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“MENTI SIMBOLICHE” CAPITOLO 1. RELAZIONE INFERENZIALE: Se x (il segno), da x possiamo infierire uno stato di cose y (che è lo stato di cose di cui x è segno, ovvero il significato di x – ciò a cui si riferisce). “Se x allora y” [Es. Se il centro della città è intasato, allora è meglio prendere la tangenziale] Questa relazione in virtù del quale x funge da segno di y, viene chiamata RELAZIONE DI SIGNIFICAZIONE. Tutte le relazioni di significazione rispettano lo schema “se x allora y”, ma non tutto ciò che rispetta questo schema è una relazione di significazione (nei quali x non è un segno e y non è il significato). Lo schema “se x allora y; se y allora z” è più complesso: la prima è una relazione di significazione, la seconda è una regola di comportamento. Dal momento che si da il segno x, e che l’organismo lo assume come indicazione affidabile dello stato di cose y, in presenza di x, l’organismo adotta il comportamento z. FENOMENI SEMIOTICI:Vi sono differenti opinioni su questi “fenomeni semiotici, ovvero fenomeni che coinvolgono segni, e dunque relazioni di significazione. Cosmosemiosi: tesi sostenuta da Peirce, secondo cui è lecito parlare di segni persino relativamente per il mondo inorganico. Biosemiosi: tesi di Sebeok (e altri) secondo cui dove c’è vita, c’è scelta tra alternative, dunque interpretazione, dunque semiosi. Antroposemiosi: tesi di Umberto Eco (e altri), secondo cui la semiosi ha le stesse dimensioni della cultura umana. Semiotica ristretta: tesi di De Saussure, secondo cui i fenomeni semiotici sono il linguaggio umano e pochi altri codici dello stesso genere, propri della specie umana. A Sant’Agostino si deve l’importante distinzione tra due tipi di segni: naturali e intenzionali. Segni naturali: una nuvola nera può essere segno di pioggia, ma non lo è in modo intenzionale: non si tratta di un segno trasmesso intenzionalmente da un soggetto, è piuttosto un fatto di natura che certe nuvole portano pioggia. Segni intenzionali: un enunciato in una lingua umana è un segno trasmesso intenzionalmente da un soggetto. Per Agostino, tutti i segni esigono un destinatario, ossia un soggetto intenzionale che li riceve: sono dunque tutti intenzionali dal lato della ricezione. Alcuni segni, poi, hanno anche un emittente, ossia sono prodotti da un soggetto, e pertanto sono intenzionali dal lato della produzione (segni intenzionali in senso stretto), mentre altri no (segni naturali). Gli esseri umani sono soggetti intenzionali e fungono sia da emittente che da destinatario. Parleremo invece di comunicazione intenzionale quando x è un segno prodotto intenzionalmente: quando, dunque, esso è un segno intenzionale. Ci sono numerosi fenomeni di comunicazione intenzionale che non si svolgono tramite i segni delle lingue verbali, e vi sono due modi con cui ciò può accadere, sottolineando due caratteristiche della lingua umana che non necessariamente si trovano in ogni episodio di comunicazione intenzionale. Il primo aspetto, associato alla figura di Saussure, riguarda la motivazione del segno (o meglio, assenza di motivazione), ovvero, nelle lingue umane i segni sono arbitrari: ossia non sono legati da alcuna motivazione a ciò per cui stanno. A questo proposito ricorriamo ad una distinzione fatta da Peirce: quella tra indici, icone e simboli. Indici:sono quei segni che sono motivati naturalmente, ossia mediante una correlazione governata da leggi di natura (l’impronta di un animale lasciata sul terreno – per ovvi fatti di natura, l’animale non può fare a meno di imprimerla) Icone: sono segni motivati analogicamente, ossia per il fatto di essere simili sotto qualche aspetto a ciò cui si riferiscono (è un icona un disegno che rappresenta per somiglianza un oggetto visibile, ma lo sono anche quei suoni della lingua detti “onomatopee”). Simboli: sono quei segni che non hanno alcuna motivazione, né naturale né iconica, rispetto a ciò cui si riferiscono (i segni verbali, che proprio in questo senso si dicono arbitrari). [In italiano la parola “cane” si riferisce ad un cane piuttosto che ad un tavolo solo per “convenzione”] È chiaro che i simboli non sono gli unici segni intenzionali: lo sono anche le icone, le quali prevedono un soggetto che riproduca certi aspetti del referente a scopi comunicativi; lo sono anche gli indici : un esempio classico sono gli sbadigli. Seaussure fa una distinzione tra significato e significante: il significato è la rappresentazione mentale di un entità, che si è soliti chiamare “concetto”; grazie a questo possiamo individuare il “referente”, ovvero l’entità fisica cui il segno linguistico rinvia (mentre il referente è un entità extramentale, ovvero, esterna al segno, il significato è interno al segno). Mentre il significante è una componente “materiale”, ad esempio il materiale sonoro di cui sono fatti gli enunciati verbali (la forma sonora che noi realizziamo dicendo ad esempio la parola “libro”). L’arbitrarietà di un segno rende indispensabile una forma di coordinazione sociale. Gli individui devono adottare delle abitudini che hanno come scopo quello di rendere possibile un agire collettivo. Questo è dunque una convenzione: un complesso di abitudini individuali socialmente condivise. John Searle ha parlato di fatti istituzionali , entità dotate di una modalità di esistenza piuttosto bizzarra. Un esempio particolarmente chiaro è quello del denaro. Il valore di una banconota da 100 euro non ha nessuna relazione con quello della carta o dell’inchiostro di cui è fatta. Tuttavia, essa ha il valore che ha, nella misura in cui i membri della comunità che la adopera si comporta come se avesse quel valore. Allo stesso modo la lingua è qualcosa che esiste solo nella misura in cui i parlanti la trattano come se esistesse. Essa è dunque un “fatto sociale”. CAPITOLO 2. Nella seconda metà del XX secolo si sono svolti i primi esperimenti atti ad insegnare il linguaggio umano ai primati, soprattutto a scimpanzé. In particolare i coniugi Hayes tentarono di istruire uno scimpanzé femmina di nome Viki a parlare l’inglese: ossia a pronunciarne i suoni. Alla luce di quello che sappiamo oggi, questo tentativo risulta goffo e ingenuo. La conformazione fisica di uno scimpanzé rende impossibile anche solo avvicinarsi ad una pronuncia identificabile dei suoni umani; e questo sia per le ragioni legate alla fisiologia dell’apparato fonatorio, sia per ragioni di ordine neurologico. Ci sono però dei suoni che le scimmie, in linea di principio, dovrebbero essere in grado di riprodurre. In effetti Viki riuscì, dopo estenuanti sforzi, a pronunciare quattro parole in inglese. Ma vi sono delle difficoltà che si collocano ad un livello più profondo del semplice apparato fonatorio, che risiedono nella struttura stessa del cervello. La principale area cerebrale responsabile della produzione dei suoni verbali umani è la cosiddetta “area di Broca”. Negli scimpanzé un’area simile per composizione e conformazione esiste, ma non sembra che abbia un ruolo nelle loro vocalizzazioni. Uno scimpanzé non può essere addestrato a controllare in modo volontario un’area del cervello. Dunque essi non sono in grado di parlare l’inglese anche perché non hanno sviluppato organi cerebrali che consentano loro di articolare intenzionalmente le complesse sequenze motorie proprie del linguaggio verbale umano. Un secondo esperimento venne condotto nei decenni successivi. Un primo tentativo ha fatto ricorso alle lingue dei segni (o lingue segnate) adoperate dai sordomuti, costituite da gesti ma che hanno tutte le proprietà caratteristiche delle lingue verbali – hanno pari potenza espressiva. L’altra strategia è stata quella di adottare simboli visivi (figure di plastica, icone sulla tastiera di un computer) cui i ricercatori associavano significati determinati. Un involontario “esperimento nell’esperimento” è consistito nel fatto che la figlia di una scimmia a cui era stato insegnato lo yerkish (un linguaggio fatto di simboli iconici) senza che gli sperimentatori la coinvolgessero intenzionalmente nell’addestramento, semplicemente osservando la madre. Kanzi, la scimmia in questione, ha raggiunto il livello massimo di abilità sintattica manifestato da un bambino di due anni e mezzo; ma i piccoli umani dopo quella età subiscono un’ impennata delle capacità sintattiche anche in assenza di qualunque addestramento. Pidgin: lingue di contatto rudimentali sviluppatesi per consentire la comunicazione tra comunità i cui membri non conoscevano l’uno la lingua dell’altro. I bambini sottoposti esclusivamente (o quasi) a pidgin producono quello che viene chiamato Creolo: di fatto una lingua del tutto paragonabile per ricchezza sintattica alle normali lingue storico-naturali. L’esperienza con le scimmie parlanti hanno messo in evidenza che questo fatto ha un fondamento biologico: ossia che l’articolazione sintattica non è qualcosa che manca accidentalmente ai loro linguaggi, ma qualcosa di inaccessibile data la loro costituzione biologica. Sono stati fatti degli studi sui cercopitechi verdi, in cui sono stati riscontrati casi di dissimulazione, diverso dalla menzogna : infatti, è diverso non dire ciò che è, e dire invece ciò che non è. Ma sembra siano stati osservati anche casi di menzogna vera e propria: un segnale di allarme veniva emesso in assenza di predatori, allo scopo di distrarre un avversario durante un conflitto. Sono anche capaci di ingannare: possono fingere di nascondere il cibo in un posto diverso da quello in cui lo nascondono davvero, per impedire ad altri di prenderlo. Nozione di VALORE secondo Saussure: al di fuori della lingua tutti i valori sembrano essere retti da questo principio. Essi sono sempre costituiti: Da una cosa dissimile suscettibile d’esser scambiata con quella di cui si deve determinare il valore; Da cose simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore. Così per determinare quanto vale un pezzo da cinque franchi, bisogna sapere che: 1.lo si può scambiare con una determinata quantità di una cosa diversa, per esempio con del pane; 2. Che lo si può confrontare con un valore simile del medesimo sistema, per esempio un pezzo da un franco, o con una moneta di un altro sistema. Similmente una parola può essere confrontata con qualcosa di diverso, un’ idea, o con qualcosa di simile, un’altra parola. Un’altra distinzione che possiamo fare è quella tra diacronico e sincronico, ossia: le lingue