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  • Perché conoscere il significato delle fasi lunari?

    Perché conoscere il significato delle fasi lunari?

    Premessa: questo non è un posto di convinzioni magiche ma di intuizioni appassionate e di ispirazioni eteree. 

    A cosa serve conoscere il significato dei cicli lunari o degli archetipi astrologici?
    Di per sé, a niente, come per tutti gli strumenti interpretativi e di riflessione. La domanda “a cosa serve?” appartiene al sistema capitalista in cui viviamo, che ci abitua a dare importanza soltanto all’efficienza: prendiamo un contenuto e ci aspettiamo di doverlo trasformare subito in un prodotto. La nostra umanità viene così ridotta a un ingranaggio meccanico, che serve solo a trasformare in materiale ciò che è ideale; insomma, proprio come se fossimo delle macchine. Noi siamo, effettivamente, un anello di congiunzione fra ciò che è ideale e ciò che è materiale ma con potenzialità e capacità infinitamente più sofisticate di così: in quanto esseri umani, sappiamo abbinare significati superiori a porzioni di realtà ed è grazie a questa nostra facoltà che abbiamo creato una miriade di simboli nel corso della nostra storia. Attraverso questi simboli, cerchiamo di recuperare le fila che legano il nostro circoscritto mondo umano a un sistema più grande, che comprende tutta la natura. Dimenticarci che le nostre vite sono inscritte in una rete di organismi viventi, in un tempo ciclico molto più ampio di ciò che siamo capaci di comprendere nell’immediato, genera un grosso vuoto esistenziale, perché noi non siamo meteore che vagano solitarie in uno spazio dominato dal caos; siamo micromondi che nutrono e si nutrono dell’ambiente circostante e dimenticarlo ci fa male.
    La natura ci offre innumerevoli prove di come ogni sua parte sia profondamente interconnessa. Ci nutriamo della natura e, al tempo stesso, la nutriamo. La natura siamo noi esseri umani, gli altri animali, le piante, le stagioni, le temperature, i corpi celesti: tutto segue un ciclo che non può essere dominato ma può, certamente, essere contemplato.
    Quando non è possibile controllare qualcosa, in noi si genera un vuoto: è nella nostra natura umana. A questo vuoto si può rispondere con la conoscenza, oppure eludendo la verità che il controllo non sia possibile. Allora inventiamo un controllo che non abbiamo; applichiamo rigidamente religione, superstizioni, magia, convinzioni personali e tutto, ora, ci sembra a portata del nostro potere.
    C’è una saggezza che, invece, sa rapportarsi con la natura apertamente e senza difese: quella forma di saggezza sa bene che ciò che non può essere controllato, può essere esplorato. È soltanto con la conoscenza di ciò che trascende i nostri limiti che possiamo imparare a convivere con la sofferenza e la frustrazione che questi limiti ci provocano. Scrivo “imparare a convivere” e non “a liberarci”, perché non ci si può liberare di ciò che è naturale e vorrei che questo luogo fosse scevro da illusioni confortanti e offrisse, al loro posto, uno spazio dove confrontarsi esercitando la comprensione e la condivisione dell’esperienza di esistere.

    Parlare delle fasi lunari è come parlare di linguaggi. La dicotomia credere/non credere, funziona/non funziona, è vero/ è falso è opportuna in ambiti ascrivibili alla scienza; d’altro canto, non tutto ciò che compone il mondo e il nostro essere umani si inscrive unicamente nella scienza. Pensate all’arte, alla musica, alla poesia, al piacere; soprattutto, pensate alla mitologia e alla sua funzione pedagogica. Gli archetipi astrologici o i cicli lunari non hanno alcuna validità scientifica, come molte altre cose che non per questo giudichiamo inutili. La loro bellezza risiede nella complessità di un sistema di interpretazione capace di includere ogni sfaccettatura dell’esperienza umana nel suo linguaggio: le stagioni, il ciclo di vita, le tappe della crescita fisica e psicologica; i mestieri, le parti del corpo, persino i minerali. Ogni cosa occupa un posto all’interno dell’universo: ci sentiamo parte di un unico grande sistema, che avanza su un percorso governato dalle stesse leggi. Si può cogliere una visione universale dell’esistenza, anziché sentire di attraversarla in profonda solitudine, chiusi in una nostra “bolla”.
    Attraverso la conoscenza dei significati profondi ai quali sono legati, archetipi e lunazioni ci incoraggiano a riflettere, dandoci il senso di “dove” ci troviamo: in questa riflessione e con gli stimoli che ricaviamo, spesso riusciamo a comprendere meglio chi siamo e quale senso vogliamo dare alla nostra presenza qui, nonché alla nostra storia personale (che impareremo anche a leggere in un’ottica più universale e meno ego-riferita).

    Trovare corrispondenze fra le fasi della natura e le proprie umane avventure apre l’accesso a punti di vista diversi sulla vita e su cosa stiamo davvero sperimentando, a un modo diverso di vederci e di vedere. Questo è il senso di conoscere il ciclo lunare o gli archetipi astrologici: affinarsi intellettualmente e spiritualmente, pensando in maniera diversa, sentendo in maniera diversa. Si tratta di notare che la vita è ciclica, di notare che c’è un ritmo che sta scandendo ogni cosa. Questo può farci sentire meno persi, meno ansiosi e più aperti verso il mondo: vale la pena provare.

     

     

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  • Ma che cos’è, davvero, il karma? – Parte II: La memoria karmica sessuale

    Ma che cos’è, davvero, il karma? – Parte II: La memoria karmica sessuale

    Nella prima parte di questo articolo ho cercato di sfatare qualche mito sul concetto di karma, con l’intento di restituire una dimensione molto più pragmatica ad un termine troppo spesso ammantato di confusione e di un immaginario new age un po’ inconsistente.
    Il karma è innanzitutto un nostro bagaglio narrativo, che produce sofferenza quanto più diventa rigido.
    D’ora in avanti, chiameremo la nostra narrazione personale (v. articolo precedente) memoria karmica;
    per restituire flessibilità ai nostri schemi narrativi e lavorare sul nostro karma, dobbiamo innanzitutto imparare a distanziarci dalla nostra memoria karmica.
    Naturalmente, distanziarsene non significa distruggerla, anche perché stiamo maneggiando la nostra stessa identità. Significa, invece, esercitarsi ad avere un rapporto flessibile con la propria narrazione, e cioè con l’insieme di valori e di pensieri che abbiamo costruito sulla vita e su chi noi siamo, nel corso di un tempo che può sembrarci eterno, perché è iniziato e terminerà con noi.
    Sono molte le cose che facciamo, pensiamo e sentiamo in maniera simile ad una risposta automatica, secondo meccanismi reiterati di cui siamo blandamente o affatto consapevoli. Sono le cose con le quali ci torturiamo silenziosamente, perché questo muoversi ciclico produce grande sofferenza. In questo senso, il karma è la chiave per la liberazione dal dolore; le conseguenze delle nostre azioni ci forniscono le coordinate per capire dov’è che c’è uno schema che, se reso più flessibile, ci libererà dalla sofferenza che crea.

