri. In altre parole, compiamo uno sforzo di immaginazione che ci proietta nei panni di un nuovo soggetto temporaneo, che andrà a godere di tutti i suoi pregi e difetti (a esempio un cowboy non può lanciare incantesimi, salvo un inserimento dello stesso in uno scenario che lo permette o con i cheat codes nel caso di un videogame) concependo, alla fine, una situazione regolamentata tendente alla riproposizione. Attraverso la progressiva costruzione ludica di ruoli ben definiti e intercambiabili, di situazioni ben specifiche, si contribuisce a sviluppare negli individui identità multiple che concorrono alla costruzione del sé. Secondo Jean Baudrillard si tratta di un processo che riguarda la società nel suo complesso, in quanto, tutta la realtà percepita (e percepibile) “è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione. È un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia, ci sono soltanto dei simulacri” (Baudrillard, 2015, p. 12).

Tendenza alla virtualizzazione

Ricodificando il pensiero pessimistico di Baudrillard per il ragionamento in atto, è possibile sostenere che non si tratta semplicemente dell’esigenza di evasione dalla realtà dell’individuo contemporaneo divenuto ormai un edonista (Gianfranco Pecchinenda, 2010, p. 78) o come sostiene Ortega y Gasset (1986), l’esigenza dell’uomo di “sospendere virtualmente la sua schiavitù dentro la realtà, per evadere, fuggire, sot-trarsi a questo mondo in cui vive per rifugiarsi in un altro irreale“, ma una tendenza generalizzata alla virtualizzazione degli oggetti, delle pratiche e dei costumi. La virtualità in questa accezione viene a intendersi come quel processo attraverso il quale qualsiasi elemento della cultura materiale si astrae dai suoi consueti riferimenti spazio-temporali e si riconfigura, si scompone, per poi ritornare come una nuova forma di realtà simulacrale presentificata. Riferendosi ai mondi digitali è possibile parlare di de-territorializzazione, ovverosia una forma di allontanamento “dallo spazio fisico e geografico consueto, nonché dalla temporalità dell’orologio e del calendario” (Pierre Lévy, 1997) per abitare un nuovo contesto spazio-temporale di matrice digitale che stravolge il classico senso di presenza istituendone uno nuovo.

Virtuale è reale

Il processo di virtualizzazione così concepito dunque, non è da intendersi in antitesi al concetto di realtà, ma, come sostiene Lévy osservandone l’etimologia, trattasi di un potenziamento della stessa, “un modo anzi di essere fecondo e possente, che concede margine ai processi di creazione, schiude prospettive future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica immediata” (Lévy, 1997, p.2). L’autore propone il virtuale come la quarta modalità d’essere, accanto al “possibile”, al “reale” e all’“attuale”. Contrariamente al possibile, il virtuale concede largo margine ai processi di creazione, ponendosi non come statico e predeterminato, ma come problema a cui dare una risposta, una soluzione. Si presenta inoltre in antitesi all’attuale, in maniera simile al pensiero di Gilles Deleuze (citato in Lévy, 1997, p.144), secondo il quale il virtuale “è il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione, un evento, un oggetto o un’entità qualsiasi, e che richiede un processo di trasformazione, l’attualizzazione“. In altre parole, il passaggio dal virtuale all’attuale, ovvero dal problema alla sua soluzione, è “la fonte della creazione e del percorso privilegiato dell’evoluzione” secondo Deleuze, ma per Lévy è il processo inverso: è il passaggio dall’attuale al virtuale il processo creativo per eccellenza, in quanto creatore di nuove problematiche a cui poter rispondere in maniera innovativa. Il virtuale è dunque una dimensione del reale, un suo aspetto specifico, che non può sostituirsi a esso.

Francesco D’Ambrosio

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