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Sentinella, quanto resta della notte?

Viaggiare per scoprire, ritrovare e ritrovarsi. Da Livingstone a Conrad passando per Gray

Un viaggio esistenziale, letterario e cinematografico tra finzione e realtà per mostrare come viaggiare sia un’opportunità per conoscere ma anche (se non soprattutto) per conoscersi.

An existential, literary and cinematographic journey between fiction and reality to show how traveling is an opportunity to get to know but also (if not especially) to get to know yourself.

1)

È difficile stabilire se un uomo ha fin dalla nascita un destino segnato.

Scrive Hilmann: «Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo «qualcosa» lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono.» (J. Hilmann, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 2014).

Ebbene David Livingstone sentì dentro di sé una chiamata che lo portava a inseguire un sogno: esplorare, viaggiare, incontrare nuovi popoli e nuove culture.

Nato nella cittadina di Blantyre, in Scozia, il 19 marzo dell’anno 1813, studiò presso la facoltà di Medicina e Teologia di Glasgow e nel 1838 entrò nella Società Missionaria di Londra con l’obiettivo di trasferirsi in Cina. A causa della guerra dell’oppio che imperversava in Cina non riuscì, però, a realizzare il suo desiderio.

Il daimon, tuttavia, e cioè quella figura elaborata e pensata nell’antichità proveniente da un altrove, né umana né divina, una via di mezzo tra le due cose, la stessa dell’anima (per chi ci crede), lo spinse al viaggio, a partire sempre e comunque.

Come scrive Jung sul daimon: «Il daimon ci costringe, con il bisogno, a imboccare la via: il piccolo dio individuale, lo Shiva interiore» (C. G, Jung, La psicologia del Kundalini-Yoga. Seminario tenuto nel 1932, Bollati Boringhieri, Torino 2004).

Così alla fine dell’anno 1840 Livingstone venne destinato alle missioni africane, più precisamente al territorio della tribù bantu dei Bechuana, nello stato del Botswana. Raggiunse la sua destinazione nel luglio del 1841.

Da quel momento in poi iniziò una serie di esplorazioni in Africa che lo portarono, tra l’altro, a scoprire le cascate che gli indigeni chiamavano Mosi-oa-Tunya (“il fumo che tuona“) e che lui ribattezzò come cascate Vittoria (Victoria Falls) omaggiando il nome della Regina d’Inghilterra.

Di fatto David Livingstone fu uno dei primi europei ad aver compiuto un viaggio transcontinentale attraverso l’Africa. Lo scopo ultimo del suo viaggio era, non tanto spirituale o missionario, ma quello di aprire nuove vie commerciali e di accumulare informazioni utili sul territorio africano.

Tra i sostenitori del commercio nell’Africa centrale, Livingstone riteneva che la chiave fondamentale per gli scambi mercantili fosse rappresentata dal fiume Zambesi e dalla sua navigabilità.

Tornò pertanto in Inghilterra per chiedere nuovi aiuti e supporto a queste sue idee e nel frattempo pubblicò le sue teorie e i suoi appunti di viaggio in un libro. In questo stesso periodo si dimise dalla società missionaria alla quale apparteneva.

Ritornò quindi in Africa dove guidò una spedizione il cui scopo era quello di esplorare proprio il fiume Zambesi. Nel periodo che trascorse sul fiume, le missioni che aveva fondato nell’Africa centrale e orientale ebbero una fine disastrosa: quasi tutti i missionari, infatti, si ammalarono e morirono di malaria o di altre malattie.

Intanto le esplorazioni sul fiume Zambesi si rivelarono assai più pericolose di quanto Livingstone avesse previsto.

Il fiume risultò essere quasi impossibile da navigare a causa di una serie di cateratte e rapide che Livingstone non aveva considerato, né esplorato nelle sue ricognizioni precedenti.

Ma le disgrazie o meglio gli eventi sfortunati, non vengono mai da soli.