    La memoria karmica non è soltanto mentale. Esiste anche la memoria karmica fisica ed è legata essenzialmente a due tipi di relazione:
    – le relazioni di sangue, poiché i nostri schemi sono principalmente costruiti in risposta alle persone con le quali siamo cresciuti in famiglia;
    – e le persone con cui abbiamo rapporti sessuali, ragion per cui bisognerebbe prestare enorme cura nella scelta delle persone con cui facciamo sesso.  Tutte le persone con cui andiamo a letto ci lasciano qualcosa di molto identitario, che noi ne siamo consapevoli oppure no. I rapporti sessuali sono considerati delle varie e proprie “porte” attraverso le quali ci si trasmette il proprio karma.
    La memoria corporea è considerata la più intensa e pervasiva, e la memoria karmica fisica più invasiva è proprio quella sessuale. Il corpo ha memoria di tutto ciò che sperimenta: questo vale tanto per ciò che si riceve quanto per ciò che si dà.
    La memoria fisica si attiva in entrambi i sensi; anche se a noi sembra che determinate sensazioni fisiche passino senza lasciare grandi tracce e ci sentiamo quasi come se non le avessimo mai vissute, in realtà il corpo fa esperienza delle sensazioni che prova, anche emotive. Le emozioni non sono inconsistenti, ne facciamo esperienza proprio attraverso il corpo. In un certo senso, quindi, la materialità del corpo coincide con l’esperienza delle sensazioni che proviamo, e l’esperienza fisica delle emozioni rimane in noi come memoria che, in alcuni casi, diventa sottile. Nessuno di noi è perfettamente cosciente che le sensazioni fisiche che ha provato nel corso della vita gli sono tutte rimaste impresse; con una persona con cui si ha un contatto fisico di tipo sessuale lo scambio di memoria karmica è altissimo, perché il sesso è il contatto fisico più pervasivo.
    Tutto questo non ha niente a che vedere con l’esercitare una forma di (auto)controllo sulla libertà sessuale delle persone. Non è un problema di tipo morale che si risolve evitando il sesso o riducendolo; non sussiste nessun tipo di morale sulla quantità o sulle circostanze dei rapporti sessuali.
    Si tratta piuttosto di una questione esistenziale, non morale. Quel che si vuol derivare, cioè, è che quando abbiamo rapporti sessuali è giusto osservare, entrare in contatto e valutare la disposizione d’animo che abbiamo, perché il nostro corpo ne conserverà memoria. Si tratta quindi di avere maggiore cura, per esempio nell’evitare di avere rapporti sessuali con stati d’animo negativi: per non pensare ad altro, per vendetta, per insoddisfazione, per solitudine, per tristezza… un po’ come fosse una questione di igiene corporea. Ricordiamoci che trasmetteremo all’altra persona quello che le stiamo dando, e la stessa cosa farà lei con noi. Questo dovrebbe incentivare un senso di rispetto quasi rivoluzionario verso la disposizione con cui ci doniamo ad un’altra persona, nonché per l’altra persona che ci riceverà. Avere consapevolezza di una memoria fisica e di un karma sessuale non dovrebbe pesare sulla frequenza e libertà dei rapporti sessuali, ma solo promuovere un maggiore livello di cura: cura di ciò che diamo all’altro e cura del modo in cui riceviamo quel che l’altro ci dà.

    La cura rende sacre le abitudini, facendone atti di celebrazione.
    Questa cura conferisce sacralità al sesso, indipendentemente dalle variabili con cui avviene; è lo scambio di una memoria fisica, di sensazioni che il nostro corpo conserverà molto a lungo, a volte per sempre, che ne siamo coscienti o meno. Avere cura significa cercare di dare il meglio di noi stessi, senza metterci in situazioni di profonda intimità con qualcuno se sappiamo di non avere la giusta disposizione d’animo. Se ci sentiamo a disagio, se siamo distratti, se stiamo mentendo, stiamo creando sensazioni negative che il nostro corpo ricorderà per sempre e le stiamo anche dando ad un’altra persona, ignara di tutto ma con un corpo consapevole.

     

    Continua nel prossimo – e ultimo- articolo.

     

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  • “Io Saturnalia!”: una performance immaginaria, II

    “Io Saturnalia!”: una performance immaginaria, II

    (image: “Metro Renaissance – Carnival in Düsseldorf” by Noah Brelage)

    “Se questa fosse una performance girerei per le strade
    e farei cento volte avanti e indietro in metropolitana con un microfono in mano,
    costringendo tutti ad ascoltare i messaggi che ho scritto e non ho mai inviato,
    sperando di ricevere non fiori e complimenti
    ma insulti e indifferenza.”

     

    Da giovane donna alfabetizzata, mi pare che separare il maschilismo dai maschi sia la sfida più penosa della vita.

    ***

    Nella vita capiterà di mettersi a tavola con tante persone. A volte capiterà anche che sia qualcuno a invitarti a sedere per condividere il suo pasto con te. Qualcuno, forse mentendo, dirà che non ha poi tanta fame e farà scorrere il piatto dritto sotto la tua faccia. Qualcuno, cercando di essere più equo possibile, cercherà di quantificare la metà esatta da mangiare e lascerà l’altra a te. Qualcuno mangerà tutto quello che c’è nel piatto e poi con un gran sorriso ti dirà che l’onore di fare la scarpetta è tutto tuo. Qualcuno, infine, farà anche la scarpetta e ti lascerà raccogliere le briciole con la punta delle dita. Può sembrare incredibile ma la verità è che ognuno di loro ha dato davvero tutto ciò che aveva da dare. Il punto è: tutto dipende da quanto uno ha grande lo stomaco.
    Ecco: io credo che l’ego sia proprio uno stomaco. E, peccando di presunzione, spero che a qualcuno di voi questo rimanga in mente.

    ***

    A vent’anni si è completi di tutto il necessario, per diventare adulta lo corrompi piano piano.

    ***

    Love bloomed in me, only to be a flower that dies the second I look at its beauty. I don’t want to date other people. I want to starve even harder.

     

     

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  • La logica del merito

    La logica del merito

    C’è la logica del merito, della conquista, del premio – che, va bene, nel mondo globalizzato e capitalista bisogna conoscere, bisogna applicare, poiché fa parte del saper stare al mondo, e ci consente di raggiungere obiettivi specifici (di carriera, di prestigio, di stabilità materiale). E poi, ogni tanto, si affaccia la consapevolezza che le cose più belle della vita alla fine le riceviamo come un dono; che c’è un grosso pezzo di vita fatto di cose che non sono meritate, che non sono dovute, che non sono rivendicabili… come tutte le cose libere.

    Ogni volta che veniamo privati di qualcosa che ci è stato dato liberamente e reagiamo come se ci avessero fatto un torto, stiamo negando una libertà. La sofferenza non conferisce poteri speciali sulle cose;

    ma tutti sappiamo quanto è forte la tentazione di piangerci addosso quando non abbiamo tanti amici, una brillante carriera, un grande amore, spesso basta che manchi anche solo una di queste cose, affinché reagiamo come se ci avessero fatto un torto; come se un amico, un amore, una opportunità che se ne va, ci avesse derubati di qualcosa.
    Come se quelle “cose” fossero mai state nostre. Come se quelle cose ce le fossimo guadagnate, “comprate” con le nostre azioni e adesso esigiamo di possederle, senza che cambino mai – a meno che non siamo noi a decidere di disfarcene o di cambiarle. Questo è amare se stessi e niente altro.
    Ci arrabbiamo col mondo, come se qualcuno alla nascita ci avesse promesso qualcosa e adesso pretendessimo un risarcimento. Ci arrabbiamo col mondo come se ci avesse raccontato bugie, ci sentiamo ingannati – ma ci ha mai detto qualcosa, il mondo? O ce ne siamo convinti da soli? Forse, poi, non c’è niente di male: se lo facciamo tutti, vuol dire che deve essere parte della nostra natura.

