L’identità di un territorio. Per non farla facile

Il caos primigenio da cui ebbe origine il mondo. Tableaux du temple des muses – tirez du cabinet de feu mr. Favereau…gravez en tailles-douces par les meilleurs maistres de son temps, pour representer les vertus and les vices, sur les plus (14561047708).jpg Creato: 1 gennaio 1676
Di Internet Archive Book Images – No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43779382

Origine, identità e qualità. Tutti termini che rimandano inequivocabilmente ad archetipi primordiali e ipotesi indiscusse di natura divina. La formula peggiore, dunque, sarebbe quella di fornire un prontuario di ricette “apri e gusta” dove inserire qualche vecchia foto di paese o di colline, due canzoni popolari, tre balli, qualche parola in dialetto, un bagnet vèrd per il bollito, il tutto sapientemente diluito con un buon bicchiere di grignolino (vino che amo molto). Perché un’identità territoriale costruita a tavolino, come se fosse una sommatoria e combinatoria di elementi presi qua e là da un baule del passato a cui si aggiungono coriandoli di modernità tecnologizzata, sa di parrucchino posticcio: basta un colpo di vento o uno starnuto ben dato e vola via. E poi sta male. Il mondo ne è pieno: ogni territorio, ogni luogo ne produce qualcuna: vuoi per una pubblicità muraria o per via giornalistica, vuoi per qualche redazionale, vuoi per qualche video più o meno commerciale, vuoi per qualche sito internet o blog in attesa di commenti che non verranno mai.

Ed è da qui che vorrei partire: un’identità, qualunque essa sia, è un fenomeno storico e negoziale. Implacabilmente plurale. Il primo ancoraggio ideale ancorché semantico del concetto “identità” si usa farlo con un’altra parola anch’essa utilizzata sino allo stordimento, per non dire alla nausea: “tradizione”. Nel suo significato etimologico della parola “tradizione” il vocabolario dice:

tradizióne s. f. [dal lat. traditio -onis, propr. «consegna, trasmissione», der. di tradĕre «consegnare»; nel lat. tardo anche «tradimento», dapprima con riferimento alla consegna dei libri sacri (v. traditore, in etim.), poi con uso assol.: di qui il raro sign.

Sorpresa: tradizione e tradimento, che nel nostro immaginario sono due parole molto distanti fra loro, derivano entrambe dal verbo latino “tradĕre”, letteralmente “consegnare”.

Nel primo caso, dunque, la consegna riguarda tutto ciò che passa dalle mani di una generazione a quelle di un’altra, per salvaguardarlo dallo scorrere del tempo; nel secondo caso, invece, la consegna riguarda qualcosa che dovrebbe essere protetto. Il verbo tradire (il latino tradĕre), porta con sé il significato di “consegnare” un ordine precostituito, un sistema preesistente, “in nome di una nuova consegna, di un nuovo ordine, di un nuovo sistema. Esso sancisce dunque il dramma del passaggio dal vecchio al nuovo e quindi in sostanza l’eterno dramma del processo evolutivo. Il tradimento ha dunque sempre a che fare con l’abbandono da parte di un sistema di precedenti regole o configurazioni a favore della novità”.

Non esistono quindi delle identità identiche a sé che si ergono immutabili a discapito di quanto muta incessantemente. Sono genovese di adozione e torinese di nascita. Mio nonno veniva da un paese ai piedi della Langa e dopo l’androne del bollito: Farigliano. L’androne del bollito è Carrù. Se qualcuno mi chiedesse di definire l’identità di quei luoghi, me ne starei zitto per un po’. Dovrei pensarci, insomma. Non sono più i luoghi che lungo i suoi novant’anni di vita conobbe mio nonno, ma non sono più neppure i luoghi di quando ero ragazzo. Troppe, tante cose sono cambiate: le piazze e le strade vuote, i bar, gli sguardi miei e quelli della gente, le parole al vento, i dialetti e le lingue parlate (quante se ne parlano nelle vostre campagne e nelle vostre vigne?), i lavori, i vestiti e i cappelli della domenica, le feste, gli smartphone e potrei continuare. Forse la morfologia del territorio è cambiata meno: qualche casa e qualche parcheggio in più, due villette a schiera qua e là, il Tanaro che si è ripreso le sue rive. Ma io so che non è più quello che avevo vissuto sino a poco tempo fa: non so se sia diventato una grande periferia di un centro urbano di chissà dove, o soltanto una delle tante sedi suburbane all’interno della grande rete delle connessioni informatiche.