I suoi compagni di spedizione, spaventati dalla natura che si mostrava maligna e aspra, rinunciarono a proseguire l’esplorazione.

La moglie, che era stata sua fedele compagna e partecipe del suo sogno visionario, morì di malaria.

Se ciò non fosse bastato i finanziatori, spaventati dalle difficoltà, iniziarono a ritrarre le mani che offrivano denaro per sostenere le sue perlustrazioni africane.

I giornali britannici del tempo valutarono, con articoli assai critici, la spedizione sullo Zambesi come un enorme fallimento.

La cattiva pubblicità e i cattivi risultati fecero sì che Livingstone ebbe molta difficoltà a trovare e raccogliere nuovi fondi per tornare ad esplorare l’Africa.

Ma un’ossessione è un’ossessione, non è facile liberarsene. Così alla fine ci riuscì e con alcuni volontari tornò alla sua esplorazione.

Livingstone continuò ad esplorare il continente finché, spingendosi a ovest, si ammalò e per alcuni anni non diede più notizie.

David Livingstone

I mezzi di comunicazione di quei tempi erano decisamente meno performanti di quelli attuali e solo uno dei suoi quarantaquattro dispacci arrivò fino a Zanzibar.

In fondo la sua gloriosa biografia sarebbe potuta terminare così.

Sepolto in qualche luogo sconosciuto di quel mondo che tanto desiderava conoscere. Fine…capolinea…amen.

Terminato il suo compito sarebbe spettato ad un altro prendere il suo posto in una staffetta infinita verso un obiettivo incerto.

Ma, non fu proprio così, non si abbandona uno scomparso con facilità.

L’uomo sente la necessità di cercare il suo simile sperso, soprattutto se smarrito a seguito di qualche missione impossibile e pericolosa.

Lo fa anche adesso quando qualcuno gioca a dadi la sua vita scalando una montagna o immergendosi nelle viscere della terra per soddisfare una sua propria curiosità (spesso) così poco utile all’umanità.

Il viaggio diventa allora soccorso e questo “tipo di viaggio” umanitario rappresenta un po’ il file rouge di questo scritto.

Proprio per questa voglia di salvare il disperso (magari anche per questioni economiche o per condividerne le scoperte che potevano favorire i commerci) nel 1869 l’esploratore – giornalista Henry Morton Stanley partì alla ricerca di Livingstone.

Altro viaggio tribolato ed impervio che però, come in una fiaba, ebbe un esito positivo. Stanley trovò Livingstone a Ujiji, città della Tanzania posta sulle sponde del lago Tanganica, a circa 10 chilometri a sud di Kigoma, il 10 novembre 1871.

Lo storico episodio dell’incontro è rimasto famoso per le parole con le quali si dice che Stanley abbia salutato Livingstone: «Dr. Livingstone, I presume.» («Il Dottor Livingstone, suppongo»; H. M. Stanley, How I Found Livingstone: Travels, adventures, and discoveres in Central Africa, including an account of four months’ residence with Dr. Livingstone, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2016. In realtà, Stanley racconta: «Sarei corso da lui, ma ero intimorito dalla presenza di una tale folla – lo avrei abbracciato, ma non sapevo come mi avrebbe ricevuto; così feci ciò che codardia morale e falso orgoglio suggerivano essere la cosa migliore – camminai decisamente verso di lui, mi tolsi il cappello, e dissi: “Dr. Livingstone, I presume?».)

Dr. Livingstone, I presume?

Frase storica ma un po’ grottesca o solo buffa (qualunque sia la motivazione del perché fu pronunciata) soprattutto se si pensa che Stanley e Livingstone erano gli unici due europei in Africa nel raggio di centinaia di chilometri per cui non potevano esserci dubbi sull’identità del viaggiatore sperduto.

Unici due europei in mezzo a tamburi e danze tribali che si salutano come se il contesto fosse quello di un ricevimento nella civilizzata Londra.

