IL PASSEGGERO – Cormac McCarthy

“Se siete fortunati vi stancherete di questo libro” scrive Mark Danielewski nelle prime battute di “Casa di foglie”. Molti di voi penseranno la stessa cosa leggendo “Il passeggero” di Cormac McCarthy, il romanzo più atteso degli ultimi sedici anni e fatto uscire diviso in due parti, l’altra (“Stella Maris”), il sequel o prequel a seconda dei punti di vista (Joy Williams dice che la sequenza giusta è quella inversa) sarà pubblicata a settembre sempre da Einaudi e con la traduzione di Maurizia Balmelli. Ma chi glielo ha fatto fare a McCarthy di ritornare in pista a novant’anni suonati dopo aver sfornato capolavori come “La strada” – premio Pulitzer nel 2007 – “La trilogia della frontiera” o Meridiano di sangue”, per Harold Bloom Il Grande Romanzo Americano con “Moby Dick” di Melville e “Mentre morivo” di Faulkner? L’idea pare sia partita da lontano: appunti, bozze, rinvii, cassetti chiusi poi riaperti, studi recenti di fisica, e l’urgenza di confrontarsi con il più decisivo degli appuntamenti, scandagliarlo nei limiti del possibile con la scienza, proseguendo oltre attraverso la scrittura. “Il passeggero” è un romanzo-poema che sfugge a qualunque canone o codificazione letteraria, i pochi esempi che mi tornano in mente sono “Ulisse” di Joyce, “Lincoln nel bardo” di Saunders, “Petrolio” di Pasolini. Un’opera non di trama ma di senso, con sequenze disarticolate, parti smarginate oltre la normale tollerabilità/comprensione del lettore medio, ma con momenti di spettacolare profondità e di rara bellezza: spunti, riflessioni, frasi che ci resteranno impresse nella memoria e che rileggeremo o sentiremo pronunciare chissà quante altre volte “condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue”. L’America disegnata da McCarthy non è la terra selvaggia e cruenta dei suoi western più celebri, neppure quella apocalittica dell’ultima versione premiata col Pulitzer, è una nazione cupa, crepuscolare, divisa fondamentalmente in due ambienti: la stanza dell’ospedale psichiatrico dove è ricoverata Alicia (genio della matematica e ragazza schizofrenica); gli spazi aperti nei quali si muove il fratello Bobby, ex pilota di formula due, oggi sommozzatore impegnato in missioni di recupero. Le due parti sono separate e alternate, con un tempo reale e un tempo narrativo che si confondono in una strana asimmetria, e con una serie di rimandi alla figura del padre dei due protagonisti, scienziato di fama internazionale, tra i progettisti della bomba atomica sganciata su Hiroshima. La parte di Alicia è scritta in corsivo ed è la più ostica per i suoi sconfinamenti metafisici: la ragazza, suicidatasi dieci anni prima, nelle sue continue allucinazioni viene visitata da creature immaginarie tra le quali si impone la figura di Kid. Kid è un nome ricorrente nella letteratura di McCarthy: c’è un personaggio di nome Kid anche in “Meridiano di sangue”. Uno dei temi della storia è l’amore incestuoso tra i due fratelli: Bobby è inguaribilmente innamorato della sorella morta. L’assenza di lei si riflette nella scomparsa di un altro personaggio del libro: l’ottavo passeggero di un JetStar, apparentemente intatto, adagiato sul fondale del Golfo del Messico per una ragione che non conosciamo. Nessuno sa di quel disastro, nessuno ne parla: chi ha fatto sparire la scatola nera dell’aereo? La scoperta non dovuta di Bobby coinciderà con la sua rovina: due emissari del governo inizieranno a perseguitarlo costringendolo alla fuga. 

Il vagabondaggio, nelle ultime cento pagine, è la parte più poetica e mccarthyana del racconto. L’isolamento di Bobby ricorda la condizione di Cornelius “Suttree”, anche lui come Bobby originario di Knoxville, nel Tennessee “È Knoxville che sforna fuori di testa o li attira soltanto?”. 

“Traslocò in una baracca persa tra le dune poco più a sud di Bay St Louis. La sera camminava per la spiaggia e spingeva lo sguardo sull’acqua grigia dove stormi di pellicani scendevano faticosamente la costa nei loro lenti voli a due sopra le onde lunghe del mare aperto. Uccelli improbabili”. 
Cosa si nasconde nel buio della notte cosmica? McCarthy prova a schiarire le tenebre, ma non c’è scampo “ogni realtà è perdita e ogni perdita è definitiva. Altre non ce n’è. E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci. E cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno”. 

“Il passeggero” non è il miglior libro di Cormac McCarthy: pecca di credibilità, alcuni passaggi appaiono eccessivamente sconnessi e dispersivi. Non disturba invece la parte dialogica, dominante nelle trecentottantacinque pagine, né le divagazioni scientifiche sulla fisica quantistica e sulla matematica, funzionali alla narrazione e foriere forse di un mistero che sarà svelato in “Stella Maris”. To be continued. 

Angelo Cennamo

Standard

Lascia un commento