GIACOMO VERDE
Installazioni interattive,
tv comunitarie, net art, tecnoteatro
(1992-2002)
Anna Maria Monteverdi
GIACOMO VERDE
Installazioni interattive, tv comunitarie,
Net Art, Tecnoteatro
(1992-2002)
Anna Maria Monteverdi
Giacomo Verde. Installazioni interattive, tv comunitarie, net art, tecnoteatro (1992-2002) / Anna Maria Monteverdi. Milano:
University Press, 2023.
ISBN 97912-5510-061-4 (print)
ISBN 979-12-5510-062-1 (PDF)
ISBN 979-12-5510-063-8 (EPUB)
DOI 10.54103/milanoup.134
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© The Author(s), 2023
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L’edizione cartacea del volume può essere ordinata in tutte le librerie fisiche e online ed è distribuita da Ledizioni
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La copertina è una libera composizione di Anna Maria Monteverdi dalla sequenza fotografica di Giacomo Verde
Facce Web, 2001.
Le fotografie dell’Archivio Giacomo Verde sono state concesse da Tommaso Verde.
La documentazione fotografica presente nella Sezione Disegni del volume è stata realizzata da Valentino Albini,
fotografo del Dipartimento Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano.
Sommario
Ringraziamenti
7
Nota di lettura
9
Liberate la Memoria
13
I disegni 1992-2002
16
I – L’archivio Giacomo Verde: dispositivo o reenactment
Archivio: testimonianze 1992-2002
L’archivio video
Archivi per il teatro e la performance
Archiviare l’arte-vita: la mostra “Liberare Arte da Artisti”
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
Interattivarsi: il video loop
Installazioni interattive: i 5 livelli di interattività nell’arte
L’origine della specie (interattiva): Degli Avi-libera la memoria
Labilità delle installazioni interattive anni Novanta
III – Net Art=Arte di rete
21
25
30
33
38
47
51
54
59
61
67
La migliore installazione è interattiva e artivista
IV – La tv è di chi la fa
70
75
Da Piazza Virtuale alla Minimal Tv
75
V – Il teatro interattivo e il teatro telematico
Storie mandaliche
Connessioni Remote. Il Teatro si fa in web
Bibliografia
83
84
86
91
Scritti di Giacomo Verde
Interviste
Archivi
Storia, filosofia ed estetica dei media
Sitografia
91
93
93
94
95
DISEGNI 1992-2002
Disegni
99
Per una nuova cartografia del reale
133
A METTERE MANO azione di riciclaggio TV ISTRUZIONI PER L’USO
– 5 modi per scassare la tv
135
Ringraziamenti
A Tommaso (Topo Tommy), Sabatino, Lavinia e Marzia Verde per il supporto sincero, la vicinanza e l’affetto; a Sandra Lischi, Andreina Di Brino, Dalila Flavia D’Amico, Vincenzo Sansone,
per l’amicizia e la collaborazione instancabile.
Grazie a tutti i collaboratori della mostra Liberare Arte da Artisti (La Spezia, CAMeC, giugno
2022-gennaio 2023), in particolare a: Gianfranco Martinelli, Carles Canellas, Carlo Infante, Carlo
Presotto e Paola Rossi, Clemente Pestelli, Elisa Squarciapino, Lorenzo Antei, Massimo Cittadini.
Il presente volume ha attinto moltissimo dall’enorme lavoro svolto per l’allestimento.
Il libro è dedicato a Daniele Castellucci.
Nota di lettura
Il presente volume segue, a distanza di poco più di un anno, il precedente testo intitolato
Attraversamenti tra teatro e video (1986-1992), pubblicato sempre per Milano University Press, scritto
da me con Vincenzo Sansone e Dalila Flavia D’Amico, dove erano esposti e presentati criticamente i disegni di Giacomo Verde (1956-2020) relativi a videoinstallazioni e a lavori di videoteatro
del tecnoartista. La ricerca ha avuto seguito in questo libro che descrive il processo di creazione
delle installazioni, del teatro interattivo, e della net art (1993-2003) attraverso i materiali inediti
d’Archivio messi a disposizione dalla famiglia. Nello stesso periodo in cui i disegni venivano da
me digitalizzati e studiati tra il giugno 2022 e la primavera del 2023, è stato possibile organizzare
una mostra antologica: Liberare Arte da Artisti, dedicata al grande artista pioniere della videoarte,
per il Museo d’Arte Contemporanea della Spezia, CAMeC. Alla teoria è seguita la pratica: sono
stati recuperati e messi in visione per il pubblico video analogici nei più diversi formati (BetaCam,
VHS, MiniDV), digitalizzati a partire direttamente dai formati originari restaurandone il nastro
magnetico danneggiato magari dal tempo e dalla muffa, oppure ripristinati da vecchi hard disk.
Sempre ai margini del sistema dell’arte, Giacomo Verde vagabondava inguaggi, frantumandoli, ricombinandoli insieme, mai esaltandosi di fronte all’ultima tecnologia proposta dal mercato:
nel suo ultimo testo del 20201 scriveva rammaricato che i nuovi computer non hanno più certe
funzionalità, ed era diventato impossibile per lui utilizzarli per i suoi ben noti videofondali ricchi
di manualità: gli automatismi del mezzo hanno rimpiazzato e definitivamente cancellato ogni
creatività. Oggi gli effetti creati da Verde per realizzare il suo video Fine fine millennio nel 1987 con
una vecchia telecamera con titolatrice stanno dentro la library di qualche App del cellulare, ma
quell’opera iconica è in grado di attraversare il tempo.
La mostra, che aveva l’obiettivo di mostrare la produzione di Verde nel contesto culturale della
videoarte dell’ultimo ventennio del Novecento, si è basata moltissimo sul recupero d’archivio di
appunti, diari e disegni per restituire al visitatore, nella maniera più coerente e corretta, l’esperienza di visione e di ascolto dell’opera video concepita, trenta o quarant’anni prima, per supporti e
dispositivi diversi. Lo studio analitico delle fonti dirette, e il conseguente allestimento espositivo
dei materiali, ha permesso anche di “ricostruire” alcune videoinstallazioni di Verde documentate
dai disegni, ma purtroppo andate perdute, oppure di restaurare installazioni interattive non più
funzionanti (perché, per esempio, i software utilizzati non “girano” più sui computer di oggi). Lo
studio dei materiali e dei diari ha permesso di intervenire anche sulle opere di Net Art di Verde,
tra le prime in assoluto realizzate in Italia, ma che necessitavano ormai di un ripristino di link e
di un recupero di accesso web; in epoca di automazione dei contenuti di intrattenimento on line,
vale la pena ricordare il lavoro creativo con e sulla rete – molto spesso connesso con tematiche di
impegno politico e civile – di artisti come Verde ai primordi dell’era digitale. Tutto questo percorso museale è stato documentato grazie al lavoro del responsabile del laboratorio fotografico
del nostro Dipartimento di Beni culturali e ambientali dell’Università di Milano, Valentino Albini.
Solo dopo la chiusura della mostra nel gennaio 2023, ho preso la decisione di far confluire dentro il volume anche l’esperienza dell’archivio esposto al Museo, come metodo di lavoro teorico
e curatoriale applicabile e replicabile in futuro per altri archivi d’artista risalenti agli stessi anni e
aventi la stessa tipologia di materiali audiovisivi e le stesse criticità. Ho fatto confluire la pratica
progettuale della mostra al CAMeC nel capitolo intitolato L’Archivio Giacomo Verde per una maggior comprensione dei materiali originali dell’artista, qui pubblicati nella sezione Disegni.
1 Giacomo Verde, Intervento in A.M. Monteverdi, Leggere uno spettacolo multimediale, Roma, Dino Audino, 2020.
https://www.audinoeditore.it/libro/9788875274467
10
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Un esempio importante del metodo teorico-pratico usato per la mostra e divulgato nel libro
è il lavoro svolto sull’installazione interattiva del 1995 Reperto Antropologico (la famosa carrozzina
girevole con porta-computer connesso al web per l’“autonomia esistenziale”): tramite le schede
tecniche originali e i disegni d’archivio è stato possibile risalire al concept base e intervenire sull’opera, presa in prestito dal Museo di Gallarate e non più funzionante. L’artista, tenace sostenitore
del low tech e della tecnologia povera, aveva re-impiegato un dispositivo per i cancelli automatici:
appena ci si sedeva, il meccanismo riconosceva la presenza della persona e la carrozzina iniziava a
girare intorno a una pedana grazie a un sensore a infrarossi. Riflettendo su quale tecnologia oggi
potesse essere equiparata alle caratteristiche low tech dell’epoca usate dall’artista, si è giunti alla
conclusione di utilizzare un sistema hardware Arduino (open source, in linea con l’estetica povera
di Verde). Ora l’opera funziona secondo i principi di ieri, ma con i dispositivi di oggi, senza che
sia stato alterato nulla; si tratta di un buon esempio di allestimento museale laboratoriale, in linea
con la recente definizione di Museo secondo l’Icom:
Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie
ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità.
Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità,
offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di
conoscenze2.
È un esempio di re-enactment messo in atto per sfuggire alla “trappola” dell’archeologia dei
media.
Il corpus dei disegni di Verde è stata anche l’occasione per ricostruire un panorama assai più
vasto della singola opera a cui si riferivano; spesso queste installazioni erano state commissionate
da Festival come Santarcangelo o erano connesse con compagnie teatrali che hanno segnato un
traguardo fondativo nel videoteatro italiano (pensiamo al Tam TeatroMusica di Padova, con cui
Verde ha collaborato a lungo). Il recupero delle informazioni sui luoghi e sui contesti in cui erano state esposte le opere interattive ha permesso una corretta comprensione anche della visione
estetica del lavoro di Verde, del suo pensiero “artivista” e del suo pubblico. Ai luoghi della grande
videoarte internazionale (Taormina, Milano, Ferrara), Verde aveva da sempre preferito, infatti,
ambienti underground, centri sociali, spazi occupati, realtà marginali che erano però il cuore della
controcultura (Link di Bologna, Leonkavallo di Milano, CPA di Firenze, CSOA Forte Prenestino
di Roma) e dove la sperimentazione era vivissima. Ricordiamo che anche la grande stagione della
cosiddetta quarta ondata del teatro italiano anni Novanta (Motus, Teatrino Clandestino, Fanny &
Alexander) nasceva fuori dai circuiti teatrali, negli spazi off e in festival di ricerca. Tutto questo
mondo produttivo viene ricostruito a partire dalle locandine, dai cataloghi, dagli inviti e dalle brochure collezionate da Verde: ho ritenuto che il recupero di queste informazioni dalle fonti più disparate provenienti dall’archivio potesse essere di grande interesse per il lettore. Il fascino di quella
grafica anni Novanta, il richiamo ai fumetti di fantascienza, le prime sperimentazioni della Realtà
Virtuale e la rivendicazione di una polisensorialità ante litteram, cioè ante Metaverso, i segnali di
un’arte tecnologica contestativa e sovversiva via web strabordano dall’Archivio di Verde e sono
parte integrante di un mondo che si fa fatica a ricostruire, lontano com’è dalle attuali tecno-ideologie orientate al mercato.
L’Archivio di Verde si è dimostrato un vero palinsesto di relazioni sociali, di trame comunitarie,
di sentieri creativi e condivisi calpestati a lungo: l’ordito era sempre un percorso collettivo dentro
le tecnologie, per trasformare la società attraverso l’arte.
2 Icom-International Council of Museum. Cfr: https://icom.museum/en/news/icom-approves-a-new-museum-definition/
Nota di lettura
11
Gabriella Giannachi in Archiviare tutto (Giannachi 2018) afferma che gli archivi, quali luoghi di
una memoria viva, oggetti relazionali e dispositivi culturali, devono essere continuamente rivisitati
e riattivati, e il meccanismo per farlo non può che essere la pratica del reenactment, che permette
di renderli a noi presenti e contemporaneamente anche di iscrivere in essi la nostra presenza.
Seguendo letteralmente questa impostazione teorica, abbiamo cercato di sottrarre i documenti
di Verde al tempo storico per immetterli nuovamente nel flusso della vita nelle diverse modalità
espositive o web.
La presente pubblicazione si propone come progetto pedagogico e formativo per segnalare un
metodo di lavoro auspicabilmente da replicare e una possibile strada da esplorare per un approccio diversificato e originale allo studio della documentazione tecnica d’artista. L’intuizione che ci
ha guidato – e che speriamo sia foriera di nuove ricerche in questo settore – è stata quella di dare
vita, nel libro, a ciò che Paolo Rosa e Andrea Balzola definivano ne L’arte fuori di sé «un archivio
antropologico dei luoghi, degli oggetti, delle persone o dei comportamenti della comunità reale
del presente o del recente passato» (Balzola-Rosa: 244).
Liberate la Memoria
di Anna Maria Monteverdi
Di arte e creatività ha bisogno il movimento.
E infatti le sue vittorie e le sue speranze si basano su quella creatività collettiva espressa nelle
campagne, manifestazioni ed eventi che vengono quotidianamente organizzati affinché un altro
mondo sia veramente possibile.
Questo è il tipo di arte che ci deve interessare: diffusa, nascosta nelle attività quotidiane, che sa
parlare anche delle zone d’ombra senza bruciarle alla luce, che non si chiude negli spazi privilegiati e protetti di musei e gallerie nel nome di una propria “originalità”, un’arte che non inibisce
ma stimola la creatività di ogni individuo, che segue le logiche del sentimento politico, che segue
i principi di “Bellezza e Giustizia” (come dice James Hillman) piuttosto che i soli principi di
“economia politica” e di affermazione personale.
Giacomo Verde
Giacomo Verde (Cimitile 1956-Lucca 2020), videoartista e tecnoperformer, ha dedicato tutta la
sua vita alla creazione di un’arte sociale, impegnata e partecipata con uso delle tecnologie analogiche, digitali e della rete; Verde è stato un instancabile sperimentatore delle nuove tecnologie, pur
privilegiando sempre l’uso di una tecnologia povera, alla portata di tutti, ogni volta reinventata in
relazione alle mutate esigenze espressive. Un’arte poetica e politica: come ha sottolineato Sandra
Lischi, «Verde amava e praticava l’idea di una militanza artistica consapevole, guidata dal piacere
del fare, da un’intelligente giocosità, da un impegno non riconciliato, teneramente beffardo quanto
serissimo e lucido» (Lischi 2020).
La sua ricerca comincia con il teatro popolare di strada per approdare, alla fine degli anni
Ottanta, all’uso originale di schermi e televisioni in scena, progettando il Teleracconto (un mini-teatro fatto con immagini video live di piccoli oggetti) e proseguire con i videofondali, ovvero
scenografie video con immagini generate e modificate dal vivo, ad accompagnamento di reading
poetici e performance di prosa e di danza1.
Questa la sua sintetica e ironica nota biografica della metà degli anni Novanta, spesso usata per
i programmi dei festival:
Emigrante, abita a Treviso dal 1985 ma lavora nel mondo. Negli anni Settanta ha fatto animazione
teatrale, concerti di musica popolare, teatro di strada e comico. Negli anni Ottanta ha fatto teatro di
ricerca, techno-performance, videoarte, suonatore di zampogna, teatro per ragazzi, l’ospite in Tv, computer grafica e inventa il Teleracconto. Nei primi anni Novanta si occupa di televisione e arte interattiva, realtà virtuale, didattica video, telematica, teoria della comunicazione e si accorge di essere (stato)
un cyberpunk. Tutto questo senza perdere la voglia di fermarsi e l’accento toscano2.
1 Sulla biografia di Verde rimandiamo a: Monteverdi, Sansone, D’Amico (2022); Monteverdi (2020);
Vassallo (2018); ed inoltre alla rivista del Dipartimento Beni culturali e Ambientali dell’Università Statale
di Milano “Connessioni Remote” (https://riviste.unimi.it/index.php/connessioniremote/index), che
ha dedicato a Verde il primo numero (luglio 2020). Sui Teleracconti cfr.: V. Sansone, Dal teatro di strada al teatrino video-oleografico. Giacomo Verde contastorie, in “Arabeschi” n. 18, 2021 (http://www.arabeschi.it/
dal-teatro-di-strada-al-teatrino-video-oleografico-giacomo-verde-contastorie-/
Rimandiamo anche ai numerosi interventi su Verde a firma di Carlo Infante all’interno del suo blog PerfomingMedia.org
2 Scheda biografica nel dépliant dell’evento Poets go home! Serata di poesia per poetofili e non (1995) al Centro sociale
Pedro di Treviso (Archivio Giacomo Verde). Con alcune varianti questa biografia rimarrà a lungo la sua autopresentazione ufficiale.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Dopo la feconda stagione della videoarte – di cui è stato un riconosciuto pioniere –, a partire dalla metà degli anni Novanta, Verde si interessa di interattività sia per installazioni che per
performance, mentre dai primi anni Duemila inizia un proficuo percorso intorno alla Net Art,
ma sempre mescolando generi e formati, perché le arti, come spesso amava ricordare, nascono
intermediali. Ibridazioni tra linguaggi e tecniche, interconnessioni di pratiche artistiche, culture,
immaginari; certamente l’ “attraversamento” più significativo riguardava la volontà di mescolare i
ruoli, di creare collaborativamente, la qual cosa faceva di Verde (e di Paolo Rosa/Studio Azzurro)
l’artista “plurale” per eccellenza3: consapevole della valenza collettiva dell’opera, prediligeva modalità artistiche comunitarie, dalla scrittura alla scena, con l’obiettivo di dare vita «a oper’azioni
processuali che si traducono nella creazione di contesti partecipativi e relazionali» (Vassallo 2018).
Il suo era un modo per creare un’arte, come ricordava Antonio Caronia nella prefazione al
volume di Verde Artivismo tecnologico (Verde 2007), «collettiva e connettiva, e soprattutto virale».
Così lo studioso Andrea Balzola, già collaboratore di Verde per numerosi progetti tecnoteatrali,
sintetizza la sua pratica d’arte politica e la sua tecnopoetica:
La sua poetica si fondava sulla libertà di pensiero e di azione, sulla denuncia delle ipocrisie e delle
menzogne dei poteri forti, sull’incrocio costante dei linguaggi: pittura, disegno, video, teatro, musica, in un contesto di riflessione etica e politica che metteva al servizio di un’arte del cambiamento. La sua attitudine hacker – come amava definire il suo approccio artistico di rottura dalle forme
estetiche dominanti – dipendeva dalle scelte di vita indirizzate sistematicamente e anarchicamente
fuori dagli schemi istituzionali e fuori da ogni protezione economica, la qual cosa lo rendeva libero di esprimere il proprio dissenso (Balzola 2023).
Dopo il volume sui disegni per videoinstallazioni 1986-1992 (Sansone, D’Amico, Monteverdi
2022), si è deciso di recuperare e pubblicare integralmente i materiali inediti datati 1992-2002,
in particolare i disegni per progetti interattivi (installazioni, teatro e televisione): si tratta di un
corpus grafico già organizzato dall’Autore in forma di libro e proveniente dal costituendo archivio Giacomo Verde. Nei capitoli seguenti abbiamo affiancato, per completezza di informazioni
e necessità di contestualizzazione, testimonianze dalla ricca documentazione proveniente anche
da banche dati off line e on line ancora non catalogate (hard disk esterni; pen drive; piattaforme
video) corrispondenti al decennio preso in considerazione. Questo corpus di disegni racconta
un periodo molto ricco e decisamente innovativo sul piano creativo, perché è l’epoca della svolta
interattiva, telematica e virtuale dell’arte, ed è anche il decennio della conclamazione di Verde
artivista4; riportiamo le motivazioni dell’adesione a questo movimento di pratiche attiviste che lui
arricchirà di contenuti e nuove metodologie grazie alla speciale inclinazione e predilezione per i
“territori sociali” della rete, per la collettivizzazione dell’arte:
Per me l’artivismo è tale quando una creazione artistica si accompagna coscientemente ad un’azione politica o quanto è cosciente del valore politico che mette in campo. E comunque l’arte,
in quanto azione pubblica, è sempre politica anche se non vorrebbe. Si tratta di decidere da che
parte stare. L’artivismo è nato in un contesto che si riconosce nell’autore collettivo, nel binomio
3 La definizione di “artista plurale” è di Paolo Rosa e Andrea Balzola: «L’artista plurale è colui che oltre a creare opere
crea relazioni, agisce in una rete di relazioni senza perdere la sua dimensione autoriale». (Balzola-Rosa 2011: 49).
4 L’artivismo è un termine che indica il connubio tra arte e attivismo politico, un binomio che affonda le sue
radici in epoche lontane ma che si è specificato in tempi recenti in relazione alla comparsa delle prime reti telematiche negli anni Ottanta per poi diffondersi con lo sviluppo di Internet e della cultura digitale. Sull’Artivismo
rimandiamo al volume di Verde (2007) e alla rivista “Connessioni Remote” (https://riviste.unimi.it/index.php/
connessioniremote/issue/view/1643) che ha dedicato un ampio dossier all’argomento (marzo 2021). Ed inoltre
cfr.: A.M.M. Giacomo Verde. Alle radici dell’Artivismo, in “Segno on line” (https://segnonline.it/giacomo-verde-alle-radici-dellartivismo/), settembre 2022.
Nota di lettura
15
arte-vita e nel superamento dell’oggetto d’arte. E questa è una precisa scelta di campo. L’ibridazione tra arte e attivismo dovrebbe produrre una doppia azione: nel campo attivista dare più spazio alla comunicazione creativa, e nel campo artistico aumentare il senso di responsabilità politica
delle proprie scelte (Verde in Pestelli 2009).
I suoi interventi artistici legati ad ambiti sociali, a momenti e a motivi urgenti della società lo
condussero, proprio nei primissimi anni Duemila, verso una strada sempre più votata consapevolmente all’attivismo: ne è testimonianza la co-ideazione, insieme con Tommaso Tozzi, del
Netstrike 214T5 (2000) e il documentario poetico Solo limoni (2001) contro la globalizzazione capitalistica, testimonianza diretta dei tragici fatti del G8 di Genova, nel luglio 2001. La sua visione antagonista, il suo mettersi a disposizione di battaglie civili e politiche furono sicuramente tra le ragioni
dell’esclusione dell’artista dal “sistema” dell’arte contemporanea6. La vita di Verde è stata, infatti,
un lungo peregrinare dentro e fuori le Istituzioni culturali e le Accademie di Alta Formazione
Artistica e Musicale, con continui contrasti con le direzioni artistiche, ma anche con importanti
e continuate collaborazioni7. Sicuramente, quale artista simbolo di una cultura alternativa e quale
punto di riferimento della controcultura militante, Verde si trovava più a suo agio dentro i centri
sociali, negli spazi underground, nei luoghi di aggregazione attivista sin dagli anni Novanta, come
è testimoniato dalla sua presenza ai vari hackmeeting, dall’iscrizione a mailing list tematiche dei
movimenti e alle prime BBS, dalle pionieristiche pratiche artistiche in rete.
Molte sono le interviste in cui Verde denuncia la difficoltà di introdurre tematiche politiche dentro
gallerie e musei, mostrando la sua insofferenza nei confronti delle istituzioni artistiche pubbliche e
dei grandi network televisivi nazionali, e la sua predilezione per un’arte a “estetismo zero”:
Negli anni Ottanta si faceva videoarte perché si voleva rompere un’estetica dominante che era
quella della televisione, dei mezzi di comunicazione. Sì, proprio un’estetica! Cercavamo altri modi
di fare comunicazione, di fare televisione. Ed è stata una sconfitta clamorosa, perché la videoarte
è stata inglobata dal sistema dell’arte: in televisione non c’è mai entrata, è stata saccheggiata da
MTV…E quindi che senso ha fare videoarte? (…) Un altro gioco che mi piace fare è portare
nella galleria e nel contesto artistico argomenti, temi, modalità che imbarazzano il mondo dell’arte
come la politica. La politica per il mondo dell’arte è imbarazzante, è vista come una cosa antiestetica, nonostante ci sia stato tutto un filone, anche negli ultimi anni, di rapporto tra arte e politica,
ma è sempre stato un tipo di rapporto estetizzante, per cui tutte le tematiche politiche dovevano
essere digerite, rielaborate ripresentate con una estetizzazione, dove veniva cioè, considerato e
5 Nel 1995 Tommaso Tozzi creò il primo Sciopero della Rete, conosciuto come Net Strike, per protestare contro i
test nucleari francesi a Mururoa: si attivarono pratiche di spamming, cioè una spedizione in massa di email verso
la casella postale del governo francese per intasarne la mailbox; seguirono altri Net Strike, documentati dal volume di Tozzi e dal sito di Strano Network (1996). Nel 2000, insieme a Tozzi, Verde progetta uno sciopero della
rete come opera d’arte dal titolo 214T, da presentare alla mostra collettiva contro la pena di morte proposta dalla
Regione Toscana per protestare contro l’alto numero di esecuzioni capitali nello Stato del Texas. La proposta non
fu accettata, ma lo sciopero avvenne comunque. Nell’archivio di Verde sono presenti le mail inviate a varie mailing
list mondiali per aggregare il più alto numero possibile di persone e farle collegare contemporaneamente al sito
del Governo del Texas per mandarlo in crash.
6 Nel 2001 la direzione artistica di Techné di Milano non confermerà la presenza di Verde per la manifestazione
milanese dove aveva partecipato l’anno prima: Antonio Caronia, che era membro della commissione selezionatrice ma contrario alla decisione di esclusione, denuncerà il fatto come un vero e proprio atto di censura politica
a seguito del lavoro video documentario di Verde sul G8, decidendo, come conseguenza, di dimettersi con una
lettera pubblica.
7 Verde è stato a lungo professore a contratto in varie Accademie di Belle Arti, senza mai riuscire a diventare professore di ruolo. Queste intermittenze di insegnamento, secondo quanto scrive Verde nei suoi diari, erano da attribuire ad attriti sulle modalità didattiche. Nel caso del Dipartimento Disco di Pisa (con Sandra Lischi) e dell’Università
di Roma (con Marco Maria Gazzano) il rapporto fu costante e ricco di iniziative progettuali e laboratoriali. La
Fondazione Ragghianti di Lucca ospitò Verde in diverse occasioni per mostre e dibattiti.
16
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
valutato il livello estetico di rielaborazione dell’argomento politico. Quando invece, tu porti “di
pacca” l’argomento politico sottraendo estetizzazione, questi ci rimangono male! Dicono «Che
significa?» Significa che io ti porto il mondo! Ti porto il mondo in casa, il mondo che tu hai lasciato fuori (Verde 2006)8.
Significativo, a questo proposito, il suo rimarcare, in un’intervista del 2009, che a Genova, in
occasione delle tristemente note giornate del G8 del 2001: «(…) gli artisti non c’erano, e se c’erano
stavano nella zona rossa, con i potenti»:
A Genova di artisti proprio non c’era traccia, o comunque erano pochi. Non so se ti ricordi ma gli
unici presenti erano quelli, diciamo, underground. Quelli importanti erano dalla parte del potere,
stavano dentro la zona rossa. Questa cosa mi ha colpito moltissimo, l’arte stava dall’altra parte,
stava con i potenti nella zona vietata. Da quest’altra parte c’eravamo noi “artistucoli”, poco conosciuti o comunque persone che lavorano con la gente, con i centri sociali, in condizioni marginali
e non completamente inseriti nel mercato dell’arte. Questa era una cosa che saltava all’occhio.
Spesso succede, invece, che proprio gli artisti che fanno attività politica siano loro stessi a voler
passare dall’altra parte, ad entrare nel mercato, magari giustamente, però spesso il mercato ti
chiede di dimenticare l’attività politica. Pur essendoci stato un notevole interesse negli ultimi anni
per l’arte politica c’è da notare come questo sia stato in realtà un interesse estetico ed estetizzante, dove, se è vero che si mostrano i problemi di tutto il mondo, a me sembra che lo si faccia in
una maniera decisamente superficiale, troppo distante, in una maniera in cui non ci si sporca le
mani. Sono pochi gli artisti che hanno a che fare con il mercato ed al contempo vivono e operano
a stretto contatto con realtà che necessitano di un supporto, un appoggio al loro immaginario.
Sono pochi gli artisti che creano situazioni in grado di produrre un immaginario, degli stati d’animo, in qualche modo legati a rivendicazioni sociali e politiche. Questa è la mia idea, quello che
vedo, quello che sento (Verde 2009: 17).
I disegni 1992-2002
L’archivio di Giacomo Verde9, nella plurivocità di contenuti, si è rivelato una fucina straordinaria di “racconti”, un’evidenza di reti di collaborazioni e ambiti di sperimentazione che riportano
la problematica documentale ben oltre la questione biografica dell’artista, fornendo una precisa
e originale chiave di lettura delle tematiche dell’epoca e un profilo diretto dei suoi protagonisti.
I disegni raccolti nella sezione V sono stati suddivisi sulla base di una catalogazione stilata dallo
stesso Verde e recuperata da un hard disk datato 200510; le categorie utilizzate all’epoca risultano
particolarmente funzionali al periodo preso in considerazione (1992-2002):
1. Installazioni interattive
2. Tecnoperformance/Web Teatro
3. Opere di Net Art
4. Videofondali
8 Intervista video a Verde in occasione della sua presenza al Festival InVideo di Milano (2005), visibile su Youtube
https://www.youtube.com/watch?v=LcznN1hdVSo
9 L’archivio Giacomo Verde, di proprietà del figlio Tommaso, è in varie sedi tra la Toscana e la Liguria. Il contenuto dell’archivio è ancora da catalogare e digitalizzare. Il Dipartimento Beni culturali e Ambientali dell’Università
Statale di Milano, insieme con i partner Università Link Campus di Roma e il CNR di Pisa, ha ottenuto un finanziamento attraverso il bando ministeriale PRIN 2022, dedicato alla ricerca, appositamente per digitalizzare e
organizzare l’archivio di Giacomo Verde.
10 Molta della documentazione utilizzata per il libro attinge a questo hard disk (HDD) usato per archiviare materiali
datati 1999-2005 e il cui contenuto è suddiviso in cartelle tematiche e cronologiche.
Nota di lettura
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5. Minimal Tv e Tv interattiva
Le installazioni interattive e le opere di Net Art effettivamente realizzate, documentate e elencate come “repertorio” e riferite al periodo 1992-2002 sono:
– Opera d’Arto (installazione)
– Degli avi (libera la memoria)
– Rotodentro
– Di.Stanze
– Essere Non Essere
– A Mettere Mano
– L’ALTRA mi guarda negli occhi
Reperto Antropo-Logico Uno Nove Nove Sette (direttamente a casa tua)
– Con.tatto-polittico interattivo
– UNDERMAGMA
– X-8X8-X.net no_profit_web_art (antiportale)
– qwertyu.net
– Interno neve
– Inconsapevole macchina poetica
I disegni sono realizzati a matita con una descrizione dettagliata dei materiali da utilizzare
(camcorder amatoriali, spy cam, specchi, telefono a filo, televisori casalinghi) e specificano, oltre
al funzionamento del dispositivo, la relazione spaziale con lo spettatore: all’interno del gruppo
dei disegni si potrebbe fare un’ulteriore distinzione tra le installazioni che utilizzano un’interfaccia
computerizzata o con sensori (Degli avi-libera la memoria; Interno neve, Inconsapevole macchina poetica,
Reperto Antropo-logico 1997), quelle che creano un’interazione con l’utente tramite il video (Opera
d’arto, Rotodentro, Videocittà, Riflessioni interattive, Essere Non Essere, Minimo Virtuale, Vero Virtuale, DiStanze, Piccola TV-r-TV, Il cerchio nell’isola, Autoritratto-mistica del tre) e, infine, quelle che usano la rete
(X-8x8-x, UNDERMAGMA, qwertyu.net, Con.Tatto).
In quest’epoca, infatti, Verde raduna sotto il denominatore comune di “opere interattive” anche numerose installazioni che prevedevano solo il feedback video (una videocamera che inquadra il televisore a cui è collegata), senza alcun elemento computazionale. Il tema, per Verde, era
l’interazione come “attitudine”, che si può esprimere in diverse modalità e contesti anche senza
l’uso specifico di tecnologie digitali (come le tv-comunitarie, gli happening teatrali o le azioni di
scrittura collettiva). Si veda, nelle schede, la descrizione di Verde del Trittico interattivo organizzato
come un percorso tra Opera d’arto, Rotodentro, Minimal Tv, in cui tre televisori sono appoggiati a
terra, collegati ognuno ad una telecamera che li riprende, trasmettendo diversi loop pulsanti che
possono essere continuamente modificati dalle mani degli spettatori. Il pubblico può addentrarsi
in una nuova forma narrativa, frammentata su più monitor, che amplifica spazi e tempi, uscendo
così dalla pura contemplazione, potendo diventare parte integrante di questo storytelling e del suo
ambiente.