L’episodio è, però, entrato nel mito, a dimostrazione dell’etichetta, dell’imperturbabilità, del leggendario understatement inglese.

Questo incontro, con il tempo, è rimasto scolpito nella memoria di tutti ed è stato usato come esempio di quanto la formale e seria morale vittoriana fosse compenetrata nel tessuto sociale e assimilata dal popolo inglese, tanto da divenire uno stereotipo.

Ma torniamo, brevemente, al nostro Livingstone salvato da un connazionale dopo aver rischiato di morire e di essere dimenticato da tutti in un luogo lontanissimo rispetto alla sua patria.

Due sommi esploratori che potevano ora, unendo le forze e le capacità decisamente non comuni, scrivere ancora pagine fondamentali per la scoperta dell’Africa.

Stanley e Livingstone inizialmente collaborarono e per un anno continuarono assieme l’esplorazione del nord del Tanganica; poi anche Stanley, il “recuperatore” terminò il suo desiderio d’avventura e si arrese, stanco dell’Africa, di quell’esplorazione senza fine e forse senza senso e partì per far ritorno in patria. Livingstone però non riuscì, neppure allora, ad abbandonare quei luoghi.

Nonostante le sollecitazioni di Stanley egli, infatti, rimase determinato a non abbandonare il territorio africano, prima di aver portato a termine la sua missione, qualunque essa fosse.

Henry Morton Stanley

Forse più semplicemente non aveva più un luogo dove tornare o qualcuno che lo attendesse. O forse razionalmente capì che in Africa egli era unico, mentre in Inghilterra presto sarebbe stato uno come tanti, forse con qualche aneddoto in più da raccontare, in qualche esclusivo club.

Il viaggio diviene così fuga da un destino “normale” o comunque ricerca di qualcosa di irraggiungibile.

Per certi versi mi torna alla memoria Ulisse e la sua incapacità di restare a Itaca e affrontare il suo destino di uomo.

Alla fine anche quel correre per l’Africa terminò, senza nessuno che lo potesse ancora salvare. Nessun nuovo Stanley con la sua domanda insulsa che gli afferra la mano e lo trascina via.

David Livingstone morì 1° maggio del 1873 nello Zambia, a causa di una emorragia interna dovuta a una occlusione intestinale come complicazione della malaria che aveva contratto in quei luoghi inospitali.

La sua salma venne trasportata per oltre mille miglia dai suoi leali assistenti Chuma e Susi, per poi fare ritorno in Inghilterra, dove venne tumulata nell’Abbazia di Westminster.

Il cuore di Livingstone, però, rimase in Africa, sepolto nel luogo della sua morte, sul Lago Bangweulu a Chitomba, luogo dal quale non solo metaforicamente, dunque, non riuscì più a separarsi.

 

2)

Continuiamo ora con questi viaggi che uniscono il desiderio di scoprire nuovi luoghi alla necessità – volontà di salvare qualcuno che si è perso in posti lontani e impervi.

Passiamo, però, ad un’altra epoca, dalla realtà alla finzione cinematografica ed esattamente al film: Ad Astra.

Alcune notizie un po’ didascaliche: il film è stato presentato in anteprima il 29 agosto 2019 in concorso alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, per poi essere distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 20 settembre 2019 dalla 20th Century Fox (Walt Disney), ed in quelle italiane dal 26 settembre dello stesso anno.

Non mi sento di dare nessun giudizio estetico. La critica cinematografica non è il mio campo e neppure sarei, in tutta onestà, in grado di applicarmici con perizia.

Posso solo fare due rilievi.

Le scene d‘azione non mi paiono troppo coinvolgenti e mi sembra vi sia troppo spazio alle riflessioni che non sempre si addicono ad un film che, almeno in parte, vorrebbe attrarre i cultori dei film di fantascienza classici.

Non intendo necessariamente cowboy dello spazio ma neppure Freud con la tuta da astronauta. Mi fermo qui e probabilmente sono già andato oltre.

