lavoratrici fabbrica shein

Il lato oscuro della moda: tra sfruttamento dei lavoratori e prodotti dannosi per la salute

Nella settimana tra il 18 al 24 aprile 2022 si è svolta la Fashion Revolution week, evento internazionale volto a promuovere una moda etica, sicura e responsabile. L’ente promotore è Fashion Revolution, movimento internazionale che porta lo stesso nome della campagna, e fondato da Carry Somers e Orsola de Castro nel 2013 in seguito ai tragici eventi avvenuti al Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh, dove uno stabilimento commerciale è crollato causando la morte di 1133 persone. La Fashion Revolution week si svolge annualmente in 89 Paesi del mondo e riunisce associazioni e ong, economisti, ricercatori e professionisti del settore tessile per pensare le azioni da intraprendere a livello etico, sostenibile e trasparente nell’industria della moda.

Anche quest’anno la campagna ha affrontato il tema dello sfruttamento e della disuguaglianza nella filiera della moda, lanciando #GoodClothesFairPay, una petizione che chiede una legislazione sul salario di sussistenza nel settore dell’abbigliamento, e #WhoMadeMyFabric?, per chiedere maggiore trasparenza ai marchi sulle strutture in cui vengono realizzati i tessuti. 

Denunciare lo sfruttamento lavorativo 

Uno degli aspetti negativi dell’industria tessile riguarda le pessime condizioni di lavoro dei dipendenti nelle fabbriche. Secondo il rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sullo sfruttamento minorile, oltre 74 milioni di bambini vengono sfruttati in lavori ad alto rischio, stando costantemente a contatto con sostanze dannose per la salute e macchinari pericolosi. Un’inchiesta pubblicata nel 2017 su The Observer ha dimostrato che più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche delle multinazionali Nike, Asics, Puma e VF Corporation sono stati ricoverati in ospedale. A causa del mercato della fast fashion, che propone prodotti a basso prezzo e in tempi brevi, i marchi della moda tendono a delocalizzare la produzione in Paesi come India, Bangladesh o Pakistan, sia per abbattere i costi di produzione, sia per le legislazioni meno restrittive sulle condizioni di lavoro.

manifestazione diritti lavoratori abbigliamento
Manifestazione ‘Never again’ della Federazione nazionale dei lavoratori dell’abbigliamento in in Dhaka, Bangladesh.
Foto di Fashion Revolution

Alcuni casi di sfruttamento lavorativo sono stati denunciati da Public Eye, organizzazione non governativa, politicamente ed economicamente indipendente, con sede a Lugano, in Svizzera, che combatte affinché siano rispettati i diritti umani sul lavoro e gli standard ambientali in tutto il mondo grazie alle sue reti internazionali. “Sviluppiamo e sosteniamo campagne volte a fare pressione su politici per agire nei confronti delle aziende responsabili di mancate tutele. Spesso i progetti iniziano con partner di altri Paesi che ci rendono consapevoli di problemi specifici o violazioni dei diritti umani, ma capita anche di sviluppare progetti in autonomia”, ha dichiarato il portavoce David Hachfeld in un’intervista a The Bottom Up. 

L’associazione Public Eye cerca di aiutare le persone i cui diritti umani sono stati violati, facendo sì che ottengano un risarcimento. Ma la sua azione è principalmente preventiva: “il parlamento svizzero dovrebbe stabilire regole più chiare per la trasparenza della catena di approvvigionamento e riferire sui rischi dei diritti umani in tutte le fasi del processo che permette di portare il prodotto sul mercato”, spiega Hachfeld. “Ciò renderebbe più facile capire se le dichiarazioni delle aziende sono seguite da azioni concrete o sono solo parole vuote, e sarebbe importante avere anche un’autorità più forte per la protezione dei consumatori, come ad esempio in Norvegia (dove sono state attuate una serie di normative restrittive proprio a tutela del consumatore, n.d.r.)”.  

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Foto di Panos Pictures / Public Eye

Il caso Shein 

Negli anni Public Eye ha scoperto e denunciato molte aziende di moda che non rispettavano le condizioni  dei lavoratori. Tra queste, i brand Zara e Shein.

Shein è un’azienda internazionale di e-commerce con sede a Hong Kong, celebre per la vendita di capi di abbigliamento a prezzi estremamente convenienti. Il successo recente dello store deriva anche dall’uso intensivo di strumenti online per identificare le tendenze, dato che i fornitori sono incorporati direttamente nel software, e la consegna diretta ai consumatori. Secondo quanto riportato dall’indagine effettuata da Public Eye, nata con l’obiettivo di analizzare la catena di approvvigionamento, ci sono circa 17 aziende che riforniscono Shein, e si trovano principalmente nella zona di Nancun, un quartiere di Panyu a Hong Kong.