sono soggette a un’incessante evoluzione storica, cambiano continuamente (in modo diacronico). Se invece osserviamo una lingua escludendo il fattore tempo, facciamo uno studio di tipo sincronico (le lingue hanno la proprietà di funzionare). Questo tipo di distinzione ci dice due cose diverse a proposito del linguaggio. In primo luogo i fenomeni simbolici hanno carattere convenzionale, dipendono da un consenso sociale storicamente collocato: questo li rende soggetti all’evoluzione diacronica. In secondo luogo, questa evoluzione non è mai puramente locale: trattandosi di sistemi, ogni cambiamento in punto, ha potenzialmente conseguenze in altri punti dell’insieme (tutto ciò avviene in modo sincronico). Fino ad ora abbiamo parlato dei rapporti che sussistono tra segni, ovvero quelli che Saussure chiamava rapporti paradigmatici (o associativi); essi sono distinti dai rapporti sintagmatici, ovvero i rapporti tra gli elementi che costituiscono un enunciato. La relazione tra “Paolo” e “corre” nell’enunciato “Paolo corre” è di tipo sintagmatico e si ha tra elementi “in praesentia”, mentre i rapporti paradigmatici sono detti “in absentia”, dato che vengono considerati come il rapporto tra il segno che si è deciso di scegliere (corre) e quelli che automaticamente sono stati scartati (mangia, correrà, studia etc.). Possiamo quindi dire che ogni volta che si deve produrre un enunciato, alcuni segni vengono selezionati dal sistema paradigmatico della lingua, e a ciascuno è assegnata una certa posizione sintagmatica. CAPITOLO 3. È noto da tempo che gli animali non umano sono capaci di utilizzare oggetti come strumenti per conseguire scopi che non avrebbero potuto realizzare “a mani nude”. Alcuni scimpanzé della Guinea aprono le noci di cocco con l’aiuto di grandi pietre. Questa capacità, ovviamente, non è innata, ma si può spiegare solo grazie all’apprendimento e all’imitazione. Osservazioni del genere dimostrano che gli esseri umani non sono gli unici animali dotati di cultura. Dopo una serie di esperimenti, il più famoso tra i quali è quello di Kohler, si comprese che le scimmie possano far uso di utensili e sono capaci di stabilizzare culturalmente il loro uso. Ciò di cui non sembrano capaci di portare alla coscienza: Lo scopo come tale, ossia come qualcosa che esige uno strumento per essere perseguito; Lo strumento come tale, ossia come qualcosa che consente di perseguire uno scopo. L’essere in grado di portare l’attenzione sulla relazione tra utensile e la sua utilità, e su quella tra segno e il suo referente, sarebbero due aspetti di una medesima capacità, che ritroviamo nell’essere umano e non negli scimpanzé. DOPPIA ARTICOLAZIONE: Gli enunciati sono scomponibili in unità più piccole dotate di significato (unità di prima articolazione), ricombinabili infinitamente in base a regole sintattiche e uno straordinario fattore di economia (morfemi: casa, studente, pollo) Possiamo ulteriormente segmentare le parole, in segmenti in sé privi di significato (dotati di mero valore opposizionale), che una lingua utilizza per formare parole di significato. Questa seconda operazione individua le unità di seconda articolazione o più precisamente fonemi (suoni privi di significato ma capaci di comporre parole dotate di significato – fonemi: k+a+s+a). Si adottano quindi vari tipi di segmentazioni: la prima è la segmentazione in gruppi di parole detti sintagmi (il modo in cui le parole e i sintagmi si combinano in enunciati è studio della sintassi); poi troviamo i morfemi, cui corrisponde la morfologia, che indaga il modo in cui questi si combinano per formare le parole. Infine vi è la fonologia, lo studio dei fonemi come entità che si combinano per formare i morfemi. Un linguaggio è produttivo se dispone di meccanismi sistematici per produrre nuovi messaggi, virtualmente di numero infinito. Il linguaggio umano è produttivo anche nel senso di essere flessibile, per la sua capacità di adattarsi e di espandersi/modificarsi; mentre i linguaggi degli altri animali sono caratterizzati dalla cosiddetta referenza fissa (non sono flessibili). I segni come abbiamo già detto, sono detti arbitrari, se non sono motivati da leggi di natura (come gli indici di Peirce) né da relazioni di somiglianza (come le icone). Sono arbitrari in questo senso anche i linguaggi degli animali: fissati in modo innato, non hanno il carattere di convenzioni. La nozione di distanziamento viene caratterizzata dicendo che il linguaggio umano, a differenza degli altri linguaggi animali, è in grado di rappresentare avvenimenti che non si svolgono “qui ed ora”, ossia nel luogo e nel momento stesso dell’enunciazione, non solo, esso consente di riferirsi in modo flessibile e cosciente a ciò che non è presente. Le lingue umane hanno elaborato un complesso repertorio di espressioni che consentono di specificare questi parametri, utilizzando sistemi di riferimento centrati sul parlante o assoluti. Appartengono al primo tipo espressioni come “qui”, “la”, “oggi”, “dopo il primo semaforo” etc. Appartengono al secondo tipo espressioni quali “il 12 gennaio 2012”, “in sud Africa” etc. Le espressioni del primo tipo prendono il nome di deittici, e hanno la caratteristica di essere pienamente comprese solo con il contributo del contesto di proferimento. Tra le manifestazioni del distanziamento non vi è solo la capacità di riferirsi a cose passate, o distanti nello spazio, ma anche a: ipotesi, funzioni e menzogne. La capacità di riprodurre finzioni: la letteratura di finzione (miti, fiabe, romanzi) non potrebbe esistere se non disponessimo di un linguaggio pienamente simbolico, che consente di riferirsi a cose che non sono presenti materialmente. Lo stesso si può dire della religione. Fenomeni di questo genere sembrano presupporre la capacità simbolica in due modi: il primo, già indicato: bisogna disporre di un linguaggio che consenta di parlare di ciò che non è presente. Il secondo chiama in causa il rapporto tra gli oggetti del mondo e qualcos’altro che associamo ad essi, pure se non è presente e immediatamente percepibile (la religione: essa nasce nel momento in cui le cose vengono pensate come manifestazioni di qualcos’altro di invisibile che sta “dietro” di esse). La dissimulazione o menzogna è l’interruzione del rapporto con il referente nel modo più immediato. Kant chiama facoltà del GIUDIZIO la capacità di stabilire una connessione esplicita tra contenuti mentali (tra idee) distinti. Nel giudizio siamo capaci di rappresentare contenuti che non si sono presentati congiunti nell’esperienza. In altri termini, tra la mera associazione e giudizio si ha un salto cognitivo: nel secondo, la congiunzione delle idee è il frutto di un atto intenzionale. Non si tratta di una procedura automatica e fissa, generata da esperienze passate; il soggetto ha accesso consapevole alla totalità delle proprie idee, e può combinarle a piacere. Questa capacità ha uno stretto rapporto con la sistematicità del linguaggio. Nozione di VERITA’: anche l’enunciato si può dire, sia un’immagine di stati di cose del mondo. Proprio in quanto l’enunciato è adoperato come un’immagine, esso può fornire una rappresentazione corretta o scorretta di ciò di cui è immagine. Se le lingue ci forniscono immagini della realtà, nel senso che i segni ci riproducono la struttura del mondo, allora possiamo aspettarci che le cose a cui riconosciamo l’esistenza siano quelle che la nostra lingua ci consente di denominare. Il linguaggio è la facoltà di istituire collegamenti e dunque di operare ragionamenti. [Definizioni di Wikipedia]. Ontologia: è una delle branche fondamentali della filosofia. È uno studio dell’essere in quanto tale, nonché nelle sue categorie fondamentali. Epistemologia: è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scientifica e dei metodi per raggiungere tale conoscenza. La parola deriva dal greco episteme (“conoscenza certa” o “scienza”) e logos (discorso). Nozioni di verità, ontologia ed epistemologia sono discipline studiate nella semantica: si tratta di questioni relative al rapporto tra linguaggio e mondo. Altri problemi riguardano invece la sfera delle relazioni intra-linguistiche, definita sintassi. La riflessione filosofica sulle relazioni tra segni, si realizza principalmente all’interno della tradizione di studi chiamata logica. L’oggetto della logica è il ragionamento: ovvero, le forme più generali del ragionamento, indipendente dai contenuti su cui si argomenta. Proprio per questa ragione tale disciplina è stata considerata per duemila anni il fondamento della filosofia e dell’intera conoscenza: non si può ragionare attorno a qualsiasi contenuto senza ricorrere a procedimenti logici. Ciò, però, non significa che i nostri ragionamenti siano sempre giusti e infallibili. Ci sono delle regole universali a cui bisogna attenersi se si vuole argomentare in modo valido. Un esempio di questo modo di procedere è il sillogismo. Un sillogismo è un tipo di ragionamento dimostrativo che fu teorizzato per la prima volta da Aristotele. Un esempio di sillogismo: “tutti gli esseri umani sono mortali Gli italiani sono essere umani Dunque, gli italiani sono mortali”. Il sillogismo è dunque un ragionamento, costituito da una connessione tra due enunciati che fungono da premesse ed un terzo che funge da conclusione. Quello a cui Aristotele mira è trovare i sillogismi validi, ossia quelli che, date le premesse vere, consentono di raggiungere sempre a conclusioni vere. Tutti i sillogismi validi condividono la stessa forma: “Tutti gli A sono B I C sono A Dunque, i C sono B”. Esiste anche una concezione alternativa, secondo la quale il ragionamento naturale si baserebbe su modelli mentali più vicini alla concreta esperienza percettiva, dunque indipendenti dal mezzo linguistico. Un altro fenomeno è il ragionamento pratico, quello rivolto alla scelta delle azioni preferibili per un individuo o una collettività. Come abbiamo visto la logica si è rivelata in parte inseparabile dal linguaggio. Il ragionamento pratico, dal canto suo, ci riporta in modo più evidente e diretto alla capacità simbolica. Cosa vuol dire prendere una decisione pratica sulla base di un ragionamento, ovvero effettuare una deliberazione? La deliberazione esige la capacità di collegare le azioni possibili con le loro prevedibili conseguenze. Un esempio banale: so che l’autobus che sta passando in questo momento mi porterebbe all’università, che è proprio il luogo in cui