Ma veniamo ad un micro sunto della trama.

Siamo nel futuro.

Il maggiore Roy McBride (interpretato da Brad Pitt) guida una squadra impegnata a localizzare forme di vita aliena, quando un improvviso sbalzo di corrente gli costa quasi la vita. Nessuno, forse, ci farebbe attenzione se fosse un unicum, un fatto capitato una sola volta.

Ma purtroppo non è la prima volta che fatti di questo tipo colpiscono la Terra. Anzi non è che un caso fra molti altri, una serie di catastrofi fra cui incendi e disastri aerei, provocati proprio da impennate elettriche causate da esplosioni radioattive che hanno colpito il nostro pianeta.

Come ogni pericolo la prima domanda da porsi è: qual è la causa?

Natura maligna o conseguenza dell’opera dell’uomo?

L’intelligence statunitense capisce che queste perturbazioni sono il risultato di raggi cosmici emanati da esplosioni che si verificano nei pressi di Nettuno.

Proprio su Nettuno, anni prima, aveva avuto luogo il Progetto Lima, una missione la cui navicella spaziale era scomparsa nel nulla, sedici anni dopo il lancio. Ovviamente, per l’avanzare della trama, tra il progetto e il maggiore McBride vi deve essere un rapporto.

Eccolo svelato: il comandante del Progetto Lima era il padre di Roy, H. Clifford McBride (interpretato da Tommy Lee Jones), un astronauta leggendario.

Roy l’ultima volta che lo ha visto aveva sedici anni, ma continua a idolatrarlo anche se come padre non era stato certo eccezionale.

Clifford, infatti, era stato un genitore e un marito distante.

La sua assenza dalla vita familiare, spesso dovuta alla sua voglia di avventura, ha contribuito a rendere il figlio Roy un uomo solitario, incapace di stabilire rapporti interpersonali e di esprimere a pieno le proprie emozioni positive e negative.

Inutile continuare a raccontare la trama. Basta dire che Roy inizia un lungo e disagiato viaggio per cercare di recuperare il padre, così come Stanley partì per cercare Livingstone.

Nel film si ritrovano alcune tematiche classiche della filmografia americana, alcune tematiche tipiche della filmografia del regista e alcuni temi tratti da precedenti produzioni cinematografiche e letterarie.

Tipico di una certa filmografia statunitense e non solo è, per esempio, il tema del rapporto non facile tra padre e figlio.

Tipico, del regista è l’attenzione per il viaggio, per l’esplorazione estrema, per la scomparsa misteriosa, come dimostra il suo film precedente: Civiltà perduta (The Lost City of Z).

Si tratta di un film del 2016 che Gray non solo ha diretto ma anche scritto. Basato sul libro Z la città perduta di David Grann, il film ripercorre la storia vera dell’esploratore britannico Percy Fawcett, intento nella ricerca di un’antica città perduta in Amazzonia, fino a scomparire nel 1925 assieme al figlio.

Un film che è stato accolto molto positivamente dalla critica (la rivista Time lo ha classificato tra i 10 migliori film del 2017), ma che tuttavia non ha avuto molto successo ai botteghini.

Costato 30 milioni di dollari, infatti, il film ne ha incassati solamente 19 milioni, di cui 8,6 negli Stati Uniti.

Il viaggio nelle sue molteplici forme (terrestri e spaziali) diventa nelle storie narrate un’esperienza dolorosa e gioiosa non solo di conoscenza dell’esterno ma anche dell’interno, di sé.

Un viaggio nella propria anima, un’occasione per l’attivazione di nuovi processi emotivi, percettivi, psicologici e relazionali, insiti nella persona a livello potenziale.

Le esperienze di viaggio prese in considerazione servono anche ad illustrare il cambiamento che il viaggiatore vive durante il transito.

