Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

Il gioco durante i conflitti – Se le spie sono gli scacchi

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Lauren Bacall e Humphrey Bogart (da Chess and Hollywood di Edward Winter)

(Claudio Mori)
Soldati, accampamenti, prigionieri. Nemici che avanzano. Il rumore metallico delle armi.
Dell’acciaio di un’armatura che viene scardinata, di una freccia che va a bersaglio, di una pallottola che stupisce prima di rivelare il danno fatale. E chi sopravvive si ritrova in un mondo completamente diverso.

Quando nascono, gli scacchi nascono come gioco di guerra, in India. Nascono già immortali. Fanti, cavalli, carri, elefanti. E sotto il regno di Harsha, re di Kanauj sul Gange (dal 606 al 647), “solo le api litigano nel raccogliere la rugiada […], solo la scacchiera indica la posizione delle armate” (Bana, Harshacharita, 625 d.C.).

Come tali gli scacchi invadono il mondo islamico, prima. E nella lunga marcia di conquista della Spagna (711 – 732), poi, tra l’ardore del sole e il fango delle piogge, il morso di serpenti e le punture di mosche, probabilmente qualche califfo pioniere avrà portato in una bisaccia piccoli oggetti incomprensibili al nemico, che chiamava shah. Gli arabi vennero fermati a Poitiers nel 750 ma gli shah si presero lemme lemme la rivincita e continuarono le loro battaglie in miniatura assoggettando implacabilmente la Francia e il resto d’Europa. Al punto che a Carlo Magno, con un triplo salto all’indietro nel tempo ad opera di un ardito poeta medievale, durante la riconquista della Spagna (778) non gli sarebbe sembrata un’allucinazione se avesse osservato “su bianchi drappi siedono i cavalieri, per divagarsi giocano coi tavolieri, e con gli scacchi i più saggi e i vecchi, tirano di scherma gli agili baccellieri. Sotto un gran pino, accanto ad un roseto, un faldistorio d’oro schietto hanno posato, qui siede il re che la dolce Francia tiene” (La canzone di Orlando, a cura di M. Bensi, Milano 1985). Tanto il gioco aveva ormai conquistato gli imperi.

Seconda guerra mondiale, soldati russi giocano a scacchi (Foto Sergej Korshunov /MAMM/MDF)

C’è qualcosa di bizzarro nel simulare la guerra su una scacchiera sotto i colpi di palle di fuoco scagliate da una catapulta o di raffiche di mitragliatrice, prigionieri del destino, presi tra un gioco tragicamente serio e uno seducentemente astratto.

Le strategie dei generali non sono quelle di pezzi bianchi e neri, anche se per entrambi la vittoria può esser effimera come un castello di sabbia, come le promesse d’amore dal finestrino di un treno che parte per il fronte.

Si realizzano scacchi e si gioca anche quando si è cacciati in tuguri chiusi da sbarre di ferro o a marcire in carcasse di navi inglesi, come i marinai francesi durante le guerre napoleoniche (Thomas Thomsen, Scacchi del campo di prigionia, CCI Altenburg 2016). Tuttavia, pure nei secoli precedenti i prigionieri non rinunciarono a fabbricare scacchi, per quanto miseri, spesso solo un’idea rispetto ai pezzi con i quali avevano giocato fino al giorno prima di essere incatenati.

Persino l’intelligence gioca la sua sporca guerra con re e fanti. Si studia il nemico, l’avversario, le sue reazioni, le sue partite precedenti. Come Alekhine con Capablanca. La finzione e la realtà si confondono. Napoleone prigioniero nell’isola di Sant’Elena (1815 – 1821) ricevette in dono un set in avorio e madreperla nel quale erano celati messaggi per la sua liberazione. Napoleone non li lesse in quanto l’ufficiale che doveva consegnargli gli scacchi morì durante il viaggio. Il segreto rimarrà tale fino al 1933 quando a un’esposizione di cimeli napoleonici ad Austerlitz fu svelato.