sono diretta, allora posso scegliere di prenderlo – quindi adotto un comportamento che mi consentirà di raggiungere lo scopo desiderato. Negli esseri umani è presente anche la capacità di considerare e vagliare comportamenti possibili e alternativi tramite: a) la capacità di richiamare alla memoria in modo volontario i diversi comportamenti possibili, le conseguenze di ciascuno, e la relazione tra i primi e le seconde; b) la capacità di disporre i comportamenti in ordine di preferenza, in funzione di gradimento circa le relative conseguenze. L’ ETICA rappresenta una dimensione pervasiva dell’esistenza umana: viviamo cioè immersi in una rete di relazioni individuali e collettive, che continuamente sollecitano in noi valutazioni circa il giusto e lo sbagliato. L’etica è un fenomeno esclusivo della nostra specie. Chi non empatizza con gli altri esseri non può avere percezione del giusto e del sbagliato; ma per avere etica in senso pieno, occorre inoltre la capacità di staccarsi dall’emozione immediata, e disporre le sofferenze e i piaceri in una gerarchia. Solo a questo punto un’azione diventa giusta o sbagliata. Possiamo distinguere due funzioni distinte del linguaggio: il ruolo che esso svolge per garantire la coesione del gruppo (nella creazione di relazioni interpersonali); il suo ruolo nella trasmissione di informazioni e intenzioni, al fine di coordinare l’agire sociale. Ma il linguaggio ha importanza cruciale anche nella creazione e trasformazione delle istituzioni sociali. Definizione di enunciato performativo: il filosofo inglese John L. Austin è partito dalla considerazione che, mentre alcuni enunciati descrivono stati di cose, azioni, etc., altri sembrano essi stessi compiere l’azione. “Prometto che sarò buono”, il promettere è qualcosa che acquista esistenza solo nel momento in cui si proferisce l’enunciato. Si comportano in modo analogo verbi come “Scommetto”, “Battezzo”, “Dichiaro”. Il giudice che emette un verdetto ha lo status sociale per farlo solo a condizione di essere stato nominato tale negli opportuni modi (e altrettanto vale per colui che lo nomina). L’intera tessitura della nostra vita sociale è fondata sul linguaggio. CAPITOLO 4. Comportamentismo: è in estrema sintesi la tesi secondo cui i comportamenti animali possono essere interamente compresi come semplici meccanismi di stimolo-risposta. Esso assume, inoltre, che il comportamento esplicito è l’unica unità di analisi scientificamente studiabile della psicologia, in quanto direttamente osservabile dallo studioso. Il comportamentismo adotta come punto di partenza la relazione stimolo-risposta: si osserva cioè che si danno regolarità nei comportamenti, per cui in presenza di determinati stimoli ci si dovranno attendere determinate risposte. Come fanno gli organismi viventi a imparare le correlazioni stimolo-risposta utili per la sopravvivenza? La risposta è affidata alla nozione di condizionamento: quando un organismo reagisce a uno stimolo, il suo comportamento può sfociare in un esito positivo o negativo. Se quell’esito è positivo, quella reazione allo stimolo viene rinforzata e tende a stabilizzarsi, mentre ne negativo tende ad essere abolita. Questo quadro è estremamente semplice ed applicabile a qualsiasi forma vivente: si assume che in linea di principio tutti gli animali apprendono allo stesso modo, e dunque possano imparare le stesse cose se si prescinde dal fattore complessità. Esistono anche altri tipi di apprendimento: un esempio è l’apprendimento per imitazione. In alcune specie vi è un piacere intrinseco nell’imitare i comportamenti dei simili, indipendentemente dal ricevere ricompense o incoraggiamenti per farlo. Il linguaggio umano non è un complesso di abitudini meccaniche apprese tramite condizionamento; è piuttosto un complesso di conoscenze rappresentate nella mente, e disponibili ad essere utilizzate flessibilmente in funzione della totalità delle conoscenze. Chomsky chiama regole queste conoscenze relative al funzionamento del linguaggio, e competenza l’insieme delle regole che l’individuo si rappresenta in quanto parlante di una data lingua. Quella di competenza è una nozione idealizzata: ciascun parlante ha in realtà una conoscenza parziale della lingua, così che nessuno è a rigore un parlante perfettamente competente. Inoltre le enunciazioni concrete possono essere affette da problemi extra-linguistici di vario genere; è possibile produrre frasi scorrette semplicemente perché si è stanchi, distratti e così via. Chomsky dunque, distingue dalla competenza, l’esecuzione, ossia le concrete e spesso imperfette manifestazioni di quella conoscenza nella pratica linguistica. Jerry Fodor è autore di un’opera intitolata “la mente modulare”. I moduli a cui fa riferimento sono strutture cerebrali di elaborazione dell’informazione che posseggono una serie di caratteristiche, tra le quali: Funzionano in modo “incapsulato”, ossia senza scambi con altri moduli: in pratica essi accettano solo specifici imput, li elaborano in modi prefissati e producono certi risultati in uscita, senza che queste operazioni possano essere influenzate da conoscenze di altro tipo; Funzionano in modo automatico e obbligato, rapido, inconscio; Hanno carattere innato, ossia sono predeterminati dal codice genetico della specie. Fodor non sostiene affatto però che tutti i processi cognitivi sono modulari in senso specifico. L’acquisizione della prima lingua (diversamente dall’apprendimento di una seconda lingua) deve necessariamente avvenire all’interno di un certo periodo dello svilluppo individuale: quello che viene chiamato il periodo critico, superato il quale un essere umano non sarebbe più in grado di sviluppare una capacità linguistica normale. I tempi sono stabiliti geneticamente: se nel momento opportuno non si danno le condizioni adatte per la maturazione dell’organo, non sarà più possibile porvi rimedio. Chomsky postula tre tipi di moduli: quello fonologico, logico-semantico e infine quello sintattico. Quest’ultimo, il più importante, è concepito come un sistema di elaborazione che raccoglie in input frasi non analizzate e produce in output le loro analisi strutturali, così da tradurli in pensieri. Viceversa, partendo dai pensieri, esso consente di proiettare la loro struttura su quella di frasi del linguaggio, in modo da renderli comunicabili. [Definizione di Wikipedia] La Grammatica Universale (di Chomsky) è una teoria linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani. La teoria della Grammatica Universale non vuole descrivere specificamente una lingua o l'altra, né postulare che "tutte le lingue hanno la stessa grammatica", ma si propone di individuare una serie di regole innate che spiegherebbero come i bambini acquisiscono le lingue, e come imparano a costruire frasi valide. Nozione di “povertà dello stimolo”: secondo Chomsky ed i suoi allievi, le informazioni che il bambino ricava dagli enunciati degli adulti non sarebbero assolutamente sufficienti per ricostruire la grammatica della lingua. Spesso gli enunciati sono effettivamente pieni di errori, esitazioni, ripetizioni. L’idea è che il bambino si troverebbe a dover ricostruire la competenza a partire da esecuzioni più o meno fuorvianti. In secondo luogo, gli enunciati concretamente emessi sono sempre insufficienti per numero e varietà ad esaurire la complessità delle regole sintattiche di una lingua: sembra che i bambini acquisiscano anche regole alle quali non sono mai stati esposti; quindi sviluppano la loro lingua impoverita in qualcosa di più complesso. Scienza cognitiva: terreno di studi interdisciplinare, che vede alcune scienze confrontarsi e collaborare su alcune questioni di interesse comune. Le discipline in questione sono: linguistica, psicologia, neuroscienze (indagini sul cervello), filosofia, informatica, antropologia (o più in generale le discipline socio-culturali). Il loro oggetto di indagine comune, alla comprensione del quale ciascuna dal proprio punto di vista fornisce un contributo, è la “cognizione”: la natura dei processi che producono comportamenti intelligenti. Connessionismo: si basa sulla constatazione che il cervello opera in base a meccanismi che hanno poco in comune con il funzionamento (classico) del computer. Al modello del computer si era ispirata fin dall’inizio la psicologia cognitiva, nell’immaginare la cognizione come un complesso di processi che operano su rappresentazioni. La mente veniva, cioè, concepita come un gigantesco software: un complesso di programmi che eseguono computazioni meccaniche su certi insiemi di dati. [E’ un ragionamento del tipo: il cervello sta alla mente come l’hardware sta al software]. Così come è possibile dedicarsi alla progettazione del software (ossia programmi informatici) senza curarci dell’hardware (della macchina fisica) che deve eseguirli, allo stesso modo si riteneva che fosse possibile indagare il funzionamento della mente prescindendo dal modo in cui i processi mentali indagati sono fisicamente realizzati dal cervello. Questo modello teorico, formulato dal filosofo Putnam, prende il nome di funzionalismo computazionale. Cognitivismo: è una branca della psicologia che ha come obbiettivo lo studio dei processi mediante i quali le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, elaborate, archiviate e recuperate. Intelligenza artificiale: il progetto di simulare su calcolatori elettronici l’intelligenza umana. Simulare una capacità cognitiva tramite un computer equivaleva in sostanza a scrivere un software in qualcuno degli appositi “linguaggi di programmazione”: questi consentivano di esprimere tanto i dati quanto le operazioni da svolgere su di essi mediante stringhe di caratteri dotate di significato. Il dibattito sulla modularità della mente coinvolge una serie di questioni distinte. Una prima questione è quanto si assume che sia esteso il fenomeno. Fodor sostiene che vi siano un numero limitato di moduli periferici, circondato da una vasta area di capacità cognitive centrali e generali. A egli si oppongono oggi diversi studiosi, che assumono l’ipotesi detta “modularità massiva”:l’idea che l’intero campo delle attività cognitive debba essere ricondotto al funzionamento di moduli innati. Una seconda questione è cosa si debba intendere esattamente quando si parla di moduli (pag 7). Un ulteriore questione èquanto sia plausibile sotto un profilo evoluzionistico l’ipotesi di moduli innati. Studi sulla modularità massiva