Proprio questo ultimo aspetto del doppio viaggio, esterno alla ricerca di qualcuno da salvare e interno, nella propria coscienza, avvicina Ad Astra al romanzo Cuore di Tenebra di Joseph Conrad da cui James Gray racconta di aver tratto ispirazione (assieme al film Apocalypse now che pure si richiama allo stesso libro).

Il viaggio quindi che nasce come ricerca di qualcuno e diventa, durante il percorso, ricerca di sé, momento in cui si affrontano i propri fantasmi o, parafrasando Conrad, le proprie tenebre.

 

3)

Veniamo dunque al breve scritto che ha influenzato decisamente Ad Astra e Apocalips Now: Cuore di Tenebra di Joseph Conrad.

Cuore di tenebra fu pubblicato in tre puntate nel «Blackwood’s Magazine» di Edimburgo nel 1899 e poi in volume nel 1903.

I fatti che vi sono narrati risalgono, nella biografia dell’autore, a una decina d’anni prima: è il 1890 quando Conrad s’imbarca per la sua prima e unica avventura africana. Anche per Conrad potrebbe valere il concetto di daimon.

È probabile che fin da bambino, infatti, avesse sognato, come dimostra in parte la sua esistenza, di diventare un esploratore, magari, proprio, in quelle zone dell’Africa di cui si sapeva tanto poco.

Così, con il tempo, una parte del suo destino si compie quando riesce ad andarvi, imbarcandosi come comandante su una nave della Société Anonyme Belge pour le Commerce du Haut-Congo.

Un viaggio sfortunato, un lavoro sfortunato. Desiderato, ma sfortunato. Ne ritorna, infatti, quasi in fin di vita. Inoltre ciò che ha trovato non corrisponde certo alle sue aspettative, anzi…

Riporta con sé una verità amara: «la disgustosa conoscenza della più ignobile corsa al saccheggio che mai abbia sfigurato la storia della coscienza umana e delle esplorazioni geografiche» (J. Conrad, Geography and Some Explorers, in J. Conrad, Last Essays, J. M.Dent & Sons, London 1926, p. 17).

Sarebbe tuttavia limitativo considerare Cuore di Tenebra, solo come un grido contro il colonialismo, un racconto – denuncia delle atrocità dell’uomo bianco.

Evidente appare, infatti, anche la critica al mondo occidentale (che va ben oltre il colonialismo) sommerso sotto una coltre di ipocrisia.

Bruxelles la città dove Marlow (alter ego nel breve romanzo di Conrad) si presenta per essere assunto, viene definita la città dei “sepolcri imbiancati”. Quei sepolcri che, come ci ricorda l’evangelista Matteo: «all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume.» (Matteo, XXIII, 25).

Così scrive Conrad: «In pochissime ore arrivai in una città che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato

Luogo quindi, per definizione, fatto di ipocrisia e dove sotto una parvenza di rettitudine si compiono azioni riprovevoli.

L’ipocrisia diviene ancora più evidente nella scena finale in cui Marlow va a trovare la fidanzata di Kurtz, l’uomo che avrebbe dovuto salvare nel suo viaggio in Africa e che muore fra le sue braccia.

Un momento atroce basato interamente sulla falsità, sull’apparenza che stritola la realtà e la verità.

Quello che oggi chiameremo politically correct e che invece è solo un’ipocrita bugia.

Ma lasciamo che sia Conrad a dircelo: «Ho udito le sue ultime parole…”mi fermai terrorizzato. «“Le ripeta” mormorò col cuore straziato. “Voglio qualcosa con cui vivere.” «Ero sul punto di gridarle: “Non le sente?”. Tutt’intorno a noi il crepuscolo le ripeteva in un bisbiglio insistente, in un bisbiglio che mi pareva crescere minaccioso come il primo bisbiglio del vento che s’alza. “Che orrore. Che orrore!” «“La sua ultima parola – con cui vivere” insistette. “Non  capisce che l’amavo – l’amavo – l’amavo!”.