Durante la Grande Guerra un’attrice francese al soldo dei servizi segreti tedeschi, spacciandosi per un’appassionata del gioco, riuscì a trasmettere attraverso un’ambascia neutrale e un circolo di scacchi un problema che in realtà era un cifrario illustrato che rappresentava la posizione delle truppe di riserva francesi ammassate dietro le linee. L’attrice aveva ottenuto le informazioni facendo visita in ospedale a un pilota tedesco abbattuto dietro le linee nemiche. Le 64 caselle della scacchiera corrispondevano a un rilevamento del territorio di un’area strategicamente importante. I pezzi indicavano l’esatta dislocazione delle forze: Pedoni (Fanteria), Regine (Artiglieria leggera), Re (Artiglieria pesante), Alfieri (Divisione aerea), Torri (Quartier generali militari). Ma i servizi francesi tenevano sotto controllo la seducente spia e recuperarono il documento. (Melville Davisson Post, German War Ciphers, Everybody’s Magazine, n°6, giugno 1918).

Messaggio cifrato (da Everybody’s Magazine)

Gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale il 6 aprile del 1917 a fianco della Triplice Intesa: Francia, Inghilterra, Russia.

Che fine abbia fatto l’epigona dell’agente H21 Mata Hari, portata davanti al plotone d’esecuzione francese l’anno prima per doppiogioco con i tedeschi, il giornalista americano dell’Everybody’s non lo scrive. Né ella ispirò film come le più celebri sue colleghe con licenza d’uccidere. Come Christine Granville (Krystyna Skarbek), spia polacca al servizio della Corona che Ian Fleming, padre di 007, prese a modello per la sua prima Bond girl nel film Casino Royal (1953).

Intanto, al fronte, cartucce e proiettili fornivano materiale per la costruzione di set sia tra i francesi sia tra gli austriaci. Base solida e tonda alla sommità della quale apportare le modifiche o le integrazioni necessarie per rendere riconoscibili i sei pezzi secondo l’abilità del costruttore.

Set austriaco (sopra) e francese (sotto) 1914-1918 (da Liddell, Chessmen, pag.74)

Da vecchie scatole abbandonate in soffitta escono incubi in bianco e nero. Soldati che giocano a scacchi in trincee dove le pareti sembrano precipitarti addosso, in baracche con odore di stantio, di abiti bagnati, e con appesi alle pareti calendari di ragazze, capelli lunghi, labbra rosse, e biancheria intima. Fumano. Sorridono. Bevono, sul palcoscenico della gioventù. Qualunque tipo di anestesia pur di fare passare quelle ore, quegli anni.

Con l’invasione della Polonia da parte della Germania il primo settembre 1939 iniziò la Seconda guerra mondiale.

Dai campi di battaglia si giocava anche per corrispondenza. Fin dal 1928 un gruppetto di scacchisti tedeschi aveva dato vita all’Internationaler Fernschachbund, la prima lega internazionale di scacchi per corrispondenza.

Lauren Bacall e Humphrey Bogart (da Chess and Hollywood di Edward Winter)

Sull’American Chess Bulletin, gennaio-febbraio 1943, pagina 14, si legge un trafiletto tratto dal New York Post: “Humphrey Bogart ha dato vita a un’idea che spera possa essere ampiamente accettata. La star della Warner sta giocando partite di scacchi a distanza per posta con i ragazzi del servizio militare. Tutto è iniziato quando un soldato semplice, allora di stanza in questo Paese, ha visitato il set di Casablanca, ancora all’Hollywood Theatre, dove Bogart stava giocando a scacchi con Sydney Greenstreet tra una scena e l’altra. Il soldato si offrì di sfidare Bogart e nacque una forte rivalità. Quando il soldato fu trasferito nel Pacifico meridionale, continuò a giocare per posta. Da quando ha iniziato la partita con il soldato, Bogart ha sfidato per posta diversi suoi amici, giocando contemporaneamente”.

Registro postale Usa per annotare le partite, 1941-1945 (da Collezione World Chess Hall of Fame)

Tutto questo finirà nello stesso anno, quando i censori statunitensi e canadesi iniziarono a prendere di mira i giochi di scacchi postali, in particolare quelli transatlantici. La censura analizzava il contenuto delle lettere di discussione scacchistica per scoprire se tra i simboli dei pezzi e tra le mosse si nascondessero messaggi cifrati di spie nemiche. Lo stesso fecero i giapponesi requisendo ai prigionieri i libri di scacchi.