hanno accolto un’accezione piuttosto rigorosa, ed hanno in particolare enfatizzato il carattere innato dei moduli, attribuendo la loro origine ad un processo di selezione darwiniana. Quindi si è giunti ad ipotizzare l’esistenza di una quantità di moduli, a volte relativi a capacità cognitive molto particolari. Nel corso dello sviluppo dell’individuo si producono processi di modularizzazione: non avremmo cioè a che fare con moduli interamente predisposti in modo innato, bensì con più generiche predisposizioni iniziali capaci di incanalare la nostra attenzione verso certi imput ambientali. L’esposizione a questi input favorirebbe lo sviluppo di aree del cervello dedicate a determinati compiti cognitivi. Pertanto una certa dose di modularità, ossia l’esistenza di aree cerebrali che svolgono in modo rapido ed automatico processi specifici per dominio (linguaccio, percezione, matematica etc.) sarebbe il risultato di uno sviluppo individuale sollecitato e guidato da input ambientali (più o meno) regolari. La selezione naturale è il meccanismo utilizzato da Darwin per spiegare l’evoluzione della specie: mutamenti genetici casuali producono nuove caratteristiche fisiche e/o comportamentali che, in alcuni casi, danno vantaggio per la sopravvivenza di organismi che ne sono dotati. Questi organismi, proprio perché sopravvivono e si riproducono meglio dei rivali, diffondono nelle generazioni successive i mutamenti genetici responsabili di quelle caratteristiche. Si parla in questo caso di adattamenti: grazie a certi cambiamenti nel patrimonio genetico, una specie risulta più adatta a vivere in un determinato ambiente. Pertanto l’ipotesi che un modulo sia innato, selezionato nel corso dell’evoluzione, deve risultare compatibile con i tempi che il relativo processo di adattamento ha avuto effettivamente a disposizione. Lo sviluppo di questo modulo deve essersi verificato nell’arco di tempo compreso tra oggi e il momento in cui è avvenuta la ramificazione che ha portato da un lato alla formazione della specie umana, dall’altro a quella degli altri primati privi di linguaggio (le scimmie). Vi sono delle perplessità riguardo queste ipotesi. La sintassi delle lingue umane è un fenomeno di enorme complessità: se esistesse qualcosa come una Grammatica Universale chomskiana, fissata in un modulo innato del linguaggio, si tratterebbe di un dispositivo con un numero elevato di regole (principi, parametri o quant’altro) tra loro interconnesse e coerenti. Il gruppo dei creazionisti, che respingevano la teoria darwiniana, sosteneva fosse impossibile che la selezione naturale producesse un dispositivo di notevole complessità. Per la verità, nemmeno Chomsky si impegna su una tesi così forte e speculativa come quella secondo cui il modulo del linguaggio sia un adattamento evoluzionistico. Qui entra in gioco un neologismo coniato per somiglianza con “adattamento”: exattamento, che indica quei casi in cui un dispositivo è stato dapprima selezionato per un certo scopo, ma in seguito cooptato per svolgere una funzione differente. Un esempio classico è quello delle penne degli uccelli: queste, sono state selezionate dall’evoluzione per funzione di termoregolazione (per proteggere dal freddo -Adattamento). Solo in un secondo momento gli uccelli avrebbero sviluppato l’attitudine al volo (Exattamento). Il punto è che potrebbe essersi verificato qualcosa di simile anche nel caso del linguaggio: alcuni dispositivi innati sviluppati per altre finalità potrebbero essere stati reclutati per supportare la capacità di comunicare verbalmente. Si tratterebbe in tal caso di una sorta di accidente storico. (Chomsky sostiene questa tesi, poiché più adatta a spiegare il caso della Grammatica Universale). Questo genere di argomento è tuttavia discutibile. “Quale altro scopo potrebbe aver avuto un dispositivo cerebrale che incorpori i principi e parametri che secondo Chomsky regolano la sintassi delle lingue umane?”. In altri termini, l’ipotesi dell’exattamento, è plausibile a condizione di individuare una capacità cognitiva di ordine generale, vantaggiosa per la sopravvivenza/riproduzione, che possa aver creato in modo indiretto, le condizioni per la facoltà del linguaggio. Dunque, allo stato delle cose, l’ipotesi di un modulo della Grammatica Universale ha di fronte serie difficoltà. Un diverso problema è costituito dal fatto di dover fare conciliare quest’ultima ipotesi con quella della “povertà dello stimolo”. Secondo Chomsky questo fatto suggerisce fortemente che la mente dei bambini contenga ricche informazioni sulla sintassi delle lingue umane, prima che essi abbiano il modo di ascoltarne alcuna. Esiste una maniera alternativa per spiegare questo dato? Secondo Deacon si! La sua ipotesi è che si debba rovesciare la prospettiva: invece di assumere che i bambini apprendano la lingua con facilità perché il loro cervello è adattato ad essa, si può pensare che siano le lingue umane ad essersi adattate, nel corso dei secoli, alle capacità cognitive dei bambini. Potrebbe darsi che vi siano delle generiche predisposizioni cognitive innate, alcune delle quali forse particolarmente attive nei primi anni di vita, capaci di condizionare il modo in cui i bambini usano il linguaggio e gli danno forma. Insomma, i bambini acquisirebbero le lingue con facilità perché queste sono state “modellate” nel corso delle generazioni sulla loro capacità di acquisirle. Un altro assunto chomskiano che è stato oggetto di molte critiche è la tesi della centralità della sintassi, secondo cui la struttura sintattica della frase sarebbe il punto di partenza dell’intero processo di produzione degli enunciati. Le prime critiche mosse a questa tesi vennero fatte dagli stessi allievi di Chomsky, che diedero vita al progetto di ricerca denominato semantica generativa. Tale progetto, poi respinto da C., intendeva conservare l’idea di meccanismi capaci di generare le infinite frasi di una lingua, rinunciando però all’assunto che il livello di base del processo fosse costituito dalla rappresentazione sintattica, ma piuttosto la semantica. Questo progetto di ricerca si è poi emancipato, dando vita a un proprio paradigma, che ha preso il nome di linguistica cognitiva, ed ha approfondito l’ipotesi che la sintassi non sia una componente autonoma della semantica (e dunque, a maggior ragione, che non possa costituire il livello base nella produzione del linguaggio). E sostennero inoltre che le rappresentazioni percettive e corporee fossero il fondamento della struttura (anche sintattica) delle lingue. Michael Tomasello assegna un valore rilevante alla pragmatica della comunicazione. Alcune delle complessità sintattiche delle lingue storiche sembrano derivare da fenomeni di focalizzazione: ossia, dall’esigenza di presentare gli stessi fatti secondo prospettive differenti, che mettono maggiormente in evidenza ora un elemento ora un altro. L’esempio più ovvio è quello della differenza tra le frasi passive e attive: c’è differenza nel dire “Mario ha mangiato una mela” e “La mela è stata mangiata da Mario”, e sembra che la scelta di pronunciare l’una o l’altra frase sia legata a complesse valutazioni pragmatiche : a una valutazione delle situazioni e finalità comunicative. Comunicare con qualcuno significa riconoscerlo come soggetto di intenzioni proprie, distinte dalle nostre. La cosa interessante è che fin da piccolissimi gli esseri umani mostrano alcuni comportamenti che suggeriscono una inclinazione unica a trattare con gli altri come soggetti intenzionali: comportamenti che non si trovano, se non in forme molto rudimentali, in nessun altro degli animali intelligenti. Si tratta di attività cognitive che si manifestano in modo piuttosto regolare a partire da un’età compresa tra 9 mesi e l’anno, e che vengono complessivamente indicate come fenomeni di attenzione condivisa. Tra i più noti vi sono la condivisione dello sguardo e la capacità di indicare. Un gesto ritualizzato può diventare un segno intersoggettivo solo se viene colto come un’azione intenzionale, diretta ad un fine: se l’individuo X comprende che l’individuo Y usa un certo gesto con una certa finalità comunicativa, allora X può utilizzare a sua volta quel gesto con finalità simili avendo fiducia di poter essere compreso da Y. La nascita di un linguaggio simbolico, contrapposto ad un repertorio di segnali a base innata, sembra perciò esigere la capacità di cogliere l’altro come soggetto di azioni intenzionali. Negli ultimi decenni si è molto dibattuto sull’ipotesi che gli esseri umani abbiano un modulo innato, contenente una teoria ingenua della mente: il fatto di cogliere gli altri esseri umani come soggetti capaci, sulla base di credenze, di intrattenere intenzioni, desideri, e così via. Secondo questa ipotesi insomma, avremmo una sorta di teoria spontanea e prescientifica di come funziona la mente umana. Si sono delineate due posizioni distinte. La prima, sostiene l’idea appena dibattuta. La seconda sostiene che vi sia una capacità innata di “mettersi nei panni degli altri”, per cui capiremmo le intenzioni altrui in quanto immaginiamo le intenzioni che avremmo noi stessi in analoghe situazioni. Una scoperta che ha suscitato enorme interesse è quella dei neuroni specchio, da parte di due neuroscienziati: Rizzolatti e Gallese. Si tratta di neuroni presenti negli esseri umani ma anche in altri animali superiori, che si attivano sia nella percezione sia nell’esecuzione di determinati movimenti. Questo è interessante perché mostra una correlazione tra l’agire e la percezione dell’agire altrui. Ma il punto più rilevante per noi è che l’attività di questi neuroni sembra collegata alla capacità di cogliere l’agire come orientato verso finalità. CAPITOLO 5. Già a partire da Aristotele troviamo una formulazione esplicita di un modello del significato a tre elementi: in cui cioè, accanto al soggetto materiale che funge da simbolo e al suo referente, è preso in considerazione anche un terzo elemento, mentale, che media tra gli altri due. Dentro un quadro del genere la nozione di significato ha natura duplice: per un verso l’espressione materiale “significa” qualche oggetto o proprietà del mondo, che in tal senso è il suo “significato”; per un altro si può dire che essa ha un “significato” collocato dentro la mente di un soggetto. Un espressione mantiene il suo significato pure se viene meno il referente che le compete. La scomparsa dei dinosauri non ha reso priva di