    E quindi?
    E quindi niente, mi sono fatta l’idea che una sfida importante per scavalcare questo limite consista nel saper separare le nostre sofferenze dall’orgoglio; imparare a dirci feriti senza dirci necessariamente presi in giro. Imparare a riconoscere che stiamo soffrendo senza vedere sempre una ingiustizia nel nostro dolore. Sentirsi tristi è un diritto. Non dovrebbe mai essere una vergogna da strutturare puntando il dito, o dandole un tono con una rabbia ingiustificata. Così… per sentirsi meno sciocchi, meno impotenti, meno vittime. Per vergognarsi di meno.

    Forse un altro antidoto sta nel ripassare a fondo il concetto di dono, e poi esercitarsi a riconoscerlo.
    Forse imparerò a pregare apposta, per scongiurare il pericolo che tutto questo rimanga solo un momento condiviso di lucidità nella mia vita, e basta.
    Non voglio solo vedere i gradini, voglio salire le scale (parafrasando qualcuno).

     

     

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  • Ma che cos’è, davvero, il karma?

    Ma che cos’è, davvero, il karma?

    Per spiegare che cosa è il karma, mi sembra necessario partire innanzitutto da cosa non è il karma e fare un repulisti di tutte le idee, sbagliate o sbagliatissime, che circolano intorno a questa parola.
    Il karma non è una legge morale, non è una legge divina, non è in nessun caso una legge superiore che discende dall’alto sulle nostre teste per regolare i conti al posto nostro.
    Il karma non è niente che provenga dall’esterno. Il karma non è delitto e castigo.
    Il karma non prevede il riconoscimento del concetto di peccato, di azione cattiva alla quale far seguire una punizione. Il karma non è il cristianesimo.
    Il karma non è una legge governata da categorie morali, quindi non dipende da bene e male, non si basa sulla divisione fra giusto e sbagliato. Il karma non è niente di tutto questo. 

    Allora, cos’è veramente il karma?
    Il karma è uno schema, o meglio una serie di schemi, che ci opprimono da dentro. Sono degli schemi di pensiero e di azione, che abbiamo creato noi stessi, per noi stessi, senza alcuna consapevolezza o senza una particolare consapevolezza, poiché la creazione di questi schemi comincia dal giorno in cui nasciamo.
    Il karma è spesso rappresentato come una struttura circolare, proprio a indicare la rigidità dei nostri schemi e non della “legge” in sé: il karma viene prodotto da noi stessi, all’interno di un ciclo interiore di pensiero e azione creato da noi, per noi e che siamo sempre noi, in definitiva, a subire.

    Che cos’è esattamente questo ciclo interiore, che infatti si chiama anche ciclo karmico?
    Un ciclo karmico non è che un modo di definire un meccanismo di cui, molto probabilmente, avrete già sentito parlare e che coinvolge emozione, pensiero e azione: quando proviamo una emozione, la traduciamo in un pensiero; quel pensiero, a sua volta, si traduce in una azione o in un comportamento. Quando questo ciclo, che è naturale e sano, è alterato da una scarsa connessione con le nostre emozioni, dalla tendenza a far prevalere la logica sulla comprensione emotiva, schiacciandola, manipolandola o addirittura ignorandola totalmente; quando questo ciclo si irrigidisce in una equazione che ci dà l’illusione di vivere con maggiore stabilità e di poter eliminare le incertezze che ci causano emozioni negative, questo ciclo naturale smette di funzionare a nostro vantaggio e diventa uno schema rigido.
    Le azioni che compiamo non sono più l’ultimo anello di una catena che parte dal sentire; smettiamo, cioè, di agire in accordo con le nostre vere emozioni; seguiamo invece un pensiero rigido, uno schema diventato troppo stretto e fisso. Il risultato è la creazione un circolo vizioso, in cui le conseguenze delle nostre azioni finiscono per riconfermare la nostra convinzione di partenza. Immaginate un moto prima orario (creazione) e poi antiorario (riconferma), ripetuto all’infinito. Sadhguru descrive il ciclo karmico come il nostro movimento verso la vita. Un ciclo karmico è il nostro personale modo di muoverci nella vita e verso la vita, un pezzo portante della nostra identità; è letteralmente lo stile con il quale noi viviamo. 

    Ma perché il karma “si accumula”?
    Il karma si accumula perché ogni nostra azione produce delle conseguenze, delle reazioni esterne; queste conseguenze vengono interpretate, per nostro normale funzionamento, in funzione del rafforzamento della nostra convinzione originaria. Non si tratta di un errore di pochi sciocchi, né di un offuscamento dell’anima di cui soffrono fantomatiche “masse non illuminate”: non esistono eletti, di fronte alla natura umana. Siamo tutti coinvolti in questo processo, non è una colpa o una défaillance, è essere umani.
    In sostanza: noi tutti tendiamo a irrigidirci, piuttosto che a rimanere flessibili, crescendo.
    Tutti ci troviamo dentro a un ciclo karmico, perché tutti, necessariamente, abbiamo bisogno di una narrazione interiore per vivere.
    Tutti cominciamo, sin da bambini, a costruirci una nostra narrazione. Dentro ognuno di noi abita una sorta di biografo, fin dall’inizio: una parte di noi stessi che continuamente rielabora i fatti della nostra vita e costruisce la propria storia.
    Se è vero che dentro di noi c’è un narratore, è però anche vero che si tratta di un narratore parziale, limitato alla nostra prospettiva. Badate bene: non sto dicendo che la nostra narrazione personale non abbia valore, tantomeno che sia fallace semplicemente perché non è onnicomprensiva. Il suo valore, semmai, risiede proprio nella sua parzialità: la nostra visione prospettica ci fornisce una identità, ci aiuta a trovare il nostro senso alla vita. Quello che non dobbiamo dimenticare è che la nostra narrazione non può essere assunta rigidamente, come uno schema che non viene mai messo in discussione: è precisamente questo, che genera karma.
    Il karma è proprio la rigidità con cui affrontiamo la vita.
    Non dovrebbe essere una notizia sconvolgente, se si considera che, quando si parla di malessere interiore, si parla spesso anche dell’importanza di imparare a tollerare la frustrazione e di non dismettere l’abilità a mantenersi flessibili. La rigidità è una grande nemica della salute mentale: un concetto oggi forse maggiormente noto grazie a una aumentata sensibilità verso la cura del benessere psicologico, che si può rinvenire anche nell’induismo e nella teorizzazione del karma.
    A questo punto, è ormai chiaro che il karma non è una punizione che arriva dal cielo e nemmeno, banalmente e fatalisticamente, la sofferenza che fa parte della vita e che ci coglie mentre andiamo in giro per il mondo, ma è la sofferenza che ci causiamo da soli per la nostra rigidità. 