Così “origine”, non da meno di “identità”, e forse negli stessi termini, è un concetto che crea qualche problema. Riprendo qui un brano di Foucault: «Perché Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale origine, è tentare di ritrovare “quel che era già”, lo “stesso” d’un immagine esattamente adeguata a sé; è considerare avventizie tutte le peripezie che hanno potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte le maschere, per svelare infine un’identità originaria. Ora, se il genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestare fede alla metafisica, cosa apprende? Che dietro le cose c’è “tutt’altra cosa”: non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee. La ragione? Ma è nata in modo del tutto “ragionevole” – dal caso. L’attaccamento alla verità e il rigore dei metodi scientifici? Dalla passione dei dotti, dal loro odio reciproco, dalle loro discussioni fanatiche e sempre riprese, dal bisogno di prevalere, – armi lentamente forgiate nel corso di lotte personali. E la libertà, sarebbe forse, alla radice dell’uomo, quello che lo lega all’essere e alla verità? Nei fatti, non è che “un’invenzione delle classi dirigenti”. Là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’identità ancora preservata della loro origine, – ma la discordia delle altre cose, il disparato». M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977 (ed. orig. Hommage à J. Hyppolite, Paris 1971), ora in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 45-46.

Dunque nulla da fare? Se sono veri i presupposti e i fondamenti dai quali sono partito, allora sarà necessario che la comunicazione su ciò che l’identità di un territorio significa, o le sue plurali identità, venga descritta ed analizzata per quello che è, sia nelle modalità in cui si dispiega concretamente e sia nelle modalità in cui essa viene rappresentata: servono, dunque, interviste, mappe mentali  che coinvolgano gli abitanti così da evitare una forma di etnicizzazione politica della costruzione identitaria (ad essa contribuiscono le vecchie famiglie, i nuovi nati e i nuovi venuti). La memoria storica, prodotto della ricerca storiografica, che utilizza fonti scritte, orali, materiali e materie di ogni genere e forma si deve intersecare con la memoria individuale e collettiva, con la continua interpretazione e reinterpretazione narrativa di coloro che in quei luoghi dimorano. E poi, dall’altra parte, mappe, carte storiche e tematiche, elaborazioni GIS (Geographic Information System), dati statistici, iconografici e visuali: insomma tutti materiali di indagine quantitativa così come vengono definiti in sociologia.

Ecco che allora, e solo in quel momento, potremmo dire che l’unità del paesaggio è data da uno “spazio dell’azione”, da un “contesto” e da uno “sfondo”. E solo allora potremmo dire che ciò che rimandiamo agli altri (immagini, prodotti o storie di vita…) non è soltanto un artefatto posticcio di un collage di luoghi comuni o una foto sbiadita di un mondo irrimediabilmente scomparso.

Dialogo a distanza con Sandro Sangiorgi a partire dal suo “Il vino è dentro di noi” – Porthos 37

Porthos Trentasette

Ne approfitto

Ne approfitto. Approfitto del numero unico di Porthos, il 37. E approfitto di Sandro Sangiorgi e del suo scritto “Il vino è dentro di noi”. Approfitto anche degli studi che sto facendo in merito all’invenzione del giudizio di gusto nei secoli passati. Infine, approfitto della qualificazione di “naturale” connessa al vino. Non lo faccio per difendere qualcosa, perché l’ho già fatto. Non lo faccio neppure per entrare nel merito della discussione sul vino naturale, perché non è questo il tema.

Il vino naturale e la filosofia degli antichi

L’argomento di questo intervento è il tentativo di comprendere come il vino naturale, nelle parole di Sangiorgi, si collochi all’interno di una tradizione estetica molto antica e come questa si confronti con i percorsi attuali di conoscenza e di giudizio. Insomma, sposto lo sguardo senza distogliere l’attenzione.