significato la parola “dinosauri”. Ciò ci spinge a pensare che il significato sia (anche) qualcosa che ha a che fare con la nostra mente: in particolare con le conoscenze o rappresentazioni mentali che associamo alle espressioni, e che sono indifferenti al fatto che i referenti vi siano o meno. Il referente tuttavia è qualcosa di estraneo al soggetto parlante, cosicchè rimane comunque inevasa la domanda “in che modo un’espressione linguistica ha significato per il soggetto?. Si presuppone dunque, che i parlanti comprendano il significato delle parole: senza tale capacità non ci sarebbe il linguaggio né, dunque, semantica. Spiegare il significato pertanto vuol dire spiegare il fenomeno della comprensione delle parole da parte dei parlanti. Se ad esempio ho una rappresentazione dei gatti che mi mette in condizione di riconoscerne uno quando lo vedo (e magari di immaginarne uno quando non ne vedo), ciò può spiegare in che modo comprendo l’espressione “gatto”, e come le assegno un referente. Un'altra considerazione su modello a tre elementi, viene fatta sa Saussure. Egli sostiene che la lingua non è solo una semplice nomenclatura: se così fosse, sotto il profilo lessicale le lingue si distinguerebbero l’una dall’altra solo per i diversi suoni cui si riferiscono ai medesimi soggetti. Allora per imparare il lessico di una nuova lingua basterebbe solo stabilire un equivalenza con le parole della nostra. Ma ciò non accade: l’inglese non dispone di un unico termine corrispondente all’italiano “dita”, ma distingue tra “fingers” (dita delle mani) e “toes”(dita dei piedi). Frege propone un'altra variante dell’argomento di Saussure. Si considerino le seguenti forme: A = A A = B La prima espressione costituisce una tautologia, ossia una verità logica elementare ed evidente: un oggetto è identico a se stesso. In teoria anche la seconda dice lo stesso. Tuttavia vi è una differenza: gli operati della seconda forma sono adoperati per comunicare una scoperta empirica: ovvero il darsi di uno stato di cose che, lungi dal costituire una verità auto evidente e indubitabile, avrebbe potuto anche stare altrimenti. L’esempio di Frege è quello della “stella del mattino” e “stella della sera”, con le quali ci si riferisce a due manifestazioni luminose che appaiono in momenti e posizioni diverse nella volta celeste, e che tuttavia sono entrambi riconducibili al pianeta Venere. Ma possiamo dire che l’espressione: La stella del mattino = La stella della sera È certamente differente da: La stella del mattino = La stella del mattino Quest’ultima è una tautologia priva di valore informativo, la prima è un’affermazione contingente, non vera per forza, ma proprio per questo ha un valore informativo non nullo. Ciò che vuole sottolineare Frege è che quello che ci si presenta in modi differenti è in realtà un unico oggetto: o ancora, l’oggetto in quanto esso ci è dato cognitivamente in due modi differenti. Un enunciato di identità mette in correlazione contenuti cognitivi differenti riferibili allo stesso oggetto. Frege chiama “il modo cognitivo di presentazione del referente”, il senso (in tedesco Sinn) dell’espressione linguistica. E chiama significato (in tedesco Bedeutung) per riferirsi al referente. Possiamo allora riassumere il ragionamento dicendo: espressioni con lo stesso significato (fregeano) possono avere sensi (fregeani) differenti; e un enunciato di identità è informativo in quanto predica che le espressioni dotate di sensi diversi hanno lo stesso significato. Differenza tra i termini di Frege e Saussure: ciò che Saussure chiama “significato” è la mediazione mentale tra espressione linguistica e referente; invece Frege usa “significato” per indicare il referente e chiama “senso” il significato saussuriano. Riassumendo: gli argomenti in favore al modello a tre elementi sono: a) vi sono espressioni prive di referente che tuttavia ci appaiono regolarmente dotate di significato (Es. del dinosauro); b) spiegare come comprendiamo le espressioni linguistiche, ed anche per come le usiamo per riferirci a qualcosa, sembra esigere una nozione di rappresentazione mentale (Es. del gatto); c) la variabilità delle lingue ci insegna che le classi di referenti non sono dati universali, sono bensì qualcosa che una lingua determina in modo proprio (Es. delle dita/fingers); d) il valore conoscitivo di certi enunciati di identità suggerisce che vi svolgano un ruolo non sono i referenti, ma anche i rispettivi contenuti cognitivi. Nella filosofia del linguaggio la mediazione mentale è apparsa problematica per varie ragioni. Vediamo le principali: Frege, pur riconoscendo un elemento di mediazione tra simbolo e referente, ha rifiutato di collocare tale elemento dentro la mente. Ciò che del linguaggio gli sta a cuore è il suo ruolo di strumento per accedere alla verità, e per conservarla nel ragionamento. Dall’altro lato le rappresentazioni psicologiche, secondo Frege, sono fenomeni di nessuna utilità quando si tratta di spiegare la conoscenza oggettiva: troppo variabili da soggetto a soggetto, e anche all’interno dello stesso soggetto da un momento all’altro. Frege identifica le rappresentazioni con le concrete immagini mentali che ci formiamo occasionalmente. Se percepisco l’enunciato “il cane è un quadrupede”, posso richiamare alla mente una certa immagine del mio Fido; ma persone diverse, e io stesso in momenti diversi, richiamerebbero alla mente immagini differenti. Un dibattito tra gli empiristi inglesi ha messo in luce come le immagini mentali non sembrano costituire una risposta al problema della conoscenza, perché non è chiaro come un immagine possa fungere da rappresentante di una categoria, e come immagini tanto diverse possono stare per la medesima categoria. Per queste ragioni Frege distingue da un lato le nozioni semantiche autentiche (quelle di senso e riferimento), dall’altro la nozione meramente psicologica di rappresentazione. Dove viene collocato, dunque, il senso, se non si trova nella mente? Precisiamo che la nozione di senso si applica genericamente ad ogni espressione linguistica, anche quelle di dimensioni inferiori all’enunciato. Se poi prendiamo in considerazione l’enunciato intero, il suo senso è un pensiero. I pensieri hanno uno statuto ontologico unico: non si trovano nella mente come le rappresentazioni soggettive, tanto è vero che soggetti diversi possono afferrare gli stessi pensieri; ma evidentemente non si trovano nemmeno nel mondo degli oggetti materiali. Pertanto Frege dice che essi costituiscano una sorta di “Terzo regno”, distinto sia dal mondo materiale che dalla mente. I sensi e i pensieri sono entità che siamo in grado di “afferrare”. Essi sono fatti oggettivi, ma non nel senso che la loro esistenza dipende da noi, come invece accade per gli oggetti e i fatti materiali. Il linguaggio è una sorta di norma esistente in virtù del consenso sociale. Partiamo dall’osservazione che certe espressioni linguistiche conservano il loro significato anche in assenza del referente (es. del dinosauro). Qui sorgono due difficoltà. Una sollevata da Frege: non è detto che le immagini mentali occasionalmente mobilitate svolgano un ruolo nel garantire il significato delle parole, anzi non potrebbero proprio farlo dato che i significati sono intersoggettivi, mentre le immagini mentali sono soggettive. Una seconda difficoltà è che in alcuni casi non sembra esservi nessuna possibilità di formare immagini mentali. Quali sarebbero le immagini mentali corrispondenti alle espressioni “quando”, “niente”, “ma”, etc? Per Wittgenstein la soggettività umana è intersoggettiva, e dunque oggettiva, fin dall’inizio. Pertanto non c’è un problema di come garantire il passaggio dalla dimensione soggettiva dell’io a quella oggettiva del linguaggio. Non occorre a questo scopo postulare nessun Terzo regno fregeano. Questa posizione di Wittgenstein può essere articolata da una parte negativa (pars destruens) e una positiva (pars construens). Nella prima svolge un ruolo centrale una celebre argomentazione nota come l’argomento contro il linguaggio privato, cui argomento è il modo in cui parliamo delle sensazioni, ad esempio il dolore. Ciò che si vuole sottolineare è l’idea che il linguaggio possa essere fondato su sensazioni private. Wittgenstein si chiede se sia possibile dare un nome ad una sensazione come si fa con un bambino al suo battesimo. Ma a differenza di un vero battesimo, qui avremmo a che fare con una sorta di “ostensione” privata: non c’è nulla che sia mostrato pubblicamente, c’è solo un indicare interiore a se stesso. Quando uso un segno lo faccio in accordo con ciò che credo essere il suo uso corretto. Pertanto insistere, nel caso del battesimo privato, che io so che sto usando “dolore” in modo corretto è del tutto vacuo: nessuno può garantire che sia davvero così. Il risultato di queste riflessioni è non tanto che il linguaggio delle sensazioni sia inaffidabile: il punto è che persino esso dipende da convenzioni pubbliche. Se, nelle nostre interazioni, usiamo termini per sensazioni “private” è solo perché queste hanno conseguenze, manifestazioni, validità “pubbliche”. Il dolore se non si manifestasse nel comportamento, e non producesse forme di agire sociale (ricerca di cure etc.), semplicemente non gli avremmo assegnato un nome. Ma vi è un'altra domanda, più generale: “Come conosciamo il significato delle parole?”