    Dobbiamo quindi cercare di vivere eliminando il nostro karma?
    No. Non siamo qui per fare i criceti sulla ruota e smaltire il nostro karma come fosse un carboidrato. Il karma è una componente fondamentale della nostra identità, non ce lo possiamo togliere. Il karma non è un male da estirpare.
    È vero che il karma, nel suo essere uno schema, ha una funzione limitante e provoca sofferenza se noi irrigidiamo le maglie di questo schema; se non lo facciamo, tuttavia, il karma è anche l’insieme di schemi che ci dà una solidità e che ci struttura, letteralmente. Perché noi siamo questa persona e non un’altra? Perché ci siamo creati un karma, come una impronta digitale; perché abbiamo la nostra narrazione, la nostra storia, il racconto solo nostro di una vita che è solo nostra.
    Torniamo per un attimo all’immagine del karma come l’insieme degli schemi, diciamo anzi, delle maglie che legano i nostri pensieri alle nostre azioni: in sostanza, stiamo parlando delle cose di cui ci siamo convinti con la nostra esperienza, e che poi hanno determinato il nostro modo di comportarci nella vita. In questo senso, il nostro karma è letteralmente un database di informazioni su chi siamo noi, che va usato per evolverci, non certo per rimanere chiusi e non rispondere al cambiamento. Possiamo fare un buon uso o un cattivo uso del nostro karma ma in nessun caso è una cosa che si può o si deve eliminare. I nostri schemi sono preziosissimi perché sono ciò che ci dà struttura: il karma è la nostra colonna vertebrale. Il Signore del karma, in astrologia, è Saturno. Non a caso, Saturno governa le ossa e tutto lo scheletro, perché è il pianeta che ci dà struttura. Avere un karma ci rende sani tanto quanto l’avere uno scheletro.

    Per concludere, voglio aggiungere un esempio pratico che spero possa tornarvi utile: poniamo che io me ne vada in giro con la macchina in riserva per tre, quattro giorni, incurante della spia accesa (ehm…) e che, il quinto giorno, io resti ferma per strada senza carburante. Non posso certo pensare che Qualcuno mi abbia punita: sono ferma per strada perché io non ho messo benzina. All’universo non importa ragionevolmente niente di bloccarmi la macchina sulla carreggiata, tanto quanto gli importa che io tenga il serbatoio pieno. Cosa vuol dire, qui, non irrigidirsi? Vuol dire accettare che quello che mi è successo è esattamente una lezione karmica: essendo stata pigra e avendo procrastinato, questa lezione dovrebbe insegnarmi a fare le cose che vanno fatte, senza subirne il peso al punto di pensare: “non mi voglio fermare, sono stanca e impaziente, voglio arrivare a destinazione”. Questo pensiero è una resistenza e la lezione karmica di restare ferma per strada dovrebbe servire, se io la accolgo e non mi irrigidisco interpretandola come una sfortuna o piangendomi addosso senza cambiare (!), a rompere questo schema e a rendermi più libera dalle mie debolezze.

    Certo: un conto è ricordarsi di fare benzina e un altro affrontare resistenze ben più grandi, ma l’esempio serve a dimostrare come la lezione karmica non sia mai punitiva, è invece una sorta di bussola che ci dà la direzione giusta da prendere per crescere. Tutti noi funzioniamo naturalmente in modo che le resistenze e gli ostacoli che incontriamo siano lo specchio delle cose sulle quali siamo rigidi. In questo caso, io rigidamente mi sono rifiutata di fermarmi per fare benzina, finché non sono rimasta ferma per strada: questa conseguenza rispecchia perfettamente ciò che io mi sono rifiutata di fare e questo la rende una coordinata lampante. Nessuno di noi potrebbe mai eliminare del tutto questo tipo di lezioni, perché il nostro movimento nella vita crea un continuo flusso di informazioni sul nostro modo di essere.

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  • Adonis poeta: Luna Crescente

    Adonis poeta: Luna Crescente

    Adonis, pseudonimo di Alī Aḥmad Saʿīd Isbir, è considerato il più grande poeta vivente del mondo arabo.
    Nasce nel 1930 in Siria, a Qassabin, un villaggio povero, dove manca l’elettricità e non sono ancora arrivate le automobili, da una famiglia alauita, che non può permettersi di mandarlo a scuola. Da bambino frequenta una kuttab, una scuola coranica informale che offre un certo grado di istruzione elementare anche ai figli dei ceti sociali più disagiati. Il padre di Adonis è un contadino che ama profondamente la poesia araba, tanto da averla studiata da autodidatta; grazie a lui, Adonis impara a memoria le poesie arabe tradizionali.

    Nel 1944, mentre era seduto sotto un albero di ulivo, sente dire che l’allora primo Presidente della Repubblica Siriana Shukri al-Quwwatlī sarebbe venuto in visita dalle sue parti e decide di scrivere una poesia per andarla a recitare al Presidente in persona. All’epoca, aveva quattordici anni.
    Quando arriva alla sede della cerimonia di benvenuto, però, viene cacciato dal leader politico del suo villaggio; decide di non perdersi d’animo e di fare un altro tentativo, andando nell’altra cittadina più vicina dove il Presidente sarebbe stato in visita: la raggiunge a piedi, sotto la pioggia battente.
    Giunto a destinazione, cammina a casaccio per la città finché nota uno striscione: “Il sindaco di Jablah dà il benvenuto a Sua Eccellenza il Presidente”, così va ad incontrare il sindaco, completamente bagnato e sporco di fango. L’incontro va bene: il sindaco di Jablah ama la poesia ed è felice che Adonis legga la sua al Presidente.
    La cerimonia di benvenuto ha inizio. Adonis prende posto e attende di essere chiamato ma il tempo passa e tutti si dimenticano di lui. La sua presenza non viene annunciata e il ragazzino rimane in silenzio, nell’angolino che gli era stato detto di occupare.
    Un ufficiale presente alla cerimonia se ne accorge e gli chiede: “Perché non hai recitato la tua poesia?”
    “Non lo so”, risponde Adonis. L’ufficiale, allora, grida che è tutta colpa del governatore, “quel bugiardo”, dice, “quel cane”.
    “Signore e signori! Sua Eccellenza!”, urla, facendo fermare tutto e tutti. “Questo ragazzino viene da un villaggio sulle montagne ed è qui a nome di tutti i suoi abitanti. Ascoltate quello che ha da dire!”, poi lo guida davanti al leggio.
    Adonis legge la sua poesia e la folla esplode in un grande applauso. Il Presidente, a quel punto, gli domanda se c’è qualcosa che desideri e lui risponde: “Voglio andare a scuola.”
    Così, Adonis riceve dal Presidente una borsa di studio per frequentare un liceo francese a Tartus.
    All’età di diciassette anni, sceglie di scrivere usando uno pseudonimo perché, a causa dell’eredità religiosa legata al suo nome, gli scritti che continuava a inviare a giornali e case editrici venivano cestinati immediatamente. Sceglie di firmarsi Adonis perché sente che il rifiuto di pubblicarlo non è che un tentativo di cancellarlo, di ucciderlo, come fece il cinghiale con Adone nel mito fenicio di Adone e Astarte. E viene pubblicato subito.

    Adonis ha sempre rivendicato il suo non essere un poeta ideologico, ma “della terra”; di non asservire mai i propri versi a una ideologia ma di usarli per raccontare la bellezza, la povertà, l’esperienza di esistere. Non è critico verso gli scrittori politicamente impegnati, anzi. Tuttavia, per dirla con le sue parole, “un creativo deve sempre stare con ciò che è rivoluzionario, ma non dovrebbe mai essere come i rivoluzionari.”
    Non so se la posizione di Adonis possa essere semplicemente spiegata con il fatto che la sua vita di poeta sia nata da quel ragazzino sporco di fango. Di sicuro la terra è l’elemento metaforicamente legato alla perseveranza, alla capacità umana di costruire delle fondamenta solide dalle quali elevarsi, all’attaccamento che noi tutti abbiamo per l’aspetto materiale della vita. La terra, come elemento, ci ricorda che la struttura materiale che ci compone (lo scheletro) e che ci nutre (il corpo) rende possibile tutta l’espansione di cui siamo capaci dopo.