Non avevano tutti i torti.

Il castello medievale di Colditz, in Sassonia, incuteva timore solo a guardarlo dai piedi della collina, minaccioso com’era. Ancora peggio una volta dentro, chiusi i battenti alle spalle, quando fu trasformato dal ’39 al ‘45 in un campo di massima sicurezza per ufficiali alleati. Quel fossato con alte mura sopra una scarpata, quelle 18 torri equipaggiate con mitragliatrici, tutte quelle guardie. Oflag IV C, era stato chiamato. Disarmante. Impossibile uscirne.

Ma l’azienda inglese Adam Brothers & Shardlow Ltd. aveva prodotto nel 1941 un tubo in cartone chiuso da un coperchio. L’etichetta riportava: “Scacchi Ajax. Un sostituto di guerra per gli uomini in servizio militare”. Sedici dischi neri in cartone pressato e sedici bianchi di 18 mm. disegnati su un lato con l’immagine di un pezzo di scacchi tradizionali. Il kit era stato progettato dall’M19, il dipartimento del Ministero della Guerra britannico dedicato ad aiutare a fuggire i prigionieri di guerra. Anche agli internati a Colditz arrivarono questi strani tubi da finti indirizzi e false organizzazioni londinesi. Al loro interno, dentro i dischi di cartone, mappe, compassi, istruzioni e altri strumenti utili per la fuga.

La scritta stessa sul tubo era un codice. Se, ad esempio, vi era la frase Patent applied for (Brevetto richiesto) seguita da un grosso punto, significava che il kit conteneva aiuti per la fuga. Una dedica scritta a mano, Many happy hours, all my love Dorothy xxx (molte felici ore, tutto il mio amore, Dorothy, baci), poteva alludere al posto dov’era nascosto un compasso. Mappe di seta si sfilavano dal tubo. E nell’uso del nome Ajax, Aiace, c’era pure lo sfottimento, la sfida nei confronti del nemico. Alludeva chiaramente alle parole di Lacoonte quando volle dissuadere i troiani dall’accogliere il cavallo di legno lasciato dai greci: Temo i greci anche quando portano doni (Virgilio, Eneide, II, 49).

Il kit Ajax Chessmen per prigionieri inglesi, 1941 (da www.chesslongo.com)

Grazie al kit Ajax si stimò fossero riusciti a fuggire attraverso i più rocamboleschi sistemi 36 prigionieri, tutti ufficiali alleati ripetutamente evasi da altre prigioni. (Clayton Hutton, The Remarkable Story Of Escape Aids, Their Invention, Production – And the Sequel, Max Parrish, Londra 1960). Il regista Guy Hamilton ne fece un film nel 1955, The Colditz story, dal successo effimero.

Anche la Jacques & Sons, produttrice degli Staunton, riscostruita dopo il bombardamento del 1940 in cui andarono distrutti gran parte dei disegni dei set, fu contattata da servizi segreti per avere suggerimenti su come celare messaggi nei pacchi con i giochi inviati dalla Croce Rossa ai militari.

La Convenzione di Ginevra aveva stabilito che “i belligeranti devono incoraggiare i diversivi intellettuali e gli sport organizzati dai prigionieri di guerra”. E di nuovo gli scacchi avevano ripreso il loro posto negli zaini, nei letti d’ospedale, nei pacchi accompagnati dai messaggi di famigliari, di ragazze in attesa di avvenire, di ferventi intermediari ciascuno del proprio dio.

Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, l’8 dicembre 1941 gli Stati Uniti entrarono di nuovo in guerra. Le Croci Rosse americane e inglesi invitarono organizzazioni benefiche e parenti di prigionieri di guerra, o di feriti negli ospedali, a mandare loro pacchi contenenti cibo, vestiti, prodotti per l’igiene, ma anche oggetti per il tempo libero come libri, palloni, carte, set di dama e di scacchi. Stessa cosa fecero molte grandi compagnie, come le americane Drueke Company, Coca-Cola, Geep.