. È il cosiddetto problema wittgensteiniano del seguire una regola. Una risposta spontanea potrebbe essere: mi rappresento internamente una regola, così so quel che devo fare. Qui ci si scontra con due difficoltà. Una riguarda la nozione stessa di immagine interna della regola. Come abbiamo visto le immagini hanno il difetto di dover essere interpretate. Prima di poter adoperare l’immagine della parola “cane” devo stabilire se essa si riferisce a un labrador, a un quadrupede, al mio Fido o a niente in particolare. Come faccio a saperlo? Occorrerebbe un’altra regola che mi dica come interpretare l’immagine. Ma anche la nuova regola sarà soggetta allo stesso problema, ed ecco allora un regresso infinito. Una seconda difficoltà è quella individuata dall’argomento contro il linguaggio privato. La regola che governa l’uso linguistico non può essere una immagine privata. Essa è infatti una norma pubblica: è qualcosa che esige la distinzione tra ciò che è corretto e ciò che credo soltanto che lo sia. Quello che Wittgenstein vuole sottolineare è l’autorità di prima persona. Citando Cartesio possiamo dire che “se crediamo che le cose stiano in un certo modo, o dubitiamo che stiano in quel modo, di questo credere o dubitare almeno siamo certi, dato che siamo noi a credere o dubitare”. Wittgenstein tenta di dare una definizione al concetto di “significato” e assegna un ruolo importante alla nozione di “uso”: «Per una grande classe di casi, la parola “significato” si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio». Come abbiamo osservato per molte parole è impossibile individuare un referente nel mondo (“unicorno”, “Dio” etc.), e in molti di questi casi non sapremmo nemmeno associare qualche immagine corrispondente. Allora quale sarà il significato di queste espressioni? Esso è esibito nell’uso che ne fanno i parlanti. Che cosa sappiamo del mondo Com’è fatto il mondo, e cosa lo stesso linguaggio ci dice a riguardo? Che il mondo sia razionale vuol dire che esso è governato da un ordine che ammette di essere catturato dal discorso umano. Un comportamento o una decisione è razionale se non si basa su un puro capriccio, su un impulso immotivato, bensì è, o può essere, giustificato da ragioni. I filosofi greci rappresentano l’essere umano come caratterizzato in modo essenziale dal dialogo, inteso come attività nella quale ciascuno “chiede e dà ragioni” all’altro di ciò che fa e crede. Anche Aristotele, similmente, definisce l’uomo “animale dotato di logos”: ossia animale linguistico. Il mondo funziona in modo tale che possiamo dare ragioni per le nostre credenze – ragioni per cui le cose debbano stare in un modo piuttosto che un altro. Insomma, il fatto che il mondo si presta ad essere catturato dal discorso razionale comporta che esso stesso sia governato da una logica, che non sia un caos privo di ordine. Dunque in conclusione il mondo ha un ordine logico che ammette di essere catturato e rappresentato dal linguaggio. In Parmenide, uno dei primi filosofi greci, si parla di verità in un senso più vicino a quello teologico che ritroviamo in espressioni come “Dio è verità”. La verità è presentata dunque come un attributo del principio divino del mondo. Ma bisogna rigettare la concezione di “vero” è solo il principio divino, e difendere l’idea che la verità è una proprietà dei discorsi quando questi rispecchiano correttamente la realtà. Per chiarire questa nozione di verità ci riferiamo a una dottrina, elaborata da Platone e rivisitata da Aristotele, che prende il nome di “teoria della verità come congiunzione e disgiunzione”. Essa si basa sul riconoscimento di una struttura caratteristica dell’enunciato, in quanto costituito in generale da un soggetto (qualcosa di cui si predica) ed un predicato (ciò che si predica del soggetto). La verità dipenderà allora dalla corretta connessione tra soggetto e predicato. Una definizione potrebbe essere: un enunciato è vero se esso congiunge ciò che è congiunto nella realtà, o disgiunge ciò che è disgiunto nella realtà; è falso in caso contrario (se congiunge ciò che è disgiunto nella realtà e se disgiunge ciò che è congiunto). Ora poiché l’enunciato è concepito come un immagine del mondo, bisogna che il mondo abbia una struttura tale da poter essere catturata dalla forma dell’enunciato. Insomma, se il linguaggio è l’analogo del mondo, il mondo è reciprocamente un analogo del linguaggio. Una visione di questo genere è stata elaborata da Wittgenstein. La sua dottrina è nota come “teoria dell’immagine”: l’enunciato (il linguaggio) è essenzialmente un immagine della realtà. In generale, qualcosa è immagine di qualcos’altro se ne condivide (sotto qualche aspetto) la forma. Ad esempio un ritratto oppure una mappa, riproducono analogicamente alcune caratteristiche di ciò che riproducono. Wittgenstein chiama “forma della raffigurazione” il rispetto secondo il quale il raffigurato è colto da un’immagine: relazioni spaziali, colori, etc. questa forma può essere più o meno ricca: ossia, l’immagine può catturare un numero maggiore o minore di queste dimensioni di somiglianza. Se partiamo da un’immagine più ricca, e di ridurre poi progressivamente le dimensioni di somiglianza così da formare immagini che via via astraggono dalle caratteristiche concrete del raffigurare. Alla fine, ciò che resterà di comune tra l’immagine ed il raffigurato sarà qualcosa di totalmente astratto che Wittgenstein chiama forma logica. Struttura soggetto-predicato: l’enunciato “il gatto è sul tappeto” denomina un oggetto (il gatto) del quale predica una proprietà (l’essere sul tappeto). Si tratta di un’immagine che è vera solo se la medesima relazione tra soggetto e predicato sussiste anche tra l’individuo e la proprietà denominati. Ma che tipo di relazione è questa “congiunzione”?. È chiaro che nella relazione non c’è un analogo dei colori del gatto o del tappeto, né tantomeno un analogo delle relazioni spaziali. L’unica relazione che viene conservata è quella generale, dell’essere congiunti. È bene osservare però che un certo soggetto ammette alcuni predicati e non altri, così come un certo predicato si accorda con alcuni soggetti e non altri. Le parole si comportano così in quando gli oggetti (usato in accezione ampia: può trattarsi anche di proprietà o relazioni) che esse denotano si comportano così. Ovvero, gli oggetti in virtù di ciò che sono, determinano con quali altri oggetti possono entrare in relazione. Possiamo quindi dire che le relazioni possibili tra oggetti, così come le combinazioni tra parole, sono infinite ma governate da regole. La forma logica di un enunciato è il modo il cui le parole si combinano l’una con l’altra nell’enunciato. Per realtà si intende gli stati di cose possibili, che Wittgenstein sostiene essere delimitata dalla natura degli oggetti esistenti. Tra questi stati di cose possibili alcuni sono effettivamente realizzati, e sono dei fatti. La totalità dei fatti è il mondo. Secondo il “Tractatus”, il significato di un enunciato si identifica con le sue condizioni di verità, ossia, conoscere il significato di un enunciato equivale a sapere a quali condizioni l’enunciato è vero. Tuttavia vi sono degli enunciati che non hanno condizioni di verità. Ne sono esempi gli enunciati dell’etica, della religione e dell’estetica. Nella frase “Bello quel quadro”, qual è il fatto oggettivo che vi corrisponderebbe? C’è forse una qualità oggettiva nel quadro a cui possiamo appellarci per decidere la verità di quell’enunciato? Dunque non c’è modo di vedere se l’enunciato sia vero. Ma se questi enunciati non hanno condizioni di verità, allora essi non hanno significato, dal momento che queste due requisiti coesistono. Sono privi di senso. Questa teoria comunque non sembra valere in tutti i casi. L’imperativo “chiudi la finestra!” non descrive in modo vero o falso l’atto di chiudere la finestra: chiede che questo atto sia eseguito. “Scusa” non descrive in modo vero o falso l’atto di scusarsi: lo esegue, etc. Nel Tactatus, Wittgenstein, aveva asserito l’esistenza di oggetti semplici, dei quali gli oggetti composti sarebbero formati. Tali oggetti semplici costituirebbero la “sostanza del mondo”: gli elementi di base di tutto ciò che esiste. La sedia, ad esempio,se presa in un contesto amplio, come il contare le sedie che servono per sedersi a pranzo, costituisce un oggetto semplice. Ma se cambiamo contesto, allora essa sarà composta da parti assemblate tra di loro: gli oggetti semplici saranno allora le parti della sedia. In un discorso sulla composizione molecolare, le parti semplici sarebbero altre. Dunque, è il contesto del discorso a decidere cosa conti come oggetto semplice. Talvolta, nella storia del pensiero, queste idee sono state considerate scorrette e pericolose. La ragione probabilmente risiede nella convinzione che questa forma di relativismo ontologico sia inseparabile dal relativismo riguardo la verità. In altri termini, lo stesso enunciato è vero oppure falso a seconda dei presupposti soggettivi da cui partiamo. Per l’essenzialista invece, le cose hanno natura essenziale e questa decide quali classi di cose esistano in natura. Nozione di somiglianza di famiglia, di Wittgenstein. Quando riflettiamo sulle parole, siamo spesso portati a pensare che vi siano delle caratteristiche comuni a tutti gli individui cui una parola si applica. Ad esempio se pensiamo alla parola “gioco”, qual è la proprietà condivisa da tutti? Forse il fatto che i giochi siano divertenti, ma non tutti i giochi lo sono. Allora il fatto che essi, a differenza del lavoro, non implichino scambi economici o obblighi? Ma ancora, questa proprietà non può applicarsi a tutti i giochi. Allora è come se in una famiglia (in questo caso quella dei giochi: d’azzardo, di logica, di squadra) non vi siano delle caratteristiche fisiche che accomunino tutti i membri, anche se i membri sono legati tra loro da una rete di somiglianze. In linguistica un’idea analoga era stata elaborata da Labov, che aveva cercato di capire come riuscissimo a distinguere oggetti molto comuni come una tazza e una ciotola assegnandoli a categorie diverse: L si rese conto che i confini non sono netti, ma costituiscono un continuum. Il relativista asserisce che la verità di un enunciato è relativa al punto di vista, al quadro concettuale adottato etc. Relativisti ed essenzialisti si pongono su due posizioni opposte e simmetriche. L’essenzialista pretende che la questione della verità oggettiva si ponga oltre che per gli enunciati anche per i nomi; il relativista, al contrario, ritiene che come per i nomi anche per gli enunciati non vi si dia una verità oggettiva, indipendente dagli interessi del soggetto. Il nome di relativismo linguistico è usato per indicare l’idea che il pensiero sia un prodotto della lingua che si parla; essa poggia sulla tesi secondo cui non vi fosse alcuna rappresentazione sistematica e strutturata della realtà prima dell’apparizione del linguaggio. Tradizionalmente chiamiamo concetti quelle rappresentazioni mentali tramite cui individuiamo classi di referenti nella realtà, e a partire dai quali eseguiamo processi di pensiero. Distinguiamo da essi i proto-concetti che si riferiscono all’esistenza di rappresentazioni organizzate e sistematiche prima dell’intervento del linguaggio. Accanto all’ordine grammaticale delle lingue vi è un ordine (proto)concettuale. Un esempio tipico di ordine grammaticale cui non corrisponde un ordine concettuale è quello del genere in lingue come l’italiano: il fatto che il “sole” sia maschile