    Adonis è nato nella stagione del Capricorno, presieduta da Saturno. Il glifo di Saturno è composto dall’unione verticale di due simboli: in basso una sorta di piccola falce, una mezzaluna; in alto, una croce. La croce simboleggia la legge della materia, il ciclo di nascita, crescita, invecchiamento e morte al quale tutte le creature sono inesorabilmente sottoposte.
    Il fatto che si trovi al di sopra della mezzaluna, indicatrice dello spirito, dell’incorporeità della nostra esistenza (e quindi delle nostre emozioni ma anche dell’intelletto, della capacità umana di creare, di pensare, di comunicare, di sviluppare legami) significa che l’anima può espandersi e svilupparsi soltanto entro le leggi della materia.
    La terra è il confine fra la nostra nascita e la nostra morte, un confine col quale possiamo rapportarci soltanto in un modo: accettandolo, pur nel tentativo di trascenderlo. Ma la terra è anche determinazione, costanza, lo sforzo indefesso teso a costruire la nostra storia; è la dimostrazione che l’essere umano, chiuso nella morsa di una legge invalicabile, riesce a sentire l’urgenza di doverla superare anche mentre è obbligato a rispettarla; di rendere la sua esistenza finita infinita, compiendo l’opera impossibile, quella che lo rende immortale o che lo conforta, perlomeno, con l’illusione di aver superato almeno idealmente la morte.

     

     

     

     

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  • “Io Saturnalia!”: una performance immaginaria

    “Io Saturnalia!”: una performance immaginaria

    (image: “Metro Renaissance – Carnival in Düsseldorf” by Noah Brelage)

    “Se questa fosse una performance girerei per le strade
    e farei cento volte avanti e indietro in metropolitana con un microfono in mano,
    costringendo tutti ad ascoltare i messaggi che ho scritto e non ho mai inviato,
    sperando di ricevere non fiori e complimenti
    ma insulti e indifferenza.”

    Io so solo una cosa: che ogni donna che sta con una Bestia è la rosa, che appassisce sotto vetro aspettando che lui impari ad amare. la Bella non esiste.

    ***

    Apro e chiudo la nostra chat continuamente. Vorrei scrivere irrazionalmente tutto ciò che sento ma poi lascio stare. Ho questa perenne tentazione di lasciarmi andare a modi altissimi di amare, poi mi ripeto che siamo testa e cuore; non posso esigere di vivere come se io fossi Puro Spirito. Sento tutto il dolore dei pezzi di me che incedono per strade opposte.

    ***

    Le chiedo scusa per non avere atteso, per volere così tanto conoscere la risposta a questa mia angoscia; ma se avessi la risposta, potrei dire almeno di conoscere la verità e non soltanto le mie sofferenze. Vivrò così per sempre?
    La prego di essere diretta. Mi dia un futuro al quale poter guardare, non mi importa più se è un tugurio.

    ***

    Consumo le energie che restano in una rassegnazione pacata, con cui infilo i giorni uno dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro cercando di non protestare mai, di non dimenarmi di riflesso al dolore grande che sento, così attenta a non svegliare la bestia con un mio sospiro di fatica.

    ***

    Non sento la tua mancanza perché mi trovo più distante dal luogo in cui sono che da te. Non vedo l’ora di vederti arrivare.
    Sarà come tornare all’aorta della vita.

     

     

     

     

     

     

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  • Una giornata di Luna Nuova

    Una giornata di Luna Nuova

    Una delle prime cose che mi ha affascinata della Luna Nuova è che unisce i nuovi inizi a un momento in cui Sole e Luna sono congiunti e, di fatto, nulli. Ero abituata all’idea che introdurre un cambiamento o una novità presupponesse fare affidamento su qualcosa che sta dentro di noi, una particolare caratteristica o una postura specifica alla quale appoggiarci per trovare la determinazione di spezzare la routine. Non avevo mai considerato l’idea che occorresse, invece, credere di poter fare affidamento sulle potenzialità di tutto: nella congiunzione dei luminari, nessuno dei due è predominante. Sono entrambi, per così dire, scarichi e assenti. Il principio maschile e il principio femminile hanno la stessa energia, la stessa posizione, la stessa prospettiva del cielo.
    Decidere di adottare un cambiamento o fare spazio a una novità nella nostra vita non è che un atto creativo: anche quando ci sembra che una notizia (felice o tragica) irrompa nella nostra vita trovandoci impotenti, dal momento in cui il cambiamento avviene, noi iniziamo a interagirci attivamente. Persino le fatalità diventano nostre creazioni, dopo lo smarrimento iniziale. Michelangelo diceva di aver visto un angelo nel blocco di marmo che aveva a disposizione e di aver scolpito fino a liberarlo.
    Forse non tutti lo sanno, ma Michelangelo ci ha lasciato anche una buona quantità di scritti in lettere, sonetti e carte filosofiche. La scultura per lui era la forma della vita, era la sua maestra di filosofia, dalla quale aveva appreso una lezione basilare: saper vivere non significava aggiungere se stesso al mondo, ma capire di esservi venuto per portare due braccia in più al grande sforzo umano di togliere. Togliere tutto il superfluo del mondo, toglierlo per tutti, partecipare a questa grande operazione collettiva di decostruzione per arrivare a lasciare soltanto ciò che conta: l’angelo intrappolato nel cuore del blocco di marmo, che siamo riusciti a vedere non con gli occhi ma con la nostra innata sensibilità umana.
    Anche se troppo sofferenti o troppo distratti per rendercene conto, davanti ai cambiamenti della vita siamo tutti degli scultori. Questa sospensione dei luminari, allora, mi sembra che vada interpretata sentendo la potenzialità del nuovo tutta nelle nostre umane mani. I cambiamenti richiedono flessibilità per essere concepiti o accolti (a seconda che siamo noi a deciderli, con totale autorità, o circostanze esterne) ma anche determinazione, affinché vengano effettivamente attuati. La Luna è mutevole e scandisce il tempo delle emozioni ma lo fa interagendo con il Sole, che proietta sui suoi movimenti continui la solida coerenza della luce.
    Con il Novilunio, il fatto che entrambi questi macro-sistemi di significati si fermino nella congiunzione suggerisce che prendere in mano un cambiamento è una faccenda che dipende davvero soltanto da noi, e che il nuovo si crea nell’autonomia delle nostre sole, umane mani.
    Ora: queste sono considerazioni astratte e, diciamo così, di fondamento. Un cambiamento può avere portate molto diverse e conviene, dopo aver considerato i princìpi, calarsi nella banalità del reale e della quotidianità per evitare di scadere nel fanatismo fine a se stesso (anzi, a noi stessi).  La base concettuale ci permetterà di prendere con la stessa, dovuta serietà anche la decisione di dedicarci a un progetto creativo un’ora al giorno, di iniziare una nuova alimentazione, di andare a letto sempre alla stessa ora o di iniziare una cura che richieda la nostra costanza. La capacità di prendere seriamente l’infinitamente banale, inoltre, contribuisce a costruire l’autostima che ci è necessaria per realizzare i cambiamenti più ampi e difficili, che coinvolgono i nostri schemi relazionali o di comportamento. La tentazione, invece, è quella di tralasciare le piccole cose per partire sempre dalla fine, dove la conquista è più allettante e dal sapore cavalleresco ma il fallimento, di contro, ha conseguenze devastanti. Non esponiamoci alla devastazione inutilmente, perché le piccole cose sono qui per allenarci a quelle grandi.
    Questo, allora, è il senso dei rituali del Novilunio: non pratiche magiche ma gesti concreti, che ripetiamo affinché si ripeta il significato profondo che hanno per noi.