Ma, anche quando il computer entra come motore dell’installazione, non si perde la caratteristica di semplicità: protagonista è lo spettatore, il suo sguardo, il suo tatto e la sua relazione con
l’opera e con gli altri spettatori. Arte, ancora una volta, come pretesto per creare comunità.
La tecnologia usata, con i lunghi cavi di collegamento, è tutta in evidenza e non nascosta (a
differenza dei videoambienti e degli ambienti interattivi di Studio Azzurro); la televisione è appoggiata a terra, su semplici arredi o appesa al soffitto, in modo da togliere qualsiasi tipo di “aura”
e “magia” all’oggetto tecnologico, come era solito dire Verde, per porre l’attenzione sui processi
percettivi e comportamentali attivati dall’oper’azione artistica.
Incisiva, in questo senso, la comunicazione di Verde al convegno di Pisa Mediamorfosi (1999)
sulla sua idea di interattività, in divertita polemica con l’amico Paolo Rosa di Studio Azzurro:
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Secondo me l’interattività, il problema dell’interattività sta anche in questo, è inutile che ci mettiamo a pensare opere interattive aperte, con delle macchine, se non esiste una cultura e un’attenzione all’interattività, all’essere aperti. Nel testo di Paolo Rosa (Rapporto confidenziale su un’esperienza
interattiva, presentato in anteprima al Convegno di Pisa, ndr) si parla di ambiente sensibile, per
creare l’interattività, come artista. Io preferisco utilizzare un altro termine che è quello di “creare
contesti”, perché l’ambiente sensibile secondo me è soltanto una delle possibilità dell’azione artistica, e del creare opere interattive. Si possono creare ambienti sensibili, e quello è uno. Ma quello
che mi sembra, almeno a me, più interessante, è il creare contesti dove ci sono anche ambienti
sensibili, ma contesti è qualcosa che va oltre l’ambiente sensibile, che va oltre la macchina, che
comprende spazi, tempi, persone, e così via (Verde in Vassallo-Di Brino, 2004).
Risulta illuminante la spiegazione di Antonio Caronia sul particolare concetto di interattività
per Verde, che non dipende dalla tecnologia usata, da una macchina specifica o da un’interfaccia
computerizzata, pubblicata nella brochure della manifestazione milanese Techné (1999-2000):
Giacomo Verde non ama le rutilanti esibizioni di grandi tecnologie ma gli usi imprevisti, intelligenti e magari un po’ perversi delle tecnologie moderne. Non gli piace l’orgoglioso isolamento
dell’artista, la purezza dell’opera, ma la diffusione dei progetti, la contaminazione dei formati.
Così il loop interattivo, proiettato nell’ambiente coi videoproiettori, è una tecnica che tutti possono realizzare con una telecamera e un monitor. Perché l’interazione, prima di essere una caratteristica delle tecnologie digitali e un sentiero esplorato dall’arte, è una modalità dei rapporti sociali,
è la sostanza dell’esperienza umana11.
Fig. 1-2 Fotografia e disegno per L’ALTRA mi guarda negli occhi, 1993. Archivio Giacomo Verde.
Nel disegno per L’ALTRA mi guarda negli occhi e sua realizzazione nello spazio di un garage, si attua una riflessione legata all’identità che oggi definiremo Alias, un’anticipazione di quella che sarà
la possibilità di sostituire al proprio genere biologico e anagrafico quello determinato dalla propria
aspirazione, desiderio e volontà personale. I due profili maschile e femminile si incontrano nello
spazio virtuale del video, trasformando l’installazione in una simbolica maschera transgenere.
11 Dal testo di presentazione della mostra Techné (Milano 1999-2000).
Nota di lettura
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Alcune di queste oper’azioni (per dirla con le parole stesse di Verde) avevano una “filiazione”
gemella: un’installazione poteva diventare un’opera video o viceversa, come nel caso di Opera
d’Arto, che nasce da disegni realizzati con varie tecniche grafiche (inchiostro, acquarello, pastello)
in forma di storyboard per creare un video monocanale, ma in seguito è diventato un’installazione
multischermo.
Fig. 3-4 Giacomo Verde, Opera d’arto (1992); disegni e video in mostra a Liberare arte da artisti
(La Spezia, CAMeC 2022-2023). Foto: Valentino Albini.
Tra i disegni di Verde 1992-2002, che pubblichiamo nella stessa sequenza voluta dall’Autore,
sono inclusi anche schemi e bozzetti che si riferiscono a progetti non realizzati o realizzati parzialmente: colpisce la loro semplicità e le istruzioni per l’uso che invitano lo spettatore a “toccare,
spostare, dare senso” e soprattutto a rifarsi a casa l’opera.
L’unicità non era (già all’epoca) nelle intenzioni di Verde, una prerogativa e un indice di valore
per l’arte ma, al contrario, lo era la circolazione delle immagini e delle opere, la loro ricontestualizzazione continua a favore della collettività, il loro “creare comunità”. Insomma il “fare mondo”
per dirla con una espressione molto usata da Verde, a indicare l’intento sociale alla base di ogni
azione artistica.
Per il presente studio sono stati di grande utilità anche i materiali selezionati dai curatori della
mostra Liberare Arte da Artisti a La Spezia, presso il Museo d’Arte Contemporanea CAMeC (25
giugno 2022-15 gennaio 2023), primo allestimento dedicato a Verde dopo la sua scomparsa e che
ha avuto il patrocinio dell’Accademia di Belle Arti di Carrara e del Dipartimento Beni Culturali e
Ambientali dell’Università di Milano. Alla mostra dedichiamo un capitolo specifico con fotografie
documentative.
Abbiamo deciso di dare spazio, inoltre, ai progetti di neo televisione (da Piazza Virtuale alla
Minimal Tv), cronologicamente contemporanei ai disegni pubblicati in appendice, ma non presenti
nella raccolta: la Minimal Tv, primo progetto di Tv comunitaria che anticipa il fenomeno delle
Street Tv degli inizi del secondo millennio, viene inaugurata nel 1994 (con successive variazioni sul
piano tecnico e con la collaborazione di Quinta Parete e Giallo Mare Minimal Teatro).
Un capitolo è dedicato al primo progetto italiano di Networked Theatre (Connessioni Remote,
2000) e alla cybernarrazione Storie mandaliche (1999-2004), nata da un ipertesto drammaturgico di
Andrea Balzola.
Facendo ricerche nell’archivio di Verde non si può non rimanere investiti dall’energia di quell’ormai lontano mondo tecnomilitante e di quell’arte mediattivista, fatta di “zone temporaneamente
autonome”, di fanzine, di immaginari underground e cyberpunk, di identità fittizie e collettive (da
Luther Blissett a Wu Ming), di guerriglia telematica. Tutta la tecnologia al popolo; Condividere saperi tecnologici erano gli slogan di cui Verde si faceva portavoce e che erano il suo lasciapassare per il mondo.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Erano gli anni dei network dei movimenti (Isole nella Rete, Aut Art), dei primi Hackmeeting
(CPA Centro Popolare Autogestito, Firenze 5-7 luglio 1998; Milano, 1999; Roma, 2000; Catania
2001), ma anche delle prime traduzioni italiane dei testi del collettivo statunitense Critical Art
Ensemble, dell’approdo in Italia del movimento Tactical Media e Cyber Rights, della mostra AHA
(Artivism, Hacker Art, Activism) di Tatiana Bazzichelli e della pubblicazione del volume di Arturo
Di Corinto e Tommaso Tozzi Hacktivism: La libertà nelle maglie della rete (2002)12.
Che la lotta fosse finalizzata a far vincere le idee e non le tecnologie era chiaro a quei collettivi e
a quegli artisti che avevano creato la prima televisione interattiva dentro un centro sociale a Milano
e inventato la prima banca dati telematica artistica autogestita (Hacker Art BBS): stava esplodendo
il fenomeno delle realtà virtuali e Internet era ancora una promessa in via di attuazione.
A Verde, e a uno sparuto gruppo di tecnoartisti visionari come Paolo Rosa, Mario Canali, Piero
Gilardi, Massimo Cittadini e Michele Sambin, va il merito di un’instancabile ricerca sulle potenzialità espressive, sociali, etiche ed estetiche di ogni nuovo media emergente.
Fig. 5 Giacomo Verde nella casa-studio di Lucca durante un’intervista (2005). Archivio Giacomo Verde.
12 Questo panorama di pratiche di media militanti, dell’hacking e della Net Art è stato ricostruito e riproposto in maniera efficace da Emanuele Rinaldo Meschini nel saggio Squatting the Net: attivismo e digitale nelle prime esperienze italiane tra anni ’90 e 2000 all’interno di “Kabul Magazine” (https://www.kabulmagazine.com/squatting-net-hacktivism-italia/), marzo 2019.
I – L’archivio Giacomo Verde: dispositivo o reenactment
«I libri, le riviste, le foto, i miei scritti, decidete voi se creare un fondo per qualche istituzione
(…) se pubblicare i diari e i disegni oppure eliminare tutto. Ma senza sbattervi troppo. Se vien
facile bene altrimenti lasciate perdere».
Così nel testamento, Giacomo Verde parlava dei suoi materiali grafici e testuali e della possibilità di una loro diffusione pubblica. Rendere disponibili i disegni in un volume è stato un obbedire
alle sue ultime volontà, un fare ordine nel “caos creativo”, errante e anarchico, dell’archivio di
uno dei protagonisti dell’arte tecnologica italiana; abbiamo cercato di “sottrarli al tempo” e farli
diventare patrimonio comune.
L’archivio di Verde, originariamente collocato nella casa di Lucca, oggi spostato e riorganizzato
su più sedi per ragioni logistiche, è composto principalmente da opere video (in vari formati e in
redazioni distinte)1, ma anche da progetti grafici, disegni, schizzi e oggetti d’arte, oltre a un migliaio di volumi (letterari e saggistici), fumetti e cataloghi d’arte; il passato riemerge, inoltre, dalle
“scatole della memoria” organizzate e catalogate nello studio di Ponte San Pietro, contenenti numerose fotografie dei momenti chiave della sua vita privata e pubblica, che lo immortalano, oltre
che con la famiglia, con i protagonisti dell’arte scenica e tecnologica di quegli anni. Altre scatole
colorate contengono, in ordine sparso, fogli promozionali, quaderni, libretti e disegni preparatori
divisi per progetto e annata.
Fig. 1.1 Le “scatole della memoria” nello studio di Verde a Lucca.
Foto: Massimo Vitali. Per gentile concessione dell’autore.
1 La determinazione della redazione ultima dei video di Verde non è stata priva di difficoltà: come accade in letteratura, l’Autore è intervenuto nel tempo sulle sue opere con più revisioni o correzioni: è il caso di Fine fine millennio
di cui abbiamo 3 diverse versioni (o varianti) con data impressa sul contenitore VHS (1984-1987-1988).
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
L’archivio è composto anche da interi hard disk drive o unità di memoria SSD che aprono una
finestra su un universo creativo e documentale immenso, quasi impossibile da catalogare e inventariare nella sua totalità; a questa documentazione fisica vanno aggiunti anche i depositi on line:
sia il sito ufficiale dell’artista che il cloud storage e i numerosi portali creati per i vari progetti, in
parte recuperati grazie agli strumenti che la rete mette a disposizione2. L’archivio di Verde è stato
protagonista di quattro incontri alla Fondazione Cini (novembre 2022) nel contesto delle attività
del Centro ARCHiVe (Analysis and Recording of Cultural Heritage in Venice)3.
In una logica di archiviazione sarebbe stato necessario non separare questi materiali che sembrano dialogare perfettamente tra loro e connettersi tramite invisibili fili, nonostante la diversità
di formati: appartengono in fondo, a un’unica trama comune, quell’attitudine sintetizzabile nella
frase di Verde: “Fare Arte per fare il Mondo”4. Purtroppo, la contingenza del Covid non ha
concesso tempo per una più ragionata organizzazione dei materiali: al momento della scomparsa
dell’artista nel maggio 2020 venne fatto un veloce trasloco dalla casa di Verde che non era di sua
proprietà.
L’archivio di Verde si presta, più che a una storicizzazione del passato, a una prassi performativa
contemporanea:
Avanzo l’dea che l’archivio non possa essere consultato in uno stato di isolamento, ma che sia
piuttosto un oggetto relazionale in grado di influenzare direttamente i nostri comportamenti, le
nostre azioni e i nostri pensieri, e che costituisca parte integrante della nostra economia. Propongo altresì che venga progettato sul modello del dispositivo da cui vogliamo che venga prodotto
(Giannachi 2021: 12-13).
Un archivio-dispositivo del passato aperto alla creazione attuale di relazioni di memoria collettiva per costituire una rete complessa dal forte valore sociale e comunitario: come è noto, Verde
preferiva diffondere nell’immediato i propri lavori video attraverso piattaforme on line (You Tube
o Vimeo e NGVision), privilegiando il dialogo attivo dell’opera con il pubblico, al posto del preservare gelosamente l’oggetto per visioni private, museali o a pagamento; a differenza di molti artisti, per Verde l’archivio come preziosa raccolta di memorabilia non è mai stato il fine da perseguire,
perché le stesse opere erano oggetto di trasformazioni continue per rinnovare costantemente sia
l’atto della creazione che della visione; si veda l’esempio dell’installazione Rivel’Azione (1990), ri-attivata dall’autore con una performance alla Fondazione Ragghianti nel 2010.
L’opera, senza lo sguardo attuale dello spettatore, muore.
2 Internet Archive Way Back Machine ha permesso di risalire ai vecchi siti web di Giacomo Verde non più attivi.
3 Le giornate collegate con l’ARCHiVe Online Academy si intitolavano Giacomo Verde (1956-2020). Dall’archivio
del tecnoartista al libro, alla mostra, al film (a cura di Anna Maria Monteverdi) ed erano articolate come un programma formativo dedicato alla digitalizzazione dei Beni Culturali e alle Digital Humanities. Questo il programma: L’archivio Giacomo Verde, con Anna Maria Monteverdi (Università degli Studi di Milano) e Tommaso Verde
(Dramatic Iceberg); Attraversamenti: le ultrascene di Giacomo Verde, con Flavia Dalila D’Amico (Università di Roma La
Sapienza); Giacomo Verde: il teleracconto e i suoi doppi. La reinvenzione di una tecnica videoteatrale per bambini, con Vincenzo
Sansone (Università degli Studi di Milano); Dall’archivio al film, con Raffaella Rivi.
Le lezioni sono consultabili on line sulla piattaforma You Tube della Fondazione Cini. https://www.youtube.
com/watch?v=HLhrleVeGrI
4 Tra le tante spiegazioni di questa frase, la più significativa è quella inserita nel volume di Tatiana Bazzichelli (2006):
«Poiché l’arte, la rappresentazione, non cambia il mondo, allora io dico: Facciamo il mondo. Occupiamoci di fare
il mondo. A me interessa realizzare delle opere etichettate come arte perché mi servono a costruire il mondo, a
lavorare su questo direttamente. Posso utilizzare anche forme di rappresentazione, ma il mio fine non è la rappresentazione di un immaginario sul mondo, ma è “fare il mondo” e poi esprimere un immaginario. Mi piace
teorizzare che chiunque può fare arte nel senso di «fare mondo»: se si possiede un’etica estetica, per cui si vuole
migliorare il reale attraverso le cose belle, cosa c’è in fondo di più bello di creare un mondo migliore? Piuttosto
che esprimere visioni del reale più o meno piacevoli esteticamente, io dico facciamo un mondo migliore».
I – L’archivio Giacomo Verde
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Questa motivazione “relazionale” e l’evidenza dell’oggetto d’arte da mantenere “vivo”, a dispetto dell’effimerità della sua presentazione, hanno dato una chiara direzione metodologica anche alla
catalogazione dell’archivio, in vista di una sua funzione futura: l’obiettivo primario dovrà essere
quello di essere fruibile dalla maggior parte delle persone e immesso in tutti circuiti, d’arte e non5.
Certamente, considerato il rischio dell’oblio dovuto all’eccesso di documenti audiovisivi presenti in formati diventati obsoleti e dei siti di web art scomparsi o inattivi, è di gran lunga più
interessante immaginare i nuovi formati in cui l’Archivio può trasformarsi e tornare a nuova vita
tramite, per esempio, una riproposta delle opere come re-enactment in forma di film, installazione,
performance, graphic novel, che non solo un faticoso restauro del dispositivo fisico.
Come ricorda Eugenio Viola il re-enactment:
mira a creare un cortocircuito corporeo tra evento passato e presente, a sua volta passibile di
potenziali infinite ricostruzioni che dichiarano il debito al modello di partenza; e se ne assume la
responsabilità storica e morale, ne accetta la sfida e i rischi della sua attualizzazione risemantizzata
nel presente, in cui l’atto performativo diventa presentazione dell’hic et nunc in un movimento
reale e determinato dalla sua unicità performativa6.
E ancora Giannachi:
Il reenactment è una pratica fondamentale per l’attivazione degli archivi, non solo perché permette
di tradurre un Archivio nel presente, di renderlo a noi presente, quindi di iscrivere anche la nostra presenza nell’Archivio, ma anche perché, tramite questi meccanismi, permette cambiamenti
sociali, politici ed economici. Basta pensare al valore (o ai valori) dell’uso della documentazione
nei musei. È proprio tramite la documentazione che il museo determina, aggiorna e comunica
non solo il valore dell’opera ma anche la sua estetica. Il ruolo giocato dall’intangible heritage, cioè da
materiali effimeri, impermanenti, che sopravvivono solo grazie al reenactment, è da questo punto di
vista importantissimo. Credo che in realtà il patrimonio culturale, tangibile e intangibile, sia molto
dipendente dalle pratiche performative e che il reenactment possa aiutarci a conservare le opere
nel tempo. Molte opere digitali possono essere conservate soltanto attraverso il reenactment e la
reinterpretazione. Il reenactment ci dà l’opportunità di far rinascere un’opera. È interessante notare
come alcuni musei, tra cui la Tate, non parlino di reenactment ma di attivazione, come se lo stato
originario di un’opera non importi più e l’unica cosa che conta sia la possibilità di attivarla in un
contesto espositivo (Giannachi 2021).
Anche per l’archivio di Verde il termine “dispositivo” funziona perfettamente: il reenactment
afferma la nostra presenza, il nostro engagment qui e ora con il passato.
Un esempio di reenactment dalle opere di Verde è la creazione di un lavoro di Net Art da parte
di Clemente Pestelli (aka Guido Segni) come omaggio all’artista subito dopo la sua scomparsa,
nel 2020: Pestelli è intervenuto, ricreandola, sull’installazione di Verde Inconsapevole macchina poetica
(2003) in cui un programma informatico generava una poesia, ricombinando frasi ispirate ad alcuni autori utopisti con le risposte date dall’utente7.
5 Il sito verdegiac.org è sicuramente il contenitore più immediato, organizzato e di facile accesso alle opere di Verde,
depositario di quell’immagine con la quale l’artista ha voluto consegnarsi alla storia della videoarte e del teatro; un
archivio al quale l’artista rimandava per qualunque necessità di ricerca. È suddiviso per tipologia di linguaggi (videoarte; teatro; installazioni) ed è rimasto immutato alla data della morte dell’artista, su scelta del figlio Tommaso
Verde.
6 E. Viola, Lemma Performance sull’Enciclopedia Treccani on line. https://www.treccani.it/enciclopedia/
performance_%28Enciclopedia-Italiana%29/
7 L’installazione Inconsapevole macchina poetica è una delle prime realizzazioni del progetto Eutopie: «Una situazione
apparentemente familiare attende il visitatore: una tastiera e uno schermo, una sedia su cui sedersi. Ciò che incontra è un’interfaccia immediata e silente: si tratta di leggere e di scrivere, rispondendo ad alcune domande. Se
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Il curioso titolo della nuova opera web è THERE’S NO PICTURES IN LATENT SPACE,
JUST SECRET MISUNDERSTANDING So, how a surveillance algorithm generated a list poem
while spying at pictures on my computer.
L’artista ha installato un algoritmo di sorveglianza sui suoi dispositivi digitali che quotidianamente descrive quello che accade mentre spia le immagini: un tentativo di riprodurre una scrittura
automatizzata priva di qualsiasi intenzionalità creativa, appunto un’inconsapevole lista di frasi che
altro non sono che il frutto degli equivoci alla base dell’interpretazione della macchina.
Fig. 1.2-1.3 Screenshot della web opera di Guido Segni; a destra, Inconsapevole macchina poetica.
Archivio Giacomo Verde.
Un altro reenactment dall’archivio di Verde è rappresentato da due opere di giovani artisti d’Accademia: Lorenzo Antei ha proposto nel 2022 una rilettura creativa dall’iconico video di Verde Fine
fine millennio (1987), che era una feroce critica alla visione di guerra (quella in Iraq) attraverso la
televisione. Antei ha usato immagini dalla piattaforma social Tik Tok utilizzando anche algoritmi
di intelligenza artificiale: la sua è un’opera video generativa sulla guerra in Ucraina vista attraverso
i canali dei social media e si intitola (mi)rage – you’re in an empty place for 24 hours a day, 7 days a week;
è stata esposta al CAMeC per la mostra monografica su Verde, Liberare Arte da Artisti (La Spezia,
giugno 2022-gennaio 2023). In un’epoca in cui la guerra continua a incombere, siamo informati
dei conflitti nella confusione di notizie che passano dal web, che mescolano la guerra alle mille
idiozie dei social. E così Antei altera i colori del suo video per mantenere un aspetto cromatico
molto simile all’opera di Verde che nel 1987 aveva ripreso la TV con la telecamera, scarabocchiando con i pastelli lo schermo per mostrare che la televisione non informa, ma crea solo immaginario astratto; Antei porta la guerra all’attenzione di spettatori digitali recuperando immagini casuali,
generate dall’algoritmo usato per la ricerca sul web che restituisce la risposta alla parola War, che
può essere una sequenza vera dal fronte di guerra o la marca di uno shampoo. Così Antei spiega
il suo approccio alla rilettura dell’opera di Verde di 35 anni prima:
L’idea mi è venuta dalla comparsa delle clip dell’invasione Ucraina su TikTok. Il suo tema principale è la F.O.M.O. (fear of missing out), l’ansia delle esperienze mancate che sembra caratterizzare la
nostra generazione. Nonostante questa prima divergenza, mi piace notare parecchie affinità con
l’opera di Giacomo Verde che non ho conosciuto. Lo “sporco” di Fine fine millennio è qui costituito
il visitatore decide di non sottrarsi al chiedere, se entra nel gioco, attraverso le sue risposte innescherà un inconsapevole processo poetico. Suoni e immagini evocativi avvolgono il visitatore per metterlo in relazione con la
visione del mondo di Julian Beck o di San Francesco, del Subcomandante Marcos o dell’inventore del microcredito Mohammad Yunus. Rispondendo alle domande ispirate dalle parole di questi 4 utopisti riscoprirà le proprie
risposte trasformate in poesia. Si compie un rito in cui ha luogo e prende forma l’utopia. È il generarsi di nuova
poesia, sussurrata e indelebile nella macchina che vive essa stessa di poesia e Utopia. La macchina poetica - il cui il
tema costante è l’Utopia - può essere dedicata a diversi altri argomenti e l’attivazione delle domande può prendere
spunto da altri testi e autori». Scheda dell’Autore.
I – L’archivio Giacomo Verde
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dai video-meme generati dai miliardi di utenti sul social network. In (mi)rage, immagini del fronte bellico, pillole culturali ed interpretazioni di benessere vengono estrapolate dal social e amalgamate
in un flusso audiovisivo continuo, puntuale e casuale. Il flusso potrebbe, per certi versi, essere
paragonato all’idea originale di montaggio diretto in macchina di Verde (Antei in Monteverdi 2022).
Fig. 1.4.-1.5 L’opera video generativa di Lorenzo Antei (mi)rage. A destra il video di Verde Fine fine millennio (1987),
La Spezia, Museo CAMeC. Foto: Valentino Albini.
Elisa Squarciapino, invece, ha usato il videogame per il suo reenactment dal titolo Lupi e pecore: è
partita da Chi pecora si fa lupo se lo mangia, una performance del Tam TeatroMusica di Padova videodocumentata da Verde (D’Amico 2022). L’opera è on line ed è come un semplice videogame;
attraverso poche domande ci viene attribuita una skin cioè un’identità virtuale in questo ambiente
di gioco, sulla base delle risposte: così diventiamo o lupo o pecora. E insieme si va a manifestare
per la pace sfilando con docili animaletti, scaricando con il QR code. L’opera è tuttora disponibile
all’indirizzo: https://www.lupipecore.online/guestbook.htm
Fig. 1.6 Screenshot dell’opera Lupi e pecore di E. Squarciapino (2022).
Archivio: testimonianze 1992-2002
Alcune scatole dell’archivio contengono brochure, cataloghi, fogli di presentazione e locandine
di rassegne sull’audiovisivo d’arte, sulla neodidattica e sul virtuale che testimoniano la presenza
di Verde in Festival e rassegne sulla comunicazione e sulle tecnologie, non solo nei luoghi ufficiali della cultura, ma anche in sedi spesso improvvisate e underground (i Magazzini Generali di
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Milano, i Centri Sociali Occupati Conchetta e Leonkavallo di Milano, il Link di Bologna, Interzona
di Verona).
Verde nel decennio 1992-2002 è invitato a tutte le maggiori manifestazioni di videoarte e arte
interattiva tra Milano, Pisa, Roma, Salerno, La Spezia e Bologna (Ondavideo, Invideo, Videopresenze,
Mediamorfosi, Bellaria Film Festival, Alpe Adria Festival, Tekné, Cyberia, Pow, Museo Elettronico MuEl,
La Musa Tecnologica, Segnali d’opera, Visioni elettroniche, ArtMedia), oltre che agli eventi dedicati alla
hacker art (Hack it, Firenze 1998). Verde ha percorso l’Italia attraversando geografie minori, piccoli paesi della Toscana o del Veneto dove i Circoli Arci, le sedi di Associazioni o le Case del Popolo
ospitavano concorsi, laboratori video amatoriali e videofestival.
Questi dépliant e materiali, ciclostilati o fotocopiati, sono evidentemente una testimonianza sia
di una partecipazione attiva di Verde alla scena controculturale italiana, sia di un’epoca che iniziava
ad avere a che fare con un’arte per la quale non erano ancora progettati spazi adatti per accoglierla. Insieme a queste testimonianze troviamo fanzine, fumetti, libri di fantascienza e le prime
riviste che informavano sul nascente mondo digitale (Noema, Virus, Virtual8), le pubblicazioni
underground di Decoder e della casa editrice milanese Shake: tutto questo materiale rappresenta
un lascito d’archivio molto importante per riconoscere quel tratto deciso, fortemente incline a
un’estetica politica di Verde, che solo in seguito avrà un nome ben preciso: Artivismo.
Fig. 1.7 Locandine e brochure dell’Archivio alla mostra Liberare Arte da Artisti (La Spezia, CAMeC, 2022).
Si noti a sinistra, il calendario Della Natura Elettronica (1997) realizzato con i frame dai video di Verde e, a
fianco, il pieghevole della storica manifestazione Pow (1987). In mezzo, il manifesto di Piazza Virtuale, CSO
Conchetta, Milano (1991). Foto di C. Infante.
Gli anni tra il 1993 e il 1998 sono decisivi per l’arte virtuale9, per la computer graphics, per la
computer art, per l’hacker art e per l’arte di rete; tra le presenze costanti in questi eventi insieme a
Verde ci sono artisti, filosofi, critici e “militanti tecnologici”: Carlo Infante, Franco Berardi (Bifo),
Fabio Malagnini, Gabriele Perretta, Stefania Garassini, Ernesto Francalanci, Pierluigi Capucci,
Maria Grazia Mattei, Tommaso Tozzi, Stranonetwork (collettivo fiorentino che lavorava sui temi
8 Stefania Garassini fonda nel 1993 la rivista Virtual, una delle principali promotrici della cultura cyber italiana; la
dirigerà fino alla chiusura, nel 1998; tra gli autori ci fu anche Antonio Caronia (a cui venne affidata la rubrica “Il
filosofo e la farfalla”).
9 La sua nascita è datata 1968 con riferimento al saggio di Ivan Sutherland A head mounted three dimensional display.
Sulla storia delle tecnologie del virtuale rimandiamo a B. Wooley 1993.
I – L’archivio Giacomo Verde
27
della comunicazione) e, ovviamente, lo studioso di immaginari scientifici e tecnologici ed esperto
di letteratura di fantascienza, Antonio Caronia.
L’autore di riferimento in questo periodo è ancora McLuhan, ma verrà sostituito ben presto da
Derrick De Kerchove, Piérre Lévy, Jean Baudrillard e Nicholas Negroponte10.
Il corpo postumano, il cyborg, le reti BBS, la controcomunicazione, l’intelligenza collettiva,
l’hacker art, il rapporto naturale e artificiale, il processo di mutamento percettivo, semantico e
sensoriale, scatenato dalle
opere interattive, sono i temi
principali, oggetto del dibattito artistico di questi anni, a
cui si aggiungerà, per Verde,
la pratica del virtuale con il
personaggio Euclide creato con Correnti Magnetiche
nel 1994 e da lui animato
con il cyberglove; in seguito, il sistema sarà preso in
mano da Stefano Roveda che
lo rimodellerà: il design del
nuovo personaggio virtuale
Bit sarà firmato da Massimo
Giacon con la produzione
di Pigreco-Studio Azzurro.
Verrà presentato alla II edizione di Cyberia (1994) e a
Salon Bit- salone del multimedia e dello spettacolo digitale (1997).
Cataloghi e brochure
dell’archivio ricordano la presenza di Verde ad alcuni tra i
più importanti eventi istituzionali del decennio 19922002: ad esempio Arte elettronica e linguaggi televisivi alla
Rai-Dipartimento Ricerca e
Fig. 1.8-1.9 Derrick De Kerchove in visita allo stuSperimentazione di Roma
dio dove Verde animava il personaggio virtuale Euclide.
(10-13 dicembre 1996). Per Fotografia senza autore e data. A destra Verde col cyberglove ai
la prima volta negli spazi di
primi anni Novanta. Archivio Giacomo Verde.
Viale Mazzini trovano posto
installazioni degli artisti video internazionali più importanti dell’epoca, da Bill Viola a Steina e
Woody Vasulka, a Nam June Paik. Tra gli italiani sono presenti, con proprie installazioni video
10 La triade De Kerchove-Lévy-Negroponte influenzerà dichiaratamente molti artisti dell’epoca: De Kerchove intendeva il cervello come ecosistema in dialogo con tecnologia e cultura; Lévy aveva introdotto il tema dell’intelligenza collettiva ovvero di come il sapere e l’immaginazione fossero diventati condivisibili, e Negroponte osservava ottimisticamente i cambiamenti delle nostre esistenze in relazione alle tecnologie del digitale; a questi autori
si aggiunse Jean Baudrillard che parlava del simulacro e dell’iperrealtà in epoca telematica (con riferimento, non
casuale, alla Guerra nel Golfo nel 1991).
28
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
e/o interattive, oltre a Verde, Studio Azzurro,
Theo Eshetu, Mario Canali/Correnti Magnetiche,
Fabrizio Corini, Flavia Alman e Sabine Reiff e
Mario Sasso. L’installazione di Verde è multipla e
prevede un percorso attraverso Opera d’arto, RotoDentro, Minimal Tv.
L’evento è particolarmente importante perché
vengono presentati anche i famosi Count down
televisivi per la Rai, montati sul videowall e firmati da Gianfranco Barucchello, Mario Canali,
Ugo Nespolo, Emanuele Luzzati, Mario Sasso,
Fabrizio Plessi, Enzo Cucchi, Giacomo Verde,
Nam June Paik, Luca Patella, Alighiero Boetti e
Studio Azzurro. Mario Sasso era l’art-director.
Nell’archivio sono presenti gli story board delle
due proposte di Verde per il Count down: quello selezionato verrà realizzato col sistema di animazione PaintBox.
L’archivio riporta brochure e cataloghi di due
edizioni de La natura virtuale (Modena 28 agosto-19 settembre 1993) curata da Pierluigi Capucci.
Fig. 1.10 Pagina dello story board
Nell’introduzione Capucci indica, come temi
di Prima del maestro-Count down (1996)
dell’edizione, l’etica e la sperimentazione consapeArchivio Giacomo Verde.
vole, in base ai quali erano state selezionate le opere tecnologiche. È presente l’installazione interattiva di Verde Roto-dentro, l’opera di computer art
dei Giovanotti Mondano Meccanici, Silicon Sounds for Dusty Actors, e il progetto di comunicazione
interattiva di Tommaso Tozzi, Happening digitali interattivi.