Sangiorgi scrive (pag.11): “Il vino naturale ci ha riconsegnato il senso delle parole da usare per descrivere la complessità. Per esempio, il riferimento al concetto di “natura” per come l’aveva immaginato Galeno, comune ai mondi umano, animale, vegetale e minerale. Possiamo quindi definire naturale un vino di cui si è assecondata la natura; è “naturale” se lo si è aiutato a nascere senza ostacolare la relazione tra luogo, vitigno, consuetudine e condizioni di una specifica annata. Naturale come espressione della natura della sostanza, la sua temperatura, il suo stato. I sensi ci consentono di percepire, come il nostro sistema neuroendocrino di elaborare, lo spirito dell’essere animato. La lettura del vino naturale si basa essenzialmente sulla natura del soggetto esaminato. Quindi, cogliere se questa natura sia stata rispettata, sia stata espressa integralmente. La complessione di galenica memoria comprende il corpo e lo spirito, quando si parla di temperatura ci si riferisce al temperamento, la sua sostanza non è semplicemente il peso, una sorta di materia inanimata – sempre che ne esista davvero una – ma è anche il flusso, la forza”.

Presso gli antichi l’opera è concepita come un microcosmo: il bello è sempre considerato nella sua dinamicità come punto di equilibrio nell’oscillazione fra due estremi che sono costituiti dalla grazia (armonia) e dal sublime (contesa).

E ancora Sangiorgi: “Io fatico ad accettare che il profumo e il gusto possano ricevere due valutazioni diverse, come fossero due entità indipendenti generate da contesti separati.” (Porthos 37, pag.12)

Nel Filebo di Platone, il bello diviene la realizzazione della misura in cui si attuano una serie di corrispondenze tra il corpo e l’anima e fra queste e il cosmo: “Ed ecco ora che l’essenza (dynamis) del bene ci s’è rifugiata nella natura (physis) del bello perché certo misura giusta e proporzione accade che siano dovunque bellezza ed eccellenza”.

In epoca medievale Boezio (Roma, 475/477 – Pavia, 524/526) sostiene, nel suo ‘De institutione musica’, che l’armonia musicale mundana (cosmica) derivante dagli astri e non percepibile dall’uomo, si fonda sull’equilibrio dei quattro elementi presenti in natura – acqua, aria, terra e fuoco; allo stesso modo la musica humana rappresenta l’armonia dell’uomo con sé stesso e di sé con il mondo. E la musica instrumentis constituta, derivante dalle altre due, si forma attraverso il rapporto armonico dei suoni come imitazione della musica vocale: “Agli occhi del dotto medievale la musica rappresentava un incontro tra filosofia, teologia e pratica liturgica, l’una riflesso dell’altra su piani differenti. Seguendo la lezione del ‘Timeo’ platonico, la teoria musicale veniva vista come applicazione dell’ordine numerico su cui l’intero cosmo era fondato. Il canto era invece eco dei cori angelici in sempiterna lode del Creatore. In questa prospettiva, il concetto di harmonia veniva letto in chiave esemplaristica, ossia come processo di manifestazione dell’ordine archetipico nella gerarchia dell’Essere universale. La musica strumentale era qui imitazione della musica vocale. Questa era a sua volta l’immagine nel tempo e nello spazio del canto angelico, superiore alla dimensione temporale e udibile solo attraverso l’’orecchio del cuore’ (simbolicamente, la conoscenza interioritatis hominis). I cori angelici (‘Trisagio’, ‘Alleluia’) costituivano infine lode e manifestazione nel suono metafisico della Perfezione divina, assimilata apofaticamente al silenzio. La teoria aritmetica delle proporzioni numeriche, in cui si descrivono vuoi le relazioni tra note musicali vuoi i ritmi, era a sua volta concepita esemplaristicamente come copia dell’ordine noumenico insito nella ‘mente di Dio (Ernesto Mainoldi, La filosofia della musica nel Medioevo)”.