    In una giornata di Luna Nuova, tendo a diradare i contatti con l’esterno e a ritagliarmi ampi spazi nei quali non sono disponibile agli altri e questo mi permette di dedicarmi senza fretta e senza pressioni alla pulizia del mio ambiente e del mio corpo.
    Il gesto della pulizia è molto legato al Novilunio e alla Luna Balsamica, con due stimoli di fondo diversi. La Luna Balsamica è la pulizia che libera dalle scorie, la Luna Nuova si focalizza molto di più sullo spazio che liberiamo e sulla pulizia come “freschezza”, quella del vuoto che accoglierà un nuovo inizio. Cambio sempre molto a fondo l’aria, tenendo aperte le finestre della casa il più possibile. Mi piace sentire che nel mio appartamento l’aria circola liberamente, come se fosse uno spazio esterno senza confini col mondo, mi fa sentire bene. Contemporaneamente accendo un incenso, un palo santo o un mazzo di salvia bianca essiccata che con il loro odore sembrano “cancellare l’aria” della casa e portarla fuori. Il leggero profumo che resta anche dopo aver chiuso le finestre mi fa sentire in un ambiente improvvisamente nuovo, un po’ come quando alla fine di una lunga sessione di riordino avete la sensazione di abitare in un’altra casa, molto più bella di quella di prima. Adottare queste abitudini mi ha fatto capire, nel tempo, l’importanza di mantenere pulito e in ordine l’ambiente in cui viviamo. Non parlo di un ordine perfetto e di una attenzione frustrante all’igiene ma di piccole cure costanti per il “nostro posto”, di evitare la trascuratezza e l’approssimazione, che ci fanno credere di poter sempre rimandare la cura per ciò che ci riguarda in nome di qualcos’altro più importante. Vivere in uno spazio pulito e ordinato significa avere intorno a noi il riflesso tangibile della nostra cura, del fatto che noi siamo capaci di tale cura perché “avere cura” è nella nostra natura umana e la nostra cura è, innanzitutto, in dotazione a noi stessi, per noi stessi.
    La cura include ovviamente anche il nostro corpo fisico, in quanto cura della sua bellezza e della sua igiene. Ricordiamoci anche che esiste l’espressione “igiene del sonno”: il sonno è pulizia. Un buon sonno ci libera della stanchezza, delle scorie fisiche ed emotive che naturalmente accumuliamo da svegli. Probabilmente, sarebbe esasperante e forzosamente ideologico pensare di praticare un livello di cura così sofisticato costantemente, né dobbiamo stressarci ponendoci obiettivi che assomigliano a un carcere a vita; però possiamo cominciare a praticare questa cura in occasione della Luna Nuova, lasciando che sia il nostro benessere a guidarci lentamente. Non immaginatemi come una ragazza con la casa sempre in ordine, il lavello senza piatti da lavare e otto ore di sonno tutte le notti! Immaginatemi pure, tuttavia, come una ragazza che ha ben chiaro che il benessere è soprattutto questo e che procede verso questo tipo di abitudini, con alti e bassi ma con una buona costanza di fondo.
    Possiedo dei minerali e delle pietre dure, sotto forma di gioielli o di soprammobili, che hanno dei significati e che purifico durante la Luna Nuova, mettendoli a contatto con la terra delle piante. Sono pietre che ho portato con me, nella mia quotidianità delle ultime settimane e concedo ai miei oggetti, come a me stessa, un giorno di ricarica, di riposo e di pulizia.
    Mi impegno ad alimentarmi intuitivamente, cioè rispettando la mia fame e i miei desideri, mantenendo però delle porzioni giuste e ricordandomi che non devo avere fretta mentre mangio. Non importa se non ci riesco sempre, perché nemmeno le macchine sono infallibili e io non ambisco certo a essere una macchina. Una macchina conosce solo il lavoro che deve compiere e nessuna forma di gratificazione e di piacere. No, grazie: le cose da fare sono spesso faticose e stressanti anche con gli spazi di rigenerazione e di affettività che la mia natura umana mi consente.

    Immersi in tanta cura, vi accorgerete di come è facile sentire affiorare i vostri reali desideri. È in questa ritualità che inizierete a sentire quali nuove intenzioni, se ne avete, volete allineare alla Luna Nuova in corso. Prendendovi cura del vostro terreno materiale e spirituale, diventerà più facile ascoltarvi e sentire qual è il seme che vi interessa davvero piantare e far crescere con questo nuovo ciclo. La cura abbassa il volume delle preoccupazioni, delle pressioni esterne e di tutte le cose che inevitabilmente ci si appiccicano addosso vivendo troppo di corsa (che sembra essere, purtroppo, ormai l’unico modo in cui ci è consentito vivere senza diventare degli emarginati sociali). Noterete che ci sono cicli in cui non si tratta tanto di iniziare qualcosa di nuovo ma di riprendere qualcosa che conosciamo già e trattarla in maniera diversa: un progetto, un’attività, una relazione, un’abitudine che richiede di essere modificata affinché scorra meglio nella nostra vita. Inutile specificarlo (ma lo farò lo stesso): anche l’adozione di una prospettiva nuova o di un nuovo modo di comportarsi, seppur rispetto a qualcosa di già esistente, hanno eccome tutta la dignità del nuovo seme messo a dormire sotto la terra dalle nostre umane, amorevoli mani.
    Infine, non dimenticate di accendere una candela, la sera: come ogni fase di scarto fra una fine e un inizio, è una notte senza luce. Ma soltanto se noi non ne accendiamo una.

     

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  • Malinconica Maestà: un racconto

    Malinconica Maestà: un racconto

    La mattina dopo ha aperto gli occhi e la prima cosa che ha pensato è stata: “questo è forse il mio destino? Oppure sono io a scegliere inconsciamente di ripetere sempre lo stesso schema?”
    Poco dopo era in piedi, a fissare i tetti delle case di fronte, mentre giocava con il sorso d’acqua tenendolo in bocca.
    “Ma poi, qual è la differenza fra il destino e le cose della vita che si ripetono uguali, tantissime volte?”
    Un gabbiano si era posato sul davanzale del terrazzo vicino e si erano guardati intensamente, finché non era volato via.
    “Perché mi faccio queste domande di prima mattina, invece di piangere come una persona normale…”
    L’occhio poi le era caduto sui regali che aveva scartato prima del disastro: “a chi potrebbero piacere?”, perché lei aveva questa teoria che se uno che dice di amarti ti fa dei regali e poi scopri che ti tradisce, per esorcizzare il male devi donare i suoi regali a qualcuno che invece ti ama per davvero (lo vedete? era successo talmente tante volte che aveva persino avuto il tempo di elaborare un protocollo specifico).


