Il film è ambientato nel 1935 ed è basato sulla storia vera di Melvin Tolson, un professore del Wiley College, in Texas. La vicenda narra delle gare oratorie, su argomenti diversi, che venivano organizzate tra scuole e università americane, e la vera protagonista è la disciplina del dibattito, tecnica che da noi non si insegna e non si impara, ma nel mondo anglosassone è coltivata e apprezzata, anche perché poi nella vita professionale serve davvero.
Ovviamente da queste gare erano esclusi gli afroamericani. Erano gli anni del razzismo, in cui i neri venivano linciati moralmente, prima ancora che fisicamente, con l’esclusione forzata dalla vita politica e culturale del Paese. Ma erano anche gli anni in cui cominciavano a fiorire le prime gemme di quella cultura afroamericana fino ad allora costretta a nascondersi.
In questo contesto Melvin Tolson organizzava nella sua scuola gruppi di dibattito, abituando gli studenti ad affrontare argomenti di natura sociale e politica, da tutti i punti di vista, gareggiando anche con altre scuole. Nelle sfide, stabilito un argomento a priori, le squadre dovevano proporre, davanti a una platea, due tesi: una a favore e una contraria.
In pratica Tolson utilizzava la Parola, l’arma della non violenza per antonomasia, per promuovere la parità razziale tra bianchi e neri. Entrare a far parte del suo gruppo di dibattito era un’impresa ardua: 360 studenti si contendevano la possibilità, solo 45 arrivarono alla fine, e soltanto 4, al termine della contesa, formarono il team più famoso della storia afroamericana.
Tolson scelse personalmente i componenti della squadra dei Debaters. Il primo era Henry Lowe, ribelle ma intraprendente, che lo stesso professore aveva salvato qualche giorno prima da una pericolosa rissa; la seconda era Samantha Booke, prima e unica donna a partecipare all’esperienza; poi c’era James Farmer Jr, il membro più giovane, figlio quattordicenne dell’illustre James Farmer, scrittore e teologo americano, e infine Hamilton Burgess, giovane dalla lingua molto sciolta.
Con loro formò la prima squadra della scuola, nella quale la ragazza e il più giovane del gruppo erano le due riserve. Gli studenti, stimolati ed incentivati dai primi successi, diventarono abili oratori e impeccabili ricercatori, ma dovettero anche incassare qualche sconfitta; le parole si sa sono come proiettili, a volte rimbalzano e tornano indietro, così, se non ne facciamo buon uso, ci si ritorcono contro. Anche questa era una lezione da imparare. Dopo alti e bassi, vittorie e sconfitte, il gruppo del Wiley college arriverà a sfidare addirittura l’università di Harvard, vincendo con il discorso tenuto dal più giovane del gruppo.
Non solo Tolson, ma anche quasi tutti i personaggi del film sono realmente esistiti, sia pure con nomi diversi. Il finale purtroppo è edulcorato: nella realtà il college vinse non contro Harvard, ma contro l’università del sud California, e non poté fregiarsi del titolo di vincitore perché ufficialmente ai neri non era permesso partecipare ai dibattiti, almeno fino a dopo la seconda guerra mondiale.
Il film regala emozioni e spunti di riflessione, anche grazie all’interpretazione degli attori (Washington su tutti) e ad una sceneggiatura curata e all’altezza del titolo. Grazie all’appassionante sceneggiatura di Robert Eisele, The Great Debaters inchioda lo spettatore allo schermo: i duelli di parole non sono meno appassionanti di veri e propri scontri a fil di spada. In un ruolo secondario c’è anche Forest Whitaker, che comunque si fa notare, e c’è spazio anche per i sentimenti.
Eisele ha scelto appositamente le parole migliori e ne ha fatto un’arma, ben consapevole di come la conoscenza sia sinonimo di potere, ieri come oggi. La retorica innegabile di questo film non diminuisce però i suoi pregi: forse è un po’ prolisso, ma comunque vivace nello sviluppo e splendidamente valorizzato dagli attori, anche i più giovani.
C’è l’anima blues, c’è la violenza dei bianchi e la paura dei neri, c’è la follia del razzismo, ma anche il seme della speranza e le radici della tolleranza.
Non conoscevo, ma sembra proprio un film interessante! 🙂
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Buon giorno+++++++++++++++++++++++++++++ Sembra bello. Sgarbi è il nostro miglior rappresentante
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Quando vuole sa usare le parole benissimo, quando non vuole usa le parolacce
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Lo cerco perché non l’ho mai visto e la tua recensione….mi ha molto ispirato!
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Non conoscevo questo film, ma mi hai fatto venir voglia di vederlo 🙂 Dev’essere molto interessante.
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Mi fa piacere stimolare la curiosità 🙂
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Si, sei molto brava a recensire 😉
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Grazie, ma il fatto è che parlo solo di film che mi sono piaciuti… Così è facile 🙂
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Le parole (e anche la scrittura) sono attività molto umane. Sono pura masturbazione mentale. Teoricamente dovrebbero essere un punto a favore per comunicare meglio ma ormai mi sono convinto che un gesto muto sia migliore di mille parole infiocchettate. Con le parole ci hanno sempre fregato. E con le parole si può far finta che un ragionamento sia valido mentre magari non lo è affatto. Per questo io preferisco attenermi alla Logica, in netta opposizione alla Retorica…
Beh, se ti è piaciuto questo film sicuramente ti sarà piaciuto anche un altro per molti aspetti simili: Quasi amici – L’importante è avere ragione 😉
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La retorica e l’eloquenza mi hanno sempre affascinato, proprio perché ci si può difendere da chi le usa a sproposito, solo conoscendole. La logica, certamente, resta l’arma migliore, ma, come dici bene tu, è con le parole che ci fregano, e abbattono qualunque logica.
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