La manifestazione che lo ufficializzerà tra i protagonisti nel mondo della videoarte è MuEl Museo elettronico- rassegna internazionale di Arte nel video (Pisa, Palazzo Lanfranchi, 35-36-37 novembre 1993). Organizzata da Sandra Lischi con Ondavideo, in collaborazione con il Dipartimento
di Storia delle Arti dell’Università di Pisa, il MuEl dedica l’edizione 1993 alla creazione artistica e ai
musei attraverso l’opera dei videoartisti. Verde è presente con 5 video: Tromboloide (1992, ritratto del
pittore Gianni Asdrubali all’opera); Traspareti in mostra (1993, video su Mario Martinelli); Stati d’animo (1990, animazione digitale con PaintBox dal trittico di Boccioni); WDR Marì (1988, omaggio a
Nam June Paik); Tutto quello che rimane - 1° messaggio (1992-1993: gli affreschi di Giotto interpretati
dai detenuti del carcere di Padova a seguito di un laboratorio teatrale del Tam TeatroMusica).
Un’altra manifestazione su arte interattiva con presentazioni di opere è Virtual Light. Nuove
frontiere nella comunicazione e nell’arte (Bari, 8-23 marzo 1996, Palazzo Fizzarotti) curata da
Antonella Marino e Gabriele Perretta. Il catalogo, con dedica a Verde, è particolarmente curato
nella grafica con schede di color grigio-blu tech e con testi organizzati sulla base di parole chiavi:
cyberspazio, no copyright, realtà virtuale, corpo cibernetico, immagine sintetica, il mondo delle
reti.
Nel 1995 Verde è stato anche organizzatore a Treviso, dove abitava, dell’evento annuale Stati
virtuali (Palazzo Onigo): le brochure in archivio mostrano la grafica tipica dell’editoria indipendente firmata dallo stesso Verde.
Visioni frammentate (La Spezia, Officina delle idee, 4 ottobre 1998), a cura di Anna Monteverdi,
presenta un’installazione video di Giacomo Verde insieme alle fotografie di Jacopo Benassi, che
I – L’archivio Giacomo Verde
29
diventò, alla fine degli anni Novanta, il ritrattista
ufficiale dell’artista e oggi è uno dei protagonisti
della nuova fotografia italiana.
Segnali d’opera. Arte digitale in Italia (1997), collegato al Premio Arti Visive-Città di Gallarate,
ha ospitato le opere di Ennio Bertrand, Tullio
Brunone, Mario Canali, Piero Gilardi, Gmm, Ale
Guzzetti, Mario Sasso, Studio azzurro, Tommaso
Tozzi, Giorgio Vaccarino, Giacomo Verde. Nel catalogo viene sottolineato il carattere innovativo e
maggiormente rappresentativo delle opere selezionate che rimarranno al Museo di Gallarate (oggi
MA*GA)11.
Da ricordare anche Mediamorfosi. Arte tra azione
e contemplazione (Pisa, Palazzo Lanfranchi, 15-30 ottobre 1998). Si tratta di una delle manifestazioni più
importanti per l’arte interattiva in Italia: promossa
dall’Associazione L’occhio di Silvana Vassallo, in
collaborazione con OndaVideo di Sandra Lischi e
il cinema Arsenale, ospitò, in varie sedi, incontri,
Fig. 1.11 Copertina del catalogo Virtual Light.
installazioni, proiezioni, concerti, e un importante
Archivio Giacomo Verde.
convegno con filosofi, scienziati, esperti di tecnologia ed estetica, storici dell’arte. Tra gli artisti che
presentarono le loro installazioni: Tony Oursler, Ennio Bertrand e Piero Gilardi, Robert Cahen,
Bill Viola (sarà presente la sua curatrice Deirdre Boyle); Verde, insieme con il gruppo ZoneGemma,
presentò la prima parte dello spettacolo interattivo, con uso di Mandala System, Storie mandaliche.
In questa occasione Giacomo Verde allacciò rapporti stretti con il filosofo Alfonso Iacono, con il
musicista Mauro Lupone e con Silvana Vassallo, che curerà nel 2018 l’unico volume monografico
sull’artista, dal titolo Giacomo Verde videoartivista per la collana I Mirtilli diretta da Sandra Lischi per
la casa editrice ETS di Pisa.
Infine, ricordiamo Techné (Milano, novembre 1999-gennaio 2000), da un’idea di Massimo
Cecconi, Romano Fattorossi, Ludovica Fonda e Giuseppe Manzoni; in quell’occasione Palazzo
Oberdan ospitò installazioni interattive e sensoristiche e di Net Art di Mario Canali, Steina Vasulka,
Robert Cahen, Studio Azzurro e Giacomo Verde. La presenza della Vasulka alla mostra Techné fu
uno dei momenti più significativi anche per la portata politica del lavoro artistico in esposizione:
Machine Vision, un ambiente elettronico, ottico e meccanico che contiene dispositivi come specchi
mobili guidati da ingranaggi, sfere lucide, in cui le telecamere con bracci mobili riprendono solo
una porzione di spazio, restituendo un’idea nuova di realtà: qualcosa che si muove in continuazione, senza un punto di vista unico e privilegiato sul mondo, centrale e, soprattutto, umano.
11 Verde propone l’installazione Reperto Antropo-logico 1997: il catalogo della mostra, presente in Archivio, riporta
il disegno e la fotografia del prototipo dell’opera (una sedia a rotelle in grado di muoversi circolarmente su una
pedana appena l’utente si siede e di avviare il computer su Internet: quest’azione soddisfa tutti i fabbisogni di chi
“abita” l’opera).
30
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
L’archivio video
Il materiale audiovisuale, depositato per anni dall’artista nella sua videoteca al primo piano della
casa-studio lucchese, è suddiviso in vari formati: da quello professionale Betacam al più casalingo
VHS (dove spesso sono raggruppati anche più video insieme); l’artista aveva da tempo già effettuato la digitalizzazione delle sue opere video analogiche, archiviate in DVD e successivamente
duplicate su vari hard disk e pen drive, per mostrarli in occasioni di eventi, festival o seminari. Nell’Archivio audiovisivo di Verde, ritenuto di interesse nazionale dalla Direzione Generale
Creatività Contemporanea, nel 2018 risultavano censiti dal progetto VARiA – Video ARte in ItaliA
- 300 VHS, 40 U-Matic e BVU, 10 Betacam, 100 Hi8, 100 MiniDV, 100 DVD: si tratta di opere
video e di documentazione di installazioni, performance e spettacoli teatrali.
Le cassette Mini DV (ovvero Mini Digital Video, il formato che derivava dalla Sony DCRTRV900E) furono il formato più utilizzato da Verde dalla fine degli anni Novanta12.
Fig.1.12 Master in BVU, Betacam, VHS, DVD e girati in Mini Dv di Verde in teca alla mostra Liberare Arte da
artisti (CAMeC SP, 2022). Si noti la copia Dub di Residenze temporanee e il Master BVU di Tutto quello che rimane.
Foto: Deborah Mattiello.
Sulla conservazione e catalogazione delle opere “time-based”, resa complessa dalla ben nota
obsolescenza delle tecnologie e dalla sparizione dei macchinari di riproduzione, la studiosa Iolanda
Ratti osserva correttamente:
I nuovi media presuppongono uno stravolgimento dei concetti di originalità e autenticità che
stanno alla base dell’arte tradizionale. Dai video su nastro magnetico a quelli nativi digitali, dai
vinili ai file audio agli NFT, alla base dei nuovi media non sta un oggetto da conservare nella
sua integrità, bensì un concetto da riprodurre attraverso una tecnologia che a sua volta cambia
in continuazione e si evolve a una rapidità inedita e indipendente dal sistema dell’arte. Migrare i
formati, clonare i file, predisporre exhibition copies e programmare la sostituzione di componenti
tecnologiche obsolete diventano operazioni fondamentali (Ratti 2023)
In questa sintesi viene spiegata la problematica più urgente anche della sezione video dell’archivio Verde: la necessità sì di preservare l’originale (il girato e il Master in formato non compresso)
ed eventualmente di restaurarlo, ma soprattutto di migrare l’opera nel formato digitale oggi più
12 Il volume interviene sulla documentazione audiovisiva a cui abbiamo avuto accesso al momento della ricerca, ma
non escludiamo che altri materiali, non catalogati, possano essere ritrovati in altri depositi.
I – L’archivio Giacomo Verde
31
adatto con cui farlo circuitare senza perdita di qualità e di definizione (Coassin 2007); l’archivio
video di Verde segue l’evoluzione della tecnologia, che nel corso degli anni ha proposto vari supporti che vanno distinti tra quelli destinati alla visione domestica (VHS, S-VHS) e quelli destinati
alla visione professionale (U-Matic, Betacam) o semiprofessionale e amatoriale (Hi8). Questi supporti sono stati progressivamente soppiantati, a partire dalla fine degli anni Novanta, dai formati
di archiviazione digitale che consentivano una qualità audio/video migliore13.
VHS, Hi8, S-VHS, ovvero i formati consumer dominanti e più utilizzati per l’homevideo negli
anni Ottanta e metà degli anni Novanta, oggi hanno raggiunto una fase critica a causa dell’obsolescenza del formato e del deterioramento del supporto (Catricalà 2016); i nastri magnetici
dell’archivio, in alcuni casi, hanno perso la potenza del segnale e il colore originale, diventando in
alcuni casi illeggibili a causa della cattiva conservazione e della muffa formatasi negli anni: è indispensabile e urgente intraprendere operazioni di restauro tecnico della copia conservativa, al fine
di rallentare il processo di decadimento, stabilizzarne lo stato e, quindi, provvedere a preservarla
per evitare perdite importanti di contenuto14.
Ricordiamo, inoltre, che alcuni Master video del primo periodo di Verde sono depositati all’Archivio di Blow up audiovisivi, di Gabriele Coassin, che dal 1986 iniziò a produrre le opere video
dell’artista, in virtù di una profonda amicizia e di una assidua frequentazione dovuta anche alla
residenza nella stessa città, Treviso15. Il confronto con le schede di quell’archivio hanno permesso
di identificare e localizzare i Master, arrivando anche a determinare la generazione di copie realizzate dall’artista in altri formati.
L’archivio di Verde, come già ricordato, accoglie molte videocassette per la particolarissima
modalità di lavoro dell’artista, che privilegiava la bassa risoluzione: l’artista empolese-napoletano
girava direttamente in VHS (firmandosi con la sigla Sestessi video), ovvero nello stesso formato
con cui il suo pubblico avrebbe visto le opere, con un videoregistratore di bassa qualità e una tv
casalinga.
13 Con riferimento all’archivio Verde, si può osservare come dal 1991 al 1994 l’artista lavorasse con il formato ancora analogico Hi8; dal 1995 invece, inizierà a utilizzare il Digital Video. Vediamo l’esempio emblematico di Solo
limoni, il documentario girato da Verde nel 2001 il cui Master era originariamente in Betacam e il sub Master (cioè
il “dub”, la prima copia da cui fare duplicati) una cassetta Sony PDV 184N; ne rimangono in archivio numerose
copie in vari formati di bassa qualità, soprattutto in VHS (evidentemente duplicate per presentazioni nei circoli
e nelle scuole ancora dotati all’epoca, solo di videoregistratori); successivamente il video è stato digitalizzato in
formato compresso per essere diffuso in rete: troviamo varie copie in DVD e DVX (compressione richiesta dal
portale Creative Commons NGVision dove è attualmente depositato). A causa di questa numerosa generazione
di formati, nel 2021 si è deciso di utilizzare direttamente il Master in Betacam per ottenere una nuova e definitiva
copia digitale in formato AVI per garantire l’alta qualità dell’immagine, attualmente conservata in un hard disk
dedicato. In questo caso per la digitalizzazione è stato utilizzato un lettore Sony J-30SDI collegato a una scheda
di acquisizione Grassvalley HDStorm: il video è stato salvato in AVI; per avere più copie nei formati più comuni,
leggeri e compatibili con la maggior parte dei browser, nonché utili per lo streaming video attraverso Internet, si
è salvato anche in MPEG2; MP4; H265. I formati open source sono, infatti, più a “prova di futuro” rispetto ai
formati proprietari: per questo si è scelto MP4 e AVI utilizzando un codec aperto.
14 Nel 1991 la migliore stima di longevità di questi materiali, secondo Sony, era di circa 30 anni. Tra le problematiche
conservative del nastro magnetico: il deterioramento della testina (sticky shed syndrome) e l’illeggibilità dovuta ai campi
elettromagnetici, all’ossidazione e ai guasti meccanici (drop out). Non esistono sistemi o metodologie standardizzati
per valutare gli effetti fisici o di perdita di dati dell’invecchiamento del nastro e molti VHS con protezioni inadeguate
possono essere vulnerabili agli effetti della variazione di umidità (Plutino-Rizzi 2020; Sabatini 2010).
15 Gabriele Coassin è fotografo, autore e produttore di cortometraggi e videoclip (per Blow Up Audiovisivi e
Plurimedia) e archivista, già docente di Tecniche Multimediali, Teoria e Metodo dei Mass Media e Progettazione
Creativa dell’Audiovisivo per oltre 10 anni (Università di Udine, Università di Pisa e Accademia di Belle Arti di
Venezia). Autore di pubblicazioni sulla ripresa e montaggio video e su antiche tecniche della fotografia, ha collezionato oltre duecento quintali di reperti e pubblicazioni su foto-cine-audio-video del Novecento nella speranza di
creare un piccolo museo esperienziale, la cui unica parte attiva, oggi, è il laboratorio di restauro e digitalizzazione.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Il Master, quindi, era direttamente in VHS: firmando il contenitore ne dichiarava la natura di
“originale”.
Fig. 1.13-1.14 La videoteca di Verde a Lucca. Foto di Massimo Vitali. Per gentile concessione dell’autore.
A destra l’originale VHS dell’opera RUH firmata dall’Autore. Foto: Valentino Albini. Archivio Giacomo
Verde.
La spiegazione in modo diretto, ce la fornisce lo stesso Verde al convegno Mediamorfosi (1998):
Tutto il lavoro che facevo inizialmente, da allora fino ad adesso, e continuo a fare, è quello di smitizzazione della tecnologia, di rottura anche dello schermo televisivo, cercando di far vedere come
si può usare la tecnologia in una maniera disincantata, sostanzialmente. Allora, prima iniziando
a fare video in casa, con il VHS che era in controtendenza rispetto a tutto il mercato della video
arte dove sembrava che ci dovessero essere soltanto le grandi macchine. Soltanto se utilizzavi le
ultime macchine sul mercato, allora potevi essere considerato creativo. E allora invece no, basta,
da bravo post punk dicevo: «No, si può fare arte, si può fare video anche con il VHS» (Verde in
Vassallo 2004).
Se il Master presente in Archivio è, invece, in un formato professionale, per lo più era “derivato” dal VHS, come ci assicura Gabriele Coassin, testimone più diretto del metodo di produzione
e d’archiviazione di Verde:
La logica di produzione video di qualità parte dal girato e montato in un Master di formato
professionale (in quegli anni, prima 3/4» U-Matic, poi Betacam, nelle loro molteplici varianti
europee) per arrivare ad una copia dello stesso formato di alta qualità (detta Dub o Sub-Master)
da inviare ai festival o alla messa in onda TV. Qualità alta, costi impegnativi, durata nel tempo
medio-alta. Per la distribuzione domestica o scolastica si facevano copie in svariati formati amatoriali (consumer) tra i quali ha predominato il VHS. Qualità bassa, costi accessibili, durata medio-bassa. Ora si può constatare dall’Archivio di Giacomo che il suo scopo non era raggiungere
la perfezione tecnica andando ad indebitarsi (come facevo io per accedere al mercato TV…); per
trasmettere un certo messaggio o creare un’opera socialmente e artisticamente pregnante poteva
benissimo partire dalla produzione di un master di bassa qualità in VHS (in seguito in HI-8) ed
eventualmente ricorrere alle mie apparecchiature professionali solo per le copie da distribuire, per
aggiungere un titolo o qualche effetto convenzionale e infine per ottenere una copia su supporto
professionale. Quindi ci troviamo nel capovolgimento che potrebbe mettere in crisi un archivista
frettoloso, che potrebbe dare per scontata la falsa verità che un VHS è sempre una copia di minor
qualità, e un U-Matic, solo per fare un esempio, è sempre un MASTER (Coassin in Monteverdi
2022).
I – L’archivio Giacomo Verde
33
Di seguito l’elenco delle video opere 1983-2000 con le specifiche tecniche del formato Master
rinvenuto in archivio e catalogato: dodici video d’arte che trattano diversi argomenti attraverso
una “narrazione per immagini” in cui il vero soggetto è sempre l’Autore, il suo punto di vista
sull’evento o sull’oggetto, con una costante riflessione critica, e spesso ludica, sul rapporto tra
arte, immagine e realtà. Dai video “poveri” realizzati con tecnologia domestica degli anni Ottanta
ai sofisticati 3 minuti di computer grafica di Stati d’animo (1990).
Quando nella lista sono nominati due formati, il primo è il Master, e il secondo il Sub Master.
Non vengono riportati altri formati replicati e presenti in gran numero in archivio.
– Fine Fine Millennio - 1984/87/88 - 10’ - VHS/Umatic - prod. Sestessi video. Blow Up
audiovisivi
– Costruzioni Abbandonate - (con Andrea Bini) -1984 - 5’ - VHS - prod. Residual Gruppe
– WDR Marì -1984/88 - 5’ - VHS/Umatic - prod. Sestessi video, Blow Up audiovisivi
– Stati d’animo -1990 - 3’ - Paint Box - prod. Eta Beta
– Esterno Lento -1991 - 4’- Hi8 - prod. Sestessi video
– Ravenna Dakar -1990 - 14’ - VHS/BVU - prod. Sestessi video
– Estetica Dolce - 1993 - 1’21” - Betacam - prod. Sestessi video, Blow Up audiovisivi
– Sommario della rivista Vanità - (con Lello Voce) - 1994 - 4’,40”- Hi8 - prod. Sestessi video
– Opera d’Arto Video Remix - 1994/98 - 13’,49” - Hi8 - prod. Sestessi video
– Demo Minimal TV -1996/2001 - 7’ - SVHS/Digital Video - prod. Quinta Parete
– Residenze Temporanee -1998 - 16’,31” - Digital Video - Prod. Fondazione Teseco per l’Arte
– L’Attesa -1999 - 4’,45” - Hi8 - Prod. Sestessi Video
– Gente Ugualmente - 2000- 22’,40” - Digital Video - Prod. Sestessi Video, Comitato Contro la
Guerra di Treviso.
Archivi per il teatro e la performance
Uno dei nodi più problematici dell’Archivio di Giacomo Verde è la documentazione audiovisiva
delle performance, tema a cui sono stati dedicati numerosi convegni16.
Gli spettacoli sono eventi dal vivo, quindi la transitorietà e l’effimero sono le loro caratteristiche
principali: Peggy Phelan afferma che la performance «diventa sé stessa attraverso la scomparsa»
(Phelan 1993), Marco De Marinis ricorda che nulla può sostituire il documento principale (lo
spettacolo) perché la proprietà più significativa della performance sono le relazioni tra performer
e pubblico attraverso lo spazio (2000); ma aggiunge anche che la video documentazione potrebbe
rispondere a questa esigenza di esplorazione della sua natura processuale (De Marinis 1985).
Se analizziamo le arti performative nella loro dinamica temporale troveremo molte tracce di
evidenza documentale (note di regia, scenografie, video, fotografie, registrazioni sonore), ma anche le performance digitali sono assolutamente irripetibili e generano documentazione effimera
(video di prove, rendering 3D, immagini video, design interattivo); a causa dell’obsolescenza di
software, hardware e rete, le opere d’arte nate in digitale sono oggetto di un costante mutamento
tecnologico (Sabatini 2013). Seguendo Clarisse Bardiot, si può superare l’inesattezza delle registrazioni video delle performance live distinguendo il formato “intra-documentario – il video
registrazione della performance – da quello inter-documentario – un corpus documentario più
ampio che include annotazioni scritte, sonore e grafiche” (Bardiot 2017)17.
16 Cfr.: Open Data-Open Access: New Frontiers for Archives-Digital Platforms for Performing Arts (Roma, 2019), Performing the
future. Institutions and Politics of Memory (SIBMAS, Varsavia 2020), Activating the Archive (EYE Conference, 2018).
17 Il primo Archivio delle Digital Performance è stato un progetto di ricerca guidato da Steve Dixon (1999, Bristol
University), che si è concretizzato in un data base on line di performance digitali degli anni Novanta.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
L’Archivio audiovideo teatrale di Verde, oltre a documentare la sua attività tecnoperformativa e
le sue videocreazioni, è anche “un archivio di archivi”, dal momento che aveva collaborato con numerose compagnie teatrali (il Tam Teatro musica, Le Albe, Aldes, Nanni Balestrini, Marco Paolini,
Giallo Mare Minimal Teatro, Roberta Biagiarelli, Lucio Diana, Adriana Zambon) per realizzare
video documentativi e d’autore conservandone spesso il Master: rimangono in archivio anche
interessanti registrazioni di prove o frammenti di repliche teatrale (come Liberi tutti al Festival di
Santarcangelo e il Vajont di Marco Paolini a casa di Verde a Treviso, nonché registrazioni integrali
di spettacoli del Teatro delle Albe come Lunga vita all’albero).
Rientrano, poi, in un interesse specifico, i materiali preparatori, in forma di animazione e disegni, di alcuni video che hanno avuto scarsa circolazione nei festival (come i quaderni per i videofondali e gli appunti video per Il cerchio nell’isola, realizzato con il Tam Teatromusica).
La produzione videoteatrale di Verde viene consacrata dalla sua presenza a Scenari dell’immateriale, festival di confine tra Video, Teatro, Musica e Arti visive ideato da Carlo Infante (Narni, 1822 maggio 1989): da qui passeranno tutti gli artisti che lavorano all’incrocio tra le arti (da Studio
Azzurro a Italo Pesce Delfino, a Agata Guttadauro/Magazzini, a Lorenzo Perone e Lucio Diana).
Con le Albe, a cui era particolarmente legato, partecipò al progetto di “meticciato teatrale”
afro-romagnolo Ruh. Romagna più Africa uguale (1988) facendo parte del tour in Senegal anche
come attore e suonatore di zampogna (in Siamo asini o pedanti e Lunga vita all’albero) e realizzando
sia il video Ravenna-Dakar che Ottica Dakar18(1990).
Con i GialloMare Minimal Teatro (fondato a Empoli da Renzo Boldrini e Vania Pucci), il lavoro
comune parte dai primi teleracconto19 alla fine degli anni Ottanta (Hansel e Gretel, Boccascena, Lieto il
fine), continuando con moltissimi progetti di formazione e coproduzione di spettacoli che vedono
Giacomo Verde creare e animare personaggi e video scenografie (DG Hamelin, Bit e Bold raccontano
Biancaneve).
La fortunata invenzione di Verde del teleracconto viene “adottata”, con modifiche sostanziali,
anche da Adriana Zambon e Lucio Diana (Casa degli Alfieri). La compagnia La Piccionaia di
Vicenza di Carlo Presotto e Paola Rossi utilizzerà il teleracconto in collaborazione con Verde per
Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Bar Miralago, E fu così che la guerra finì.
Con il Tam Teatromusica (D’Amico 2020) Verde segue il progetto teatrale triennale della compagnia Medit’azioni all’interno del Carcere Due Palazzi di Padova; darà vita a un lavoro video d’arte
molto toccante e presentato in molti festival d’arte elettronica italiani, dal titolo Tutto quello che
rimane (1993), ispirato agli affreschi di Giotto della Cappella degli Scrovegni. Ancora oggi è considerato uno dei capisaldi del videoteatro italiano: il teatro entrava nel territorio del sociale e il video
aveva la funzione di comunicare quella realtà invisibile sotto forma di performance interpretata
dai detenuti stessi, guidati da Pierangela Allegro e Michele Sambin.
Verde ha collaborato a lungo, inoltre, con il poeta e amico Lello Voce e con Nanni Balestrini,
aggiungendo immagini elettroniche astratte ai loro reading per festival ed eventi, inventandosi, nei
primi anni Duemila, un formato (e un nome) mai apparso prima sul palcoscenico: il videofondale,
di cui si hanno numerose documentazioni in archivio, la maggior parte delle quali ad uso di “memoria” di repertorio.
18 La documentazione più importante del viaggio in Senegal, oltre ai testi di Marco Martinelli e le recensioni visibili
nel sito ufficiale del Teatro delle Albe (https://www.teatrodellealbe.com/) è data dal video di Verde RavennaDakar (https://vimeo.com/user8516755). Nell’Archivio sono presenti anche audio cassette con interviste inedite. Cfr.: Monteverdi (2022).
19 Cfr. Sansone, Monteverdi, D’Amico (2022) e Presotto (2018).
I – L’archivio Giacomo Verde
35
Si tratta di riprese live di oggetti, giocando con lampi di luci di lampadine
e strati di immagini creati e manipolati
artigianalmente, sovrapponendo fotografie stampate su pellicole di acetato e
poste sullo schermo del pc portatile.
Il procedimento sarà adottato per i visual dei concerti (di Stefano Giannotti,
Gavino Murgia, Luigi Cinque e molti
altri), per la lirica (con la regia di Alessio
Pizzech per Ascesa e caduta della città di
Mahagonny, 2009) e per il teatro di prosa,
e per la danza. All’epoca della creazione dei videofondali, l’hacker artist e rasta
coder Jaromil aveva ideato programmi
liberi open source come FreeJ per applicare effetti e mixaggi a immagini fisse
e in movimento in tempo reale: Verde
fece sempre riferimento, nei suoi lavori live, a questa pratica diffusa in rete
che partiva dal pensiero del “software
libero”.
Riprendendo l’ormai storica distinzione di Andrea Balzola (Balzola 1995,
Fig.1.15 Due frame dal video Tutto quello che rimane di
2001 e 2004) sulla produzione videoGiacomo Verde/Tam Teatromusica. Si tratta di fotograteatrale (Trascrizione; Sintesi promozionale fie raccolte e allineate insieme dallo stesso artista, inseriin forma di clip; Video autonomo; Video in
te in un foto-album oggi in archivio.
scena) possiamo affermare che nell’archivio di Verde risultano presenti tutte
queste quattro tipologie proprio per l’ecletticità dell’artista, per le sue collaborazioni e la sua facilità a muoversi attraverso diverse pratiche mediali – videoarte, tecno-performance, spettacoli
teatrali con video scenografie20.
In attesa dei soccorsi (1986), basato sull’omonima rappresentazione teatrale interpretata da Roberto
Mazzi e Susanna Dini di Teatro Mascarà, è il primissimo video d’arte firmato da Verde inseribile
nell’allora nascente fenomeno chiamato videoteatro e sarà presentato al Festival U-Tape di Ferrara
(1986).
Anche Vita in tempo di sport della formazione Banda Magnetica, di cui Verde faceva parte, è
testimoniata da una clip di 8 minuti dal titolo Document’Azione, prodotta direttamente in VHS con
Blow Up audiovisivi nel 1988.
20 Un vero cimelio ritrovato in archivio è Trattamento solare, opera video del 1983 derivata dalla performance Video
abbronzante e mai digitalizzata dall’artista. Il video era in programma alla Sala Polivalente del Centro Videoarte
di Ferrara, diretto da Lola Bonora, nelle tre giornate del Festival (9-10-11 dicembre 1983), insieme alle opere di
artisti affermati come Fabrizio Plessi e di giovani artisti promettenti nel campo della videoarte e del cinema indipendente, da Giuseppe Baresi a Maurizio Camerani, a Paolo Rosa; in quest’edizione sono presenti anche alcuni
dei protagonisti delle stagioni videoteatrale: i Krypton di Giancarlo Cauteruccio (che si aggiudicheranno il primo
premio con CORPO/Ambiente/Video/laser) e Toni Verità prodotto dai Magazzini Criminali (segnalato per Il
deserto è una fata Morgana). Era la seconda edizione della rassegna e, associato all’evento, era previsto anche il
Convegno Tendenze del video anni Ottanta.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Il documentario teatrale di creazione elettronica è rappresentato, invece, da La faccia nascosta del
teatro (2001), un ritratto del regista Robert Lepage a Québec city in occasione delle prove de La
face cachée de la lune (Caserne Dalhousie, 2001); in quell’occasione è stato possibile, per Giacomo
Verde, fare le riprese del setting, del backstage della macchina scenica ideata dal set designer Carl
Fillion e sottolineare la complessa operazione teatrale che includeva macchinari e video in scena.
Il video prevede una “doppia narrazione”: l’intervista a Lepage procede di pari passo con la
visione della costruzione progressiva della macchina scenica (in dissolvenza o talvolta a schermo
intero). Al centro di tutto, la costruzione dello spettacolo: un “miracolo” che dura un attimo, ma
al cui successo contribuiscono tecnici, macchinisti, scenografi che stanno nella parte nascosta del
palcoscenico. «Il teatro» dice Lepage nell’intervista a Verde «è una questione di equilibrio tra la
parte in ombra e la parte in luce dello spettacolo»21.
Fig. 1.16 Frame dal video di Giacomo Verde, La faccia nascosta del Teatro. Intervista a Robert Lepage, 2001.
La sintesi promozionale è segnalata da Macchine sensibili (1988) che Verde realizza con il Tam e
di cui nell’archivio è presente il Master in BVU, mentre la trascrizione è testimoniata da Chi pecora
si fa lupo se lo mangia (1989, poi denominato Lupus et Agnus), ambiente installattivo e performativo
realizzato ancora col Tam, il cui Master è a Treviso presso l’Archivio di Gabriele Coassin/Blow
up audiovisivi, come si può vedere dalla scheda d’archivio.
21 Il video è on line sul sito di Giacomo Verde. La frase è presa dall’intervista video presente in archivio.
I – L’archivio Giacomo Verde
37
Fig. 1.17 Scheda dell’archivio Blow Up audiovisivi. La pagina si riferisce ai materiali di Giacomo Verde.
Per gentile concessione di Gabriele Coassin.
Le opere video teatrali del decennio 1992-2002, tralasciando i girati e le registrazioni delle prove
delle performance live o dei videofondali, sono:
1993
– Il cerchio nell’isola – 27’ – Hi8/Beta. – video teatro – prod. SeStessi video, Tam teatromusica
– Tutto quello che rimane (con Michele Sambin e Pierangela Allegro) – 55’ – Hi8 – video teatro –
prod. SeStessi video, Tam Teatromusica
– 1994
– Gli Album di Marco Paolini – 15’ – Hi8/BVU – video teatro – prod. SeStessi video
– Sommario della rivista Vanità (con Lello Voce) – 4’,40”– Hi8 – prod. SeStessi video
– 1995
– La nuova gioventù- 18’ – Hi8 – video teatro – prod. SeStessi video
– 1997
– 5 teleracconti per Storie Celesti- 30’ – Beta –video ragazzi – prod. Studio Equatore
– In questo Iglù Geodesico (con Antonio Caronia) – 2’,40’’ – 8mm – video poesia – prod. SeStessi
video
– Acquanera Blues (con Fiorenza Guidi) –Hi8/Beta. – 19’– video teatro – prod. Comune di
Fucecchio, ELAN, Teatrino dei Fondi di S. Domenico
– 2001
– Tokyo-Cut-Up – 27’,10’’ – Digital Video – video poesia – Prod. SeStessi Video
– 2002
– La Faccia Nascosta Del Teatro – incontro con Robert Lepage (con Anna Maria Monteverdi) –
32’ – Digital Video –Video teatro – Prod. SeStessi Video
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Archiviare l’arte-vita: la mostra “Liberare Arte da Artisti”
Liberare Arte da Artisti22 al CAmeC della Spezia è una mostra viva, movimentata, attenta. Gioiosa
e allo stesso tempo non riconciliata. Una mostra consapevole di quanto ancora ci sia da fare per
trasformare il nostro sguardo sul mondo, per svegliarci, per capire, per attivarci. Attivarci con
arte. Artivarci. Che vuol dire non fermarsi alla propaganda, che è un gesto pigro, che confeziona
slogan. La negazione dell’arte. E neanche chiudersi nella soddisfazione del bello e del levigato.
Arte, dunque, nel senso più alto, come gesto comunque politico, anche solo nell’aiutarci a pensare e a vedere diversamente. “Liberare arte da artisti”, certo, come indica il titolo. Ma anche, in
qualche modo, liberare artisti da arte.
Sandra Lischi, 202223
Liberare Arte da Artisti (La Spezia, CAMeC, giugno 2022-gennaio 2023) da uno slogan dell’artista24, è stata la prima mostra d’Archivio a cura collettiva, dedicata a Giacomo Verde a due anni
dalla sua scomparsa; è stata anche un’occasione privilegiata per recuperare, studiare e restituire,
oltre ogni rigore formale o scientifico, il monte di espressioni della sua arte, un’arte senza steccati
e senza frontiere, un’arte liberata anche dal peso dell’artista stesso che l’ha creata.