Quello che torna nella parole di Sangiorgi interessa i motivi di assonanza per cui il vino naturale nasce, è tale in altri termini, sia nella sua relazione di armonia (relazione dinamica) con il luogo, il vitigno, la consuetudine e le condizioni di una specifica annata, sia nelle sue particolarità essenziali: la temperatura, lo stato (di natura). I sensi ci aiutano dunque a percepire e a valutare questa corrispondenza. Nessuno degli elementi appena descritti appartiene ad un mondo a sé stante: il microcosmo del vino non fa parte di un più ampio macrocosmo della natura, ma vi corrisponde nelle sue peculiarità espressive. E i sensi, secondo la teoria umorale di derivazione ippocratico-galenica, sono essi stessi prodotto degli elementi costitutivi del cosmo (aria, terra, fuoco e acqua), delle stagioni, dei punti cardinali, delle età, degli umori e delle complessioni da essi derivanti. La bellezza, e dunque la bontà, non sono un mezzo di valutazione esterna al prodotto che si vuole giudicare, in questo caso il vino, ma condividono con esso e con la natura di cui fanno parte gli stessi strumenti e le medesime caratteristiche fondamentali. La differenza, di matrice aristotelica, è che la natura agisce le trasformazioni senza alcuno sforzo perché è immanente all’opera stessa (non ha altri fini al di fuori di sé), mentre l’artigiano opera razionalmente e volontariamente affinché la materia trovi la forma e la sostanza voluta in accordo con le leggi della natura.

Marsilio Ficino, ancora in pieno ‘400, nella Theologia Platonica de immortalitate animarum (1482), scrive: “Che cos’è l’arte umana? Una natura particolare che opera sulla materia dall’esterno. Che cos’è la natura? Un arte che dà forma alla materia dall’interno”.

La rottura epistemologica del 1600

Nell’antichità è l’ordine cosmico a fondare per gli uomini la validità dei valori e ad instaurare fra loro un possibile spazio comunicativo: “da Cartesio (31 marzo 1596 – 11 febbraio 1650) tutto il problema consiste nel sapere come sia possibile fondare esclusivamente a partire da se stessi valori che siano validi anche per gli altri (l’intervento di Dio, pur non essendo ancora escluso, è dunque esso stesso mediato dalla riflessione filosofica del soggetto e, in tal senso, dipendente da quest’ultimo). In breve, tutto sta nel sapere come sia possibile fondare, nell’immanenza radicale dei valori nella soggettività, la loro trascendenza sia di fronte a noi stessi che di fronte agli altri” (Luc Ferry, Homo Aestheticus. L’invenzione del gusto nell’età della democrazia).

Se prima il giudizio di gusto non può distinguere tra valori perché non esiste una pluralità degli stessi, tra gerarchie umane e sovrumane stabilmente situate, tra distanze (tra soggetti osservanti e oggetti osservati), con le rivoluzioni del pensiero cogitante (artistiche e filosofiche al tempo stesso) si opta per un cesura, che via via sarà sempre più netta, tra facoltà e capacità di valutazione: deve essere al tempo stesso individuale e soggettiva, il “buon gusto” di appartenenza aristocratica, e generale, ovvero portatrice di caratteri universali e quindi negoziabili, discutibili e confutabili. La gerarchia si rovescia completamente: ciò che competeva al divino, ora compete solamente più agli uomini. Dio dapprima diviene mediazione del pensiero umano, poi scompare completamente dall’orizzonte della valutazione. Il percorso di radicalizzazione della soggettività del giudizio, passando attraverso Kant, troverà naturale compimento nell’estetica di Nietzsche, nella “morte di Dio” e nell’avvento del “soggetto diviso”: solo l’interpretazione costituisce il fondamento di ciò che una cosa è per cui “una cosa ‘in sé’? E’ altrettanto assurda di un ‘senso in sé’! Non ci sono stati di fatto ‘in sé’”. In altro modo per Nietzsche l’essenza di una cosa non può che essere un’opinione sulla cosa stessa: “in questo senso il bello va posto nella categoria dei valori biologici dell’utile, del benefico, di ciò che incrementa la vita” (Nietzsche, Volontà di potenza)

Il potenziale dirompente di questo rovesciamento platonico è piuttosto evidente: soggetto tanto a sostegni quanto a critiche durissime (consiglio di leggere a questo proposito Carlo Ginzburg, Rapporti forza. Storia, retorica, prova), ha aperto un esito novecentesco non scontato: “(…) possiamo dire che in Nietzsche si trovi preannunciato il duplice aspetto fondamentale di tutti i movimenti d’avanguardia che hanno dato la loro impronta all’estetica del Novecento fino alla fine degli anni Sessanta: cioè, appunto, da un lato l’ultra-individualismo che, rifacendosi al valore rivoluzionario dell’emancipazione individuale nei confronti delle tradizioni, consacrerà l’innovazione quale criterio supremo del giudizio estetico, facendolo così rientrare nell’ambito della storicità; e dall’altro la preoccupazione iper-classica di assegnare all’arte una funzione di verità, o addirittura di metterla al pari con il progresso delle scienze, per consentirle di esprimere un realtà che, a differenza di quella cui faceva riferimento il classicismo originario (quello del Seicento), non è più razionale, armoniosa, euclidea, ma illogica, informe, caotica e non euclidea”. (Luc Ferry, 202)