    La moka era un gesto di cura imprescindibile anche in quelle condizioni. Dopo averla messa sul fuoco, si era seduta sul divano, da dove poteva osservare il riflesso della pianta di spatifillo nel vetro della porta-finestra. “Ma è morta?” si chiese, continuando a osservarla nel riflesso e accorgendosi che non c’era più neanche un fiore e le foglie pendevano verso il pavimento. Poi incrociò di sguincio il suo riflesso e iniziò a confrontarlo ossessivamente con quello dello spatifillo.
    “Forse è come quella storia dei cani che somigliano ai padroni”, si disse, irritandosi immediatamente.
    “Perché non la smetto di fare la stupida e chiamo qualcuno, una persona amica, prima che mi sgridi dicendomi che quando sto male devo chiamarla invece di chiudermi?”
    Caffè.
    “Se chiamassi qualcuno, cosa racconterei esattamente?”
    La parte in cui lui aveva iniziato a farfugliare scemenze l’aveva saltata anche in tempo reale. Quando impari a setacciare la verità separandola dalle giustificazioni nevrotiche, ti risparmi di sentire tutte quelle frasi dette con leggerezza che feriscono pesantemente. Se evitare di trovarsi costantemente di fronte al feretro dei suoi amori non era possibile, aveva quantomeno trovato il modo di evitare di sperperare energie per trasportare una bara più pesante del morto che c’era dentro.
    Bisogna avere stile anche nei momenti peggiori…”
    Dice così una delle sue canzoni preferite, anche se non era completamente sicura che avere stile significasse simulare un sofisticato contegno e intrattenersi con un vortice di pensieri per non piangere con la faccia in un cuscino del divano.


    “Non ci parleremo mai più.”
    Sapeva riconoscere se a parlare era la coscienza profonda di una persona, quella parte che capisce le cose sempre con un po’ di anticipo rispetto a noi. E quando era quella, che parlava, lei sapeva che non ci si poteva coprire le orecchie. Bisognava accettare quello che lei diceva. Chinare il capo e non portare rancore. Lasciare andare senza avere paura. Ecco, questo invece poteva chiamarlo senza dubbio “avere stile”.
    Doveva, insomma, cercare di non precipitare gli eventi: espressione particolarmente cara alla madre e che, in effetti, lei considerava il tentativo di impartirle un’educazione più riuscito di tutta la sua carriera di genitore. Quell’espressione funzionava sempre, quando aveva bisogno di calmarsi. Sua madre l’aveva usata per la prima volta quando l’aveva trovata a muggire in cucina con una manciata di strappi di carta assorbente in una mano, al buio, perché aveva scoperto che il suo primo ragazzo era il ragazzo di un numero inaspettato di sue compagne di scuola. Poi giurerebbe di non averla più ascoltata per anni. Infine, da giovane adulta, in quei rari momenti in cui era talmente disperata da telefonare alla madre pur di sfogarsi, era diventato un monito immancabile.
    Deve pensare che la figlia sia una precipitatrice di eventi professionista.


    Non precipitare gli eventi, dunque, come prima regola. Per esempio, evitando di convincersi che sarebbe morta restando per sempre raggiunta da nessuno e idealizzata da tutti, giusto il tempo di rovistare nel suo personale cesto di caramelle di cortesia. Le caramelle di cortesia era come immaginava la caratteristica che tutti le lodavano, cioè quella di saper confortare il prossimo offrendo le parole con le quali si affannava a confortare sé stessa. Questa specie di frasario di emergenza era ogni volta la sua ultima speranza prima di sentire il dottore parlare di depressione maggiore, perciò era stato perfezionato al massimo negli anni (trentadue) e gli altri ne rimanevano, a ragione, incantati. Non era scontato tenere a mente che l’incanto non è un sentimento.
    Tenerlo a mente però la riavvicinava pericolosamente alla depressione maggiore, perciò aveva deciso di fare un po’ e un po’: un po’ sapeva, un po’ dimenticava.

    Una volta si era convinta ad andare a una festa di compleanno, anche se aveva da poco troncato la relazione con l’uomo con cui conviveva e che aveva iniziato a dare spettacolo su tutti i social network esistenti nel tentativo di suscitare la reazione di lei, che era molto riservata e detestava vedere resa pubblica la sua vita personale. La festeggiata aveva insistito coi soliti discorsi sull’importanza di non chiudersi in casa, su quanto ci tenesse alla sua presenza e sugli amici che doveva assolutamente presentarle perché “non so se a te piaceranno ma tu a loro piacerai di sicuro”. Commovente la stima di cui era circondata, nonostante fosse evidente che, esclusa quella volta in cui aveva preso l’iniziativa di buttare il mascara Dior di sua sorella nella spazzatura perché “marrone ha senso solo se sei di Reykjavik”, non ne aveva più azzeccata una nella vita.
    Una volta arrivata a casa della sua amica, lei era andata ad accoglierla e, dopo averle preso il cappotto per portarlo nella stanza adibita a guardaroba, le aveva detto: “Sono proprio contenta che sei venuta. Te la ricordi Lavinia, mia cugina? Sta passando un periodo un po’ così, sai. Colleziona un caso umano dietro l’altro e si sta convincendo di essere una fallita. Non è che magari ci puoi parlare un po’ tu? Eh?, che tu sei brava. Senza farti accorgere che te l’ho detto, mi raccomando”.


    Lavinia fumava seduta in giardino ed era bastato chiederle se avesse da accendere perché si aprisse in tutto il suo sconforto. L’ultima storia l’aveva avuta con un ragazzo un po’ più giovane, che aveva trovato lavoro a Lisbona e poco dopo essersi trasferito l’aveva lasciata. Le aveva confessato che non aveva voglia di uscire di casa e che era lì solo per fare contenta sua cugina, che non si sentiva bene neanche con se stessa e, nel dirlo, si era chiusa nel cardigan nero che la copriva tutta come un saio. Mentre parlavano, pensò che Lavinia si era presentata alla festa vestita come sua nonna per lo stesso motivo per cui lei si era messa una sottoveste bianca striminzita e cortissima, che ondeggiava seguendo ogni movimento delle natiche e lasciava intravedere i capezzoli induriti dal freddo: per dimostrare che tanto era tutto inutile. Nessuno le avrebbe mai viste davvero, allora tanto valeva sbrigarsi e smascherarli tutti: tu no, tu neanche, nemmeno tu.
    “Sono invisibile”.


    Lavinia scuoteva la testa con un sorriso di circostanza, aveva due occhi scuri a mandorla che le brillavano fortissimo e lei pensò che doveva essere una ragazza che aveva pianto molto negli ultimi giorni e che, forse, piangendo si era conquistata uno sguardo limpido, che non aveva bisogno di nascondersi con le parole. Non credeva che Lavinia pensasse di essere bella dopo quella festa, solo perché aveva chiacchierato con una che per non cedere alla disperazione se la porta addosso come un boa di struzzo. Sua cugina era troppo naïf.
    Il vero affare, invece, era ammettere quanto in realtà ci si sentisse brutte: probabilmente sarebbero state entrambe molto meno sole. Ma lei non ci provava neanche. Non ne era proprio capace, ormai lo sapeva. Mica perché era orgogliosa: se fosse stata orgogliosa non avrebbe guardato in faccia così crudemente la sua stessa disperazione. Però lo faceva con un involontario contegno che non la rendeva raggiungibile.
    Lei era, indubbiamente, triste; ma aveva una specie di vocazione al trionfo. Sentiva un richiamo sensualissimo dentro sé stessa che la incitava a vivere le sue sofferenze con fierezza. Forse era quell’aria di malinconica maestà che portava gli amici a considerarla principalmente come un punto di riferimento e non come una Lavinia che, invece, sapeva disfarsi con leggerezza della sua miseria.