Liberare Arte da Artisti è stata concepita come un organismo “vivente”, con tre re-opening tematici nei sette mesi di allestimento, corrispondenti alle tre anime di Verde: Artivismo, Arte digitale,
Teatro. È stato rappresentato anche l’ultimo periodo di vita di Verde, vicino all’Officina artistica
Dadabum, impegnata in attività sociali e politiche: all’inaugurazione alcuni membri del collettivo
hanno realizzato una controversa azione dedicata alla demilitarizzazione della città spezzina.
A ogni sezione corrispondeva una nuova inaugurazione con nuovi materiali in mostra.
Fig. 1.18-1.19 Grafica della mostra “Liberare Arte da Artisti” al CAMeC (Sp) di Gabriele Menconi e l’ingresso alla mostra con la fotografia di Jacopo Benassi. Foto di Valentino Albini per il Dipartimento Beni
Culturali e Ambientali-UniMi.
Del “caos creativo” dell’archivio sono una testimonianza diretta quattro fotografie di Massimo
Vitali (il fotografo italiano famoso per le Beach series) scattate pochi giorni dopo la scomparsa di
22 https://artslife.com/2022/06/28/liberare-arte-artisti-viodeoarte-giacomo-verde-mostra-camec/#:~:text=Liberare%20
arte%20da%20artisti%20%C3%A8,al%20CAMeC%20di%20La%20Spezia.
23 Si tratta del discorso inaugurale della mostra Liberare Arte da Artisti (La Spezia, CAMeC 2022).
24 La mostra, inaugurata il 25 giugno 2022, è stata realizzata appositamente per il CAMeC della Spezia: il collettivo
dei curatori, che si è radunato sotto un falso nome, Luca Fani, con il coordinamento generale di Anna Monteverdi,
ha predisposto un allestimento con tre riaperture corrispondenti alle tre sezioni della mostra: Artivismo; Arte tecnologica e interazione; Effimero. La mostra ha avuto come partner produttivi l’Accademia di Belle Arti di Carrara e
l’Università di Milano, Dipartimento Beni Culturali e Ambientali. Sulla mostra sono stati scritti diversi articoli a
cui rimandiamo in bibliografia: Monteverdi 2022-2023.
I – L’archivio Giacomo Verde
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Verde, donate all’Archivio e riprodotte sia nel presente libro che alla mostra: quelle foto fissano
l’universo tecnotutto di un artista “accumulatore seriale” di esperienze artistiche; Noemi Pittaluga,
storica dell’arte e curatrice, ha “letto” le fotografie di Vitali in mostra alla Spezia come un “concentrato della memoria”:
Le fotografie scattate sono un’importante testimonianza di come fosse organizzato lo spazio
e l’Archivio di Giacomo Verde presso la sua abitazione a Lucca e di come fossero catalogati i
disegni in faldoni e le videocassette dei progetti video in una libreria. Osservando queste immagini, che inquadrano anche la biblioteca di Verde e oggetti ludici, lo spettatore è in grado di
ricostruire l’ambiente creativo nel quale l’autore dava vita a nuove opere, spesso contraddistinte
da un carattere giocoso e ironico (…) Nell’osservare queste fotografie non stupisce avvertire la
presenza, seppur non corporea, di Verde e del suo pensiero intellettuale. Particolarmente evocativa della sua formazione teatrale è la spiga di grano sulla scrivania, che rimanda alla tradizione dei
maggianti alla quale l’autore era profondamente legato per la sua esperienza di teatro di strada,
e la fotografia, collocata vicino al computer, che lo ritrae come narratore dello spettacolo Lunga
vita all’albero, realizzato nei primi anni Novanta con il Teatro delle Albe. Vitali coglie con un solo
colpo d’occhio, inquadrando l’elemento tecnologico a fianco a ricordi legati alla prima fase creativa dell’artista, il percorso poetico di Verde sottolineando quanto nella produzione video fosse
viva l’esperienza teatrale. Significativa è la presenza in queste fotografie dell’autoritratto, nato dal
progetto Spara allo Zombie. Artist=Zombie, che attraverso il titolo pungente, sottolinea come la
poetica di un artista sia immune dalla morte fisica. Secondo la legge del “buon vicinato”, introdotta da Aby Warburg, possiamo osservare in questi scatti come il background culturale di Verde
abbia infranto le rigide barriere tra le diverse discipline permettendo allo spettatore di rintracciare
le connessioni del suo pensiero creativo che, insieme con le opere, sono la sua eredità immortale
e preziosa25.
Fig. 1.20-1.21 Lo studio di Verde a Lucca nelle fotografie di Massimo Vitali alla mostra Liberare Arte da artisti;
nella prima foto, appesa all’alto, si nota L’Autoritratto fotografico dell’artista come zombie (2013).
Andreina di Brino, che da sempre si è occupata dell’aspetto grafico della videoarte italiana e in
particolare di Verde, ha radunato, impaginato e allestito per la mostra i disegni e i video del periodo 1986-2000: Stati d’animo (1990), realizzato in computer grafica e vincitore del Premio per il miglior storyboard al POW (Premio Opera Video Videoteatro) di Narni, ideato da Carlo Infante; WDR
Marì (1984-1987 omaggio a Nam June Paik); Fine fine millennio (1988-1989-1990) e Opera d’arto video
(1991). In visione anche il breve An.TiViRus (H) – un caustico progetto artistico di Antivirus per
vaccinare lo spettatore televisivo contro “l’avvelenamento estetico”.
25 N. Pittaluga, Didascalia delle fotografie di Massimo Vitali scritta per l’esposizione Liberare Arte da Artisti, 2022.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
In mostra anche l’azione di distruzione Tv e ricomposizione con sculture di gesso dal titolo Rivel’Azione (1990), insieme ad alcuni dei primi progetti come Col-Tv-Azione (firmato da
Giacomo Verde con Gabrio Zappelli, Silvia Battistella e Roberto Mazzi) per il Festival di Narni
di Carlo Infante nel 1987, che inglobava molte delle “azioni di inseminazione della videopianta”
(Monteverdi, Sansone, D’Amico 2022). Si tratta del nucleo di opere facenti capo a Est Etica Antica
T astro Fica (1987). L’opera veniva realizzata davanti al pubblico in forma di performance in cui
anche i visitatori erano chiamati a partecipare, distruggendo Tv e coltivandone i vetri, invasando
transistor e circuiti. Come in un rituale arcaico di rigenerazione.
Il discorso critico sui media assume le forme di una performance collettiva: l’utensile televisivo,
sondato con il gioco comune creativo, smitizzato della sua totemica presenza attraverso il gesto
simbolico della rottura (atto rivolto all’oggetto, ma soprattutto al sistema della comunicazione dominante che questo rappresenta e al linguaggio che veicola) e dell’assemblaggio (la “ri-creazione”
del mondo), si rianima. Se è possibile manipolare le “scatole Tv”, allora è possibile anche mettere
mano all’informazione che contengono: ed è così che il teatro desacralizza il mondo dei media.
Una teca appositamente allestita da Valentino Albini dentro il Dipartimento di Beni Culturali
dell’Università di Milano raccoglieva le microscene per i teleracconti nella “valigetta” di Verde, i
piccoli oggetti pronti per il mini video-teatro per bambini (Sansone 2022).
Fig. 1.22-1.23 A sinistra la teca con televisore e kit del primo teleracconto Hansel & Gretel TV per la mostra
Liberare Arte da Artisti. Foto: Valentino Albini. In primo piano a destra i due kit di H&G Tv e Ri-immagini
d’eco. Foto: Anna Monteverdi.
Alla mostra i curatori hanno voluto anche ricostruire virtualmente lo studio con le “scatole della
memoria”, con le fotografie e i libri che costituiscono uno dei lasciti principali di Verde. Libri e
fotografie che testimoniano la curiosità sul mondo della videoarte e dei media, ma anche l’amicizia con i protagonisti della scena teatrale e video di quegli anni: da Antonio Caronia a Marco
Martinelli e Ermanna Montanari, da Carlo Presotto e Paola Rossi a Renzo Boldrini e Vania Pucci,
Carles Canellas e Frank Nemola.
I – L’archivio Giacomo Verde
41
Fig. 1.24-1-25 Lo studio di Verde ricostruito con i disegni e le fotografie per la mostra Liberare arte da artisti.
Si noti la foto in verticale di Verde come attore in Lunga vita all’albero. Foto: Alessandro Bronzini. A destra
il numeroso pubblico al walkabout di Carlo Infante (in basso con Carlo Presotto e Massimo Marino). Foto:
Anna Monteverdi.
Il rodato format Walkabout di Carlo Infante, riprogettato apposta per la mostra, ha restituito a
pieno il valore all’opera dell’artista: il critico e studioso di Performing Media ha accompagnato il
pubblico tra memorie scritte e visive, dépliant, annotazioni. Infante ha parlato al pubblico in sala e
in remoto, sia del Verde giocoliere di strada che del videomaker che aveva rinnegato la videoarte,
dell’artista che aveva plasmato sculture con apparecchiature domestiche e insegnato ai bambini
a rompere le tv; dopo aver ricordato la presenza di Verde al Festival POW di Narni da lui ideato,
ha invitato il regista Dario Marconcini a parlare della formazione di Verde attore al Centro
di ricerca teatrale di Pontedera negli anni
Ottanta, in occasione del progetto L’eresia del
teatro, quando condivideva le lezioni di Marisa
Fabbri, Jerzy Stuhr, Richard Cieslak, Maurizio
Buscarino, Ingmar Lindh con Marco Paolini.
Il titolo della mostra (con il logo tratto da
un frame di Opera d’Arto) deriva dal primo
Post dell’artista per la mailing list di Arty-Party
(1997).
Ho l’impressione, che di questi tempi, tutti
quelli che si atteggiano ad Artisti (preoccupandosi principalmente di come fare a vendere le “ispirate opere” del loro ingegno:
pittura, scultura o video che sia) stanno dalla
stessa parte del “pensiero-mercato” che affama il mondo e si preoccupa principalmente
del proprio profitto individuale, qui e ora! Se
è vero che gli artisti sono persone creative e
intelligenti dovrebbero accorgersi che la loro
“sapienza” è sprecata quando viene usata per
fare opere, feticci, di rappresentazione: perché
invece di fare “figure che criticano il mondo”
non provano a “fare il mondo”? Perché sono
Fig. 1.26 Disegno a pennarello per Opera d’arto
firmato e con il timbro che porta il segno della
gemmazione, logo ufficiale di Verde. Archivio
Giacomo Verde.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
prigionieri di una “allucinazione semantica” che immagina l’uso della creatività solo nei contesti
dell’arte tradizionale, allora io dico: LIBERARE ARTI DA ARTISTI, in tutti i sensi (e qualsiasi
sottinteso è accettato). ARTI LIBERI26.
Arti Liberi non è un errore: Verde intende arti proprio come braccia e gambe e quindi è un sostantivo maschile. Un gioco di parole che troviamo nell’Opera d’arto27: se l’arte è fatta con le mani,
queste devono essere libere. Di agire, di toccare, di creare.
La mostra è tutto un gioco di apparecchi, telecamere e dispositivi recuperati dall’archivio, da
attivare, azionare tramite Qr code o telecamera: gli spazi si trasformano in laboratori ludici e
interattivabili.
Se nelle teche troviamo i kit utilizzati da Verde nel 1989 per la fiaba di Hänsel e Gretel in versione Teleracconto, Carlo Presotto con Paola Rossi del teatro La Piccionaia di Vicenza proprio per
la mostra ne ripropongono dei frammenti live. E così la guerra nella ex Jugoslavia prende nuovamente forma nel teleracconto E fu così che la guerra finì (1996) con schegge appuntite di bicchieri,
schede di pc e fiori rossi messi sotto la lente della telecamera: il racconto di Presotto e la musica di
Bregovic aiutano a farci immaginare quel dramma e quei paesaggi devastati solo con pochi oggetti
taglienti. È davvero incredibile come, a distanza di molti anni da quel fine millennio, quel racconto
fatto con immagini create dal vivo sia ancora così forte, toccante.
Il nostro passare indifferente, coi dispositivi mobili, da immagini di guerra a futili istantanee
del mondo, ci ha reso anestetizzati: è il teatro a rianimarci, ora come allora. Carlo Presotto e Paola
Rossi hanno fatto dell’invenzione di Verde del teleracconto una parte fondamentale del loro lavoro sul palcoscenico, della loro estetica, arricchendolo e variandolo con sempre nuove tecnologie,
ma rimanendo saldi all’idea che non bisogna soffermarsi sullo strumento, ma sull’immaginazione
che da questo può scaturire.
Che il teleracconto fosse anche un “discorso politico”, Verde lo aveva affermato in varie occasioni, ricordando che “La televisione non esiste, sono solo figurine”, ovvero che le immagini
della televisione sono create da chi vuole imporre, per noi, un punto di vista sul mondo. Bisogna
imparare a “mettere mano a quelle immagini”: usare la tecnologia per cambiare l’immaginario, per
cambiare il mondo.
26 Giacomo Verde, intervento del 1997 in apertura della mailing list Arti-Party. Rimandiamo anche al volume di
Giacomo Verde, Artivismo tecnologico, Pisa, BFS, 2007. Ora in “Connessioni Remote”, liberamente scaricabile.
27 Opera d’arto (1991) è composta da numerosi disegni su carta o cartoncino, e pitture realizzate con tecnica mista, il
cui soggetto è il proprio piede ingessato a seguito di un incidente. Il titolo gioca ironicamente sul doppio senso
tra la forma e il contenuto dei disegni, come invito a riflettere sul senso del fare arte. I disegni formano lo story
board per Opera d’arto video, di cui abbiamo due versioni 1991 e 1994 (Opera d’arto remix).
I – L’archivio Giacomo Verde
43
Fig. 1.27 Il colophon della mostra Liberare Arte da Artisti ideato da Gabriele Menconi. Foto: G. Menconi.
Fig. 1.28-1.29 Il Tv stelo, opera scultorea di Giacomo Verde (1987) in mostra alla Spezia. Foto: Valentino Albini;
a destra Andreina Di Brino prepara i disegni da incorniciare. Foto: Anna Monteverdi.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Fig. 1.30-1.31 Carlo Presotto mentre prepara il microset del teleracconto E fu così che la guerra finì, con la proiezione live. Foto: Andreina Di Brino. A destra Giacomo e Carlo Presotto con Paola Rossi provano il tv loop
e gli altri dispositivi in mostra. Foto: Anna Monteverdi.
Fig. 1.32-1.33 A sinistra, collage di fotografie dalla mostra. In alto la videomaker Raffella Rivi seduta su
Reperto Antropo-logico 1997, e la brochure della mostra; in basso frame video di AntiVirusTv e il Tv loop. A
destra Tv crash realizzato da Tommaso Verde in omaggio al padre. Foto: Anna Monteverdi.
Fig. 1.34-1.35 A sinistra: Verde nel video di Artist=Zombie; sullo sfondo i disegni per Opera d’arto. A destra:
panoramica della mostra. Foto: Daniela Arcudi. Per gentile concessione dell’autrice.
I – L’archivio Giacomo Verde
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Fig. 1.36 Sandra Lischi seduta sull’opera interattiva Reperto Antropo-logico 1997. Foto: Simone Cannata.
Per gentile concessione dell’autore.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
Per quanto molte delle installazioni di Verde del primo periodo (1986-1992) anticipassero già
ampiamente pratiche di interazione col pubblico e già indicassero direzioni estetiche ben precise,
con molte presenze a Festival nazionali (Art Tapes di Ferrara; Pow-Premio Opera Video- Videoteatro a
Narni), tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993 inizia una stagione completamente nuova: è il momento della “svolta interattiva” e virtuale dell’arte, non a caso anticipata sia dall’arrivo delle realtà
immersive in Italia, sia dalla stesura del Manifesto Per una Cartografia del reale che Giacomo Verde
firmerà il 14 gennaio 1993 presso la fondazione Mudima di Milano insieme con Paolo Rosa, Mario
Canali, Antonio Caronia1, Gino di Maggio, Antonio Glessi, Maria Grazia Mattei.
Sono gli anni della pubblicazione dell’edizione italiana di Brainframe (1991) di Derrick De
Kerchove, allievo ed erede intellettuale di Marshall McLuhan, uno dei più importanti studiosi e
teorici del rapporto tra i processi cognitivi umani e le nuove tecnologie telematiche, e della riflessione sull’intelligenza connettiva, mentre il fondamentale volume di Pierre Lévy Il virtuale arriverà
in traduzione italiana solo nel 1997 e alimenterà un dibattito a tutto campo sul concetto di realtà
e sulla relazione tra realtà e simulazione tecnologica.
Sulle tematiche del Manifesto Verde dirà:
Nei primi anni ’90 c’era bisogno di scrivere qualcosa che evidenziasse una nuova cartografia del
reale che rimettesse in campo tutti i sensi e tutto il corpo di fronte ad una percezione visiva unicamente bidimensionale. Erano gli anni della nascita del paradigma della REALTA’ VIRTUALE.
Soprattutto si voleva mettere in discussione nel mondo dell’arte l’idea di una fruizione frontale,
propria della pittura. Lo stesso valeva per la scultura che vive il paradosso di essere tridimensionale, ma di essere pensata nell’immaginario artistico come bidimensionale al pari della pittura. Lo
stesso discorso si faceva nel superamento della televisione che rimane sempre monodirezionale.
In quegli anni si stavano portando avanti esperienze che andavano oltre la visione frontale, che
presupponevano la creazione di installazioni interattive e di RV (Verde in Bazzichelli 2006).
Così Andrea Balzola e Paolo Rosa ricordano quello storico appuntamento milanese, che determinò una data spartiacque dell’arte italiana che si univa alla tecnologia del virtuale, perché aveva
suggerito un ripensamento al processo creativo tradizionale e anticipato la riflessione sulla nuova
identità dell’artista plurale:
All’inizio degli anni Novanta anche in Italia le tecnologie della Realtà Virtuale e dell’interattività
si impongono all’attenzione collettiva. Artisti e studiosi di nuovi media e arti elettroniche si interrogano su questo nuovo scenario, ne intuiscono la portata rivoluzionaria e cercano di capire
in quale direzione si muova il cambiamento dell’arte e della società. Tra la fine del 1992 e l’inizio
del 1993, in un affollato incontro milanese, viene presentato il documento Nuova cartografia del
reale, bozza per un Manifesto dell’arte e della comunicazione nell’era del virtuale, che esprime la
1 Il testo integrale del Manifesto è on line nella rivista “Connessioni Remote”, n.1, luglio 2020. https://riviste.unimi.it/index.php/connessioniremote/article/view/13533/12925
Verde conosce Antonio Caronia durante il festival di video-teatro POW a Narni nel 1986. Gli incontri successivi
furono occasionati da manifestazioni tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del secondo Millennio, soprattutto nella scena underground, con incontri sulle tecnologie, sull’hacking, sul cyborg e sul virtuale, e in generale
su pratiche estetiche e informatiche: proprio nell’Archivio di Verde troviamo locandine, fogli fotocopiati e brochure di varie manifestazioni che li vedono coinvolti insieme. Tra i principali eventi: Stati Virtuali (Treviso, 1993)
che prevedeva due incontri, uno con Caronia e gli editori della Telemaco sugli scrittori della nuova fantascienza
tecnologica, e l’altro dal titolo Sciamanesimo e virtualità con i GMM, Correnti Magnetiche, Studio Azzurro. Carlo
Infante coordinava la giornata.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
sintesi delle esperienze e delle riflessioni degli autori, ma anche di quel clima di vivace dibattito.
Dopo un’iniziale coesione che fa pensare alla nascita di un movimento artistico, emergono forti
differenze nell’approccio concreto a quella materia di ricerca, e il gruppo si disperde. Tutto questo
fermento creativo e teorico, al di là dello spazio più o meno ampio raggiunto sulla pubblica ribalta, dimostrava fin da subito come la novità e la complessità delle tecnologie virtuali e interattive
imponessero una pratica e un’elaborazione teorica collettive, richiedendo l’intreccio di diverse
competenze, professionalità, visioni (Balzola-Rosa 2012: 99).
1992-2002: un decennio di grandi cambiamenti tecnologici e di nuova arte (la computer art,
la telematic art e la telepresence art): sono pochi gli artisti italiani che si affacciano all’arte interattiva in quegli anni e spesso li ritroviamo negli stessi appuntamenti nazionali. Oltre a Verde,
Studio Azzurro, Mario Canali, Piero Gilardi, Giovanotti Mondano Meccanici (GMM), Massimo
Cittadini, Tullio Brunone, Ennio Bértrand (Vassallo 2011 e 2020).
Nel 1993 il CERN di Ginevra annunciava la disponibilità gratuita del World Wide Web ideato
pochi anni prima da Tim Bernes-Lee, mentre ad Ars Electronica di Linz, nel 1996, il californiano
Ken Goldberg presentava l’opera iconica Telegarden, un giardino in miniatura che veniva innaffiato
da un braccio robotico controllato, attraverso una webcam, da navigatori della rete. Sono gli anni
dei primi ambienti immersivi e delle opere d’arte virtuale di Maurice Benayoun, Jeffrey Shaw,
Knowbotic Research, Christa Sommer, Monika Fleischmann (Grau 2005).
Gli “ambienti reattivi” (responsive environments) di Myron Krueger, progettati agli inizi degli anni
Settanta e per i quali coniò la definizione di Realtà Artificiali, influenzarono moltissimo la scena
tecnologica italiana: gli utenti entravano in una stanza e trovavano proiettata la loro immagine video sulla parete insieme a disegni grafici che cambiavano in base ai loro movimenti. Era uno spazio generato dal computer che permetteva la comunicazione tra le persone in ambiente immersivo
cinetico controllato da un operatore umano: questo accadeva con Glowflow (1969) e in seguito con
Metaplay (1970); nella versione più avanzata, Videoplace (1975), le persone potevano muoversi nel
mondo artificiale e non solo relazionarsi tra loro, ma anche manipolare oggetti. Il tema centrale
dei lavori di Krueger era la relazione tra osservatore e ambiente perché «Response is the medium»
(Krueger 1977).
La relativa semplicità tecnologica di questi ambienti (bastava una telecamera e un computer
casalingo) rispetto a quelli che necessitavano di display a cuffia, dataglove e sensori di posizione e
movimento (che richiedevano tra l’altro, molta potenza di calcolo) anticipava successivi sviluppi
della ricerca sul rapporto uomo-macchina.
Fig. 2.1-2.2-2.3 Myron Krueger, Videoplace e schema di funzionamento. Immagini dal web.
Come ricorda Tatiana Bazzichelli:
Le opere di Krueger costituiscono dei contesti di interazione, in cui i fruitori possono dare vita
spontaneamente e collettivamente all’evento artistico, che appare aperto, processuale e dinamico.
È attraverso l’azione corporea che viene costruito attivamente il senso dell’opera, sfruttando
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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la performatività della tecnologia, che rende possibile la con-fusione corporea con l’interfaccia
grafica dell’ambiente artificiale. Nello stesso tempo, dalle esperienze psicosensoriali attuate dai
partecipanti, è possibile operare una riflessione sulle modalità di percezione umana: il fruitore è
spinto a riconoscere intuitivamente gli elementi fondamentali di un sistema semiotico complesso,
che viene elaborato invece in modo semplice dalla mente umana. Ogni esperienza poi si fa personale, conseguentemente alla capacità espressiva e creativa di ogni individuo e quindi si abbandona
l’idea di un artefatto artistico unico e immutabile, ma l’opera acquista tanti significati quanti sono
i personaggi che vi interagiscono e questo avviene durante un processo creativo che si sviluppa
diversamente per ogni fruitore (Bazzichelli 2006).
I GMM per Buddha Vision (1991) e
Massimo “Contrasto” Cittadini per Uomomacchina (1993) utilizzeranno il Mandala
System, un software dei canadesi Vivid
Group che creava un tipo di realtà proto-immersiva connessa col corpo, molto simile
agli ambienti reattivi di Krueger, senza necessità di sensori, caschi e esoscheletri; nel
Mandala System è possibile fondere insieme
sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera
che riprende in diretta il corpo o la mano
del partecipante, che viene digitalizzata in
tempo reale, e la sagoma della figura ripre- Fig. 2.4 Giacomo Verde in Storie mandaliche mentre
sa appare sovrapposta alle immagini e agli interagisce con il Mandala system, Alla base della pioggetti generati dal computer. Se la mano ramide c’è una telecamera che riprende le mani che
o il corpo ripreso dalla telecamera “tocca” entrano, col colore verde, nell’ambiente informatico
(virtualmente) qualcuno degli oggetti, crea e possono trascinare oggetti. Foto: Anna Monteverdi.
eventi di tipo visivo e sonoro, generando in
diretta situazioni in continua trasformazione. Anche Verde per il tecno spettacolo Storie mandaliche
(1999) lo utilizzerà (Balzola-Monteverdi 2004; Monteverdi 2011; Monteverdi 2020).
Come afferma Paola Lagonigro:
La realtà virtuale, pur essendo ancora una tecnologia poco diffusa, viene percepita già come una
rivoluzione tale da mettere in discussione le dinamiche sociali, le facoltà psichiche e cognitive
dell’uomo e, di conseguenza, i prodotti culturali della nuova epoca che egli vive. (…) Fulcro di
tali riflessioni è dunque l’uomo stesso poiché la realtà virtuale agisce sui suoi sensi e impone un
ripensamento dell’esperienza corporea (2021).
Mario Canali, uno dei fondatori di Correnti Magnetiche, sarà tra i primi artisti che esploreranno
il mondo del virtuale con l’arte: Silvana Vassallo, a proposito di Satori, primo ambiente di realtà
virtuale mai realizzato in Italia, composto da un ambiente virtuale immersivo con numerosi spazi
che il pubblico poteva navigare con un casco e un joystick, ricorda che:
L’intento era quello di creare uno spazio virtuale che non fosse una replica della nostra realtà, ma
un mondo immaginario ricco di suggestioni archetipiche e simboliche. Nella filosofia Zen, Satori
è un termine associato agli stati di illuminazione: secondo Mario Canali, il momento dell’illuminazione non doveva essere raggiunto durante l’esperienza virtuale, ma quando, tornando alla realtà,
il visitatore poteva percepirla con occhi nuovi. Lo scopo dell’installazione era quello di creare una
nuova consapevolezza della realtà (Canali in Vassallo 2011).
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Verde si era interessato di Realtà Virtuale
per l’installazione PER KRIZIA (Bazzichelli
2006; Monteverdi in Arcagni 2020), in cui
una telecamera era collegata al casco di RV, e
soprattutto per l’animazione del personaggio
stilizzato e geometrico Euclide: quello che interessava a Verde, ancora una volta, era la relazione con il pubblico, dinamica che manterrà anche quando verrà perfezionato il sistema
che diventerà Bit, l’alter ego di Verde nel suo
teatrino virtuale: «Il pubblico pensa realmente di parlare con un computer. Deve essere,
però, fatto capire che non si tratta unicamente di un computer, ma un organismo bio-cibernetico, un ibrido fra uomo e macchina e
cioè sono io collegato al computer» (Verde in
Fig. 2.5 Una variante del video-loop. Foto senza Bazzichelli 2006).
autore e data. Archivio Giacomo Verde.
Verde, più che alla dimensione del virtuale tecnologico, nelle sue pratiche artistiche è
interessato alla tecnocultura nel suo complesso, rimanendo però fedele al tema della bassa
tecnologia, usando materiali poveri o riciclati per le installazioni (vecchie tv; giradischi e lampade
di casa; scatole di cartone).
Ai virtual eyes appena usciti nel mercato tecnologico high tech, Verde sostituisce ironicamente
gli “occhiali a specchio per lo spettatore attivo”, mettendo continuamente in discussione la realtà
della televisione, verificando e riflettendo sullo scarto tra l’immagine e la sua origine, tra la consistenza del proprio essere e la corrispondente rappresentazione in video. Come in Essere Non essere
(1994), videoinstallazione basata sul principio del circuito chiuso, in cui chi entra nello spazio
dell’installazione vede la propria ombra riflessa da uno specchio ma con un attimo di ritardo, in
differita, entrando in “dialogo” con la proiezione del suo doppio elettronico.
Spostandosi nella zona “video-proiettata”, allungando la mano a sfiorare l’altro sé stesso, “l’altro essere” si moltiplica all’infinito in un corridoio di quinte virtuali.
La ricerca di una ridotta spettacolarità del manufatto artistico creato con la bassa risoluzione delle
immagini quale momento di strappo ideologico dentro la società “classista” delle immagini hi-tech,
è per Verde l’alternativa possibile al dilagare di un ambiente digitale ossessivo e onnicomprensivo,
che stava dettando un’estetica pulita e perfetta. Le immagini povere, scomode ma capaci di inserirsi
invisibilmente negli interstizi della rete, conservano ancora, in fondo – come afferma la filosofa e
artista giapponese Hito Steyerl nel testo In difesa delle immagini povere – “il raro, l’ovvio e l’incredibile”:
«L’immagine povera è una miniatura, un’idea errante, un’immagine itinerante distribuita gratuitamente, spremuta attraverso lenti collegamenti digitali, compressa, riprodotta, strappata, remixata.
L’immagine povera è stata caricata, scaricata, condivisa, riformattata e rieditata. Trasforma la qualità
in accessibilità… Si prende gioco delle promesse della tecnologia digitale» (Steyerl 2009).
Il teleracconto, per esempio, si basava proprio sul concetto di “immagine povera”, degradata
e il sistema base può essere replicato e ricombinato all’infinito da chiunque e nelle modalità che
uno preferisce.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
51
Interattivarsi: il video loop
L’opera interattiva più emblematica di Verde è indubbiamente Tv loop2, con la quale apriva
ogni installazione e laboratorio, con cui faceva giocare bambini, studenti e persone con altre abilità: inquadrando con la videocamera ruotata di 45° il televisore al quale è collegata e usando in
automatico il diaframma, si crea un cortocircuito di luce, una forma circolare pulsante, che può
essere “modellata” mettendo le mani tra la videocamera e la TV. Le immagini sono autogenerate:
la telecamera inquadra il televisore al quale è collegata, e in base alla luminosità, al contrasto, al
colore del televisore, e allo zoom e alla rotazione della telecamera si generano diverse tipologie
di immagini geometriche e mandaliche. Quando un oggetto, o la mano di uno spettatore, viene
interposto nel loop tra la telecamera ed il televisore, si creano altri tipi di immagini, di effetti visivi,
di pulsazioni e così via.
Del Tv loop e delle sue numerose varianti abbiamo ampia testimonianza grafica e fotografica
nell’Archivio; ricordiamo che lo stesso Verde promuoveva, tramite cartoline di spiegazione, la
possibilità di “rifare” a casa l’installazione, che non è appannaggio esclusivo dell’artista: l’unicità
non era, nelle intenzioni di Verde, una prerogativa e un indice di valore per l’arte ma,
al contrario, lo è la circolazione delle immagini e delle opere, la loro ricontestualizzazione continua a favore della collettività,
la loro dinamicità, il loro creare comunità.
Insomma, il tv loop è un altro modo di
“fare arte per fare mondo”, per dirla con
una espressione molto usata da Verde, a
indicare l’intento etico e la condizione di
totale apertura che deve essere alla base di
ogni azione artistica:
Considero questa oper’azione (il Tv loop,
ndr) paradigmatica del mio modo di intendere l’interattività per due motivi: primo perché metto a disposizione un dispositivo in grado di produrre una infinità
di immagini elaborate direttamente dai
fruitori, fuori da mio controllo, e secondo
perché, attraverso le istruzioni, invito le
persone a farsi la propria opera fuori dallo
spazio espositivo, oltre la galleria d’arte3.
Tv loop si inserisce dentro altre installazioni adattandosi all’ambiente, pur rimanendo uguale a sé stessa, come nel caso
di Roto-dentro a Modena per La Natura
Virtuale, curato da Pierluigi Capucci (1993).
Fig. 2.6 Giacomo Verde realizza il videoloop con il
suo TV stelo a Lucca, 1999. Foto di Jacopo Benassi.
Per gentile concessione dell’autore. La fotografia fa
parte di una serie che documenta la videoperformance.
Archivio Giacomo Verde.
2 Il Tv loop è in realtà il video feedback loop inventato da Woody Vasulka; si riferisce all’anello infinito che si genera
tra telecamera e tv. Il funzionamento è ipnotico e dipende dal ritardo del loop dalla telecamera che viene visualizzato alla Tv, di nuovo alla telecamera e di nuovo alla Tv/monitor; questo procedimento produce un feedback che
va all’infinito. Riproposto per Over the Real Festival, edizione 2023 (Lucca, Baluardo Santa Croce).