E, per finire, Sangiorgi: “Il vino buono non può essere scollegato da un percorso personale, ma di certo frequentarlo aiuta a comprendere il senso della vita al di là della vicenda individuale, la relazione continua tra dentro e fuori, il suo svolgersi perenne. Il vino è un mezzo straordinario, a patto che se ne rispetti la libertà di sorprenderci, di coglierci impreparati. A noi il compito di farci trovare diversi” (Porthos 37, pag.10)

Forse…

Forse quella dei “vini naturali” è l’ultima avanguardia artistica del secolo scorso. Come si sia inserita tanto impunemente in questo (di secolo) e quali esiti potrà avere in futuro non è dato saperlo. Di sicuro ha chiesto e chiede di ripensare i meccanismi di relazione tra particolare e universale, tra soggetto e oggetto, tra forma, sostanza e mutazioni, tra radici e semi, tra esperito ed esperienza, tra vissuto e sorpresa. Fosse già solo per questo, il nostro debito nei suoi confronti sarebbe comunque considerevole.

Ecologia della vita come corrispondenza. Una possibile non recensione di Emanuele Giannone

Nel 2017 Nicola Perullo ha pubblicato il saggio Io nel pensier mi fingo. Il titolo esplicita il tema – un’esegesi leopardiana – ed è chiaramente tratto da quello che chi non lo sa, problemi suoi, a questo punto non ci sono più scuse, né scuole, né tempo a disposizione ma solo anacoluti.

Quanto sopra è palesemente falso. Il libro non si intitola così, non è un’esegesi leopardiana, non è ovviamente tratto da peccato se non sapete dove, soprattutto non è un libro a tema perché va risolutamente fuori dai temi, anzi, di più: non ne suggerisce, ne ha molti espliciti e liberamente fruibili. Tutto si spiega, fuorché il fatto che non esista una recensione del saggio leopardiano, ma forse non leopardiano, di Nicola Perullo.

Nel 2017 Nicola Perullo ha pubblicato, si diceva, questo saggio diversamente intitolato, un’efficace novazione epesegetica nella quale non si parla di cibo o di vino, ma forse anche sì, sebbene en passant, e in questo caso sarebbe più corretto dire che si parla con il cibo e con il vino, i quali però restano incidentali: incidentali come tutti gli altri passaggi e passati, assaggi e presenti, futuri da sapere. Non esistono soggetti, né predicati nominali. Piuttosto, tracciati, incidenze, incroci, intrecci. In tutto questo, cibo e vino sono ovviamente inerenti alle questioni di gusto, ma sarebbe più giusto dire sapore, Rolando auspice. Ed è utile chiarire che il libro è tutto uno svolgimento di intrecci, tra i quali quello del gusto come esperienza.

Nel 2017 Nicola Perullo ha scritto un saggio molto bello e gustoso, sapido e salacemente anti-filosofico perché, senza ricorrere a toni apodittici, fa apparire molti filosofi, in particolare quelli social-mediaticamente più presenti, per gli esperti di uova Fabergé quali sono, o indossatori di cachemire, o collezionisti di gnomi o nani da giardino – gnomi, neanche a dirlo, di pregevolissima fattura, per carità. O anche fermodellisti di rara abilità, capaci di assemblare mirabilia nelle scale 1:18 e 1:50. In verità non è affatto sicuro che il saggio sia antifilosofico perché, a ben rileggerlo, potrebbe al contrario essere filosofico ma non nel modo in cui da un filosofo ve lo aspettereste, quindi non compulsivamente affabulatorio, né woomp-wooomp! nel senso onomatopeico della trombonata, né ipotattico fino all’apnea. Qui, insomma, non trovate gnomi, né gnome (γνώμη). E neppure trenini o trenodie. Tutto scorre, è interrelato, ricco di relazioni e corrispondenze, povero di stati, statuti e postulati.