«Mi feci forza e parlai lentamente. «“L’ultima parola che pronunciò fu – il suo nome.” «Udii un sospiro lieve e poi il mio cuore si fermò, arrestato da un grido esultante e terribile, dal grido di inconcepibile trionfo e di indicibile dolore.

“Lo sapevo – ne ero sicura!” … Lo sapeva. Ne era sicura.

La sentii piangere; aveva nascosto il viso tra le mani. Mi parve che la casa sarebbe crollata prima che potessi fuggire, che il cielo mi sarebbe caduto sul capo. Ma non successe nulla

Marlowe tradisce la verità diventando anch’egli un “sepolcro imbiancato” un portatore di menzogna.

La falsità, l’ipocrisia lo porta a rendere falsa testimonianza, a modificare le parole di un moribondo, ad inventare legami amorosi inesistenti.

L’ipocrisia occidentale lo riporta ad una esistenza fatta di omissioni, silenzi, menzogne. L’Europa, lungi dall’essere un luogo di valori positivi, è solcata da un gran vuoto, attorno al quale non rimane che immagine, apparenza.

Sembra paradossale ma è solo quest’apparenza che salva l’uomo occidentale.

La sua salvezza sembra, secondo Conrad, rimanere aggrappato, come un naufrago ad un legno di fortuna, all’illusione di appartenere ad una civiltà vera e “piena“, che possiede un senso e un motivo di essere.

L’uomo occidentale però deve illudersi della bontà della sua società ma tale finzione può funzionare solo fino al momento in cui evita di dare uno sguardo più profondo dentro di sé.

Questo è uno dei messaggi di Conrad e questo è ciò che ha fatto, in parte, Marlow e prima di lui, totalmente, Kurtz con risultati disastrosi

Ma lasciamo per un attimo l’Europa e l’ipocrisia per tornare al viaggio.

Evidente è il desiderio di Marlow – Conrad di esplorare e comprendere il mondo sconosciuto.

Che cos’era il continente africano per l’opinione pubblica inglese? Un luogo selvaggio, desolato. Le immagini erano apocalittiche: lingue impenetrabili, malattie. Una macchia nera sul mappamondo, un buco nero che attrae e divora tutto ciò che gli si avvicina così come, in fondo, era capitato a Livingstone.

«In mezzo all’incomprensibile che è pure detestabile. E ha anche un fascino che a poco a poco agisce […] il fascino dell’abominio».

La parola fondamentale è “fascino”. Lo stesso di una pianta carnivora.

L’Europa non resiste e vi penetra con battelli e vaporetti attraverso i corsi d’acqua. Più vi entra e più avanza e più vorrebbe arrivare al centro di quel mondo al contempo pericoloso e interessante e potenzialmente ricco di tesori inestimabili.

«Avremmo saputo domare quella cosa muta o sarebbe stata lei a dominarci?»

Ma per dominarla bisogna trovare uomini sognatori come Livingstone o senza scrupoli come Kurtz.

Marlow non è né uno né l’altro, ha una coscienza (come Conrad) e non è adatto a questo compito. Così il suo viaggio non può essere né quello di un esploratore che insegue il suo sogno, né quello di un conquistatore assetato di ricchezza e potere. Ma diviene il viaggio di un salvatore. Il viaggio si trasforma così da viaggio di conoscenza o di conquista in viaggio di salvataggio.

Salvataggio di un uomo, il già citato Kurtz.

Un uomo tanto malvagio quanto, assurdamente affascinante, così come lo è l’Africa per gli europei dell’ottocento.

Affascinante come lo può essere il potere e la perfidia allo stato puro o come lo può essere chi si è liberato di ogni ipocrisia, anche se questa purificazione lo ha portato alla follia.

Kurtz è l’uomo bianco, invidiato da tutti, il quale è estremamente importante per la Compagnia commerciale perché sembra l’unico in grado di procurare ingenti e costanti quantitativi di avorio.

