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Se sei nato e cresciuto nelle latitudini quasi equatoriali del centro Italia e hai studiato pittura dando per scontata che la luce del mondo sia comunque quella gonfia e porosa di Roma, basta il primo viaggio a Venezia per metterti in crisi, per indurti a pensare che l’Amor sacro e amor profano, che pure hai sempre visto a Roma perché lì sta, sia in realtà espressione di qualcosa che non potevi contemplare nonostante i manuali di storia dell’arte e tutto quel che hai imparato sulla pittura tonale, l’uso nuovo e diverso del colore, la luce dei veneziani. Se sei nato e cresciuto a Roma è soltanto però dopo il primo viaggio a Londra o comunque in Inghilterra che capisci davvero quanto la pittura – che fino ad allora era stata per te la misura di ogni visione del mondo – non sia in realtà che una delle tante espressioni possibili di uno sguardo più grande ovvero del modo di pensare che accomuna gli abitanti di un determinato luogo, un pensare plasmato in misura fondamentale proprio dalla luce che batte in quel determinato luogo. Insomma, se sei nato e cresciuto a Roma e hai studiato pittura, la tua prima volta in Inghilterra può darti l’impressione che diede a me: quella di avere sempre vissuto in un acquario o di avere visto il mondo dietro le lenti appannate di un paio di occhiali che non ti eri accorto di portare. Tutto quel nitore. Un nitore che persiste anche a parecchi metri di distanza e che a Roma ti capitava vedere solo dopo un potente acquazzone e comunque mai a un livello simile, un livello che ti cambia totalmente l’idea di scorcio, di profondità di campo. D’un tratto capisci Constable, che finora non ti era mai parso chissà cosa; d’un tratto capisci che le tonalità squillanti, le figure ritagliate di Hockney sono molto meno pop di quel che ti erano parse dall’Italia, molto meno esagerate e innaturali. Anzi capisci che non sono affatto innaturali; che sono quanto di più normale per un pittore nato e cresciuto in quella luce.

Fiona Rae «As I run and run, happiness comes closer» (2008)

Cosa c’entra tutto ciò con Annihilation, il film che Alex Garland ha tratto dal primo volume di una strana trilogia fantascientifica nella quale si racconta delll’opera di mutazione condotta sulla natura del nostro pianeta da uno stano e indefinito invasore? In apparenza poco o niente, se non un paio di fatti: che Garland è londinese e che lo strano invasore si palesa perlopiù in forma luminosa, come «shimmer», un bagliore che avvolge in una specie di bolla in espansione una non meglio precisata Area X ma che per specie animali e vegetali sembra di poter ricondurre alla Florida. Fatti ai quali personalmente non avrei dato il minimo peso, non fossi rimasto colpito da come i vari elementi visivi del film arrivano a mescolarsi. Le mutazioni descritte da Jeff VanderMeer nel suo romanzo – fiori diversi che sbocciano da una stessa pianta, forme biologiche che assorbono altre forme biologiche – assumono qui l’ibridismo ai limiti dello psichedelico cui tende certa arte inglese, penso per esempio alla pittura di Fiona Rae; una forma di morfismo peculiare di quelle latitudini che sembra scaturire proprio dal nitore estremo di cui parlavo sopra, il nitore lenticolare dove ogni cosa ci appare sempre perfettamente a fuoco, sempre timbrica, a prescindere da quanto possa essere vicina o lontata dal nostro punto di vista. È una resa efficace, molto aderente a ciò che ci si può immaginare leggendo il libro di VanderMeer, ma nella luce quasi tropicale di questa probabile Florida, certo più simile alla luce gonfia e porosa di Roma che a quella britannica, si percepisce – o almeno l’ho percepita io – una leggera dissonanza, un appannamento da condensa, come guardare un Damien Hirst un poco sfocato.

Non che la dissonanza disturbi. Anzi si adatta benissimo al film, in particolare al suo ritmo lento, anch’esso in contraddizione solo apparente con le premesse: cinque donne, un po‘ scienziate un po‘ soldate, che si addentrano nella potenziale minaccia della bolla luminescente. La loro missione segue altri tentativi di esplorazione andati a vuoto, droni spariti, spedizioni di militari mai tornati salvo uno, il marito di una delle cinque donne, la biologa, Natalie Portman. Cosa sia successo agli uomini quand’erano nella bolla non si sa. Forse qualcosa li ha uccisi, forse sono impazziti ammazzandosi tra loro. Neanche cosa voglia la bolla è dato sapere, ammesso voglia qualcosa. In quanto luogo a parte, chiuso ma non proprio, produttore di metamorfosi e forse di allucinazione, la si direbbe a metà tra la zona di Stalker e Solaris. Dimenticatevi Tarkovskij però. In termini strettamente cinematografici Annihilation è più un raffinato incrocio tra Predator – che resta sempre un grande B-movie checché se ne possa pensare – e il più recente e sperimentale Monsters.

Per lo stanco incesso, la bizzaria, l’irrisolutezza, Annihilation non poteva certo sbancare nelle sale, dove la sua fugace apparizione è stata infatti fugace, una specie di preview per l’approdo a Netflix, che con i suoi tempi porterà al film gli estimatori che merita. Perché pur non essendo senz’altro un capolavoro, Annihilation merita. Un paio di sequenze non facili da girare – quelle dell’orso e dello specchio – dimostrano quanto già si era capito con Ex Machina. Il nostro Alex Garland è un regista da tenere d’occhio. Anche qui sono indubbia le sue capacità di vedere il film e dargli un’anima compatta, di tenerlo assieme nonostante i rischi insiti in un soggetto tanto sfuggente. La strana e stremata lentezza, che resta in fondo il cuore di tutto, discende dal romanzo, come pure l’altra sua faccia, lo stordimento oppressivo, il senso di ineluttabile autodistruttività, di annientamento appunto, che trasuda dal bagliore fagocitante sceso sul nostro mondo. Nondimeno il film emana anche una luce propria. C’è qualcosa di nuovo qui. Non prendetelo sotto gamba.

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