Nel 2017 Nicola Perullo ha pubblicato un saggio che suffraga la prima, troppo precipitosamente denegata ipotesi – scusatemi per la frettolosa liquidazione – perché è evidente che qui abbiamo non una ma persino due variazioni leopardiane: una prima in cui l’autore nel pensier si pinge (pingo, pingis, pinxi, pictum, pingĕre), cioè più propriamente si colora, colorisce o ritrae anziché semplicemente figurarsi come uno scaltro verista o vetrinista ; una seconda in cui si finge nel pensiero ma anche oltre, senza quindi escludere la pictio oltre la fictio. E in effetti il saggio è ricco di movimenti pittorici, oltreché di locomozione, e politici, e musicali e altri ancora.

Il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo è molto antico. È altresì asincrono e acronico. Ma anche, è evidente, molto nuovo e altrettanto indubitabilmente sincrono e cronico. La sua molta antichità è palese già dal titolo, stavolta quello vero, che tratta l’òikos. La molta novità, di converso, sta nel prenderlo e destrutturarlo, diffonderlo, trasformarlo in katoikìa e oikouméne. La molta novità sta anche nell’essere scritto con molto sé ma a tutto vantaggio e diletto di te che leggi, mon semblable, mon frère; il che, scelta o caso che sia, rappresenta di una novità insperata in tempi di trasmissioni in diretta mondovisione dal cesso e dal fornello di casa, evoluzione dello studio televisivo. Un saggio scritto senza esigenze di trasmettere il vissuto individuale con argomenti che lo trascendano o travestano. Un libro fluente e bello per te, mon frère, che ami la vita viva, la Vita Nova, persino la vida loca, perché pieno di vecchie e belle vite parallele che si fanno nuove e mirifiche vite incidenti. Il libro di un filosofo che abdica all’egodicea: il che significa appunto, saluto affettuoso a Derrida, che il filosofo abdica alla filosofia.

 

Il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo è, si diceva, molto antico. L’antichità di questo libro scorre nel suo risalire controcorrente le scientifiche sorti e regressive del presente e del tempo a venire, dribblando di slancio il quantified self e le analisi quantitative, le biometrie, le conduttanze cutanee, i riflessi psicogalvanici, le chemestesìe e tutto quel che serve – ma veramente servirà? – a stabilire oggettivamente quanto e quando siamo. È inoltre un libro molto asincrono, ha un tempo suo soltanto che è quello di chi lo scrive, quindi fuori dal tuo. Tuttavia, basterà che tu lo legga, mon frère, senza pretendere che rispetto a te e ai tuoi devices si debba vivere o scrivere in diretta, in sincronia – ti bastino la buona accordatura e la sintonia fine, tutte doti che il libro dispensa generosamente – e proverai divertimento, e riderai degli isocronismi. A una seconda lettura, tuttavia, il libro è sicuramente sincrono: accade insieme e per sempre. Dalla terza in poi non sono più sicuro.

Procedendo da quanto appena concluso, il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo è quanto meno acronico. Vi accade tutto e, non bastasse questo, tutto vi fluisce senza tempo. Il gioco del mondo. Un gioco che apprende, quello di partire da un tempo e un punto qualunque per non concludere mai, vale a dire arrivare alla non-conclusione, invero piuttosto scontata (ma fin qui non ce n’eravamo accorti), che non vi è stato tempo, né punto, e quindi ripartire (cioè continuare). Però serviva credere che tempo e punto avessero luogo: per mettersi in moto, guardare l’orologio prima di intraprendere il cammino, dare misura e dimensione al cominciamento. Altrimenti detto, per traslato e se non atterrisce la polisemia, il testo è cronico. Non segue il tempo: lo crea.

Il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo si chiama Ecologia della Vita come Corrispondenza. Leggerlo è facile: il ritmo è libero, il flusso offre momenti o frammenti apparentemente disordinati, in realtà dislocati perché un ordine non serve: si leggono e commentano a partire da un qualunque luogo, in un qualunque istante e si riflettono ovunque. Commentarli, inoltre, riuscirà particolarmente facile perché il testo è giusto e vero. Non esatto: vero. Assolve il compito vero di ogni testo che è produrre nuovi sensi, non individuarne prestabiliti e correnti. Nuovi sensi tra il testo evidente e quelli inframmessi, inter- e meta-testo, piacevole esercizio euristico per chi conosce i testi cooptati e, ciò che è assai più rilevante, procedimento ludico e creativo per chiunque.