Su Kurtz vi sono molte leggende maldicenti che si intrecciano mischiando verità e fantasia.

Di certo c’è che la sua base, vera destinazione del viaggio di Marlow, è molto all’interno dell’inestricabile e malsana foresta pluviale ed è raggiungibile solo via fiume. Marlow parte quindi, a bordo di un rabberciato battello a vapore con altri coloni e indigeni cannibali.

Il suo viaggio assomiglia, come è stato notato, ad un viaggio nell’Ade.

Soprattutto nella notte il buio e il suono cupo dei tamburi nascosti, rendono l’ambientazione quasi infernale, spaventosa.

Mentre avanza nel fiume (per alcuni il Congo per altri un suo affluente)  Marlow ha l’impressione di percorrere un viaggio anche nel tempo tornando nella preistoria, ma soprattutto inizia un viaggio nella mente e nel suo inconscio.

Alla fine giunge a destinazione e con sua sorpresa scopre che la base di Kurtz è luogo di misfatti atroci. Ma Kurtz non è odiato dai nativi anzi…

Gli indigeni hanno divinizzato Kurtz, soggiogati dal suo aspetto, dalla sua determinazione feroce e dalla sua voce.

Kurtz, però, ora è molto malato, quasi in fin di vita e proprio per questo la Compagnia vuole recuperarlo, per curarlo o comunque per farlo morire in un luogo civile.

Marlow incontra Kurtz e rimane affascinato dal personaggio senza essere in grado di darsi alcuna spiegazione razionale, in quanto l’uomo rappresenta molti degli aspetti che l’uomo occidentale ha cercato di rimuovere dalla sua società.

Marlow ha un compito e deve portarlo a termine, quindi deve catturare Kurtz per portarlo via con sé. Operazione che, tuttavia, non è affatto semplice perché lo stesso Kurtz è combattuto tra il lasciare il “suo” villaggio o rimanervi a morire (un po’ come del resto fa Livingstone che preferisce morire in Africa piuttosto che affrontare il viaggio definitivo in Occidente dove avrebbe potuto alleviare i suoi dolori ma sarebbe stato massificato, reso uguale agli altri perdendo la sua unicità africana).

Per salvare qualcuno, apparirà ovvio ma non è sempre così scontato, bisogna che quel qualcuno voglia essere salvato. Kurtz non è così convinto di farsi salvare così come i nativi non vogliono lasciarlo partire. Alla fine, però, viene imbarcato. Questa volta, a differenza di quelle precedentemente ricordate, la storia non ha lieto fine.

Troppo malato, nel viaggio di ritorno, Kurtz muore.

Sappiamo già che prima di spirare pronuncia due parole: «L’Orrore! L’Orrore!», e consegna a Marlow un pacco contenente delle lettere e la foto di una giovane donna.

Perché la figura di Kurtz è così importante?

Perché, almeno in parte, smaschera con la sua vita e la sua morte la grande bugia degli occidentali. Kurtz si immerge in quello che gli Europei amano chiamare tenebra, ma che è in realtà un mondo “altro“, né positivo né negativo.

Kurtz, compie, non si sa se in modo riflesso o irriflesso, un viaggio unico che lo porta a valicare il confine che divide due mondi apparentemente inconciliabili. La sua è un’azione estremamente importante, perchè nessun uomo bianco finora aveva abbandonato così totalmente l’universo da cui proveniva.

Ciò che fa Kurtz con il mondo africano non è dissimile a quello che potrebbe fare un viaggiatore dello spazio che trova nella sua peregrinazione una civiltà di viventi con una cultura e delle tradizioni diverse (anche notevolmente) da quelle di provenienza.

Come comportarsi?

Seguire la Prima Direttiva di Star Trek, che vieta fermamente di interferire nello sviluppo naturale di una civiltà o negli affari interni di un governo di un altro pianeta finché essa non abbia sviluppato la tecnologia dei viaggi interstellari? Imporre la propria cultura dominando i nativi senza curarsi delle conseguenze?