e “luna” femminile non comporta un’analoga differenza nel modo di pensare i referenti. Reciprocamente, vi sono aspetti dell’ordine concettuale che non hanno corrispettivi nell’ordine della lingua. CAPITOLO 6. Non bisogna pensare alle categorie grammaticali come ad entità linguistiche cui accidentalmente sia applicano regole sintattiche. Piuttosto, una categoria grammaticale è individuata proprio dalle regole sintattiche che le si applicano. Per enunciato si intende un segno (dotato di senso compiuto) articolato in componenti. Ora, quando un entità è articolata in componenti, i componenti esistono in vista di quell’articolazione. Ogni segnale sta per uno stato di cose prefissato, all’interno di un repertorio ristretto e fisso, e lo stato di cose funge da stimolo che genera automaticamente il relativo segnale. Viceversa un sistema segnico articolato è possibile, ed utile, quando gli stati di cose che si intende comunicare non sono prefissati: quando ogni circostanza è imprevedibile a quali di essi i soggetti sceglieranno di fare riferimento. A questo punto c’è bisogno di un meccanismo che consenta di formare infiniti enunciati in corrispondenza degli infiniti stati di cose predicabili: un sistema segnico produttivo. Cominciamo dal progetto di Chomsky di costruire una Grammatica Universale a partire dalle grammatiche particolari. Qui troviamo due tipi di complessità: il primo riguarda la natura computazionale dell’impresa; il secondo la difficoltà di conciliare l’obiettivo della descrizione delle lingue con gli assunti psicologici di fondo. Chomsky assume che le lingue naturali sono rappresentate nella mente dei parlanti in forma di regole sintattiche. L’obiettivo di Chomsky è quello di descrivere la competenza dei parlanti, ignorando tutti gli aspetti accidentali che entrano in gioco nell’esecuzione (lapsus, esitazioni), quello che conta è la competenza del parlante ideale. Chomsky si affida quindi al modello del funzionalismo computazionale (ossia la mente umana è concepita come un meccanismo computazionale, dello stesso genere di un computer); ma c’è da dire che un meccanismo può essere analizzato computazionalmente in modi diversi: la scelta dell’analisi “corretta” dipende da quanto ciascuna risulta o meno coerente con altri pezzi del “software”. E ciò rende estremamente difficile venire a capo della descrizione di una singola lingua. Questo quadro è reso più drammatico quando si passa all’obiettivo di costruire la Grammatica Universale (ossia l’ipotesi che sia possibile ricondurre la varietà linguistica a meccanismi psicologici innati comuni a tutti i parlanti). Un passo compiuto da Chomsky consiste nel mettere al centro l’idea che la frase sia un entità dotata di struttura. Con questo egli intende qualcosa di più del fatto che ogni categoria grammaticale è una componente della frase, ed occupa un preciso posto in essa. Il punto è che questo posto non può essere determinato direttamente specificando un ordine lineare di apparizione. Bisogna introdurre una nozione intermedia tra quella di frase e quella di categoria grammaticale: è la nozione di sintagma, che indica un gruppo di parole organizzate intorno a una testa (il nome è la testa di un sintagma nominale, il verbo è la testa di un sintagma verbale). Le regole non possono specificare direttamente la posizione delle parole nella frase. Chomsky propone di procedere così: la frase è costituita in generale da un sintagma verbale e uno nominale. Nello specificare le regole, ci si potrà rendere conto che ci sono alcuni elementi del sintagma che sono obbligatori ed altri no (la testa del sintagma, ad esempio, è sempre obbligatoria). Per rendere conto di queste regolarità sintattiche e delle altre simili, Chomsky introduce le Regole a Struttura Sintagmatica (Regole ss), rappresentate così: F SN – SV SN (ART) – (SA) – N – (SA) SV V – (SN) – (SP) I nuovi sintagmi che sono stati introdotti, SA – SP (sintagma aggettivale – preposizionale), saranno a loro volta analizzati da altre Regole ss. Le Regole ss descrivono una struttura “a scatole cinesi”. Esse sono l’ossatura generale della teoria standard, ossia della prima fase della GRAMMATICA GENERATIVA di Chomsky. L’espressione “Grammatica Generativa” fa riferimento al fatto che essa è costituita da regole che consentono di generare le frasi corrette di una lingua. Aggiungiamo a questa struttura tre elementi. Il primo sono le trasformazioni e le nozioni connesse di struttura superficiale e profonda. Consideriamo la relazione tra le frasi attive e passive, sembra che le seconde possano essere considerate il risultato di una trasformazione sistematica delle prime. Una frase attiva e la corrispondente passiva avranno in origine una struttura comune (sono prodotte infatti dalle medesime Regole ss), ma la passiva si presenterà alla fine con una forma differente in conseguenza alla trasformazione subita. Si dirà allora che la frase passiva ha una struttura profonda che condivide con la frase attiva, ed una struttura superficiale differente. Il secondo elemento è il lessico. Le Regole ss ci dicono come la frase può essere articolata in sintagmi via via più piccoli (nome, verbo etc). Da queste categorie si passerà direttamente alle parole; per questo motivo Chomsky introduce una componente lessico, ossia una lista delle parole che possono essere inserite in corrispondenza alle categorie terminali. Per ciascuna parola va specificata nel lessico, la categoria grammaticale: la parola “ragazza” deve essere etichettata come N (nome). Ma il lessico non si limita a questo, può anche condizionare lo schema di frase: ad esempio, se nel lessico c’è un verbo come “donare”, dovrà essere specificato che esso vuole un sintagma nominale (donare cosa) ed uno preposizionale (donare a chi). Dunque le parole che scegliamo condizionano la forma sintattica. Un terzo elemento riguarda le categorie grammaticali. Prendiamo ad esempio gli aggettivi dimostrativi “questo” e “quello”. Essi non occupano nella frase una pozione propria degli aggettivi tipici, bensì contendono agli articoli la loro posizione. Chomsky raccoglie questi elementi sotto una nuova etichetta, quella di determinanti. La classe dei determinanti corrisponde dunque a un tipo sintattico: quello delle parole che occupano una certa posizione nel SN, comunque siano classificate tradizionalmente. Chomsky sostiene che si possa fare a meno sia della distinzione tra struttura superficiale e profonda, sia in generale delle Regole, poiché quest’ultime possono essere riassorbite da altre componenti della teoria. Le componenti in questione possono essere sia i principi che i parametri (la cui teoria è assorbita dentro il programma minimalista), sia il lessico. I principi sono norme grammaticali universali, mentre i parametri sono ventagli ristretti di opzioni tra cui ogni lingua sceglie un singolo valore. Principi e parametri finiscono col catturare molte delle regolarità sintattiche delle lingue. La valenza di una parola è il numero complessivo dei suoi argomenti, ossia dei costituenti che quella necessariamente vuole attorno a sé. Le nozioni di valenza e argomento si intrecciano con quelle di sintagma e testa. In un sintagma è la parola che occupa la testa a determinare in base alla sua valenza, gli argomenti richiesti. Vi è un legame tra sintassi e semantica, la formulazione più evidente di questo segnale è costituita dal cosiddetto principio di composizionalità. Esso dice: il valore semantico di un espressione complessa è funzione dei valori semantici delle parti che la costituiscono. “Valore semantico” è espressione generica con cui si intende sia il significato che il senso fregeano: secondo Frege, infatti, il principio di composizionalità vale per entrambi le nozioni. In pratica vuol dire che il senso di un espressione complessa è dato dalla combinazione dei sensi dei suoi costituenti, e il referente di un espressione complessa è dato dalla combinazione dei referenti dei suoi costituenti. È proprio secondo questo principio che riusciamo a comprendere qualsiasi enunciato della nostra lingua, anche se mai udito prima. Il principio di contestualità dice che il significato di una parola non va cercato in isolamento, ma nel contesto dell’enunciato. Spieghiamo cosa intende Frege: possiamo fare innanzitutto un paio di considerazioni. In primo luogo c’è la questione dell’ambiguità semantica: una parola può avere più di un significato, e il suo inserimento in un contesto di frase determinato può consentire di capire quale sia quello attualmente rilevante. Una seconda considerazione è la seguente: Frege introduce il principio di contestualità quando polemizza con l’idea che i significati delle parole possono essere forniti da immagini mentali. Si consideri, ad esempio, la parola “rosso”. Possiamo sostenere che il suo significato è l’immagine associata al termine. Conoscere il significato di “rosso” è qualcosa come sapere in quali espressioni complesse questa parola può occorrere. L’idea è che una parola va concepita non come qualcosa che ha senso isolatamente, ma come parte di una totalità. In conclusione possiamo dire che: il significato di un enunciato può essere ottenuto dalla composizione dei significati dei suoi costituenti (composizionalità) proprio perché questi costituenti esistono in vista della costituzione di enunciati (contestualità). I costituenti sono come pezzi di un puzzle, è ciascuno ha un senso quando inserito nella totalità in vista del quale esiste, e che contribuisce a comporre. Si può sostenere che un nome ha come referente un individuo, mentre un predicato si riferisce a una classe: la classe è detta estensione del predicato. Una semantica si dice in tal senso estensionale se si occupa essenzialmente del riferimento. Frege introduce alcune innovazioni importanti: egli propone di sostituire le nozioni di soggetto e predicato con quelle di oggetto e concetto. L’enunciato “il cane abbaia” può essere compreso in due modi differenti: 1) “quel cane là fuori adesso sta abbaiando” e 2) “tutti i cani abbaiano”. In superficie sembra trattarsi dello stesso enunciato, ma c’è, invece, una differenza evidente: il primo dice che un certo oggetto (quel cane là fuori) cade nell’estensione di un certo concetto (quello di coloro che abbaiano); il secondo non parla di un singolo soggetto, esso dice che coloro che cadono nell’estensione del concetto di cane cadono anche nell’estensione del concetto che abbaia. La