3 Nota inedita, Archivio Giacomo Verde.
52
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Qui il pubblico era collocato nello spazio tra 4 monitor impilati a due a due e le telecamere
inserite in mezzo; per ArtMedia VII a Salerno4 il TV loop viene allestito in un complesso ambiente
tecnologico fatto di 4 proiezioni contenenti brevi diari video della città realizzati appositamente, e
un video in diretta che riprendeva il pubblico che entrava.
Il Tv loop in questo caso, era collocato al centro della sala con la videocamera posta sul soffitto;
l’artista chiedeva al pubblico di interagire con oggetti tipici della città, dei souvenir raccolti e raccontati nel video-diario. Anche per l’installazione commerciale per Linea Pelle (Fiera di Bologna
2000) verrà usato il videloop insieme a quattro video proiezioni interattive generate da altrettanti
computer dotati di sensori, relative alle suggestioni invernali indicate dalle quattro gamme della
tendenza inverno 2001-2002.
L’interattività del TV loop, come spesso dichiarato dall’artista, serve per creare contesti e non
ambienti: è uno «strumento per esperienze ludico-cognitive in grado di far riflettere sui rapporti
tra comunicazione, arte, autore, fruitore, riconoscimento delle forme, novità dei segnali, attraverso diversi livelli interpretativi»5.
Figg. 2.7-2.8-2.9 A sinistra: Grafica computerizzata per illustrare il videoloop per ArtMedia, Salerno 1999;
al centro declinazione del videoloop per Linea pelle, 2000; a destra la cartolina che veniva distribuita per mostrare il funzionamento del videoloop (nel retro, le istruzioni per rifarlo a casa). Archivio Giacomo Verde.
Figg. 2.10-2.11-2.12 Schema di Rotodentro e a destra due frame dal video di documentazione, 1993.
4 ArtMedia, promossa dall’Università di Salerno e dalla Fondazione Filiberto Menna, è stata tra le prime manifestazioni ad aver introdotto in ambito accademico le questioni teoriche e la sperimentazione legate alla comunicazione
estetica tecnologica; nell’edizione del 1999 prevedeva un convegno di Estetica dei Media e della Comunicazione
dal titolo Mutamenti o Mutazioni dell’estetico?
5 G. Verde, scheda di SeStessi video, in Catalogo ArtMedia VII, Salerno, 1999. Riprenderà il tema per un’intervista a
Amanda Reggioni in “Virtual”, n. 47, 1997.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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Rotodentro è un’installazione “interattivabile”, secondo le parole di Verde: due pareti fatte ognuna di quattro monitor sono posizionati “caledoiscopicamente” e dietro ogni parete video si trova
una telecamera che, attraverso il foro centrale della video-parete, inquadra i monitor che ha di
fronte e ai quali è collegata: si crea così un effetto loop che viene modificato dal passaggio e dalla
sosta degli spettatori attraverso le due video-pareti. Semplice e divertente, il videoloop si moltiplica, si mescola a specchi, a computer connessi in rete. Svela meccanismi, smaschera il potere della
Tv, incrocia sguardi, e, per la prima volta, non è necessario leggere le istruzioni per accedere a una
tecnologia.
Un caso particolarmente interessante è rappresentato da Video città (2000), un format ideato
per essere definito site specific nei diversi luoghi: ancora una volta protagonista è il video loop. È
un percorso urbano concepito come workshop territoriale e progettato per far emergere storie e
elementi costitutivi dell’identità di un luogo. In questo caso i due video loop contengono oggetti-souvenir raccolti in città e raccontati nel video diario. Gli spettatori potranno così, rivedere sé
stessi e la propria città reinterpretata da un occhio elettronico e, inoltre, potranno attivare le modificazioni dei video loop interattivi con le proprie mani e con il corpo insieme con gli oggetti-souvenir, che in questo contesto rappresentano l’ambiente quotidiano esterno alla mostra d’arte.
Il progetto Video città è stato realizzato alla Spezia nel 2000 con il nome di Luoghi comuni: un
gruppo di artisti, fotografi, performer e videomaker ha riletto il tema delle periferie (i problemi
dell’abitare in periferia e nei paesaggi ristretti) con installazioni negli spazi pubblici come forma
di denuncia sociale e protesta creativa. I videoartisti erano accompagnati da Giacomo Verde per
creare studi, riprese, incursioni e installazioni non convenzionali in città. Luoghi comuni nasceva da
una riflessione sulle criticità dei piani per le periferie, in cui si attribuiva maggiore importanza agli
edifici piuttosto che alle relazioni ambientali e sociali (Monteverdi 2022).
Anche Video-città prevedeva un video loop in questa modalità:
Si tratta di una oper’azione in grado di “modificarsi” adattandosi agli ambienti e alla città in
cui viene ospitata pur rimanendo uguale a sé stessa. Si intende creare uno spazio che evidenzi
come il valore autoreferenziale della tecnologia video possa essere uno strumento per esperienze
ludico-cognitive in grado di far riflettere sui rapporti tra comunicazione, arte, autore, fruitore, riconoscimento delle forme, novità dei segnali, attraverso diversi livelli interpretativi e di fruizione.
Lo spazio comprende 4 videoproiezioni:
– La prima proietta sulla parete attorno alla porta di accesso un instant-video realizzato in città
durante il giorno precedente l’apertura dell’esposizione. Il video (montato in macchina e della
durata massima di 10 min.) mostra alcuni luoghi “tipici” della città e la “raccolta” di alcuni
oggetti-souvenir: è una specie di “diario d’autore”.
– Un secondo videoproiettore proietta sulla parete di fronte a quella d’ingresso la ripresa in
diretta delle persone che entrano nella sala (che avranno proiettato addosso frammenti del
video precedentemente realizzato). La video camera che riprende l’ingresso è a disposizione
degli spettatori che possono anche decidere di inquadrare altro.
– Altri due videoproiettori proiettano sulle due pareti laterali le immagini realizzate da due
diversi video loop interattivi posti al centro della sala. Ogni video loop è composto da una
videocamera attaccata al soffitto che inquadra un televisore appoggiato sul pavimento e a
cui è collegata, generando così delle pulsazioni luminose geometriche che possono essere
modificate dai fruitori.
In questo caso i due video loop potranno essere modificati utilizzando anche gli oggetti-souvenir raccolti in città durante la giornata precedente e raccontati nel video diario. Gli spettatori
così ri-vedranno sé stessi e la propria città reinterpretata da un occhio elettronico e inoltre potranno attivare le modificazioni dei video loop interattivi con le proprie mani-corpo e con gli
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
oggetti-souvenir che in questo contesto rappresentano l’ambiente quotidiano esterno alla mostra
d’arte6.
Riflessioni Interattive per la Galleria Spazio Cluster di Civita Castellana è un’istallazione che contiene diversi elementi per riflettere sul senso dell’arte, della politica e dell’interattività elettronica.
Su una parete si trova un dispositivo che permette ai visitatori di giocare con il loop televisivo
collegato ad un videoproiettore. Due specchi riflettono l’immagine rielaborata dai visitatori su una
parete della stanza e su una parete fuori dalla galleria (attraverso una finestra).
Su un tavolo è disponibile un computer attraverso cui si possono vedere due siti Internet: uno
che mostra i diversi progetti artistici realizzati dall’associazione Theleme e l’altro che mostra la
reimpaginazione del sito di Boycott!, rivista di appoggio alle campagne di boicottaggio delle multinazionali, alle quali è possibile partecipare inviando lettere di protesta che i visitatori si possono
stampare in galleria o a casa propria.
Il dispositivo video loop si incastra anche dentro l’installazione di net art X-8x8-x; l’opera, che
è un invito a usare la rete per informarsi sui siti delle Organizzazioni Non Governative (ONG), fu
selezionata per la mostra Techné nel 1999. Anche in questo caso, i disegni e i materiali abbozzati e
le notazioni dai diari ci permettono di ricostruire l’iter collettivo dell’opera.
Figg. 2.13-2.14 Due disegni per X-8x8-x, 1999: dal diario di Verde e dal sito web. Archivio Giacomo Verde.
Installazioni interattive: i 5 livelli di interattività nell’arte
Qualsiasi opera interattiva si può comprendere e giudicare soltanto se la si “abita” completamente, se ci si sta dentro senza riserve, ovvero mettendo in gioco i propri desideri e le proprie aspettative in prima persona. Perché soltanto così diventa un’esperienza interattiva, altrimenti rimane
una esperienza “limitata” quanto la percezione di un video, di un quadro o di un libro. Per questo
spesso per i critici d’arte, di formazione tradizionale, è molto difficile comprendere e valutare
un’opera interattiva. Spesso si soffermano sull’aspetto formale, per esempio sull’interfaccia grafica o sull’argomento trattato. Ma nelle opere interattive il vero soggetto è il comportamento dei
fruitori, e la grafica è “solo” l’interfaccia necessaria a suggerire i possibili diversi comportamenti
6 Appunti inediti datati 2000, raccolti da Anna Monteverdi. Archivio Giacomo Verde.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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di creazione, esplorazione o comunicazione, che sono il vero cuore dell’opera.
Giacomo Verde.
Tra la metà degli anni Novanta e i primi anni del 2000 in Italia appaiono le prime installazioni
interattive, di cui Tavoli-perché queste mani mi toccano (1995) di Studio azzurro è ricordata come la
prima proposta assoluta: si tratta di un ambiente dove il pubblico, toccando la superficie pulita
di un tavolo, tramite un sensore collocato in posizione invisibile, attiva una narrazione fatta di
corpi in immagine e suoni; Paolo Rosa emblematicamente utilizzerà, da questo momento in poi,
per le installazioni interattive del gruppo, la definizione di “Ambienti sensibili”, cioè ambienti che
si trasformano, rispondendo alle sollecitazioni dei visitatori attraverso sensori attivati dai gesti,
dalla voce, dalla presenza (Studio Azzurro 1999). Nella poetica della trasparenza tipica di Studio
azzurro prende campo un’interattività che si libera dall’evidenza delle corazze tecnologiche per
operare in uno spazio sgombro ma sensibile, ricco di sollecitazioni emotive, mettendo al centro
il ribaltamento dall’oggetto all’azione reale o mentale che si forma nel contesto dell’arte, un’arte
“fuori di sé”:
Arte fuori di sé significa che l’oggetto artistico, cosa, installazione o gesto, non è più il centro, ma
solo il pretesto di una dinamica che diviene il vero fulcro espressivo. Questa dinamica la si può
leggere solo se la si inquadra in un contesto estetico del tutto inedito (…) In questo processo è
evidente che la reazione dello spettatore (non più tale ormai) è componente essenziale e fortissimamente espressiva. Si sente perciò l’esigenza di formulare una vera e propria estetica delle relazioni, basata sull’apprezzamento di momenti, incontri, reazioni, espressioni, che non è necessario
fissare su alcun supporto, che non è necessario fa diventare forma, ma sono da vivere e semmai
raccontare successivamente (Rosa in Balzola-Monteverdi 2004).
Tra gli artisti presenti con installazioni interattive nelle rassegne di questi anni: Tullio Brunone
(Riflessioni 2), Massimo “Contrasto” Cittadini (Debito psichico), Correnti Magnetiche (Satori), Enrico
De Maio (De Rationartis), Roberto Lucca Taroni (Stanza impropria), Marcello Pecchioli (Cronache del
terzo dopoguerra), Mario Sasso (La città visionica), Tommaso Tozzi (Service Internet), Giorgio Vaccarino
(Passaggio a Netville). Mario Canali è l’animatore dello studio CorrentiMagnetiche /Pigreco, autore
del primo ambiente di realtà virtuale immersiva Satori, mentre Tommaso Tozzi esplora gli ambienti delle BBS con Virtual Town Tv.
Andrea Balzola teorizza una sorta di evoluzione delle arti interattive: dopo una fase sperimentale e ludica si arriva alla dimensione cognitiva delle realtà virtuali e al carattere collaborativo della
rete di questi anni che aggiunge alle opere interattive anche l’“intercreatività”:
Nell’arte le soluzioni interattive hanno avuto diverse fasi: una prima fase di sperimentazione, dove
un’azione semplice dello spettatore determinava l’attivazione dell’opera o un micro-accadimento
in essa (attraverso sensori visibili o invisibili collegati a un computer che gestisce proiezioni o
congegni elettronici); una seconda fase di carattere più ludico (con una forte componente estetica
autoreferenziale) dove l’azione volontaria o involontaria dello spettatore produceva un mutamento dell’opera, che poteva essere registrato e riprodotto (come un’impronta virtuale lasciata dallo
spettatore) o una tendenza “sadomasochista”, in cui il performer (l’artista australiano Stelarc ad
esempio) sottoponeva il proprio corpo ad una serie di movimenti involontari determinati dalle
scelte del pubblico (presente o collegato in Rete) che comandavano una sorta di armatura indossata dall’artista e collegata al computer. Ora stiamo entrando in una terza fase in cui l’interattività
comincia finalmente ad avere una funzione cognitiva e più elaborata sul piano espressivo. In
ambito performativo, l’uso di tute con sensori datasuite e motion capture genera relazioni inedite
tra corpi reali e mondi virtuali e produce nuovi codici di movimento e di recitazione. Sulla Rete si
è passati dall’interattività all’intercreatività, in un contesto dove l’utente è chiamato dai net-artisti
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
o hacker-artisti (in genere gruppi piuttosto che singoli, con forti connotazioni etico-politiche) a
intervenire non tanto su o in opere virtuali messe in Rete, ma sui linguaggi e sui processi stessi di
codificazione, sulla concezione e realizzazione di software open source, cioè aperti a interventi
migliorativi e a innovazioni creative (Balzola 2008).
L’installazione di Verde Polittico interattivo viene presentata a Situazione costruita (Sacile 1995), manifestazione dedicata a arte, architettura e design, dove per tre settimane, artisti, architetti e designer avevano come compito quello di modificare temporaneamente spazi urbani e spazi collettivi.
Tra gli artisti, oltre a Verde, Luigi Veronesi, Bruno Munari, Rocco Bizzarri. Significativa la presentazione del critico e curatore Ernesto Francalanci scritta per il catalogo della manifestazione:
Polittico interattivo consiste nella messa in contrapposizione dei due mondi, quello illusivo e illusorio della televisione (la telecamera è appesa, uovo pierfranceschiano in veste postmoderna, sopra
alcuni monitor, in modo da permettere effetti loop, manipolazioni della luce e produzione di
effetti: metafora della funzione autonarrativa della televisione), con quello “reale” dell’organizzazione della solidarietà e degli interventi di aiuto sul pianeta, realizzati senza fine di lucro e al di
fuori di ideologie politiche, diventando l’unico rivoluzionario linguaggio di una politica universale. Polittico-politico7.
Essere non Essere, in forma installattiva con quattro sedie, telecamera e videoproiettore monotubo, viene presentato alla manifestazione Fermo immagine. Il corpo tra comunicazione e rappresentazione
(1995), alla Galleria Gluck di Milano in cui erano presenti videoartisti (Alessandro Amaducci,
Marco Bragaglia, Lydie Jean-Dit Pannel, Fabio Iaquone, Federico Bucalossi) e studiosi di estetica dei media (Ernesto Luciano Francalanci, Antonio Caronia, Franco “Bifo” Berardi, Mario
Perniola, Maurizio Lazzarato); ed inoltre a Virtual light (Bari, 1996)8.
Il tema è lo spazio tra realtà e simulazione, tra corpi e simulacri, e Verde propone un’installazione dove si mette in scena una sorta di “sindrome dello specchio” in cui il mondo che si specchia
non è la realtà ma qualcosa di simile, non identico. Lo schermo è uno specchio che non dà accesso
ad altri mondi, ma rimbalza in un loop senza uscita, moltiplicandolo: siamo costretti a oscillare tra
visioni sempre parziali, il nostro corpo è sempre anche in un altrove che non possiamo afferrare
con i nostri sensi. La scheda di Verde suggerisce il contenuto concettuale dell’installazione:
Essere non Essere è una installazione, uno spazio, per riflettere sullo scarto tra la consistenza del
proprio essere e la sua rappresentazione in video. Sulla parete di fronte all’ingresso, chi si accinge
ad entrare vede la propria ombra riflessa da uno specchio ma con un attimo di ritardo: così può
entrare in dialogo con la proiezione del proprio simulacro. Ma il dialogo può essere approfondito
entrando nella zona videoproiettata, allungando la mano a sfiorare l’altro sé stesso, l’altro essere
che si moltiplica all’infinito in un corridoio di quinte virtuali. Essere non essere è l’invito a giocare
con la propria immagine e aprire il dubbio su cosa sia essere o cosa non essere. È più giusto sedersi
a guardare chi entra in scena, confrontarlo al suo simulacro o farsi attori giocando con la propria
immagine? O comunque si è attori, personaggi seduti a guardare, per chi da fuori si appresta ad
entrare?9
Si tratta di una versione semplificata del dispositivo-camera temporale creato dall’artista americano Dan Graham venti anni prima con Present Continouous Past (1974): interessato al rapporto tra
le arti e le implicazioni sociali e politiche dei media, Graham fa muovere il visitatore in un percorso
7 E. Francalanci, Soggetti postvirtuali, ubiqui in Catalogo di Situazione costruita, Sacile 1995. Archivio Giacomo Verde.
8 Vedi il sito https://neural.it/projects/virtual/vlight.html
9 Scheda di Essere non essere dal Catalogo Virtual light, Bari, 1995 dall’Archivio Giacomo Verde. Notare che una
riflessione simile verrà fatta da Verde a proposito della posizione dello spettatore di fronte a una installazione di
net art in cui si può decidere di guardare altri agire o agire direttamente sul web.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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labirintico di riconoscimento di sé e contemporaneamente di distorsione percettivo-temporale, sia
attraverso specchi, sia attraverso il meccanismo di registrazione video e di ritardo dell’immagine
riprodotta, permettendogli di vedere «ciò che normalmente non è raggiungibile visivamente: la
simultaneità di sé sia come soggetto che come oggetto» (Graham 1990).
Nel 1998 Verde è invitato a partecipare alla mostra La Coscienza Luccicante: dalla video-arte all’arte
interattiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma (16 settembre-30 ottobre1998), per la quale realizza, insieme con il gruppo THELEME di Treviso da lui fondato, CON.TATTO, polittico interattivo
curando un nuovo sito web per la rivista antagonista Boycott!
Si tratta della prima opera di Net Art di Verde caratterizzata da un forte valore sociale: infatti
nell’installazione si mettono in contatto più forme di interazione: il mondo della comunicazione
virtuale con l’azione “politica” nel reale, e le forme della comunicazione sociale con quelle artistiche. Il tatto, il toccare con mano, il fare esperienza è il denominatore comune delle interazioni
(da qui il titolo).
Nella sala della mostra ci sono due dispositivi video-loop-interattivi che permettono una interazione puramente estetica e ludica del pubblico attraverso due videocamere e due tv-color (una
sorta di riflessione sull’immaterialità dei segnali video attivabile dalle mani dei visitatori) e un
touch-screen (trasparente e sospeso a mezz’aria con cavi di nylon) collegato ad un computer e ad
un video proiettore, che permette di navigare (attraverso il tocco dello schermo) nel nuovo sito
webcon contenuti politici.
Dice Verde nella scheda di presentazione: «Si intende segnalare che le varie esperienze di attività
sociale, amplificate dalle possibilità connettive della rete, si possano intendere come delle opere
d’arte che abbiano superato i limiti della rappresentazione critica del mondo, e dei suoi problemi,
per un’azione politicamente estetica tesa a migliorare direttamente lo stato delle cose». E ancora:
L’intenzione dell’installazione, e delle oper’azioni del gruppo di “artisti” collegato a Theleme, è
sia di allargare il concetto di interazione – dal semplice contatto con o attraverso le macchine,
all’attività nel e con il sociale – sia di evidenziare lo stretto rapporto esistente tra “l’immaterialità”
della comunicazione elettronica e la “materialità” dell’esperienza quotidiana. Ancora una volta
si sottolinea che per arte interattiva non si intenda solo quella strettamente legata all’uso delle
macchine elettroniche, ma anche quella che dia la possibilità all’ospite attivo di interagire con il
mondo in un rapporto dinamico che possa andare oltre lo spazio-tempo dell’esposizione artistica.
Inoltre si intende segnalare che le varie esperienze di attività sociale, amplificate dalle possibilità
connettive della rete, si possano intendere come opere d’arte che abbiano superato “i limiti della
“rappresentazione critica” del mondo, e dei suoi problemi, per una “azione politicamente estetica” tesa a migliorare direttamente lo stato delle cose (Verde, 1998)10.
Nella Inconsapevole Macchina Poetica (2002) Verde insieme, con il musicista Mauro Lupone e il
tecnologo Massimo Magrini, predispone un programma in cui il visitatore, sollecitato da suoni e
immagini, deve rispondere a semplici domande sulla percezione soggettiva e interpersonale della
vita e del mondo. Le risposte si mescolano, come in un gioco dadaista, ai pensieri di alcuni artisti utopisti, facendo diventare gli utenti inconsapevoli creatori. Ispirata a Julian Beck e al Living
Theatre, a San Francesco d’Assisi al Subcomandante Marcos e a Mohammad Yunus, inventore del
microcredito, è stato uno dei primi risultati del progetto di creazioni artistiche Eutopie sulle nuove
utopie e collocato in forma installattiva, in situazioni diverse, sia all’aperto che al chiuso, in spazi
pubblici e privati.
10 Archivio Giacomo Verde, notazione 1998.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Fig. 2.15 Sequenza fotografica documentativa di Inconsapevole macchina poetica (2002). Archivio Giacomo Verde.
È importante sottolineare, in tutti questi casi, come il tema dell’interattività diventi un momento socializzante:
I livelli superiori di interattività sono quelli in cui l’artista o il gruppo di artisti creano dei contesti
non un oggetto come appunto un libro ma uno spazio, un ambiente dove gli spettatori entrano
e continuano la costruzione dello spazio, dell’ambiente, dell’informazione; quindi l’artista si deve
preoccupare di creare un contesto che permetta delle interazioni o con lo spazio o tra gli utenti
che siano interessanti, che attivino dei livelli cognitivi emotivamente interessanti. Un’opera interattiva è quella che riesce a mettere insieme tutte queste cose; l’artista, ad un certo punto, non ha
più il controllo di quello che succede perché il controllo di quello che succede ce l’hanno gli utenti
e l’artista si sorprende di quello che succede perché diventa un’esperienza anche per sé stesso.
Questa esperienza non ha a che fare con l’espressione dei sentimenti né con la riflessione sullo stile, sulla forma o sul messaggio, il ricercatore progetta esperienze, provoca scintille che producono
corto circuiti nel tranquillo paesaggio esperienziale quotidiano; l’arte diventa sempre più flusso e
scambio, collaborazione e relazione. La rotta è irreversibile e porta verso una definitiva liberazione dall’oggettualità del prodotto artistico e ancor più del suo possesso; collezioniamo esperienze,
emozioni, sensazioni, visioni del mondo e non più quadri, sculture e disegni11.
Per il volume Le Arti multimediali digitali, Verde darà una sua specifica (e provocatoria) definizione dei diversi gradi di interattività, anche in contrasto con la tendenza tecnicistica di certa arte, rielaborando teorie e pensieri che aveva condiviso in varie occasioni sin dalla fine degli anni Novanta:
– Il primo livello di interattività è il cosiddetto “clicca e vai”, che permette al fruitore dell’opera
di agire anche senza sapere cosa succede dopo. È la curiosità dell’utente che innesca la partecipazione, che avvia un evento precostituito dall’autore e comunque limitato nello spazio
e nel tempo.
– Il secondo livello riguarda l’idea dell’esplorazione, come la navigazione nel web, in un CDrom, in un videogame o in un ipertesto. L’utente ha la possibilità di fare un proprio percorso,
una propria esperienza, attraverso una grande quantità di informazioni comunque precostituite e difficilmente mutabili. In questo caso è importante valutare il livello di consapevolezza
che può venire acquisito dal “navigatore”. Maggiore è la consapevolezza acquisibile e maggiore sarà la navigazione cosciente, e quindi la “riscrittura”, dell’opera esplorata.
– Il terzo livello è quello che apre lo spazio-tempo all’espressione personale o collettiva in un
contesto precostituito: le vecchie BBS, le bacheche o i forum presenti nel web, che permettono una partecipazione a diversi gradi (dal semplice scambio alla piena partecipazione, di
quest’ultimo caso è l’esempio Indymedia), le mailing list, gli archivi digitali collettivi, o comunque tutte quelle opere che contengono segni concreti lasciati dagli utenti, e che crescono
e acquistano significati diversi sulla base della reale partecipazione degli utenti. Sia nel virtuale
che nel reale.
11 Giacomo Verde, appunti inediti, 2002. Archivio Giacomo Verde.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
59
– Il quarto livello di interattività viene realizzato dal mixare tutti quegli strumenti che permettono di creare una propria espressione o di ospitare quella di altri: ovvero, fai quello che vuoi
con dei programmi che già esistono per disegnare, scrivere, navigare, condividere… tutte
azioni che permettono di creare oggetti o contesti utilizzando dei software appositi, o degli
attrezzi in ambienti spazio/temporali predisposti.
– Infine, l’ultimo livello di interattività è rappresentato dal programmatore, che può essere individuale o collettivo: l’interazione è completa. Costruisce il software e/o l’hardware che gli
occorre per uno scopo e lo utilizza condividendolo anche con altre entità (Verde in BalzolaMonteverdi 2004).
L’origine della specie (interattiva): Degli Avi-libera la memoria
Degli Avi-libera la memoria (1992-1993)12 è la prima installazione interattiva di Verde realizzata
con un Commodore Amiga 3000 e inserita, da alcuni studiosi, tra le prime opere di computer art
in Italia (Vassallo 2011-2020)13; nasceva, in realtà, da un progetto video per il Premio POW (Premio
Opera Video Videoteatro) di Narni, nel 1991 diretto da Carlo Infante. Il bando prevedeva l’invio di
uno story board e il premio consisteva nella realizzazione del lavoro video attraverso la computer
grafica, che all’epoca significava l’uso del software Harry, proibitivo al di fuori dalle produzioni
televisive a causa degli alti costi14. Anche in questa occasione Verde – che aveva già vinto l’edizione
1988 del POW con Stati d’animo – fu premiato, ma il video non fu mai realizzato.
In compenso, venne creata l’installazione interattiva Degli Avi.
A dire il vero, il Trittico di Gorée che era alla base dell’installazione interattiva era nato in occasione del viaggio in Senegal di Verde nel 1990, in tournée con la compagnia del Teatro delle Albe di
Ravenna15, a seguito del quale realizzerà un video-documento, Ravenna-Dakar; l’artista ne approfittò per fare una visita a Gorée, l’isola degli schiavi. È il momento per parlare, in video, di un tema
politico, della schiavitù, dello sfruttamento tra esseri umani che Verde fissa, simbolicamente, nella
forma architettonica della Casa degli Schiavi dove venivano raccolti i prigionieri prima di essere
deportati in America: gli abili al lavoro restavano ai piani superiori e gli altri venivano gettati fuori
da questo palazzo coloniale, che aveva le scale con una curiosa forma a tenaglia. Verde interviene
sulla cartolina della Casa degli Schiavi, la rielabora e fa una sorta di “progressione inversa” della
forma della casa, fino ad arrivare a una specie di “matrice”.
Nell’archivio sono conservate le sequenze grafiche colorate su cui Verde intervenne per realizzare lo story board, e i relativi disegni a matita, alcuni realizzati con la tecnica del frottage.
L’impressione è quella di un flip book. Si tratta di un trittico: erano previsti tre tipi di animazioni
diverse e l’ultimo, su fondo nero, conduceva visivamente lo spettatore dentro la Casa degli Schiavi.
12 Documentazione video consultabile su YouTube (https://www.youtube.com/watch?v=w_--ukTUEi4&t=4s%20
e%20https://www.youtube.com/watch?v=w_--ukTUEi4)
13 Paola Lagonigro ha selezionato per la mostra Il video rende felici (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 2022) alcune
opere di computer art anni ’80 (Vanzetti, Laganà, Crudelty Stoffe, GMM, Correnti Magnetiche, Savi, Altair 4
Multimedia, Gerosa, Abbado, Bertol, Böhm) con il riferimento alla grafica low-tech dei personal computer quale
marchio di nuova estetica.
14 Si tratta della workstation di editing digitale non lineare in grado di produrre materiale di qualità broadcast in uso
per un decennio dagli anni Ottanta.
15 Il viaggio del Teatro delle Albe in Senegal è datato gennaio-febbraio 1990. Al viaggio parteciparono Mor Awa
Niang, Luigi Dadina, Nico Garrone, Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Mandiaye Ndiaye. Il video-documento di Giacomo Verde è Ravenna Dakar - 14’ - VHS/BVU - prod. SeStessi video – 1990.
60
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Proprio quella forma a tenaglia diventa l’interfaccia per l’utente nell’installazione interattiva
presentata alla mostra Cybernauti di Bologna, di cui rimane solo una breve documentazione video;
l’installazione verte sui tre concetti, volutamente interconnessi, di memoria-schiavitù-computer.
Nel monitor del computer si osserva un’animazione della Casa degli Schiavi che gira su sé stessa
con la scritta “Libera la memoria”; tenendo la tenaglia ferma per 30 secondi si interrompe l’animazione e appare sullo schermo la porta della casa che può condurre alla libertà.
Una scelta importante: agire adesso per consentire ad altri di ottenere la libertà16.
Fig. 2.16-2.17-2.18 Fotografia-card della Casa degli Schiavi; in mezzo e a destra, alcuni screenshot
dal documento video dell’installazione Degli Avi-libera la memoria, Bologna 2013.
L’installazione è volutamente poverissima; prevedeva l’azione di uno spettatore
su un computer Amiga appoggiato su cartoni: tramite una tenaglia vera (che diventa
l’interfaccia grafica(mouse) si interveniva
sulle forme grafiche. Le scritte che apparivano, in conseguenza di questa azione con
la tenaglia, ricordavano la responsabilità di
ciascuno di noi nel “non agire”; il messaggio era molto evidente: la soluzione
per ogni tipo di schiavitù è liberare tutti
i prigionieri.
Intorno all’installazione con compuFig. 2.19 Screenshot per Degli Avi-libera la memoria
ter erano appesi tre quadretti su fondo
rosso, giallo e nero che riportavano la forma della Casa degli Schiavi (non c’è traccia delle tele
nell’Archivio).
A Bologna, come artista ospite, era presente anche Massimo “Contrasto” Cittadini con l’installazione Uomo Macchina realizzata con il software Mandala System, che Verde utilizzerà proprio
grazie a Cittadini, per la prima versione dello spettacolo interattivo Storie Mandaliche.
Nel 2022, per la mostra Liberare Arte da artisti, Massimo Cittadini fa un omaggio all’amico artista, conosciuto proprio alla manifestazione Cybernauti a Bologna e con cui, da quel momento
in poi, condividerà idee e progetti; crea per la mostra dei La Spezia No Borders (Degli Avi Remix
1992-2022), installazione multimediale interattiva, con tenaglie, Arduino nano e PC, e monitor. La
16 Non sarà azzardato l’accostamento con una installazione-performance di Marce.lì Antunez Roca, Epizoo (1995) in
cui il performer si sottopone a un’azione, potenzialmente crudele, del pubblico che interviene, tramite dispositivi
interattivi e un mouse, sul suo corpo (naso, bocca, orecchie, glutei e petto). Il dilemma etico è lo stesso: quanto
siamo realmente consapevoli che alcune nostre azioni possono manipolare un essere umano e provocargli dolore
o povertà? Quando siamo consapevoli che altre azioni possono, al contrario, “tagliare” queste catene e rendere
giustizia?
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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tenaglia, la forma base dei disegni e dell’interfaccia usata da Verde per Degli Avi, viene riproposta
in modalità nuova: muovendola appaiono le scritte No Borders, No Chains, No Wars.
Fig. 2.20-2.21 Massimo Cittadini davanti alla sua installazione interattiva No borders per la mostra Liberare
Arte da Artisti (CAMeC 2022) con la tenaglia appoggiata su un Pad. Sul tavolino il catalogo di Cybernauti
(1992). Foto di Valentino Albini. A destra, il Pad con la tenaglia che permette l’interazione con le scritte
sullo schermo. Il foglio manoscritto con le motivazioni dell’opera è dell’Autore. Foto: Marcella Ariodante.
Labilità delle installazioni interattive anni Novanta
Una caratteristica delle installazioni interattive è che poi vengono smontate; stanno aperte un
mese, due mesi, un anno e poi vengono smontate e non rimane niente, rimane soltanto il racconto, la memoria di quello che è successo e questo è interessante perché permette che le cose
vadano avanti, che vengano rifatte, che trovino nuove forme.