Ma le condizioni igienico-sanitarie del cosiddetto ‘Villaggio Shein’ non sembrano coincidere con l’idea di un’azienda internazionale che produce oltre un milione di capi di abbigliamento al giorno. “Si tratta di numerose piccole officine, con corridoi e scale bloccate da vestiti e rotoli di tessuto. Inoltre non ci sono uscite di emergenza che consentirebbero ai lavoratori di evacuare i luoghi in caso di incendi”, spiega Hachfeld. “Questo tipo di luogo di lavoro non coincide con quanto stabilito dal Codice di condotta pubblicato da Shein, né con la loro campagna di Responsabilità sociale pubblicata sul loro sito, regolamento che prevede che venga garantito ai lavoratori ‘un ambiente di lavoro sicuro, igienico e salubre’”.

Le condizioni dei lavoratori delle fabbriche di Shein non sono adeguate nemmeno dal punto di vista della flessibilità oraria. I dipendenti delle aziende che sono stati intervistati da Public Eye descrivono condizioni di lavoro insostenibili con 11 ore di lavoro al giorno, l’assenza di un contratto di lavoro e nessun contributo previdenziale. Questo tipo di trattamento non viola soltanto il Codice di condotta di Shein, secondo cui ‘l’orario di lavoro deve essere organizzato in modo ragionevole’, ma anche il diritto di lavoro cinese, per il quale la settimana di un lavoratore non può superare 40 ore e 36 ore di lavoro straordinario al mese, e i lavoratori devono avere obbligatoriamente un giorno libero alla settimana. “Ora spetta all’azienda decidere se cambiare il modello lavorativo o continuare ad andare avanti così. Tuttavia, penso sarà più difficile per Shein fare dichiarazioni sulla sostenibilità senza fornire informazioni più sostanziali”, commenta David Hachfeld.

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Foto di Panos Pictures / Public Eye

Prodotti dannosi per la salute

Oltre al mancato rispetto di adeguate strutture e orari di lavoro, entra in gioco il problema della salute: alcune tecniche di produzione dei capi di abbigliamento sono dannose sia per chi li produce, sia per chi dovrà poi indossarli. A questo proposito, più di 30 anni fa, è nata Abiti Puliti, un’associazione dei Paesi Bassi che riunisce sindacati e organizzazioni non governative (tra cui Public Eye) in altri 14 Paesi europei nel settore di abbigliamento per sensibilizzare i singoli cittadini e incentivare azioni governative alla risoluzione dei problemi. Tra le varie campagne promosse, negli ultimi anni è stato lanciato un appello ai produttori di jeans e ai governi per fermare il sandblasting, pratica per schiarire i tessuti denim tramite una tecnica dannosa per la salute dei lavoratori che può causare una forma acuta di silicosi, una malattia polmonare mortale. In particolare questa pratica viene eseguita in piccole aziende che si trovano in Paesi produttori di jeans come il Bangladesh, l’Egitto, la Cina, la Turchia, il Brasile e il Messico. Tra i marchi accusati ci sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, che però sostengono di aver eliminato l’uso del sandblasting  nelle proprie filiali. Nonostante in alcuni casi si sia passati dalla sabbiatura manuale a quella meccanica, il livello di pericolosità è comunque alto. “Grazie alle indagini portate avanti dalla campagna Abiti Puliti, il 21 settembre 2021 è entrato in vigore l’International accord for health and safety in the textile and garment industry, un accordo vincolante sulla sicurezza dei lavoratori nel settore tessile in Bangladesh”, spiega David Hachfeld. Firmato da oltre 200 brand di moda, ha permesso di mettere in sicurezza oltre due milioni di persone.

Le conseguenze dannose per la salute derivanti dall’industria tessile non si fermano solo al sandblasting. Un’indagine recente effettuata dalla tv canadese Cbc ha rilevato che un articolo su cinque prodotto da brand di fast fashion presenta alte concentrazioni di sostanze chimiche, tra cui piombo, PFAS e ftalati, sostanze che possono essere dannose per la salute, come conferma Health Canada. Nello specifico il programma canadese ha fatto esaminare in laboratorio 38 capi di abbigliamento e accessori venduti da alcuni e-commerce tra cui Shein, Aliexpress e Zaful. I risultati hanno dimostrato come le sostanze chimiche presenti nei prodotti si trovano in quantità superiori a quelle consentite dalle leggi canadesi, e di riflesso anche di quelle europee. I prodotti sono stati prontamente rimossi dallo store, ma non è la prima volta che il brand Shein vende prodotti dannosi per la salute. Data la frequenza con cui questo avviene sul sito dell’e-commerce è stata introdotta una sezione chiamata Avviso di richiamo, dove vengono puntualmente presentati capi di abbigliamento che possono risultare dannosi per la salute.

Sonia Faseli

Foto di copertina: Panos Pictures / Public Eye

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