prima esprime la relazione tra un oggetto ed un concetto, la seconda da una relazione tra due concetti. Questa considerazione è alla base di una distinzione tra la forma superficiale o apparente degli enunciati e la loro forma (logica) profonda. Analizzando il linguaggio, si può vedere come la forma manifesta delle espressioni linguistiche può risultare fuorviante. Una maniera tipica in cui ciò può accadere è quando una medesima espressione sono usate per significare cose differenti: c’è il rischio di inferire dal significato A qualcosa che invece è una conseguenza del significato B, solo perché A e B sono confusi insieme in una medesima espressione o struttura linguistica. Un concetto è per Frege una funzione che prende come argomento (la x dello schema) un individuo, e come valore (la y dello schema) un valore di verità (Vero oppure Falso). Ciò significa che un concetto è qualcosa di strutturalmente incompleto, che richiede di essere completato dal nome di un oggetto. Quando sarà stato completato, esso darà origine ad un enunciato di cui si potrà giudicare la verità/falsità. La nozione di quantificatore si riferisce a quelle espressioni che specificano, dato un concetto, a quanti dei suoi esemplari intendiamo riferirci (tutti, molti, pochi, qualcuno). Ai fini del ragionamento, si ritiene che possano bastare due quantificatori, quello universale, notato con ∀ (equivalente all’espressione italiana di “tutti”), e il quantificatore esistenziale, notato con ∃ (equivale all’espressione italiana “qualche”). Quindi l’espressione “tutti i cani abbaiano” verrebbe: ∀ x C (x) A (x) che si legge “per qualsiasi individuo x, se x è un cane allora x abbaia”. Uno stadio successivo consiste nel considerare le relazioni logiche tra enunciati elementari ignorando la loro struttura interna. Entriamo così nell’ambito della cosiddetta logica proposizionale. Una proposizione corrisponde a un enunciato. Come sempre la prospettiva finale è quella di verificare la veridicità di una frase, calcolandola in base ai valori di verità degli enunciati elementari costituenti e al significato dei connettivi. A questo proposito sono state create le tavole di verità: sono un modo di rappresentare graficamente come, in un connettivo, la verità di un enunciato complesso dipenda da quella degli enunciati semplici che lo compongono. Siano p e q due enunciati elementari qualsiasi e sia “p ∧ q” l’enunciato complesso di cui vogliamo sapere il valore di verità. Ciascuno dei due enunciati elementari può essere vero oppure falso. Questo dà quattro combinazioni possibili: p q p ∧ q V V V F 3) F V 4) F F V F F F L’enunciato in cui esso compare è vero quando sono veri i due enunciati elementari che connette. CAPITOLO 7. La pragmatica studia le modalità concrete con le quali si realizza la comunicazione, ovvero le strategie che sono messe in atto sia dal parlate che dal destinatario, per consentire la riuscita dell’atto linguistico, e le relazioni tra lingue e contesto. Wittgenstein è convinto che le funzioni del linguaggio siano virtualmente infinite, e che nessuna di queste possa essere considerata fondamentale rispetto alle altre. John L. Austin fa una distinzione tra enunciati constativi (che constatano come stanno le cose: dunque in sostanza enunciati descrittivi) ed enunciati performativi, che non si limitano a constatare qualcosa che abbia esistenza indipendente bensì producono essi stessi uno stato di cose nuovo. Dopo aver introdotto questa distinzione, egli preferisce abbandonarla. La ragione principale è che tale distinzione gli appare, sotto il profilo teorico, non abbastanza radicale e generale. Per quanto riguarda i performativi (enunciati con i quali si compiono delle azioni), Austin suggerisce che si dovrebbe parlare non di condizioni di verità, bensì di condizioni di felicità (/infelicità), o anche condizioni di buona riuscita. In altri termini, gli enunciati che mirano ad eseguire azioni possono riuscirvi o meno a seconda che rispettino oppure no determinati criteri. Le condizioni di buona riuscita sono raggruppati in tre categorie principali: Deve esistere una procedura convenzionale con effetto convenzionale, e le circostanze e le persone coinvolte devono essere appropriate (in base a quanto stabilito dalla procedura); La procedura deve essere eseguita in modo corretto e completo; Le persone devono avere i pensieri, i sentimenti e le intenzioni richieste dalla procedura, e se è previsto un comportamento conseguente questo deve verificarsi. [Esempio che si applica perfettamente alle regole è quello del matrimonio] Frege fa una distinzione anche tra senso e forza. Il senso fregeano di un enunciato è il contenuto che esso esprime, e che in quanto tale può risultare vero oppure falso. La forza è sostanzialmente l’uso che facciamo di quel contenuto. I tipi di forza che Frege ha in mente sono essenzialmente quella affermativa, interrogativa ed imperativa. Austin invece propone di riconoscere nell’atto linguistico tre differenti livelli. Il primo è chiamato atto locutivo (l’atto del dire qualcosa).Eseguire un atto locutivo vuol dire proferire un enunciato nel senso astratto analizzato dalla linguistica, quindi prescindendo dal suo particolare uso in un’interazione comunicativa, ma includendo il suo contenuto semantico. Al secondo livello si colloca l’atto illocutivo. Con l’espressione “illocutivo” Austin intende l’atto che si compie nel dire qualcosa. L’atto illocutivo cattura ciò che Frege chiama la forza: il fatto che con un certo enunciato posso effettuare un comando, un’affermazione, un’ipotesi, una scommessa etc. Infine abbiamo l’atto perlocutivo, che descrive l’effetto che il parlante produce di fatto sull’ascoltatore. Se, ad esempio, sentire una certa domanda in una certa situazione produce su di me l’effetto di indispettirmi, si tratterà di un effetto perlocutivo non prevedibile dell’atto illocutivo che consiste nel farmi quella domanda. Questa analisi degli atti linguistici sembra suggerire una certa immagine dei rapporti tra semantica e pragmatica: la semantica riguarderebbe il contenuto delle espressioni linguistiche, magari specificabile nei termini del loro riferimento al mondo, ossia delle condizioni di verità; la pragmatica coglierebbe il fatto che gli enunciati sono una forma di agire, incluso l’agire locutivo che ha come componente l’adoperare certe espressioni con certi contenuti semantici. In molti casi le condizioni di verità di un enunciato sono fissate solo se è fissato il particolare contesto d’uso dello stesso. Ciò suggerisce che la nozione di un significato fisso, indipendente da considerazioni pragmatiche, non è generalmente accettabile. Vi sono innanzitutto i casi di ambiguità: come abbiamo detto, una parola può avere più di un significato, e il suo inserimento in un contesto di frase determinato può consentire di capire quale sia quello attualmente rilevante. Una seconda classe di casi riguarda i fenomeni deittici. Per espressioni deittiche si intende un gruppo relativamente ristretto di espressioni di tempo, di luogo e di persona come ad esempio “ora”, “qui”, “io”, con cui il contenuto dell’enunciato viene ancorato al contesto di proferimento. Un’ultima classe è quella degli usi figurativi, ad esempio la metafora e l’ironia. Quest’ultima è un fenomeno particolarmente interessante, in quanto spesso non presenta alcun indizio strettamente linguistico: quando dobbiamo decidere se chi pronuncia l’enunciato “sei un vero amico” parli letteralmente o faccia dell’ironia, non possiamo che guardare al contesto. In generale, negli usi figurati ciò che si intende non coincide con il significato letterale dell’enunciato, e dunque a maggior ragione non è riducibile alle sue (eventuali) condizioni di verità. Ciò però non comporta necessariamente che il significato letterale non svolga alcun ruolo. Secondo Paul Grice, in un’interazione comunicativa il parlante manifesta una certa intenzione comunicativa che l’ascoltatore si sforza di ricostruire, e questa nozione di intenzione dovrebbe poter sostituire quella di significato. Egli distingue in generale tra significato dell’espressione (dato convenzionalmente) e significato del parlante, e tenta di spiegare la natura dei processi mediante i quali il secondo è costituito a partire dal primo. Come avverrebbe dunque questo passaggio del significato dell’espressione a quello del parlante? Tramite il principio di cooperazione: dai alla conversazione, in ogni momento, un contributo comunicativo appropriato. Ciò che è appropriato viene precisato in quattro massime conversazionali: Massima della quantità: dai un contributo sufficientemente informativo agli scopi della conversazione; Massima della qualità: non dire cose che credi false, o che non hai ragioni per credere vere; Massima della relazione: dai un contributo pertinente ad ogni stadio della comunicazione; Massima del modo: esprimiti in modo chiaro, breve e ordinato. Tali principi descrivono norme cui di fatto parlante e ascoltatore tendenzialmente si attengono. Il punto cruciale di questo ragionamento è il fatto che può essere violato. Grice dunque, non ci sta invitando a seguire quelle norme, sta solo dicendo che tendiamo a seguirle spontaneamente, di solito senza accorgercene. Secondo il principio di carità, l’ascoltatore è tenuto a trattare il parlante come razionale; ossia, a cercare un’interpretazione delle sue parole che appaia sensata anche di fronte ad apparenti irrazionalità. In altri termini, quando le parole udite sembrano violare qualche massima conversazionale, l’ascoltatore deve prendere in considerazione la possibilità che il parlante lo abbia fatto intenzionalmente, ai fini comunicativi. John Searle introduce la sua nozione di atto linguistico indiretto: ovvero, quando un certo atto linguistico è eseguito indirettamente, attraverso l’esecuzione di un atto linguistico differente; in altri termini, la funzione con cui viene adoperata un’espressione linguistica è differente da quella manifestata nella forma superficiale. Nella frase “puoi chiudere la finestra?” non vogliamo realmente sapere se l’altro è in grado di farlo: gli chiediamo di farlo. Spesso gli atti linguistici indiretti hanno a che fare con forme di cortesia. Inferenze di questo genere possono essere (e di fatto sono) spesso altamente convenzionalizzate: siamo portati automaticamente ad intenderli per ciò che essi vogliono dire, piuttosto che per ciò che dicono alla lettera. 24