Leggere Ecologia della Vita come Corrispondenza è facilissimo perché richiede la conoscenza di Ingold, Agamben, Bachelard, Wittgenstein, Derrida, Jodorowsky, Glass, Cohen, Nietzsche e i saggi del lontano Oriente, ma se preferite vi invita a farne benissimo a meno. Dipende da voi. Come quelli, bastano infatti vicini di casa, parenti e gli affini, compagni dell’università o di viaggi, commensali e l’autore.

Paralipomena. Per me la lettura si è rivelata particolarmente emozionante perché il libro di Nicola Perullo tratta a sorpresa di tram lungo Mariahilfer Strasse e Mannerheimintie, della stazione di Skellefteå, dei trionfi della borghesia domenicale ovvero l’Ottocento siciliano trasumanato nel Novecento romano a Largo Bradano prima e poi a Via Bertoloni, e quindi il teatro surrealista-familiare, il traghetto Stoccolma-Turku e quello da Rødby a Puttgarden e poi la nascita a Via Cipro, la vita in periferia, il trasloco da Monaco di Baviera a Helsinki su una Opel Omega Kombi, l’encomio di Simonide di Ceo per i caduti delle Termopili, Celibidache, la domanda è rosso fuoco e la risposta è blu; e ancora le foto e le magliette da Piccadilly Circus, dal Pori Jazz Festival, da Voidokilia, dalla Quinta Strada e da Beaune. E il vino e soprattutto la gente, i Klinec, e la gente e soprattutto il vino, i Klinec, a Medana. E la Messenia. E Montalcino. E Schiphol. E il vino di Radikon, quello di Prepotto e Sgonico, quello di Cefalonia. Ullanlinna, Horsens, Kardamyli, Kiruna, East Acton, Schwabing, l’Arcoveggio, il Montello, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea. In barca a vela per i Laghi Masuri, la lingua nuova, piena di scaglie e guglie, liquescenze improvvise e sensualità. Danzica. die Blechtrommel. Alla radio the Doors o Rameau – conoscevi? Non conoscevo. Guidare la Trabant, La Syrena (samochód), la Saab 96 (personbil, Sverige är en konstitutionell monarki). Bayerischer Rundfunk. Staatskapelle Dresden. La Finlandia marginale, työttömyys, viina, kirves ja perhe. Kaurismäki. Gli autografi di Gassman e della Guarnieri. Macbeth. Nardini al Ponte Vecchio, Villa Barbaro a Maser, il cineclub a Montebelluna. Konstanz e Margrethe (goldenes Haar) che legge Celan. So bist du denn geworden, vent’anni dopo. Vent’anni dopo a Villa Doria Pamphilj si corre benissimo, leggeri, l’afa di agosto si dilegua nella scoperta che il viale Eliot di Villa Doria Pamphilj è intitolato a George, non a Thomas S., quindi summer surprised us ancora una volta. La terra desolata. La Linea A, penultima fermata, Cornelia, precedentemente S-8, Endstation, Herrsching am Ammersee (proseguire per la Bahnhofstrasse fino al 20). Studio matto e disperatissimo variamente intercalato con Wanderungen e ozio con annessa commutatio loci. Treni regionali per Nettuno pieni di piscio e pattume contro rapidissimi treni rossi per il Nord, Kieler Förde, Saint-Nazaire, Oulu. Limoni. Matrimoni. Istituto Nazionale Tumori Regina Elena. Klinikum Grosshadern. Šostakovič, Masur, Skrowaczewski. Monteverde. La luce d’inverno sopra, da e dentro: a) l’Acquedotto Alessandrino, b) il Porto Innocenziano, c) il Sentiero Rilke, d) Töölön Lahti.

Tutto questo è palesemente falso, nel libro non vi è nulla di tutto questo, o almeno così pare. Pare, perché è tutto vero e c’è, l’ho letto io perché il libro invita a infiltrarsi nel testo, spogliandolo del senso, spogliandosi del proprio, togliendone e dandone a entrambi. Uno, tanti, diversi, nei fasci di vita che si intessono e dipanano.

Nicola Perullo, Ecologia della Vita come Corrispondenza (Mimesis Edizioni, Collana Eterotropie, 2017)