Accettare e piegarsi alla cultura esistente rinunciando al proprio passato, ai valori e principi appresi?

Difficile fare una scelta. Ciò che è certo, però, è che qualsiasi uomo non può “impunemente” passare da una cultura a un’altra.

Nel caso di Kurtz egli è soprattutto colpevole di aver portato con il suo agire, allo scoperto le verità del mondo occidentale, ovvero la smisurata bramosia di potere e l’animalesca volontà di dominazione.

Volontà di dominazione che si declina sia in senso politico ed economico sia sessuale. L’uomo occidentale liberato dai vincoli morali e da ogni regola del vivere associato mostra quella natura primordiale che al tempo stesso spaventa e affascina.

Viene, insomma, illuminata una parte della tenebra in cui è immerso il suo cuore, mostrando ciò che l’uomo occidentale ha rimosso ma non cancellato.

Kurtz attraverso il contatto con un altro popolo si distanzia dalla sua cultura, strappa il velo d’inganno in cui è immersa per mostrarne gli aspetti più deleteri.

La conoscenza non ha valore, però, se non è trasmissibile e Kurtz non può condividere la sua scoperta con alcuno se non con Marlow che è lì con lui negli ultimi giorni di vita, parla con lui, legge il suo ambiguo rapporto e come si è detto, ascolta le sue ultime parole.

Ora la conoscenza è passata a Marlow, che diviene il depositario di una verità scomoda e pericolosamente fastidiosa.

Marlow però decide, e questo lo allontana da Livingstone e da Kurtz, di non rimanere in Africa con questo segreto, non ne ha il carattere né la forza, ma decide di tornare a Londra.

Il suo sguardo sulla città e sulla cultura occidentale però è cambiato, è diverso da quello che aveva quando era partito.

Londra ha ormai assunto, per lui che ne ha compreso il segreto, i tratti irreali di “città dei morti“.

Non ha la forza di opporsi, di fuggire e accetta di convivere in questa società che tuttavia ora osserva con sospetto.

Per quanto si sia in parte piegato sente il dovere di fare qualcosa, perciò, si dà un compito: educare raccontando la sua esperienza, per consentire anche ad altri di guardare oltre la tenebra.

Uno sguardo che non può tuttavia essere prolungato, ma solo fugace, altrimenti vi sarebbe il rischio di impazzire (come è impazzito Kurtz).

Il viaggio di Marlow, un po’ come avviene al maggiore Mc Bride, diviene un viaggio all’interno della propria psiche, del proprio animo.

Le tenebre non sono più allora rappresentate dall’Africa e dai riti delle popolazioni indigene ma sono dentro l’uomo bianco e più in generale, dentro l’Uomo.

Il racconto di Conrad ben riassume quanto scritto in precedenza sul viaggio diventando una forma di archetipo per molte opere, letterarie o cinematografiche, seguenti. In esso sono presenti i diversi tipi di viaggio che ho affrontato in questo breve percorso.

Il viaggio d’esplorazione, come quello fatto da Livingstone o da H. Clifford McBride incapaci di fermarsi e tornare, il viaggio intrapreso per salvare qualcuno, come quelli di Stanley, Roy McBride o Marlow, il viaggio che partendo dal mondo esterno si fa viaggio interiore.

Il viaggio diviene così una metafora della voglia di conoscenza dell’uomo, conoscenza non solo però di luoghi sconosciuti e lontani ma anche (se non soprattutto) della propria coscienza, della propria anima, della propria essenza fino a giungere nelle parti più buie e celate del suo interno fino, cioè, al proprio “cuore di tenebra”.

Maurizio Canauz @ 2020

 

2 commenti su “Viaggiare per scoprire, ritrovare e ritrovarsi. Da Livingstone a Conrad passando per Gray

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