Giacomo Verde
Purtroppo solo un’opera interattiva di Verde si è mantenuta fino a noi17 ed è l’installazione
“inter-net-attiva” Reperto antropo-logico 1997 (1995-1997)18; si è preservata, in quanto acquisita all’interno della collezione del Ma*ga di Gallarate, come vincitrice del bando realizzato per la manifestazione Segnali d’opera. Arte digitale in Italia, XIX Premio Città di Gallarate.
Si tratta di una carrozzina mobile poggiata su una pedana e circondata da tappetini con scritto
“Benvenuto”; dotata di sensori a infrarossi, è poggiata su una base circolare sulla quale è fissato
un motorino che permette alla sedia di girare su sé stessa quando uno spettatore, sedendosi per
attivare il computer, chiude il circuito dei sensori. Ha anche un computer collegato alla rete e
17 Va considerata anche la svolta “distruttiva” dell’artista negli ultimi anni: ci sono state almeno un paio di “Aste con
falò” e originali operazioni di “Svendita d’arte usata” con la quale l’artista letteralmente si sbarazzava di opere che
non gli interessavano più e le aveva vendute o barattate. Queste operazioni non hanno lasciato traccia o annotazione sui computer dell’autore, quindi è impossibile raggiungere l’aggiudicatario per inventariare oggetti o anche
solo localizzarli. Propendiamo, però, per l’idea che fosse proprio Verde a volere che la sua arte venisse dispersa,
come scrive in forma di slogan in un cartone con QR code appeso in studio: L’arte deve autodistruggersi. Nel
caso di Interno neve (2002) o di Inconsapevole macchina poetica (2003), la parte informatica fu realizzata insieme con
Massimo Magrini, tecnologo del CNR di Pisa che, fortunatamente, ha conservato traccia dei materiali preparatori
e dei software utilizzati.
18 In realtà l’installazione originaria fu creata a Milano per la mostra Oltre il villaggio globale (Mattei, Ortoleva, Pozzi,
1995. L’opera si chiamava Poltrona In-Mobil casa https://www.zvab.com/buch-suchen/titel/oltre-il-villaggio-globale La documentazione video della manifestazione Segnali d’opera di Gallarate del 1997 è stata messa a disposizione del Museo). Un ricordo della manifestazione Oltre il villaggio globale dalle parole di M.G. Mattei su https://www.
spreaker.com/user/11046232/5-oltre-il-villaggio-globale-milano-1995 ATTENZIONE QUESTO LINK NON
FUNZIONA
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
appoggiato su un’asta di ferro dove sono appesi una flebo e altri oggetti di uso ludico. Agire nel
mondo stando fermi nella propria postazione: Internet è la premessa fondamentale per l’attivismo,
per non restare inconsapevoli e ignari di ciò che accade intorno a noi. L’arte non ha più scuse, e
sedendosi l’utente diventa lui stesso “opera d’arte” e, in quanto tale, deve relazionarsi col mondo.
Nell’Archivio di Giacomo Verde sono presenti i disegni, le recensioni e le fotografie del prototipo (anche chiamato Esitazioni e successivamente, Computer house-fai-da te) mentre il Museo Ma*ga
(precedentemente: Civica Galleria di Arte Moderna) ha conservato una breve documentazione video della manifestazione Segnali d’opera da cui è possibile verificare il funzionamento meccanico
e l’interattività del dispositivo e osservare anche le altre installazioni interattive presenti.
Fig. 2.22-2.23 Schema grafico di Reperto Antropologico 1997 di Verde per la cartolina e, a destra, fotografia
del prototitipo. Archivio Giacomo Verde.
Tatiana Bazzichelli considera l’opera emblematica delle “pratiche reali del mondo virtuale”:
Come è possibile vedere, attraversata la soglia liminare che ci separa dall’opera, una volta seduti
su di essa, questa si anima e, entrando la vita in un oggetto, l’opera d’arte diventa la persona e le
possibili relazioni che si possono instaurare attraverso il Web con altri individui. Inoltre è possibile operare link fra la nostra computer-casa e le altre pagine-casa sparse nella Rete e compiere
azioni comuni come quelle che di solito compiamo dal nostro computer personale. Accedendo al
sito di Giacomo Verde (alla sua casa virtuale), anche chi si collega al Reperto antropologico 1997 dalla
propria abitazione può diventare opera d’arte, personalizzandola lasciando messaggi o una firma,
instaurando legami reticolari fra opera d’arte, pagine Web, il proprio computer, il Sito Internet di
Giacomo Verde, altri siti Internet (Bazzichelli 2006).
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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Figg. 2.24-2.25 Pagina web di Reperto Antropo-logico (1997). Allo stato attuale sono solo un paio i link ancora
attivi. A destra: screenshot del sito. Il pc avvisa con la schermata, che sedendosi si diventa opera d’arte.
Verde aveva collegato un sito web all’opera, navigabile anche dalla postazione della carrozzina,
in cui era possibile avere indicazioni dell’autore sull’opera, lasciare dei messaggi in chat e navigare
su alcuni siti selezionati, purtroppo non più funzionanti19.
Dalla scheda on line si legge l’intenzione dell’artista e il suo obiettivo:
Oggi l’arte che si rapporta con la tecnologia non può che invitare gli “spettatori prosumers” a
fare-da-sé, a farsi opera e fare opere come meglio credono. L’artista e le istituzioni dell’arte non
possono fare altro che mettere a disposizione “contesti” fatti di macchine, spazi e tempi. “Torno
Subito” sta scritto sullo schermo del portatile, lo ha scritto l’autore-abitante dell’opera: chissà se
veramente tornerà, comunque chiunque si siede e riattiva la macchina cancella la scritta e diventa
lui stesso autore-abitante-artista senza aspettare il ritorno di nessuno.
Per altre opere installattive di cui non abbiamo il corpus originale (come UNDERMAGMA),
ricaviamo notizie solo da cataloghi di manifestazioni, da videodocumentazioni o dal suo sito. In
effetti uno dei motivi per cui le installazioni non sono arrivate a noi è il fatto che Verde usava una
tecnologia di casa: il suo computer, la sua televisione. Queste, dismessi i panni d’arte, ritornavano
alla originaria funzione domestica, come il TV stelo, realizzato con un fabbro a Treviso in occasione di una manifestazione d’arte e poi diventata per 20 anni la sua (molto originale) televisione
di casa. In altri casi, se la scheda prevedeva l’utilizzo di un computer, era il Museo o lo spazio che
ospitava l’opera a procurarlo e poi, finita la programmazione artistica, questo ritornava in possesso dell’ente promotore. L’idea e l’opera erano il codice, il video, e l’hardware era solo un supporto
per lo più occasionale spesso “migrabile” in altri formati (eccezion fatta, ovviamente, per la carrozzina per Reperto antropologico).
In occasione della mostra Liberare Arte da Artisti l’opera Reperto Antropo-logico 1997 è stata nuovamente messa in visione grazie al prestito al CAMeC della Spezia; collocata in deposito e non più
funzionante, è stata sottoposta a un ripristino tecnico e un restyling grazie alla collaborazione con
l’Accademia di Belle Arti di Carrara: Lorenzo Antei, già studente dell’Accademia, è intervenuto
sul dispositivo aggiungendo un’invisibile scheda hardware Arduino sotto la seduta, per ricreare
le condizioni di interattività originarie, partendo dalla premessa dell’uso di una tecnologia open
source. Chiaramente il problema del restauro delle opere tecnologiche ha a che fare con l’estrema deperibilità dei materiali, con la pervasiva obsolescenza tecnologica dell’hardware e la scarsa
19 La pagina è questa https://www.verdegiac.org/reperto.htm
Su Internet Archive si può anche raggiungere la pagina originaria del 1997 dove visualizzare le chat dell’epoca.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
retro-compatibilità degli ambienti software20. L’opera nella nuova veste è stata inaugurata a settembre 2022 alla presenza del Rettore dell’Università di Milano, il professor Elio Franzini, docente
ordinario di Estetica21.
Fig. 2.26- A sinistra: Tommaso Verde inaugura il restyling di Reperto Antropo-logico 1997 al CAMeC della Spezia,
9 settembre 2022. In prima fila il prof. Elio Franzini, Rettore dell’Università Statale di Milano.
Lorenzo Antei è intervenuto su più produzioni artistiche di Verde degli anni Ottanta e Novanta,
sia videoopere, sia installazioni che incorporavano media analogici o digitali, per un ripristino funzionale; queste opere erano, infatti, state costruite con componenti oggi deteriorati fisicamente e
meccanicamente. Per il Reperto Antropo-logico 1997 si è deciso di aderire ai criteri fondamentali del
restauro, optando per un intervento di ripristino conservativo: l’opera deve essere riconoscibile
dall’originale, l’intervento non deve procurare danno all’oggetto ed essere compatibile con i materiali originali; infine essere reversibile deve rispettare il principio del “minimo intervento”, ovvero
la necessità di circoscrivere il più possibile le azioni di modifica del bene22.
Reperto Antropologico è una casa-computer e il messaggio è chiaro: con l’aumento delle connessioni elettroniche, gli spazi abitativi diventano sempre più piccoli, fino a ridursi solo a una sedia ma
ognuno di noi può connettersi al mondo e relazionarsi con le comunità e diventarne parte. Era il
1997 e Internet rappresentava l’utopia della democrazia per eccellenza: la piccola sedia-casa connessa al web diventava la finestra sul mondo e l’evidenza che l’arte non può più essere racchiusa
nelle pareti di un museo .
20 La situazione si complica se l’opera è nata direttamente sul web: in tempi abbastanza recenti la più importante
piattaforma di net artist nata nel 1996 ha iniziato un’operazione di recupero di pagine web complesse, fornendo
una sorta di “antologia” della net art tramite il proprio sito e tramite Google Arts & Culture. Vedi una bibliografia
sul tema https://museum-id.com/preserving-digital-art-the-innovation-adoption-lifecycle/
21 In occasione della Giornata Europea del Patrimonio che nel 2022 aveva come parola chiave la sostenibilità, il Museo della Spezia CAMeC ha accolto una proposta del “restyling” tecnologico sostenibile dell’installazione interattiva del 1997 di Giacomo Verde. L’opera finalmente funzionante è stata
esposta in occasione del GEP. Cfr. A.M.Monteverdi Restoring digital arts in a sustainable way. A case study: the restoration of Giacomo Verde’s artworks, in “Culture digitali” n. 7, 2022. On line: https://www.diculther.it/rivista/
restoring-digital-arts-in-a-sustainable-way-a-case-study-the-restoration-of-giacomo-verdes-artworks/
22 Curiosamente, proprio al Ma*ga di Gallarate è stata restaurata un’opera d’arte interattiva di Mario Canali, dello
stesso anno di Reperto Antropo-logico, il 1997, intitolata Form in progress.
II – Giacomo Verde interartivista (1992-2002)
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Perché le reti oggi, come ricorda
lo studioso olandese di media studies Geert Lovink, sono “il sociale”,
da quando «il sociale ha smesso di
essere un riferimento alla società
in quanto tale (…) Le sue pratiche
emergono al di là delle fortezze istituzionali» (Lovink 2016).
L’esperimento di ripristino aveva
alla base l’idea di prendere una tecnologia ormai non più funzionante
e farla “migrare” su un nuovo dispositivo: l’obiettivo è stato, princi- Fig. 2.27 Grafica per Poltrona In-Mobilcasa per Oltre il villaggio
palmente, quello di tenere conto del
globale, Milano 1995. Archivio Giacomo Verde.
rapporto tra le caratteristiche delle
vecchie tecnologie e le pratiche del
loro utilizzo da parte del pubblico di oggi, ricostruendo un’opera ormai non più in grado di accendersi a causa della tecnologia diventata obsoleta.
Antei si è ispirato all’estetica di Verde, pensando alle sue riflessioni sul valore della tecnologia
open access: «Per me quei programmatori che creano programmi di comunicazione, o con codice
aperto, sono dei veri artisti, che vengono poi diffusi e “socializzati” diventando strumenti di comunicazione ed elaborazione di un pensiero collettivo» (Verde, appunti inediti 2002).
Poiché le parti meccaniche e interattive non funzionavano più, e poiché l’artista era solito creare
con tecnologia domestica, povera, a basso costo, addirittura di scarto, l’idea era quella di utilizzare
un dispositivo alla portata di tutti esattamente come il meccanismo di apertura automatica dei cancelli di cui Verde si era servito. I cancelli automatici funzionano grazie ad una centralina che riceve
il segnale inviato dal telecomando; la centrale comanda il motore e lo aziona per movimentare
l’anta con braccio meccanico. Utilizzano sensori (fotocellule) che segnalano alla centrale se ci sono
ostacoli alla corretta chiusura della porta, per esempio una persona che entra.
Allo stesso modo, nell’opera di Verde la sedia si muove o si ferma se qualcuno si siede vicino
ai sensori collocati nel bracciolo o se si alza. Un restauro, quindi, doveva tener conto dell’idea di
sostenibilità, di riciclo e non spreco di tecnologia. Lorenzo Antei ha lavorato, inoltre, per progettare e ricostruire un nuovo hardware e software che fosse parte integrante dell’opera stessa. Si è
optato, così, per un sistema che utilizzasse un programma Open Frame Works per controllare
l’interattività: una scheda Arduino per inviare comandi ai motori.
III – Net Art=Arte di rete
Mentre tutto il mondo parla di Net Art, cioè arte della connessione, nata ufficialmente nel 1997,
quando a Documenta Kassel le fu dato uno spazio con Documenta Done, il sito clone di Documenta
X creato da Vuk Cosic, pioniere della net.art1, Giacomo Verde preferiva usare il termine ”Arte di
Rete”: la definizione l’abbiamo recuperata dalla documentazione depositata in un hard disk dei
primi anni 2000 e l’artista la adopera per intitolare alcuni workshop che proponeva in giro per
l’Italia.
Ovviamente c’è un doppio significato: si fa rete facendo arte in rete (rete intesa anche, e soprattutto, come network di persone che collaborano tra di loro): «Arte di Rete intende occuparsi
di oper’azioni artistiche specifiche per Internet: non dell’esposizione di opere in rete ma di opere
che nascono “per la rete” e che possono essere fruite via modem e computer in un rapporto di
interattività sia con altri utenti che con il flusso di informazioni della rete stessa».
Verde parla così del significato delle opere in rete in un post su NetArtForum, conservato
nell’hard disk del 2002 in questi termini:
Penso che non si possa parlare di net-art in rete senza fare anche un’opera di net-art.
Rispetto alla suddetta Net-Art è presto per cercare UNA definizione. Certamente devono essere
delle opere che hanno il loro specifico nell’uso della rete informatica. Finora sono pochissime
«le cose», fra quelle che ho visitato, che mi hanno “acceso”. Sarebbe bello potersi scambiare le
proprie opinioni qua in forum. Per esempio me interessano oper’azioni che vanno oltre la “contemplazione” o la “contemplazione Interattiva”. Anche se devo ammettere che opere HTML
come quelle degli Antirom, di Easylife e di Jodi mi sorprendono piacevolmente quando appaiono
sul mio schermo, pur rimanendone al suo interno.
Sarà possibile realizzare un’opera che sia interessante e accattivante come le suddette ma allo
stesso tempo in grado di creare mutazione ed emozione fuori dalla rete?
Gli eventi che introducono l’artista alla rete tra il 1998 e il 2002 sono un’installazione mista
Con.Tatto (realizzata in appoggio alla rivista BoyCott!), X-8X8-X.net, qwertyu (commissionata dalla
rivista Domus) e una performance telematica Connessioni Remote (2000). Verde era interessato al
tema del web come terreno libero di espressione, come possibilità di dare accesso universale a un
grande numero di documenti (open data) come era nell’idea del suo mitico fondatore, Tim BernersLee, che il l6 agosto del 1991 mise online il primo sito web all’indirizzo info.cern.ch, e ciò segnò
la nascita del world wide web accessibile al pubblico.
Nel 2000 la rivista di design Domus commissiona a Verde il design del proprio sito web: l’artista pensa di articolare la sua proposta intorno a un progetto web più complesso; in archivio sono
conservate le mail con le proposte fatte da Verde e poi la definizione della proposta definitiva di
un’opera d’arte in rete, che verrà accettata. Verde, come di consueto, lavora in collaborazione con
altri artisti: in questo caso, il musicista Mauro Lupone e Lello Voce, scrittore e poeta che aveva
conosciuto a Treviso. Entrambi avevano alle spalle grandi esperienze artistiche ma mai insieme e
mai con utilizzo delle tecnologie della rete. Le due proposte per Domus vertevano su temi politici:
il primo riguardava la sorveglianza, il video-controllo (tema in quegli anni sollevato da diversi artisti, tra cui i più noti erano i Surveillance Camera Players2). Nel secondo caso il tema riguardava
1 Sulla Net Art vedi: S. Pisano, Net.art: la nascita del termine e le caratteristiche specifiche, in LuxFlux.net n.37, 2009 (http://
www. LuxFlux.net). Sulla pagina di Rizhome.org è stata pubblicata l’antologia della Net Art dalle origini al 2010 e
vengono nominati i principali artefici a partire dal periodo d’oro della Net art tra il 1995 e il 1998.
2 I Surveillance Camera Players dal 1996 realizzano un teatro contestativo fatto di performance silenziose con
cartelli-slogan e azioni davanti a videocamere di sorveglianza dislocate nelle diverse città, per smascherarne la
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
il rapporto poesia-parola-architettura: il “giocatore” del web poteva costruire o distruggere muri,
cliccando sopra i mattoncini. Mattone come porta-link che apre a suoni e parole che mostrano
“architetture poetiche”.
Ecco alcuni passaggi della mail con le proposte di Verde:
Potrei realizzare per voi una delle seguenti opere di net art: NOZON; PULSANTI;
Entrambe le opere prevedono: il coinvolgimento di un musicista, del poeta Lello Voce e di un
assistente web; la creazione di una mailing list; l’attivazione di processi di comunicazione in rete;
impaginazione da web-art; la stampa di una cartolina da inviare e/o distribuire con la rivista e in
eventi-mostre.
1.1 - NOZON
è un sito sul controllo elettronico, suoi spazi, tecniche e relativi comportamenti. Ci saranno link
dedicati alle web-cam, alle attrezzature di video-controllo (vere e immaginarie), a racconti di
spionaggio, a teorie sul «grande fratello», a documentazioni e riflessioni serie o paradossali sulla
diffusione degli apparati di controllo nelle città, nelle case, negli uffici ... ecc ecc.
Verrà chiesto ai visitatori di stamparsi una cartolina con scritto ZO (che può essere letta in maniera diversa a seconda di come viene ruotata) e di mostrarla verso la telecamera di controllo ogni
volta che ne vedono una, e se questo gesto scatena delle reazioni di raccontarle poi nel sito.
1.2 - PULSANTI
è un sito di poesia e architettura web. Nel linguaggio HTML dinamico è possibile realizzare dei
pulsanti, che attivano cambiamenti grafici e/o sonori, larghi quanto la parola che contengono.
Messi uno accanto all’altro sembrano i mattoni di un muro. In questo modo si possono realizzare
dei muri-paesaggi di parole che possono essere attivati dal navigatore scoprendo-creando nuovi
sensi-architetture. Inoltre il sito conterrà delle informazioni sul rapporto parola-architettura, dei
link a siti di poesia e architettura ... ecc ecc.
La cartolina da distribuire sarà un testo poetico stampato su trasparente, in modo che si possa
guardarci attraverso sovrapponendo le parole all’ambiente circostante, dando così ogni volta sensi
diversi sia alle parole che al contesto. La cartolina da stamparsi attraverso la rete sarà fatta in modo
da contenere una o più finestre da ritagliare, in rapporto alle parole, attraverso cui inquadrare parti
del proprio paesaggio.
Dalla lettera si evince la volontà di essere lasciato estremamente “libero” nei modi e nei contenuti. Curiosa anche l’idea di “telelavoro” che, rapportata all’epoca, era davvero anticipatrice dei
tempi. Verde non disdegnava affatto l’idea della collaborazione con la storica rivista, anche se, non
avendo un agente o un collaboratore amministrativo, finiva la lettera dicendo che non aveva alcuna
idea di quanto chiedere per questa collaborazione.
L’opera prescelta cambierà il nome e diventerà, il 10 giugno 2001, qwertyu (dal testo della prima
mail che venne inviata e che corrisponde alla sequenza di 7 lettere della tastiera europea): come
tutte le proposte di Verde, prevedeva un sito web dinamico e creativo, ma anche una cartolina da
stampare e distribuire con la rivista, e una ipotesi di installazione: l’opera poteva, così, “migrare”
in vari formati.
Sfortunatamente, Domus ha chiuso il sito ed è possibile risalire solo a qualche pagine dell’opera
di Verde tramite Internet Archive, che mantiene “memoria” del web3 .
presenza e denunciare la realtà del controllo sociale. Il gruppo ha redatto una vera e propria mappa regolarmente
aggiornata e pubblicata su Internet e ha creato un applicativo web I-see, che permette a chiunque di calcolare i
propri percorsi evitando l’occhio vigile del video.
3 https://www.verdegiac.org/qwertyu/ Il sito si è salvato perché inserito dentro la home page di Verde. Ma si tratta
della versione Beta ossia la versione test.
III – Net Art=Arte di rete
69
Fig. 3.1-3.2-3.3 Grafiche web per qwertyu.net
Il tema era la relazione tra poesia e architettura: nel linguaggio HTML dinamico è possibile
realizzare dei pulsanti che attivano cambiamenti grafici e/o sonori larghi quanto la parola che
contengono. Messi uno accanto all’altro sembrano i mattoni di un muro. In questo modo furono
realizzati dei muri-paesaggi di parole, che possono essere attivati dal navigatore scoprendo-creando nuove architetture contenenti suoni e parole. Erano previsti: un sito web; la creazione di una
mailing list; l’attivazione di processi di comunicazione in rete.
Nella corrispondenza finale con i committenti, Verde spiega i contenuti, le modalità di interazione del pubblico e il significato politico dell’opera:
Qwertyu sono le prime sette lettere della tastiera p.c. (la leggenda vuole che facessero parte del
primo messaggio e-mail della Storia).
Si è scelto questo titolo come paradigma dei contenuti dell’opera: i primi segni, pensieri organizzati, che stanno alla base della costruzione di senso come costruzione di architettura, e viceversa, in un contesto strutturato dal linguaggio informatico della rete. Qwertyu potrebbe essere la
parola di una lingua antica, comunque sia pone una domanda, fa chiedere “cosa significa”, apre
delle possibilità. Qwertyu sarà il luogo d’incontro tra l’immaterrialità del web, la leggerezza della
poesia, la materialità dell’architettura, e la trasitorietà del suono: ovvero sarà l’incontro tra i loro
diversi archetipi. Il pulsante “submit” del web, interpretato per come appare, cambia senso e diventa il mattone-parola per la “costruzione” di architetture primarie che supportano versi poetici
(aperture polisemantiche) e aprono suoni: il mattone è la porta-link: la struttura è trasparente, la
materia connette, la parola è pesante, l’architettura pensante, il suono portante. Tutta questa interscambiabilità di sensi diventa evidente e possibile nel mondo del segnale informatico. Qwertyu
attiverà un forum e una mailing list (e forse altri processi interattivi in rete) che non dovranno
essere il solito scambio di opinioni e informazioni ma piuttosto scritture creative, provocazioni
semantiche, azzardate costruzioni di senso, operazioni artistiche continue ....
Qwertyu stimolerà l’interazione tra poesia e architettura anche oltre il web con la realizzazione di
due cartoline: una trasparente con stampato un testo poetico, in modo che si possa guardarci attraverso sovrapponendo le parole all’ambiente circostante, da inviare e/o distribuire con Domus
70
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
e in eventi-mostre; una seconda cartolina sarà invece pubblicata nel sito e potrà essere stampata
attraverso la rete, sarà fatta in modo da contenere una o più finestre da ritagliare, in rapporto alle
parole, attraverso cui inquadrare parti del proprio paesaggio. L’idea che sta alla base di qwertyu.
net è sì quella dell’arte in quanto progetto, ma a partire dalla convinzione che il progetto non
pre-esiste all’opera ma si chiarisce e si realizza contemporaneamente alla sua ideazione-realizzazione, scontando sempre lo scarto della non coincidenza univoca, dovuto alla polisemanticità
intrinseca di qualsiasi oper’azione artistica. Quindi cosà sarà alla fine qwertyu.net lo sapremo solo
ad oper’azione conclusa. Nel sito si prevedono almeno:
11 pagine web di architteture poetiche (ovvero testi poetici in forma architettonica):
Il mattone; La parete; La porta; La finestra; La casa; Il palazzo; L’edificio pubblico; La piazza; Il
ponte; La città; Punti di tensione (senza mattoni).
Ogni pagina web avrà una sua composizione e diversi sviluppi e modalità di interazione.
Risulta evidente il diverso grado di interattività di queste oper’azioni che trovano la loro espressione anche attraverso la rete, creando contesti partecipati di cui spesso Verde parlava nei dibattiti pubblici e nelle sue “teorizzazioni”; a proposito di interattività, nel suo intervento-fiume a
Mediamorfosi (1998), una delle più straordinarie occasioni di incontro di artisti interattivi, spiegherà
che la rete serve per connettere emotivamente le persone:
Il tipo di interattività offerto da Internet si distingue dagli altri sia perché presuppone l’uso di un
computer e dei relativi collegamenti, sia per un diverso uso dello spazio-tempo (che si dilata e si
restringe contemporaneamente in più direzioni) che per le diverse modalità di rapporto tra le persone (infatti ci si rapporta con l’auto-rappresentazione degli altri, e con le loro idee, piuttosto che
con le persone fisiche) inoltre la rete consente (in teoria) a tutti di essere ‘autori’ di segnali-evento
in maniera più orizzontale che in altri contesti, instaurando così una comunicazione ‘artistica’
veramente bi-direzionale4.
La migliore installazione è interattiva e artivista
Più che di resistenza preferisco parlare di “modalità originali dell’uso dei mezzi di comunicazione”. Il termine resistenza mi fa pensare a uno stato di contingenza troppo ristretto e comunque
subalterno. È vero che attraverso l’arte si può agire contro il “potere post-spettacolare” ma secondo me è più efficace farlo eludendo lo scontro diretto, creando modalità e opere che ci convincono per quello che sono e non perché sono segno di resistenza al nemico
Giacomo Verde
L’Artivismo è un termine che indica il connubio tra arte e attivismo politico, un binomio che
affonda le sue radici in epoche lontane ma che si è specificato in tempi più recenti in relazione
alla comparsa delle prime reti telematiche negli anni Ottanta per poi diffondersi con lo sviluppo
di internet e della cultura digitale. Alla fine degli anni Novanta il termine Artivismo ha una sua
diffusione capillare grazie al lavoro di divulgazione e curatoriale di Tatiana Bazzichelli, a riviste on
line come Digicult di Marco Mancuso, ma anche a reti telematiche, mailing list dedicate, portali
e progetti web come Stranonetwork, ECN, Cybernet, Isole nella rete, AvANa.net assai prima
dell’epoca del “clicktivism”. L’Artivismo è uscito dal cono d’ombra dell’underground, ampliandosi a territori e pubblici più vasti, alimentandosi di temi urgenti e attuali: l’ambiente, le politiche
dell’immigrazione, lo sviluppo sostenibile, l’uguaglianza di genere, la violenza sulle donne, la tutela
delle minoranze linguistiche ecc.
4 Giacomo Verde, appunti inediti, dall’hard disk dell’Autore, 2002.
III – Net Art=Arte di rete
71
Dietro lo slogan Art is not a mirror held up to reality, but a hammer with which to shape it, derivato,
non a caso, dall’autore politico per eccellenza, Bertolt Brecht, si celano molti network, collettivi o
singoli artisti nati sull’onda emotiva di campagne di solidarietà al movimento #blacklivematters o
ad Assange.
Dalla fotografia etica alle campagne antispeciste, dall’intersectionality alle battaglie sull’equità
LGBTQ+, ai movimenti gender pay gap e woman empowerment, l’artivismo ha davvero allargato
la sua prospettiva di intervento. «Mettersi in rete, creare significato, contestare il potere» sono i tre
livelli di azione dei movimenti, scriveva Manuel Castells nel 2012 in un testo ancora troppo poco
letto e citato: Reti di indignazione e di speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet.
X-8x8-X, ovvero il non-profit-web-art antiportale di Giacomo Verde, è stata esposta come
installazione interattiva il 19 novembre 1999 alla Triennale di Milano per Techné e fortemente legata al tema artivistico: attraverso questa divertente interfaccia web e tramite un touch screen, i
visitatori dello Spazio Oberdan o della rete potevano connettersi a siti non governativi e venire a
conoscenza di pratiche di solidarietà.
Un’installazione interattiva modulare che faceva uso di tecnologie domestiche, come era usuale
per l’artista, metteva l’utente in condizione di creare il proprio personale gioco dell’arte e di connettersi con comunità sociali.
Fig 3.4 Screenshot del sito X-8X8-X.net
Così Verde:
Navigare è come stare dentro un mondo a parte, dove la grafica non ti aiuta a scegliere e dove
ti trovi, immerso in mondi virtuali che non ti aspetti”: X-8X8-X è un antiportale per i siti del
no-profit. È stato registrato sui motori di ricerca in modo che chi cerca siti di volontariato e impegno sociale possa trovare anche questo, ma è costruito in modo che chi lo visita con aspettative
artistiche si trovi di fronte a siti di informazione sulle attività del no-profit. Il risultato, pare, sia
abbastanza irritante per entrambe le categorie che non riescono a capire la relazione tra forma
e contenuto. Pochi sono stati i complimenti che mettevano sullo stesso piano i due livelli, in generale mi è stato segnalato l’apprezzamento per uno o l’altro dei due aspetti. Inoltre ho ricevuto
diversi messaggi di persone irritate perché non riescono a chiudere la finestra a tutto schermo,
che faccio partire in automatico, dando l’illusione di “impadronirmi” dei loro monitor. Come
pure è “spiazzante” il fatto che non esista un menù chiaro che permetta subito di navigare consapevolmente: durante la prima visita non si sa mai dove vanno a finire i link, soltanto facendo
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
attenzione ai segni sparsi nel sito si riesce, col tempo, a ricostruirne l’architettura. Uno dei sensi
dell’opera è quello di segnalare la similitudine di “intenti” tra chi opera nel mondo con logiche
diverse da quelle dominanti, legate al profitto, e chi adopera la tecnologia e i suoi linguaggi cercando di sovvertire le logiche imposte dal mercato del digitale. Per questo è un antiportale. Qui
non si pretende di guidare il navigante illudendolo di scegliere (di essere al suo servizio, come
fanno i portali) ma piuttosto si intende segnalargli che, comunque sia, le scelte che fa sono sempre un’“innocua sorpresa”: quando clicchi sul link di un portale non trovi quello che cerchi ma
ciò che i “padroni di casa” vogliono farti trovare secondo la regola del “buon senso medio”. I
portali sono vere trappole perché non segnalano e non permettono logiche divergenti dalla media
giustificata dalla maggioranza5.
Un altro mondo è possibile (anche) tramite il web. Decidere di aprire la mente a ciò che accade
nel mondo, far parte di una comunità che progetta un uso diverso della rete, democratico e che
socializza saperi tecnologici è l’obiettivo di un’arte artivista digitale; dice lo stesso Verde intervistato da Valentina Tanni:
Fig. 3.5 Lorenzo Antei verifica il funzionamento di X-8x8-x alla mostra Liberare Arti da Artisti
(CAMeC, La Spezia, 2022)
Così ho sfruttato l’occasione della mostra per realizzare un progetto dedicato alle associazioni
non governative, al volontariato, agli attivisti politici e all’interattività che potesse essere fruito
in mostra con l’installazione, nello spazio del quotidiano con una cartolina e un libretto, e nello
spazio virtuale con un CD-rom e un sito web. Evidentemente ogni supporto ha privilegiato un
aspetto diverso della riflessione su interattività-politica-virtuale. Il sito Internet riflette in particolare sul rapporto reale-virtuale che viene elaborato attraverso la rete dall’attivismo politico, e sul
senso estetico-politico del fare web-art e del fare attività non-profit rivolte a migliorare il mondo.
Infatti in sottotitolo di X-8X8-X.net è «non-profit-web-art antiportale», segnalando così fin dal
titolo (oltre che dal tipo di impaginazione) anche una critica esplicita alla politica estetica ed economica dei portali e di certa net-art (Verde in Tanni 2001).