    Tornando a quella volta, era solo una volta come tante altre volte della sua vita, quindi. Sapeva già che non aveva senso arrabbiarsi, mettere un disco di Bon Iver, sentirsi sgradevole e incapace, mangiare un pacco di canestrelli, comprare un biglietto del treno per andare dai suoi genitori a riflettere nell’agio della sua cameretta con il poster di Kurt Cobain che, ormai, sospettava avesse imparato cos’era che sbagliava al posto suo. Fece comunque tutte queste cose che non avevano senso. Neanche comportarsi come se fosse stato davvero possibile declassare quel senso di solitudine esistenziale a un acciacco da ceto medio, tipo la cervicale, tanto, aveva senso. La tentazione di privare il mondo delle uniche cose che di lei sembrava apprezzare era forte ma anch’essa inutile, perché le sembrava di morire di fame a chiudersi così tanto nella propria casa e nei propri silenzi, come se smettesse davvero di esistere. Se voleva sopravvivere, doveva lasciare che il mondo che tanto si diceva di odiare le desse di nuovo da mangiare: con le feste, le telefonate, i viaggi, i concerti, le tavolate ma, soprattutto, con gli altri. Gli altri tornavano sempre. Liberarsene era impossibile. La corteggiavano con ingordigia. Insistevano senza pudore. Facevano domande. Facevano inviti. Non volevano solo una cosa.
    A lei non capitava mai che le si chiedesse una cosa soltanto, forse perché a nessuno capitano mai le cose che gli verrebbero meglio. Da lei volevano tutto. Soprattutto, volevano le sue parole e poi sputare i sentimenti che c’erano dentro, come si fa con il nocciolo dei frutti. Lo facevano apposta. In quel modo, le chiedevano di tornare a dare. Senza sapere cosa sarebbe successo dopo che avrebbero preso. Lei provava a nascondersi, ci provava sempre. Cercava di individuare il lato di sé che meno potesse attirare l’attenzione altrui o suscitare qualsiasi tipo di desiderio e lo offriva, aspettandosi una ritirata che non arrivava mai.
    Si potrebbe immaginare che suscitasse chissà quanta invidia. In realtà, trasudava un tale disagio che nessuno avrebbe potuto desiderare di essere al suo posto. Si era detta molte volte che non doveva scambiare le conseguenze delle sue malìe involontarie sugli altri per affetto – né per qualunque altra cosa che somigliasse a un sentimento. Ma erano troppi e troppo bravi a desiderarla. Gli altri sono dei tiranni, decidono quando esisti e in che modo.

    Quando fu di ritorno dal fine settimana a casa dei suoi genitori, prima ancora di disfare la valigia iniziò a vagare per il suo appartamento, alla ricerca di tracce della presenza di lui da cancellare pazientemente. Lavò i piatti in cui avevano mangiato l’ultima volta che si erano visti e il bicchiere dal quale lui aveva bevuto, che era rimasto sul tavolino di vetro di fronte il televisore con ancora dell’acqua dentro; raccolse dal parquet due pezzetti di patatine dell’aperitivo; prese il biglietto della metro che lui aveva preso per raggiungerla e che aveva accartocciato e lasciato sul tavolo da pranzo, accanto a una bottiglia d’acqua rimasta aperta, e lo buttò nella spazzatura.
    Notò il cuscino del divano rosso che lui aveva spostato sull’altro divano, quello bianco; ci aveva poggiato la testa e poi si era addormentato, mentre lei gli leggeva “Lettera al padre” di Kafka. Lo prese fra le braccia e lo agitò per togliere la forma del suo corpo, poi lo rimise al suo posto.
    Infine andò in bagno, con l’intenzione di mettere in lavatrice l’asciugamano che gli aveva dato per fare la doccia.
    Lo trovò appallottolato per terra, in un angolo fra il bidet e la porta d’ingresso. Si chinò per raccoglierlo e notò con sorpresa che nelle pieghe più interne era ancora umido. Lo sollevò delicatamente come fosse una specie di sindone, tenendolo fra i palmi delle mani bene aperti. Se lo portò al naso. Aveva quell’odore che una sua zia chiamava “d’acqua morta”.
    Tutte le estati, la famiglia di sua madre passava le vacanze in una villa sulla spiaggia che avevano acquistato i suoi nonni. Quando lei tornava dal mare, sua zia si raccomandava che stendesse immediatamente l’asciugamano, “altrimenti poi puzza d’acqua morta!”, ripeteva.
    Era quell’odore che fa l’acqua quando, invece di evaporare, impregna lentamente i tessuti marcendovi all’interno, facendo sì che questi sembrino asciutti soltanto finché non vengono toccati. Ora pensava alla sé adolescente e abbronzata, che saliva le scale del portico con l’asciugamano salato nella borsa, poche ferite, infinite fantasie, una zia con la molletta per il bucato in bocca.
    Lasciò cadere la testa fra le mani inabissando il viso nelle trame di quella bizzarra reliquia e una volta nascosta lì dentro, finalmente, pianse.    

     

     

  • Vivere come

    Vivere come

    vivere come
    il chicco di grano dentro al mortaio,
    colpita a casaccio
    dal pestello di dio

    le costole, impari
    sono le prime a spezzarsi,
    come corteccia calpestata nel bosco.

    la pelle resta intera
    (dio ci accartoccia dall’interno)
    e capisci
    che è solo questo il dolore –
    nient’altro –
    una voragine che straripa di niente.

     

     

  • Credere o non credere?

    Credere o non credere?

    Quando si parla di valori assoluti, la dicotomia credere/non credere è priva di senso, poiché è nella natura di tali valori inscriversi nelle azioni dell’uomo: nel momento in cui vengono agiti, allora essi iniziano a esistere.
    Si crede o non si crede in entità che trascendono l’essere umano, non in manifestazioni tangibili della sua natura profonda, che dipendono da essa e che nascono dentro di essa.
    Allora dovremmo rieducarci, imparare non a dire “credo/non credo” ma, ad esempio, “mi aspetto/non mi aspetto”. Mi aspetto la giustizia? Mi aspetto la sincerità? Sono possibili l’amore, l’amicizia? Oppure no?

    E ricordarsi, prima di dare una risposta, che la giustizia già esiste se io sono giusto e che l’amore già esiste se io amo; e non esiste se io non sono giusto, e non esiste se io non amo. Poiché tutti i valori assoluti dell’uomo non sono altro che questo: atti.
    Come tutti gli altri atti, non sono eterni, né sono infiniti e, ad azione terminata, cessano subito di esistere; e possono essere infinite volte rinnovati, attraverso moltissime ripetizioni; e possono essere infinite volte smentiti, ogni volta che non vengono agiti.

    Tutte quelle belle cose che temiamo non esistano non dipendono da un Sommo Creatore divino o da un sapere inafferrabile: dipendono da quello che facciamo.
    La prossima volta in cui ritroviamo svegli a notte fonda con un nodo in gola, a chiederci se le cose belle esistano davvero, prima di perderci nei nostri pensieri promettiamoci di farle.
    Allora esisteranno.

     

     

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