I tedeschi si erano fatti i loro scacchi, Deutsche Bundesform Schach, per non usare gli inglesi Staunton. Gli italiani a ruota avevano dato vita ai pezzi Italia, pubblicizzandoli come gli “scacchi italiani per scacchisti italiani” (Cassano R., Inedite testimonianze sugli scacchi “Italia”, Relazione Congresso CCI-Italia, Como 2015).

Set in viti d’ottone di bombe del Sergente W. F. Damant, 1943 (da www.chesslongo.com)

Ma nei vari teatri di battaglia o di prigionia spesso bisognava arrangiarsi. Come fece il sergente W. F. Damant del 419° Squadrone della Royal Canadian Airforce di base a Mildenhall (Suffolk, Inghilterra), che negli intervalli delle missioni sul suo caccia si costruì un set con piccole viti di ottone scartate da bombe a gas modificate in bombe incendiarie.

Oppure come fece un ignoto soldato italiano che “Servendosi del manico di un cucchiaio martellato e temperato con una pietra” intagliò un piccolo set di scacchi in legno di betulla, lo colorò prendendo dall’infermeria del blu di metilene e del chinino da diluire, per donarlo successivamente ad un altro soldato italiano, Ruggero Y. Quintavalle, che “il 25 settembre 1945, ad armistizio firmato”, lasciando il campo di prigionia di Pkta-Aral, nel Kasakstan, in Asia centrale, li portò con sé in Italia scrivendone nel suo toccante libro “Un soldato racconta”, Edizioni Athena 1960 (Massimiliano De Angelis, Scacchi dal campo di concentramento, L’Italia Scacchistica, Dicembre 2003, N.1165, pp.420-421).

In una foto dei primi anni ’40 quattro soldati che avevano scoperto da poco che esiste una cosa come la morte guardano la macchina fotografica. Sembrano ragazzi che potresti incontrare mentre chiacchierano attorno a un tavolo di un bar di periferia. Dietro la tenda mimetica alle loro spalle ci sono il deserto tunisino e i cannoni inglesi. Tre hanno volti perplessi. Solo il primo a sinistra, con il berretto in testa, sorride, il sogno sulle labbra. Si chiama Alberto Burri (1915 – 1995), non ancora uno dei più influenti artisti dell XX secolo. Sarà catturato dagli inglesi l’8 maggio 1943 a La Marsa, Tunisia, e, passato agli statunitensi, recluso nel campo di concentramento di Hereford (Texas), il Fascists’ Criminal Camp. Violenze e patimenti. Nonostante ciò è lì che Giuseppe Berto riuscì a scrivere Il cielo è rosso.

E lì, con una lama di rasoio acquistata alla mensa del campo e quattro assi di legno, Burri costruì una scacchiera alla cui base erano scolpite tre maschere sopra serpenti e un uccello con le ali spiegate. Poi l’intaglio dei pezzi. Re e regine totemici, alfieri come serpenti arrotolati, cavalli a forma di coccodrilli con le code rivolte in aria, torri come palme e una fila di tartarughe per pedoni. Il set venne esposto in una mostra (Art exhibition of the Hereford prisoners) organizzata nell’agosto 1945 in una caserma degli ufficiali del campo. Quando fu rimpatriato in Italia nel 1946 Burri portò con sé la scacchiera. Il set è stato venduto per 252 mila sterline all’Asta Phillips, Londra, il 14 ottobre 2021.

Set di scacchi di Alberto Burri realizzati in prigionia, 1945 (da www.chesslongo.com)

Il primo evento sportivo dopo la fine del conflitto fu il Radio chess match tra Usa e Urss nel settembre 1945 vinto dall’Unione Sovietica. Ci si preparava alla Guerra Fredda.


 

Claudio Mori, giornalista

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1 thought on “Il gioco durante i conflitti – Se le spie sono gli scacchi

  1. Buenos días !
    Muy buen artículo con la aportacione de las piezas de ajedrez. Mi felicitación !!

    José María Gutiérrez Dopino

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