5 G. Verde, La web art no profit di X-8x8-x, in Karenina.it Arti elettroniche, febbraio 2000.
III – Net Art=Arte di rete
73
In occasione della mostra Liberare Arte da Artisti il sito è stato oggetto di un restyling: alcune
pagine non erano più accessibili e molti collegamenti interni ed esterni erano stati interrotti, e
animazioni e immagini non erano più visualizzate correttamente6.
Nel 2000 Verde partecipò all’hack lab del CPA di Firenze, dove si erano ritrovati artisti e teorici
per collaborare e sperimentare nuove forme artistiche e discutere sui temi dell’arte, dei media,
dell’hacking e della Net Art (Tommaso Tozzi, Claudio Parrini, Strano Network, Ferry Byte, The
Walrus, Massimo Contrasto, Tatiana Bazzichelli ecc.) e espose all’ HACK.IT.ART, al Kunstraum
Kreuzberg/Bethanien di Berlino.
E soprattutto erano gli anni del movimento di Seattle e dell’Anti G8 di Genova: rimarrà, a futura memoria, la straordinaria opera documentaria, attivista e videopoetica di Verde e Lello Voce
Solo Limoni (2001).
Può chiarire la posizione di Giacomo Verde rispetto all’artivismo un intervento all’HackMeting
2000 dal titolo Per ri-definire un’arte di movimento, che lui aveva riscritto in un file dell’hard disk 2002
per un’ipotesi di pubblicazione:
Per ridefinire il ruolo dell’arte e il senso del fare arte bisogna prima di tutto mettere in discussione
quello che ci è stato insegnato nelle scuole e nelle accademie perché quello non è l’arte, ma solo
uno dei modi di concepire l’arte ed esattamente quello più funzionale all’attuale sistema economico post-borghese. Per me bisogna parlare di arti, al plurale e con la a minuscola e non di arte.
Poi se si intende fare un’arte che sia veramente alternativa a quella del sistema dominante bisogna
annullare la divisione per generi «tecnici» (pittura, scultura, video, teatro ecc. ecc.) e riformulare
i generi artistici tra opere che creano relazioni (contesti e strumenti) e opere di sola rappresentazione. Evidentemente le opere che creano relazioni (tra persone, idee, spazi) sono da considerarsi
alternative all’arte dominante che infatti si occupa principalmente di creare «rappresentazioni»
attraverso feticci-oggetto da vendere nel mercato dell’immaginario collettivo. Così come si cerca di creare esperti di economia e della produzione che dovrebbero essere in grado di fare le
scelte economico-politiche «giuste» in rappresentanza della gente si creano gli «artisti» specialisti
dell’immaginario collettivo che dovrebbero rappresentare quello che la gente vuole. Ma un’artista
del «movimento» non dovrebbe creare opere per l’immaginario collettivo ma elaborare contesti e
strumenti per creare assieme all’immaginante collettivo. Infatti per me sono veramente artisti quei
programmatori che realizzano programmi di comunicazione, o con il codice aperto, che poi vengono socializzati diventando strumenti di comunicazione ed elaborazione di un pensiero collettivo. Bisogna imparare a riconoscere come artisti anche persone che normalmente non pensano di
esserlo solo perché non sanno disegnare bene, mentre invece sono bravissimi a creare relazioni,
spazi e eventi di comunicazione orizzontale quotidianamente. Comunque se uno si sente realizzato e felice nel dipingere è giusto che lo faccia ma è importante che si renda conto anche del contesto economico e politico in cui si trova a dipingere e a vendere i suoi quadri. Un creativo che non
si preoccupa delle conseguenze economiche e politiche del suo agire è semplicemente organico
al sistema dominante post-capitalista. Un creativo del movimento (tenendo conto che tutti siamo
creativi) cerca sempre di capire in che contesto politico ed economico si trova ad agire, e cerca
di fare opere e azioni che siano alternative al sistema dominante. Per concludere vorrei segnalare
un’altra differenza possibile tra un agire artistico «alternativo» ed uno «dominante» e riguarda il
6 La programmazione era funzionale a una certa estetica web vicina ai videogame e avrebbe funzionato perfettamente solo se i browser e i server avessero supportato le tecnologie e i collegamenti incorporati. Le pagine create
utilizzando le prime funzionalità HTML non erano più riconosciute correttamente e sono state sostituite con CSS.
Nessuna parte del codice è stata cancellata, come previsto dalle norme etiche del restauro e ogni cambiamento
è stato tracciato e non risulta reversibile. L’intervento di ripristino e restyling rientra in una delle operazioni oggi
necessarie perché la deperibilità delle prime opere di net art della fine degli anni Novanta è stata già rilevata da
alcuni anni: è del 2017 il primo intervento ad opera del settore restauro del Guggenheim su un’opera di Net Art
non più funzionante. Si tratta di Brandon di Shu Lea Cheang (1998–1999), peraltro prima opera d’arte realizzata
sul web ad entrare in un Museo.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
mito dell’espressione personale. L’artista tradizionale si preoccupa principalmente di esprimere se
stesso, pensando che questo sia un gesto di libertà, ma è solo arroganza e presunzione. Il creativo
del movimento sa che ogni sua espressione è comunque frutto di una elaborazione collettiva più
o meno esplicita e quindi non si preoccupa tanto di esprimere se stesso quanto piuttosto di essere
parte di un’espressione collettiva. In realtà il nome di ogni artista (la sua firma) è sempre stato un
nome collettivo, l’espressione di un pensiero condiviso, e non quello di un individuo isolato dal
mondo7.
7 Notazione inedita di Giacomo Verde dall’Archivio, 2002. Gli errori ortografici sono stati mantenuti.
IV – La tv è di chi la fa
Da Piazza Virtuale alla Minimal Tv
Nell’Archivio di Verde trova spazio anche l’intera e inedita documentazione della collaborazione al progetto di Tv interattiva Piazza Virtuale, realizzato con il gruppo di artisti, i Van Gogh Tv
di Amburgo, in occasione di DOCUMENTA IX a Kassell e trasmesso per 100 giorni nel 1992.
Gli utenti, anticipando di molti decenni i social media, potevano creare i contenuti delle trasmissioni dipingendo o facendo musica, utilizzando la tastiera del proprio telefono. Due furono
le trasmissioni a cui Verde partecipò e in cui ebbe un ruolo centrale come promotore e artista:
dal Centro Sociale Occupato Conchetta di Milano e da Piazza Ganganelli a Santarcangelo di
Romagna.
Il fascicolo di documentazione, presente in Archivio dentro un folder di color rosso, contiene
la minuta delle spese e la corrispondenza di Verde con i possibili sponsor, oltre a descrizioni tecniche, fax di comunicazione con Amburgo, descrizione e riflessioni sul progetto, report dell’attività,
comunicati stampa, volantini, insieme a una montagna di disegni e schemi.
Il risultato non fu all’altezza delle aspettative, ma rimane un progetto assolutamente innovativo a cui Verde partecipò facendo un Teleracconto trasmesso dal nodo di Santarcangelo verso
Amburgo.
I Van Gogh Tv hanno realizzato nel 2021 una retrospettiva del loro lavoro, mettendo a disposizione on line anche i materiali di Piazza Virtuale con un ricordo di Giacomo Verde all’interno
del catalogo.
Fig. 4.1-4.2 Giacomo Verde, due pagine di schemi dagli appunti per Piazza Virtuale.
Archivio Giacomo Verde.
I canali per innescare i collegamenti erano diversitelefono, il computer. Per quanto riguarda
l’Italia, è Verde a occuparsi del network tramite l’antenna parabolica, dopo aver inutilmente tentato di appoggiarsi a reti televisive, nazionali e private. Ne risultò una “festa virtuale” di incontri,
dichiarazioni, richieste, in un marasma di immagini e lingue. Il potere associativo della piazza è
potenziato e auspicabilmente allargato all’intero pianeta, tanto che si intravede il “villaggio globale” presagito da McLuhan e messo in pratica da Nam June Paik1.
1 Good Morning Mr. Orwell è la versione pubblica della prima installazione satellite internazionale di Paik. È andato
in onda il 1° Gennaio 1984 in contemporanea, come radiodiffusione satellitare interattiva, fra New York e Parigi.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Nel 1997 Verde, ancora attratto dal tema dell’arte satellitare, aveva presentato, per il festival
internazionale Venezia Poesia, un progetto dal titolo Connessioni Poetiche, un evento di connessione
videosatellitare che non fu accolto. Le tre città che avrebbero dovuto ospitare i diversi eventi collegati a Venezia dovevano essere: Berlino, Parigi, Madrid, Londra, San Paolo, New York.
Questo il dettaglio del progetto dalle parole di Verde:
Scopo dell’evento è di creare un palcoscenico virtuale sul quale potranno incontrarsi nel corso di
due o tre ore, ed interagire tra di loro, musicisti, poeti, performer e video artisti da quattro capitali
del mondo. Ognuna delle quattro città avrebbe dovuto ospitare un palcoscenico reale e una regia
video collegata via satellite con le altre città. Ogni palcoscenico sarà un grande croma-key che
permetterà di sovrapporre su fondali virtuali, generati dalle diverse video regie, gli artisti presenti
nei diversi palchi. Ogni palco avrà un proprio regista video che sceglierà come mixare le immagini
provenienti dalle altre città con l’evento del proprio palco e i propri scenari virtuali, che potranno
essere generati da un computer oppure da altre riprese video.
Ogni palco avrà un grande schermo che trasmetterà le riprese mixate dalla propria regia video e
quattro (o più) grandi monitor (o piccole videoproiezioni) che trasmetteranno le rielaborazioni
degli altri 3 palchi lontani più le riprese “crude” del proprio evento: una vera multivisione planetaria; inoltre potrebbero esserci altri quattro schermi che trasmettono solo i diversi pubblici (per
l’occasione si potrebbero attivare anche delle postazioni per videoconferenza a disposizione degli
spettatori che potranno così scambiarsi commenti ed opinioni sull’evento in corso).
A turno gli artisti presenti sui palchi si passeranno la parola, la musica o l’azione guida tra i diversi
set, in modo da creare un evento fluido, un’opera di poesia collettiva, che romperà i soliti schemi
tra reale e virtuale, naturale e artificiale. In ogni città il pubblico potrà avere una doppia visione
dell’evento: sia una lettura elettronico-planetaria, data dalle connessioni video, che una lettura teatrale-locale data dalla presenza dal vivo dei propri artisti sul palco. Nel caso si volesse trasmettere
l’evento in televisione bisognerà prevedere un ulteriore regia che si occupi di mixare e mandare in
onda le diverse situazioni locali e rielaborazioni video-planetarie2.
Nel 2002 viene lanciata la possibilità di un evento satellitare collegato con il Social Forum, particolarmente attivo dopo i fatti di Genova G8 a cui Verde aveva partecipato. L’evento era la Global
TV, la prima tv via satellite di movimento, cioè dei “disobbedienti”: venne messa in onda dall’
ippodromo del Visarno alle Cascine di Firenze, in occasione del grande corteo della pace dell’8
novembre 2001. Un laboratorio di comunicazione con un centinaio di persone, in cui Giacomo
Verde e il suo doppio virtuale, il personaggio Global Bit mosso col guanto digitale, facevano da
presentatori. La Rai, però, boicottò la diretta che non venne trasmessa sui canali ufficiali. Ne parla
Verde nel suo blog dell’epoca, appena aperto, il giorno del suo quaranteseiesimo compleanno:
12.11.02
prima di tutto grazie per gli Auguri :-)
vi invio solo ora le nuove info perché domenica, di ritorno dal Social Forum di Firenze, ero davvero cotto: 20 ore di diretta Satellite TV in 2 giorni!!
L’avventura con la Global Television è stata davvero bella e interessante. È incredibile come
siamo riusciti ad andare in onda con “l’accrocchio tecnologico” che avevamo messo su. Non so
se nessun* di voi è riuscit* a vedere niente. Ci hanno mandato anche su Blob. Comunque era
un “intreccio di cavi volanti” da far paura. Alla nostra postazione (quella del pupazzo virtuale) è
saltata la corrente almeno tre volte perché un cameraman inciampava nei cavi. Per fortuna sempre
durante i momenti che eravamo fuori onda. Era veramente incredibile vedere trasmessi in TV
immagini e parole che di solito vedi solo nei centri sociali.
Ha collegato la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. Hanno partecipato tra gli altri: Laurie Anderson, Merce
Cunningham, Peter Gabriel e Allen Ginsberg.
2 Dall’hard disk di Verde, datato dicembre 1996. Progetto non realizzato.
IV – La tv è di chi la fa
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Tutto il gruppone di “professionisti disubbidienti” e videomakers dei centri sociali è rimasto entusiasta dell’esperienza e ci sono serie possibilità che si possa ripetere.
Fu l’azione A mettere mano, che aveva aperto per Verde il capitolo della TV fai-da-te nella seconda metà degli anni Ottanta, proseguendo con innumerevoli varianti. A mettere mano (talvolta Per
mettere mano) è un’operazione di distruzione della tv e sua ricostituzione in forma di arte, scultura,
gioco. Riproposta per molti anni, era un modo per lanciare un’idea di un uso consapevole delle
immagini della televisione: si partiva dal nero della tv, dal suo annullamento simbolico, per creare
immagini. Il mondo va ricreato da zero, e questa ri-creazione passava attraverso la dissoluzione dei
media globali. La conflagrazione è possibile attraverso uno spegnimento della televisione.
Ecco la scheda di A Mettere Mano, Azione collettiva di riciclaggio TV:
Azione Base
L’azione consiste nel fare rompere - dando le istruzioni - al pubblico invitato (sia infantile che
adulto) 1 o più TVcolor (non funzionanti) per riciclarne i pezzi realizzando opere di “scultura con
gesso” oppure spillette, collanine o soprammobili.
La televisione è un oggetto intoccabile. Spesso rimane immobile nelle case, di fronte alle sedie
e ai divani, lasciando immobili tutti i telespettatori, illudendoli di fare esperienze che in realtà non
avvengono. L’unica esperienza reale è quella della passività.
La Vista è uno dei sensi più facilmente ingannabile. Quando non si riesce a capire “di cosa
si tratta” bisogna metterci mano, e allora il potere dell’illusione diminuisce fino anche a sparire.
In un momento dominato sempre
più dall’intoccabile immaterialità delle immagini si rende necessario fare
esperienze tattili e esperienze di dialogo tra il vedere e il toccare, tra il
dire e il fare.
Rompere televisori per riciclarne i pezzi in piccole opere creative,
che potranno essere continuamente
ri-toccate, non è un gesto eroico e
risolutivo (troppo complesso è per
fortuna il mondo) ma semplicemente un gesto in più a disposizione per
Fig. 4.3 A Mettere mano-Workshop 1998.
fare una esperienza sdrammatizzante
Archivio Giacomo Verde.
e tattile (e chi non l’ha mai sognato?)3.
Per quanto ludica ed effimera, l’azione risultava potente nella sua valenza simbolica, e anticipa il movimento antiglobalista e partecipa dei movimenti di media attivismo.
In questo clima di contestazione dell’informazione televisiva si colloca il progetto delle telestreet, anticipata da un’idea di Verde col gruppo Quinta parete: la Minimal TV; Verde aveva fondato
un team di artisti digitali e performer tra Empoli, Livorno, Firenze, Treviso: Federico Bucalossi,
Claudio Parrini, Vanni Cilluffo, Francesco Galluzzi, Vania Pucci, Alessandro Barbadoro, Renzo
Boldrini.
3 Scheda di A mettere mano dal sito web on line. Per approfondimenti: https://diazilla.com/doc/1075774/
sezione-empirica--acrobat-pdf-
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
In una logica di creatività spontanea e improvvisata si iniziava a contrastare la tv pubblica con
una disseminazione di tv casalinghe.
La Minimal Tv è fatta di bassa tecnologia: la postazione era un piccolo studio, con una scrivania,
una telecamera, un mixer, un computer, con televisori messi in strada.
Verde proponeva, così, uno dei primi esperimenti di broadcasting comunitario autogestito: un
set-Tv montato in occasione di mostre o fiere paesane segnalando che “la tv è di chi la fa”.
Caratteristica della Minimal TV è l’uso creativo e coinvolgente di tecnologia domestica per una
riappropriazione “impetuosa e totale del meccanismo televisivo”; viene presentata alla terza edizione di Kid Screen, convegno internazionale sul cinema per ragazzi e l’educazione ai media (23-2425 ottobre 1997, Villa Erba, Cernobbio-Como). A Kid Screen, promosso dalla Direzione Generale
della Cultura della Regione Lombardia, Verde partecipa con il laboratorio dal titolo Alice nel paese
delle meraviglie in cui è presente anche Mario Canali e Pigreca Associati, con una Minimal Tv. Si
trattava di creare laboratori educativi e creativi per le nuove generazioni, sulle nuove tecnologie. Il
laboratorio con la Minimal Tv per l’uso creativo delle tecnologie domestiche vede impegnati, oltre
a Verde, Vanni Cilluffo, Vania Pucci, Federico Bucalossi.
La Minimal Tv, ovvero la “televisione più piccola del mondo”, quella creata con pochi mezzi direttamente da casa senza bisogno
di uno studio professionale, era un
modo per divertire ma anche per immaginare di rovesciare l’informazione o
mettere in ridicolo il potere dei media
conoscendone le regole, “mettendoci mano”. Era la versione “verdiana”,
ossia popolare e ludica, del fenomeno
delle tv via cavo, che diedero inizio alla
Fig. 4.4 Screenshot di una pagina di messaggistica del
militanza antagonista armata di media
NET-Box della Minimal Tv, 2001. La pagina non è più
di cui aveva parlato Roberto Faenza nel
attiva ed è stata recuperata grazie con Internet Archive.
libro Senza chiedere il permesso (1973).
Come dice Verde:
L’intento è quello di sdrammatizzare la televisione mettendola a portata di mano. Le trasmissioni
sono realizzate con una sofisticata telecamera amatoriale, un mini-mixer audio-video e un Apple
Computer per le intersigle, più due videocamere in SVHS per i servizi registrati e il video-box.
Dopo l’esperienze passate, la Minimal TV è pronta per essere installata e trasmettere in altri festival, sagre di paese, ipermercati, eventi di strada, scuole, feste in casa, matrimoni ecc. ecc...
Il palinsesto, i temi e l’orario di trasmissione si possono adattare ad ogni tipo di esigenza: dal
serio al comico, dal commerciale al politico, dallo sperimentalismo artistico alla didattica. Con la
Minimal TV chiunque, almeno per un giorno, potrà avere la sua rete privata4.
Fine anni Novanta e inizio Duemila: anni di grande trasformazione, anni in cui le nuove tecnologie e Internet sembravano essere gli strumenti giusti per operare un dissenso “artivistico” e
per cominciare un vero e radicale cambiamento sociale. Tra Tv alternative (il fenomeno delle “telestreet”, tra cui Orfeo Tv di Quarta parete), hackmeeting, fanzine e centri sociali, il movimento del
Media attivismo collegato con Seattle e al G8 di Genova, una comunità estesa globalmente stava
ridefinendo un mondo e una nuova (tecno)cultura: l’artivismo era ciò che li univa.
La Minimal TV ha debuttato a Vinci (Fi) dal 23 al 26 luglio 1996 (chiamandosi Vinci Minimal
TV); in occasione del festival Multiscena: rassegna di eventi ed arti sceniche, ha trasmesso ogni sera dalla
4 G. Verde, scheda di A mettere mano, sito web.
IV – La tv è di chi la fa
79
Biblioteca Leonardiana di Vinci su tre monitor e un videoproiettore collocati in zone strategiche
dell’area del castello.
I suoi programmi in continua “collaborazione” con gli abitanti della cittadina, in parte registrati
durante la giornata e in parte realizzati in diretta, affrontavano ludicamente temi legati alla vita
della città e agli spettacoli della serata, inoltre, i passanti potevano dialogare con il conduttore attraverso un video-box messo in strada, oppure lasciare una loro immagine e una dichiarazione in
Internet attraverso un Net-box collegato alla rete e al mini studio televisivo.
Ma cos’è la Minimal TV e come funziona? Lo spiega Verde in una scheda inedita:
Quando abbiamo iniziato a trasmettere la gente pensava che fossero i programmi di una nuova
televisione privata, nessuno si rendeva conto che la regia era a 50 metri dai monitor. Abbiamo
dovuto mettere dei cartelli scritti a mano, sotto ogni monitor in strada, per convincere i passanti
che la regia era a pochi passi ed aperta al pubblico. I suoi programmi affrontavano in modo ludico temi legati alla vita della città e agli spettacoli della serata. Durante la giornata si montavano
“in macchina” delle interviste agli abitanti, o a “persone importanti”, per poi trasmetterle nella
serata. Rivedere sé stessi o i propri vicini di casa in TV è stato l’elemento che ha subito catturato
l’attenzione dei “telespettatori passanti”. Fondamentale per lo sviluppo della Minimal Tv è stato
l’uso della diretta e l’utilizzo di quello che abbiamo chiamato “video-box”. Si tratta di una specie
di “videotelefono” che permette agli spettatori di uno dei televisori-in-strada di dialogare con il
conduttore o gli spettatori presenti in regia. Così attraverso l’intervento continuo dei telespettatori i palinsesti sono stati continuamente stravolti per adattarsi agli stimoli che nascevano ogni
volta giocando insieme alla gente del luogo e ai passanti. La Minimal Tv ha poi trasmesso in altre
occasioni e città: in un festival di cultura giovanile, in una sagra di paese, in alcuni eventi artistici
ed anche in un incontro su tecnologia e bambini sul lago di Como. Ed ogni volta le trasmissioni
si sono evolute ed adattate alla «cultura» dei partecipanti diventando una specie di “specchio della
comunità”. Soprattutto è stato interessante vedere come gli spettatori si appropriavano del “video-box” passando dall’essere passivi all’essere attivi. È stato interessante verificare che i “modelli”
della comunicazione televisiva non venivano rispettati dai “telespettatori attivi” e questo perché
quando il fine della comunicazione sono una sana autorappresentazione e il dialogo bidirezionale
saltano tutte le regole imposte da una TV monodirezionale e autoritaria.
La Minimal Tv è una televisione politica:
“La tv è di chi la fa” è lo slogan che si è rivelato sempre più importante per la minimal TV.
Infatti le modalità di uso della televisione create durante le nostre trasmissioni hanno dimostrato
che se cambiano gli scopi e le esigenze di chi fa televisione cambiano anche le modalità linguistiche e di comunicazione. E questo vuol dire che le trasmissioni della Tv ufficiale e nazionale,
il tipo di palinsesto e di programmi, non sono al servizio dei telespettatori ma al servizio di chi
fa quel tipo di televisione con lo scopo di realizzare profitti personali. Minimal TV è fare televisione partendo dal grado zero e cercando di rivelare l’inconsistenza di ogni immagine televisiva
depontenziandone il suo autoritarismo gerarchico (perché “la televisione non esiste: sono solo
figurine”). Inoltre sfruttanto la naturale voglia di protagonismo del pubblico, si è verificato che è
possibile trasformare un canale televisivo (anche se minimal) in uno strumento di produzione di
spirito comunitario, un generatore di network - proponendo inoltre attraverso l’uso di tecnologia
povera, un modello di rete che demistifica la congiunzione tra comunicazione collettiva e hi-tech,
dominante in questi tempi di mitizzazione di internet o della Tv interattiva. L’intento è sempre
stato quello di sdrammatizzare la televisione mettendola “a portata di mano”. Le trasmissioni
sono sempre state realizzate con telecamere amatoriali, un mini-mixer audio-video e un Computer per le intersigle, più altre due minicamere per il video-box: tecnologia povera, a disposizione
di tutti: perché appunto mettendo mano ai Vhs, ai videoregistratori e alle cose che tutti quanti
hanno in casa, si può iniziare a capire come funziona la televisione. In generale la gente percepisce il sistema televisivo come qualcosa di mostruoso, di gigantesco, di inavvicinabile, per cui
80
Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
o spegni la televisione o l’accetti per quello che è: altrimenti che gli fai? Come puoi intervenire?
Con la Minimal-TV si è iniziato a rispondere al sentimento di impotenza proponendo di farsi la
propria TV con quello che si dispone, senza aspettare che sia la «grande TV» a darti la possibilità
di intervenire per cambiare i suoi palinsesti. Si è anche dimostrato che è molto più divertente
“fare” che stare a guardare. In realtà la minimal TV è più una “performance interattiva” che una
trasmissione televisiva. Infatti le trasmissioni risultano poco interessanti per chi non è (o non era)
presente all’evento o non fa parte della comunità coinvolta. Fondamentale per il funzionamento
della trasmissione-performance è la scelta dei luoghi dove dislocare lo studio-regia, il video box e
i monitor: devono essere luoghi già fortemente connotati come punti di riferimento per la ‘comunità’ con cui la Minimal TV dovrà interagire. Così come è importante che nella inquadratura dello
studio-regia siano sempre presenti la porta di accesso allo studio e/o il monitor che trasmette gli
spettatori attivi del video-box. Siamo ormai convinti che la Minimal-TV può funzionare, anche
senza dichiarare le sua anima politica, in diversi contesti: in occasione di sagre di paese, in mostre
d’arte, in promozioni commerciali all’interno di ipermercati, eventi di strada, scuole, feste private,
matrimoni, ecc..., situazioni che coinvolgono in maniera particolare i partecipanti. La funzione
della Minimal TV diventa quindi quella di ‘dimostrare’ che ogni momento può trasformarsi,
artigianalmente, in un evento televisivo, nel quale però, a differenza di quanto avviene nella tv
ufficiale, il pubblico che viene coinvolto diventa veramente protagonista e produttore della trasmissione. Così gli spettatori attivi possono sperimentare i diversi livelli di “trasfigurazione” tipici
di qualsiasi ripresa video e giocarci a piacimento trasformandosi consapevolmente in personaggi
televisivi. Dopo le esperienze passate, la Minimal TV al momento è sempre pronta per essere
installata e trasmettere dovunque sia richiesta. Il palinsesto, i temi e l’orario di trasmissione si
possono adattare ad ogni tipo di esigenza: dal serio al comico, dal commerciale al politico, dallo
sperimentalismo artistico alla didattica. Così con la Minimal TV chiunque, almeno per un giorno,
potrà avere la sua rete privata5.
L’Archivio contiene molta documentazione della Minimal Tv 6; la Minimal tv è stata anche oggetto di laboratori per scuole o per associazioni per: ripresa dello schermo tv; pittura su schermo
tv; montaggio “random”; riprese “selvagge”; tecnica di montaggio in macchina; uso del macro;
tele-racconto; loop-interattivo; giochi con il telecomando; video-installazioni; come rompere e
riciclare un televisore; Minimal-TV.
Riportiamo, come significativa delle attività, una mail di Verde del 1997 ai collaboratori in vista
di un laboratorio di televisione con gli studenti a Genzano finanziata dalla Rai:
Carissimi/e
Con i ragazzi si lavora ogni pomeriggio dalle 15,30 alle 18,30 (3 ore); il resto del tempo lo useremo
come riterremo più giusto. I video che realizzeremo serviranno come materiale di discussione
per un incontro di studio interno alla RAI., e quasi sicuramente non andranno mai in onda, noi
potremo usarli per scopi autopromozionali o didattici. L’attività è finanziata in parte dal Comune
di Genzano e in parte dalla Scuola Interna Sperimentazione RAI.
Vi ricordo lo scopo delle attività.
Se è vero che “la tv è per chi la fa” (come è evidente) non si può fare una tv per i ragazzi senza prevedere il loro coinvolgimento creativo. Si tratta di realizzare un contesto produttivo che
permetta ai giovanissimi di mostrarsi come sono e non come vorrebbero gli adulti; anzi che gli
permetta di mostrare il loro immaginario e non quello degli adulti su di loro (come normalmente
avviene).
Scopo del laboratorio è sperimentare una modalità produttiva che renda possibile realizza e la
suddetta premessa.
Per l’attività con la IV elementare si cercherà di realizzare una o due brevi videolettere forse indi5 Annotazioni inedite di Giacomo Verde, hard disk personale, 2004
6 New Demo Minimal TV (con Claudio Parrini) - 7’ - Digital video - Prod. Quinta Parete Network- 2000
IV – La tv è di chi la fa
rizzate ai ragazzi della III media, mentre con i più grandi si cercherà di realizzare almeno 4 servizi
per un ipotetico magazine TV.
I titoli dei servizi saranno “aperti”: non si tratterà di parlare di musica o di scuola o di sessualità
ma piuttosto di “Nuvole” oppure di “Zombie” oppure di “Oasi”, insomma si tratterà di dare
delle parole guida che permettano di realizzare dei servizi “fantastici” sul mondo reale abitato e
visto dai ragazzi. Si tenderà a mescolare i generi e gli argomenti, dall’informazione all’invenzione,
dalla raccolta di opinioni alla sperimentazione audiovisiva, seguendo le indicazioni e le esigenze
di ogni situazione e momento e cercando di fare “bella tv”7.
7 Documento ritrovato nell’hard disk di Giacomo Verde 2001. Archivio G. Verde.
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V – Il teatro interattivo e il teatro telematico
Il mio operare artistico-teatrale è sempre stato guidato dalla ricerca di una relazione autentica tra
“scena e platea”. Per questo alla fine degli anni Settanta iniziai a fare il Cantastorie, in strada: sotto
il tetto dei teatri sembrava impossibile incontrare il pubblico “senza mediazioni” e separazioni
intellettuali. La narrazione mi permise di far sentire il “qui e ora”, caratteristico dell’incontro teatrale, in un modo che nessuna altra elaborazione scenica mi aveva mai permesso.
Da lì in poi c’è stato un progressivo e labirintico allontanarsi dallo spazio scenico per cercarne il
cuore. C’è stato l’incontro con la tecnologia video, l’invenzione del tele-racconto, le tecno-performances della Banda Magnetica, il lavoro con il Teatro delle Albe, l’animazione del personaggio
virtuale Euclide e poi il “ritorno alla scena” con il Tecno-racconto Storie Mandaliche.
Quanta “tecno”, eh?
Infatti adesso ho l’impressione che l’uso di “tecnologia” in teatro, affiancata da una narrazione-improvvisata che permetta un rapporto dialogico con il pubblico, mi possa aiutare a ristabilire
un contatto autentico tra “scena e platea”.
In realtà non è l’uso di “tecno-cose” in scena che mi interessa, ma la coscienza di operare in un
mondo dove le emozioni passano in gran parte, attraverso connessioni elettroniche.
Giacomo Verde 1998.
Ci sarà conflitto mediale tra l’attore tradizionale e l’attore digitale? Con i nuovi media si assiste
a una performance live dell’attore-danzatore con la macchina processore di media e con il corpo
usato come hyper instrument, visto che il performer può gestire in modo interattivo e in tempo reale con il solo movimento, suoni, immagini e video. Il suo corpo “interfacciato” permette di far
funzionare per “contagio tecnologico” l’intero spettacolo (Monteverdi 2011 e 2020; Pizzo 2013;
Balzola 2009)
Verde, con lo spettacolo Storie mandaliche (1998-2005), inaugurava la figura del nuovo artista di
teatro come cybernarratore che univa le tecniche del teatro popolare con le modalità interattive
delle tecnologie digitali; questa pratica artistica viene messa a punto dopo una lunga e significativa
esperienza di “cantastorie” (Verde 1990), in cui Verde usava, come supporto alla narrazione, prima il telo disegnato della tradizione popolare e successivamente una tecnologia povera, una telecamera e un televisore. Con Hansel & Gretel Tv inaugurava nel 1989 la modalità del “teleracconto”
(Monteverdi, Sansone, D’Amico 2022), ovvero uno spettacolo realizzato con una inquadratura in
macro di alcuni oggetti (pastiera, frutta, cioccolatini) collocati vicinissimo alla telecamera che, attraverso la riproduzione televisiva, associata alla disponibilità immaginativa del pubblico, si trasfiguravano fino a diventare quello che la storia aveva la necessità di raccontare (Monteverdi 2004 b).
Storie mandaliche nasce dalla collaborazione di Verde con il sound designer Mauro Lupone, con
il drammaturgo Andrea Balzola, e con il computer artist Massimo Cittadini; ha avuto una genesi lunghissima e il materiale di archivio documenta questo percorso farraginoso e contrastato.
Zonegemma è l’associazione nata per unire il gruppo intorno a questo progetto teatrale, ma Storie
mandaliche non si rivelerà, per il teatro italiano, quel prodotto innovativo di cui aveva bisogno.
Verde era di nuovo salito sul palco come attore-narratore, ma la costruzione elaborata e tecnicamente molto complessa nella fase di realizzazione aveva convinto il gruppo, dopo diversi anni
di sperimentazione, ad abbandonare l’impresa, anche se Verde continuerà a mostrarlo in situazioni
non istituzionali e fuori dai teatri.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
Fig. 5.1-5.2 Schema dell’ipertesto di Storie mandaliche, Prima versione, Ripatransone (1998).
Archivio Anna Monteverdi. A destra Storie mandaliche, Seconda versione, Castiglioncello (2001).
Foto di Roberto Buratta. Per gentile concessione dell’autore.
Storie mandaliche
Nella primavera del 1998, Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono
per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva,
ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione
e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo, “cosmogramma” e “psicogramma”. Al
Festival Scantafavole di Ripatransone (Ascoli Piceno, luglio 1998) inizia il primo laboratorio
con conferenza dimostrativa pubblica, in cui, contestualmente alla scelta già predeterminata del sistema interattivo Mandala System (gestita dall’artista Massimo Cittadini), si pongono
le premesse per la scelta dell’iconografia e il primo abbozzo di un testo che, per adattarsi alle
esigenze della macchina tecnologica, fu concepito da Andrea Balzola con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Sono sette storie di
trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di
personaggi “linkate” tra loro che hanno un andamento “concentrico”: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita.
Ogni storia e ogni personaggio sono associati a un colore, ad un elemento e a un punto cardinale (nell’orientamento mandalico l’Est è rivolto in basso), più il Nord-Est che è, nella simbologia mandalica, il luogo del sole, il Sud-Ovest, che è il luogo della luna, e il centro. Il Mandala,
il cerchio magico della tradizione tantrica, è un elemento fondamentale delle cerimonie rituali e
delle pratiche di meditazione, secondo Carl Gustav Jung “strumento per l’individuazione del sé”
e “rappresentazione simbolica della psiche”.
La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali
ed un centro, che è particolarmente importante perché il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all’illuminazione attraverso un rito di orientamento. La narrazione teatrale ha,
come unico elemento scenografico, una piramide di legno a tronco rovesciato, come la montagna
sacra della tradizione induista, intorno al quale il narratore agisce e racconta ripreso dalla telecamera posizionata a terra e con il pubblico seduto nel perimetro mandalico. In Storie mandaliche, che
raccoglie l’eredità del tele-racconto, lo spettatore teatrale, collocato dentro il cerchio, entra dentro
la narrazione, nel crocevia di tutte le storie con le immagini e i suoni in continua trasformazione
grazie al programma informatico Mandala System.
V – Il teatro interattivo e il teatro telematico
85
Fig. 5.3-5.4. Grafiche del Bambino-uomo e a destra del Mandorlo per Storie mandaliche.
Archivio Giacomo Verde.
Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi e ha acquistato nuovi sviluppi narrativi a seconda
dei contesti partecipati in cui era collocato e delle ipotesi di lavoro e delle ricerche del gruppo; il
Mandala System, in seguito, è stato sostituito dalle animazioni. Nell’architettura labirintica e ramificata della narrazione non lineare e non sequenziale della scrittura ipertestuale creata per Storie
mandaliche, ognuna delle sette storie percorse conduce al centro – come ogni mandala. Il centro,
ovvero la fine del tragitto, è la soluzione e il luogo fisico dove tutte le storie si intrecciano e si
incontrano. La narrazione è quindi un percorso che conduce verso il centro, dentro l’intreccio
dell’unica trama che lo spettacolo va a svelare: “Chi si trasforma non muore, chi non si trasforma
muore”, dietro cui si nasconde l’archetipico topos della mutazione-trasformazione presente in tutti
i miti e leggende della tradizione occidentale e orientale. Nella modalità del racconto la storia viene
ogni volta modificata, ricreata, si aggiungono particolari, se ne omettono altri a seconda dello “stato d’animo” del pubblico: il narratore diventa, secondo una bella definizione di Giacomo Verde,
“un termometro dell’emotività della platea”; l’attore-sibilla, attraversato dall’umore del pubblico,
partorisce parole, suoni e immagini. A tale scopo, il lavoro del tecnonarratore unisce alla memoria
orale l’abilità digitale: il cyber contastorie, anziché la tela disegnata, ha davanti a sé immagini in videoproiezione, che lui stesso può trasformare in tempo reale, seguendo il ritmo del suo racconto.
In questo nuovo teatro, gioco di scambio di estetiche e di stati d’animo, il narratore, tra computer e video in scena, conduce l’azione in un percorso labirintico prima della storia, prima di
tutte le storie, e lo spettatore dentro miti e archetipi invisibili. Lo spazio torna così ad assumere le
connotazioni antropologiche e magico-rituali del “sacro recinto”, arricchito di una sorprendente
imagerie, frutto di un’elaborata scrittura scenica e di una raffinata partitura a più voci.
Ogni storia e ogni personaggio sono associati a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale e conducono al centro, esattamente come il mandala. Ma ogni sera il percorso è diverso e la
strada-racconto che porta al centro viene decisa ogni volta assieme agli spettatori. Lo spettacolo
ha attraversato diverse fasi ed è stata inaugurata al Teatro Fabbrichino di Prato, nel febbraio 2004,
una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni create da Lucia Paolini in FlashMX (programma
per animazioni audiovisive 2D usato in Internet) per un’ipotesi di futura fruizione Web.
Le immagini e i suoni hanno la funzione di memorizzazione del percorso e di immersione nel
tema e nelle caratteristiche dei personaggi, e ci introducono in una geometria narrativa esplosa
oltre la pura linearità diegetica. Così Balzola sintetizza gli elementi innovativi dello spettacolo:
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
L’uso artistico delle tecnologie interattive, la
costruzione ipertestuale della narrazione, la
figura del cybernarratore che non era l’attore
tradizionale, ma una sorta di esploratore narrante del racconto multimediale che pilotava lo
spettacolo facendo interagire i diversi linguaggi
e il pubblico, l’intreccio tematico di tradizioni
mitologiche e simboliche differenti e multiculturali, le modalità di produzione e processualità
creativa. Una processualità aperta: la costruzione in progress del lavoro mediante i laboratori
aperti al pubblico, coinvolgeva infatti, studenti,
insegnanti, addetti ai lavori e critici, che di volta
in volta testavano il progetto e partecipavano ad
esso in varia misura, fornendoci indicazioni, critiche, suggerimenti.
Questa scelta non era solo dettata dalle difficoltà produttive, ma dalla convinzione che, poiché
l’interattività era il nucleo centrale del lavoro,
questa dimensione partecipativa doveva manifestarsi a diversi livelli: interattività dell’azione del
performer e delle sequenze narrative, sonore e
visive, e interattività dello spettatore. Un aspetto centrale dell’idea e della sperimentazione di
teatro interattivo era proprio il coinvolgimento
dello spettatore che deve diventare spett’attore, il
teatro come strategia di partecipazione creativa
diffusa, anche ludica, è un tema sul quale Giacomo ha sempre lavorato, e che in una chiave
diversa ricercava anche Studio Azzurro. (Balzola 2020).
Fig. 5.5 Locandina del laboratorio per Storie
mandaliche alla Spezia 1999
Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di
un teatro della parola, è la possibilità di giocare
una parola differente, che prende corpo, suono
e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo
allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nell’originaria natura della maschera.
Connessioni Remote. Il Teatro si fa in web
Con il cosiddetto Networked Theatre si esplorano le possibilità del teatro “a distanza”: performance
di media mobili e performance via streaming, navigazione on line in ambienti ipertestuali e ipermediali
basati sull’accesso di utenti on line tramite chat o Mud (Multi Users Domain) sono una strada sempre
più percorsa dagli artisti agli inizi del Duemila (e durante la pandemia, anche l’unica possibile), verificando e declinando tutte le potenzialità di quella che poi sarebbe stata definita liveness digitale.
Laura Gemini, sulla scorta degli studi di Philip Auslander (1999), ha dedicato numerosi saggi
all’argomento, e specifica che la caratteristica della liveness è certamente l’immediatezza (immediacy),
ovvero il senso di partecipazione qui e ora a un evento, ma anche che, con l’avvento di Internet e
della cosiddetta “platform society”, questo genera anche nuove forme di “co-presenza”:
V – Il teatro interattivo e il teatro telematico
87
La liveness va a qualificare tutta una serie di occasioni che mettono alla prova il tradizionale rapporto fra qui e ora, riarticolandolo ulteriormente. Nick Couldry (…) ha rintracciato nell’online
liveness e nel group liveness delle forme particolari di co-presenza rese possibili dall’infrastruttura
Internet, dalle piattaforme online e dall’uso degli smartphone attraverso le chat. Senza contare
poi la particolare declinazione della liveness che possiamo rintracciare nelle dinamiche dalla social
television caratterizzate dalla partecipazione di pubblici connessi online che interagiscono fra
di loro e con i programmi che stanno guardando attraverso le piattaforme di social networking
(Gemini 2020).
La riflessione, secondo la Gemini, quindi, deve allargarsi al tema dell’essere connessi sperimentando nuove forme di co-presenza tecnologicamente mediata:
È la storia della liveness, come concetto che nasce e si sviluppa nei contesti mediatizzati del sociale,
a dimostrarne che siamo di fronte a qualcosa che non può più essere definito (ontologicamente)
né dalla presenza degli esseri umani, né dalla loro co-presenza quindi nemmeno dalle relazioni
fisiche e dalla condivisione spazio-temporale. Piuttosto quello che sembra più interessante osservare è il modo con cui la liveness si costruisce come esperienza dell’audience (…) Le esperienze
online che caratterizzano la produzione e il consumo di performance di teatro, danza e musica
nella fase storica che stiamo vivendo si prestano ad essere trattate nei termini della digital liveness
nella misura in cui sono il risultato del livello di coinvolgimento degli spettatori, oltre che degli
artisti ovviamente, e della loro disponibilità ad agire quel particolare artefatto performativo digitale come presente. Si tratta di considerare i media interattivi, e di conseguenza per quel che ci
interessa le pratiche performative che vi vengono realizzate, come live media (Gemini 2020)
Pionieristici sono stati i tentativi di creazione di un Virtual e On line Drama a opera del Desktop
Theater e degli #HamnetPlayers, di un Internet Performance ad opera di Herbert Fritsch, di un
Streaming Theatre praticato e teorizzato da Johannes Birringer (Monteverdi 2011; Monteverdi
2023).
Come osserva Giovanni Boccia Artieri: «Vicinanza e distanza diventano prossimità comunicativa, si relativizzano entro le trame definite da un network paradigm che sovrappone allo spazio-distesa, una rete a maglie tecno-comunicative; che punteggia la spazialità con nodi comunicativi
intelligenti, cablati, interattivi» (Boccia Artieri 1998); a dieci anni dalla storica performance Telenoia
di Roy Ascott, della durata 24 ore, che connetteva artisti attraverso tutte le forme di comunicazione dell’epoca (Bbs, fax, videofono, teletext), ai primi anni Duemila, nonostante le difficoltà – e
la sensazione, a ogni collegamento, di stare dentro un romanzo di fantascienza cyberpunk –, era
chiaro che Internet era la “strada” da esplorare.
Giacomo Verde, che ha sempre voluto sperimentare la tecnologia del momento – sempre però
concentrato a scardinarla, piuttosto che accoglierla così com’è –, intuì che si potesse fare anche
teatro in rete, purché si varcassero limiti e usi consueti. Aveva, da alcuni anni, iniziato a farsi sempre più chiara in lui l’idea del network come forma d’arte, come generazione di relazioni sociali e
“connettive” tramite la partecipazione a numerosi progetti in rete collegati all’hacking.
Tutto questo, però, non poteva avvenire prima del 2000, perché solo con l’ADSL, ovvero con la
banda larga oltre la soglia dei 144 kbps, avrebbe avuto senso sbarcare in Internet con eventi partecipativi e teatrali. Carlo Infante chiamò Verde nel 2001 al Museo Pecci per il progetto “Alveare”
del Festival Contemporanea insieme ai gruppi della cosiddetta “nuova ondata” del teatro (Motus,
Teatrino clandestino). A tutti loro venne chiesto di presentare dieci minuti di un nuovo progetto
teatrale (i Motus presentarono una acerba versione di Twin rooms) e Giacomo Verde portò una
proposta di teatro on line: il titolo era Connessione remota.
Nel teatro globale di Connessione remota uno dei primi esperimenti italiani di Webcam Theatre, andato contemporaneamente in scena e in diretta Web dal Museo Pecci di Prato (2001), gli spettatori,
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
connessi tramite la rete alla performance, drammaturgicamente strutturata per
essere esperita on line, potevano chattare, scrivere e dialogare in tempo reale
con il performer: «Questi esperimenti
mi hanno confermato» dice Verde «l’intuizione di poter fare un teatro con/per
la rete tenendo conto del senso di comunità che spesso si attiva in Internet
in maniera più convincente di tanti altri
luoghi materiali» (Verde in Quinz 2001).
Giocose maschere del contastorie digitale offrono un’immagine dell’artista
che persino nelle sperimentazioni più
ardite non abbandonava il tono scanzonato e divertito con il quale aveva cominciato a fare teatro. Prima del 2000
accedevi a Internet con un modem atFig. 5.6 -5.7 Sopra, Verde con il visore della Sony appare altaccato al telefono, la rete aveva una vepubblico collegato on line. Sotto: pagina del sito di Connessionilocità di 56 Kb e prima di caricare un’inremote da cui si accedeva alla performance.
tera pagina passava parecchio tempo; il
costo, poi, era quello di un’interurbana
(la chiamata andava al provider di riferimento). Il tipico suono di un modem analogico ti avvisava
del contatto: come un segnale lanciato da una navicella spaziale alla base di Houston, quel fischio
stridulo seguito da un tipico rumore bianco, come di un canale televisivo mal sintonizzato, ti rendeva connesso.
Ma non era un teatro qualunque: era un teatro che ti connetteva in rete, e quindi da fruire
meglio non in presenza, nella sala del Museo d’arte contemporanea, ma comodamente da casa.
Non era una contraddizione: serviva a mettere in
luce l’usuale inattività dello spettatore e del visitatore
delle gallerie d’arte, puntando sull’idea di interattività
come pratica di partecipazione sociale.
L’ambizioso progetto poteva essere indebolito
dalla fragilità della connessione degli utenti, dalle differenti velocità della Rete, dai continui e inevitabili
refresh della pagina che fungeva da interfaccia/palcoscenico (l’aggiornamento a intervalli regolari dei
dati), le sovrapposizioni delle pagine e della messaggistica. Così, Verde, indossando uno dei primissimi
visori della Sony, si inventò la drammaturgia dell’er- Fig. 5.8 Schermata di Connessioni Remote anrore tecnologico, includendo i disallineamenti le imcora visibile in rete.
perfezioni e la bassa risoluzione nell’esperienza dello
spettatore.
Introduce, quindi, per primo, in modo assolutamente originale, il glitch ovvero l’errore digitale,
che oggi imperversa nella new media art come parte dinamica dello storytelling .
V – Il teatro interattivo e il teatro telematico
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Fig. 5.9-5.10 A sinistra Autoritratto da webcam di Giacomo Verde che indossa i Virtual Eyes della Sony; a
destra un momento della performance on line Connessioni remote (2001). Archivio Giacomo Verde.
Una volta collegato alla pagina, l’utente poteva chattare, visualizzare i testi e vedere Verde che
creava alcune brevi azioni performative: per evitare l’abbandono del collegamento per la lunga
attesa, nella tipica schermata verde da televideo dei primi computer (era nota la sua passione per
la “retro tecnologia”), l’artista scriveva: «Tempo di avvio 15’’», ma anche «Avviare una cosa per
volta», «Dai tempo alla rete!», tutte istruzioni assai utili per non “impallare” la rete. Bisognava attendere e non avere fretta, perché si era sì davanti a uno schermo del computer, ma anche davanti
a una scena, e come a teatro, si doveva aspettare l’arrivo degli attori!
Questi attori erano, però, inanimati, come in uno spettacolo futurista di Fortunato Depero:
erano bambole, giocattoli, stampe colorate. La palla del figlio Tommaso, che all’epoca non aveva
ancora due anni, veniva mossa da Verde davanti alla webcam: azioni non affatto improvvisate
perché, dopo varie prove, aveva l’artista capito esattamente a quale velocità muovere gli oggetti
e come quel suo movimento arrivasse “di là”, dall’altra parte, negli schermi del pubblico, oltre lo
spazio-tempo della rappresentazione fisica.
Governando lo scarto tra il corpo del performer e l’immagine remota, tra il ritardo e l’azione,
Verde da abile cyber-marionettista manipolava gli oggetti, sapendo bene cosa sarebbe rimasto
impresso sullo schermo: una scia di luce, un’eco curiosa, un quadro astratto.
In questo precoce esempio di telematic performance – matrice di tutto quel teatro che è stato
sperimentato durante il lockdown – Verde aveva, ancora una volta, precorso i tempi. Spenta la
connessione al Pecci, però, non fece più altri esperimenti di Webcam Teatro, ma solo workshop
per scuole e Accademie.
Il sito di Connessioni remote è ancora on line e sembra quasi che lo spettacolo sia “on”, attivo
insomma; in effetti, l’home page che si apre è la schermata originaria del 2001.
Clicchiamo e, come in un romanzo di William Gibson, appare Giacomo dalla finestrella della
chat: Ehi Ehi Ehi mi vedete?
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Per una nuova cartografia del reale
Testo base di discussione per l’assemblea svoltasi alla fondazione Mudima di Milano il 14 gennaio 1993.
Che l’orizzonte della modernità si stia ridefinendo è opinione largamente condivisa e, per poco
che vi si pensi, esperienza comune che si va consolidando. Se le arti (intese doppiamente, come
da sempre dovrebbero essere, come scarto dalla sensorialità consunta e acquisita, e insieme come
lenta e faticosa pratica artigianale) hanno qualcosa da dire in questo processo, questo qualcosa non
è certo più una pretesa di assolutezza dello sguardo né una mai sopita voglia platonica di dettare al
mondo una nuova norma. È semmai una lucida aderenza a questo cammino di cui è difficile scorgere lo sbocco, e insieme una fedeltà al desiderio di dire e di capire, forse non più di rappresentare,
certo sempre di raffigurare. Le coordinate della transizione, del transito, sono molteplici, ma ci
interessa adesso individuare quella che è più vicina alle nostre storie di ricercatori: ed è quella del
rovesciamento del predominio dell’immagine, della tirannia del senso della vista e dell’emergere di
una nuova rete di rapporti, più ricca e problematica, del corpo col mondo: una rete che contraddittoriamente e faticosamente, nelle nuove condizioni dell’artificiale pervasivo che ha ristrutturato
lo stesso concetto di “esperienza”, dimostra almeno potenzialmente di poter rimettere in gioco
le potenzialità di tutti i sensi, di voler ricostruire (questa almeno la sfida che vale la pena accettare) un’inserzione totale del corpo dell’uomo nel suo ambiente. Un ambiente che non è certo più
l’ambiente “naturale” che dai primordi della specie fino alle origini della rivoluzione industriale
ha accompagnato il nostro viaggio nel mondo; è semmai quella “seconda natura” che al nascere
della nuova civiltà industriale due secoli, due secoli e mezzo fa, fu sentita comprensibilmente dai
romantici come una minaccia e che oggi contiene tanto la prospettiva della catastrofe ecologica
planetaria quanto la promessa di una vita più ricca di emozioni e di comunicazione.
La fine della società dell’immagine (e insieme della “società dello spettacolo”) deriva paradossalmente dall’ipertrofia dell’immagine, dalla stordente abbondanza di immagini di cui le nuove
tecnologie audio e video, analogiche e digitali, hanno riempito la vita e la casa dell’uomo in questo
secolo. Certo questa fine non è automatica, non è il prodotto necessario e irrevocabile di un processo storico lineare: molte sono le forze che ad essa si oppongono, gli interessi costituiti, gli abiti
culturali, economici e politici cresciuti nella dialettica della società industriale e che sulla vecchia
logica ingrassano (o vivacchiano), ma ad essa restano tenacemente abbarbicati. Questo passaggio
è solo inscritto nell’ordine delle possibilità, e mai come oggi è interesse e dovere di chi vi crede
lavorare perché si realizzi. Le realtà virtuali sono insieme segno e paradigma di questo passaggio, ed è per questo che possono essere assunte a emblema di un tentativo di ridefinizione del
ruolo dell’arte e della comunicazione: questo non significa necessariamente una loro assunzione
a tecnologia unica o dominante, ma appunto l’indicazione di un orizzonte di concetti e di pratiche. Le realtà virtuali radicalizzano infatti e portano alle estreme conseguenze processi già avviati
dall’avvento dell’immagine elettronica e digitale. In primo luogo esse rimettono in gioco una sensorialità a tutto campo, artificializzano non solo il senso della vista, ma quello dell’udito, del tatto,
tendenzialmente tutto il corredo genetico di rapporti dell’uomo col mondo: e insieme sembrano
promettere concrete realizzazioni di quella sinestesia, di quello scambio fra i sensi tante volte teorizzato (ma praticato in modo ancora così rudimentale, date le limitazioni della tecnologia) dalle
avanguardie storiche. Poi promettono una radicale dislocazione del dilemma “riproduzione della
realtà/creazione di un mondo fantastico”: proprio perché la realtà virtuale consente una riproduzione del reale tendenzialmente fedele fino all’ultima virgola, la “rappresentazione” cessa di essere
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
un problema centrale, e viene in primo piano il problema delle regole dell’universo fantastico,
con tutto il corredo di problemi non solo estetici ma anche etici che tutto questo comporta. In
terzo luogo le realtà virtuali alterano radicalmente il rapporto fra autore e fruitore dell’opera. Con
esse l’opera non è più conclusa in sé stessa: quella “cooperazione del lettore” (dello spettatore,
dell’osservatore) che la semiotica ha anticipato in campo teorico, e diverse esperienze artistiche
hanno già concretamente, anche se imperfettamente, praticato come nell’arte programmata), diviene davvero elemento essenziale e costitutivo dell’esperienza estetica. In ultimo le realtà virtuali,
estremo prodotto delle tecniche informatiche di simulazione, superano però d’un balzo questo
orizzonte e ridefiniscono globalmente le condizioni e le modalità dell’esperienza: esse richiedono
perciò una riflessione adeguata della teoria per riformulare il concetto stesso di esperienza e aiutare la pratica a non perdersi in un gioco di infinito raddoppiamento.
In questo quadro risalta la drammatica insufficienza delle pratiche artistiche e critiche tradizionali: anche se a volte il fascino delle battaglie perdute può illudere per un attimo la ragione di trovarsi dalla parte giusta (proprio perché perdente), la sfida dell’universo di immagini-immondizia,
della fiera delle volgarità che la morente civiltà di massa ci scarica addosso, non può essere vinta
dall’atteggiamento di aristocratico disdegno che riafferma la preminenza della “distanza critica”
fra il soggetto e l’oggetto, l’unicità del corpo come centro di gestione e di interpretazione dell’esperienza. L’“aurea regola” della corretta distanza tra il quadro e l’osservatore, la costituzione di
un unico e privilegiato punto di fuga come chiave di lettura della prospettiva, non funzionano più
quando tutti siamo dentro al quadro, tutti siamo parte del tessuto audiovisivo, del flusso sensoriale che caratterizza l’esperienza contemporanea. Leggere l’opera vuol dire oggi leggere se stessi,
come in gigantesco Las meninas in cui non solo il pittore, ma anche ogni osservatore stia dentro
al quadro. Neppure l’appello all’irriducibilità e alla primarietà dell’esperienza corporea ha più un
senso, quando appunto le realtà virtuali ci consentono non solo l’esperienza di innumerevoli altri
io virtuali, ma addirittura la contemplazione di un “alter ego”, di un sè disincarnato, che realizza
(anche in forme laceranti e dolorose) l’esperienza di un corpo disseminato, dislocato, smaterializzato, trasformato in funzionalità senza con questo essere ridotto a un solo senso.
Tutta la nostra pratica, la nostra ricerca di questi anni, dimostra quanto ognuno di noi sia
lontano da una glorificazione della tecnologia o dall’illusione che l’elettronica possa restituire un
mondo (reale o fittizio) purificato dalle contraddizioni. Tutti noi, in un modo o nell’altro, abbiamo assunto il matrimonio fra l’uomo e la macchina come uno “sporco connubio”, come un
elemento di spostamento delle contraddizioni, non di pacificazione o di realizzazione di un’utopia
impossibile. Nessuno di noi vuole “uscire dal mondo” senza un’operazione di ridefinizione dei
rapporti (se non dei confini) tra reale e immaginario. La condizione preliminare per poter iniziare a cartografare questi nuovi territori è certo quella di assumere sino in fondo la materialità
(o l’immaterialità) dell’esperienza, la frammentazione del corpo, anche la disumanizzazione: ma
senza il compiacimento cinico di chi cerca nella glorificazione dell’esistente un alibi per la propria
impotenza; e con la preoccupazione (che crediamo di aver sempre dimostrato) di far marciare
parallelamente la ricerca teorica e la pratica comunicativa. Ecco, questa operazione, ambiziosa
ma necessaria, di ridefinizione delle categorie e delle pratiche di lettura e di attraversamento del
mondo (dei mondi), di ripresa di un legame fra la teoria e la pratica dentro un agire che è sempre
più insieme comunicativo e estetico, è quella che proponiamo oggi. Certo si può fallire. Ma fallirà
ancora più profondamente chi non ci avrà neppure provato.
Mario Canali (Correnti magnetiche - Pi greco), Antonio Caronia, Gino Di Maggio (Mudima),
Antonio Glessi (Giovanotti Mondani Meccanici), Maria Grazia Mattei, Paolo Rosa (Studio azzurro), Giacomo Verde.
Milano, 14 gennaio 1993
GIACOMO VERDE
A METTERE MANO azione di riciclaggio TV
ISTRUZIONI PER L’USO – 5 modi per scassare la tv
Dedicato a chi vuole “liberarsi” del proprio apparecchio.
Rischio distruttivo: assoluto.
La televisione è un oggetto intoccabile. Spesso rimane immobile nelle case, di fronte alle sedie
e ai divani, lasciando immobili tutti i telespettatori, illudendoli di fare esperienze che in realtà
non avvengono. L’unica esperienza reale è quella della passività. La Vista è uno dei sensi più
facilmente ingannabile. Quando non si riesce a capire “di cosa si tratta” bisogna metterci mano,
e allora il potere dell’illusione diminuisce fino anche a sparire. In un momento dominato sempre più dall’intoccabile immaterialità delle immagini si rende necessario fare esperienze tattili e
esperienze di dialogo tra il vedere e il toccare, tra il dire e il fare. Rompere televisori per riciclarne
i pezzi in piccole opere creative, che potranno essere continuamente ri-toccate, non è un gesto
eroico e risolutivo (troppo complesso è per fortuna il mondo) ma semplicemente un gesto in più
a disposizione per fare una esperienza sdrammatizzante e tattile (e chi non l’ha mai sognato?).
Giacomo Verde
Allora: non ne potete più della televisione? Oppure
volete un apparecchio migliore e il rivenditore non
vi da una lira per quello usato?... È arrivato il momento di liberarsi del vecchio televisore.
Non abbandonatelo vicino al cassonetto così
com’è: non è divertente! Fatelo a pezzi con le vostre mani così vedrete davanti a cosa siete stati seduti per tanto tempo. Meglio se lo fate con qualche
amico
==> Materiali necessari:
* una scatola di cartone dove mettere i pezzi.
* un telo di nylon di circa 1,5 x 1,5 m. da mettere a terra
e sul quale poggerete il tv.
* guanti da lavoro abbastanza robusti, per non tagliarsi
con i vetri o per fare tutto con le sole mani.
* se usate gli attrezzi sono sufficienti: un cacciavite; un paio di pinze; un martello.
==> Istruzioni comuni ai 5 modi:
* Attenzione a non farsi male! Anche se il tv non scoppia, come normalmente si crede, ma implode (perché
è vuoto), è bene non farsi prendere dalla foga.
* Staccare la presa della corrente.
* Poggiare il tv su un telo a terra.
* Fare attenzione alle polveri d’argento che si formano quando si rompe lo schermo: meglio non leccarsi
le mani.
* Il vetro dello schermo non è riciclabile come le bottiglie, quindi non mettetelo nelle campane per il riciclo
del vetro ma in una scatola robusta con su scritto “ATTENZIONE VETRO TV”.
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Giacomo Verde. Installazioni interattive, Tv comunitarie, Net Art, Tecnoteatro (1992-2002)
==> I 5 modi:
1. S.C.M. (Selvaggio Con Martello): si rompe tutto usando un buon martello, partendo dall’esterno, magari
dal vetro dello schermo che si consiglia di colpire nella parte alta in modo che i grossi frammenti di vetro
non cadano sulle mani;
2. M.C.A. (Metodico Con Attrezzi): non si tocca quasi niente direttamente con le mani, si usano gli attrezzi
iniziando dal retro del tv. è sublime indossando camici bianchi e mascherine;
3. S.C.M.P. (Selvaggio Con Mani e Piedi): non si usano attrezzi; servono scarpe robuste; il tubo catodico
viene rotto per ultimo;
4. M.C.M.M. (Metodico Con Mani e Martello): si inizia dal retro facendo tutto con le mani, il martello si
usa solo per lo schermo;
5. P.R.C. (Per Riciclo Creativo): è una variante dei metodi 2.M.C.A. e 4.M.C.M.M. e consiste nel mettere in
ordine i pezzi in previsione del loro riciclo creativo; si fa attenzione a non rompere la scatola esterna e
alla rottura dello schermo del tv-color in modo da non rovinarne l’anima metallica.
==> Procedura comune ad ogni modo (escluso 1.S.C.M.):
* Togliere la copertura di plastica dietro al televisore. Vedrete le schede, il tubo catodico, i fili ecc. ecc.
* Noterete un “agglomerato” conico attaccato al culo di vetro dello
schermo: non staccatelo subito. Prima tirate fuori le schede, tagliando o strappando i fili che le tengono collegate. Staccate l’altoparlante,
la scatoletta della sintonia ecc. ecc. Adesso fate attenzione a staccare
«l’agglomerato» cercando di non rompere la punta di vetro.
* Dopo aver tolto tutte le “interiora elettroniche” è rimasto solo
lo schermo-tubo-catodico agganciato alla scatola vuota della tv.
Rompete, con un colpetto deciso, la punta di vetro sul retro dello
schermo: sentirete come un veloce sibilo, è il tubo catodico che si riempie d’aria.
* Estraete lo schermo dal mobile forzando o svitando i blocchi posti ad ogni angolo.
* Adesso potete rompere il tubo catodico. Attenzione ai vetri: sono taglientissimi. Se usate il metodo 5.
Per Riciclo Creativo cercate di lasciare intatto lo schermo: rompete solo il retro del tubo catodico. Ma se
proprio volete rompere lo schermo colpite col martello uno degli angoli superiori.
* Se state rompendo un tv a colori scoprirete una “piramide” e una griglia di metallo leggero. Estraete
prima i lati della “piramide” e poi la griglia forzando le molle interne poste su ogni lato: questa è l’anima
del tv, finalmente è nelle vostre mani, fatene quello che volete.
* Rimane la scatola vuota del tv. Potete scassarla a piacimento, dargli fuoco e ballarci attorno
* Brindate, con quello che volete, alla fine dell’impresa e ai giorni futuri.
Impacchettate i resti in modo che occupino meno spazio possibile e consegnateli al cassonetto,
oppure usateli per fare piccole sculture, soprammobili, spillette, ecc. ecc.
GIACOMO VERDE
Installazioni interattive, tv comunitarie,
net art, tecnoteatro (1992-2002)
Anna Maria Monteverdi
Giacomo Verde (Cimitile 1956-Lucca 2020), videoartista e tecnoperformer, ha dedicato
tutta la vita alla creazione di un’arte sociale, impegnata e partecipata con uso delle tecnologie analogiche, digitali e della rete; Verde è stato un instancabile sperimentatore delle
nuove tecnologie, pur privilegiando sempre l’uso di una tecnologia povera, alla portata di
tutti, ogni volta reinventata in relazione alle mutate esigenze espressive. Il presente volume
segue, a distanza di poco più di un anno, il precedente testo intitolato Giacomo Verde. Attraversamenti tra teatro e video (1986-1992), pubblicato sempre per Milano University Press. La
ricerca è continuata in questo volume che intende mostrare il lavoro dell’artista nel periodo
1992-2002 attraverso materiali preparatori per le opere e le performance interattive che
permettono di evidenziare l’importanza del disegno come medium sostanziale del processo
creativo tecnologico di Verde.
In copertina: libera composizione di Anna Maria Monteverdi dalla sequenza fotografica di Giacomo Verde
Facce Web, 2001.
ISBN 97912-5510-061-4 (print)
ISBN 979-12-5510-062-1 (PDF)
ISBN 979-12-5510-063-8 (EPUB)
DOI 10.54103/milanoup.134