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Giovanni I. Giannoli IL MONDO È RICORSIVO? SUL SENSO DELLA STORIA1 In un denso volume del 1985, così scriveva Alberto Gianquinto: La storia può essere oggetto d’indagine scientifica, senza bisogno di costruire per essa un concetto ad hoc di scienza, che ne modifica il senso […]. A questo punto, si può abbozzare l’ipotesi di struttura sociale minima, analogamente, per intenderci, al genere di quella tracciata da Marx e da Engels nell’Ideologia tedesca. La struttura va considerata necessaria e sufficiente per «innescare» il percorso evolutivo genetico; ha lo scopo di fornire un «modello», sul quale poter simulare dinamiche sociali e, attraverso il modello, di approfondire, corroborare e controllare il punto di vista storico-materialista di partenza. Ricerche ad alto livello di simulazione dello sviluppo socioeconomico sono ormai a stadi molto avanzati […], [ciò] fa ritenere fin d’ora posssibile l’estrazione [dal materiale etno-antropo-sociologico disponibile] di modelli di struttura sociale, ma anche la fissazione di alcuni criteri della loro evoluzione […]. Il progetto sociale può raccordarsi dunque al terreno della previsione, quando si procede su quello delle ipotesi di una teoria scientifica della storia […]. La scienza storica può assumere la dimensione di scienza-progetto sociale: la storiografia, come ipotesi scientifica, prescrive (esplicitamente o meno) quelle possibilità d’azione che le previsioni consentono2. Qualche anno più tardi, in un manuale di metodologia della scienza che costituiva il risultato di almeno tre lustri di riflessioni condivise, io stesso ed Alberto Gianquinto scrivevamo: Noi avanzeremo e tenteremo anche di fondare l’ipotesi secondo cui non esistono “scienze” non standard […]; se una descrizione del susseguirsi delle teorie è una cronaca di “res gestae” nel campo delle scienza, altra cosa è costruire una “historia rerum gestarum” ed anzi una effettiva “teoria” scientifica della storia. Questa teoria ha inizio col programma marxiano di critica dell’ideologia […]. L’ipotesi si traduce in una possibilità pratica e, prendendo “parte”, connette la scienza all’ideologia: la scienza (anche la storiografia) ha per obbiettivo la previsione e questa, definendo il campo delle possibilità, in quanto riguarda sistemi d’azione, dipende dalle condizioni di azione: ne dipende e ne limita le possibilità o progettualità […]. L’ipotesi scientifica dello storico, l’ipotesi storiografica (che, come spiegazione definisce anche scopi e loro possibilità di realizzazione), definisce […] le possibilità progettuali3. Tra questi due libri, il primo del 1985 e il secondo del 1992, si colloca un evento fondamentale della storia contemporanea, espressione d’una parabola che andava preparandosi da qualche decennio: la caduta del muro di Berlino. A mio modo di vedere, l’immagine di questo evento può essere assunta come emblema delle ragioni che negli ultimi anni hanno portato Alberto Gianquinto a una profonda autocritica delle posizioni precedenti4. Se nel 1985 e, ancora, nel 1992 un «senso della storia» si dava (perché la possibilità di formulare ipotesi riguardanti il futuro sembrava rientrare nell’ambito della scienza), nel recente lavoro del 2009 Gianquinto afferma invece che questo senso risulta ineluttabilmente smarrito. La parabola del comunismo (e – nella riflessione di Gianquinto – il conseguente «termine» dei «miti e dell’utopia»5) è la fonte teorica, politica e direi anche personale che 1 [Gianquinto 2009] [Gianquinto 1985: 7, 13, 23] 3 [Giannoli – Gianquinto 1992: 241, 265, 266] 4 [Gianquinto 2009: 5n] 5 [Gianquinto 2009: 234] 2 15 ha ispirato questo ultimo libro. In particolare: è la proiezione al futuro (la rivoluzione, la libertà connessa a uno sviluppo collettivo, l’estinzione dello Stato)6 ciò che nel XX secolo sembra drammaticamente fallita, falsificando la nostra previsione (dunque, nei termini di Gianquinto, nullificando il «senso» della storia). È insomma il «finalismo su basi previsionali» ciò che sarebbe stato messo in discussione dall’epilogo del comunismo7. Più in generale, Gianquinto ritiene che si dia un fallimento (o almeno una pesante inadeguatezza) delle scienze sociali nel loro complesso: di fronte alla necessità teorica di una prevedibilità della storia, si registra l’incapacità di un suggerimento in tale direzione, che provenga dai dati e dagli eventi a disposizione. Un “senso” della storia non è chiaramente dato, allo stato di cose8. La confutazione di queste conclusioni, nel nostro stile empirista, richiederebbe che qualcuno esibisse non solo una teoria capace di prevedere gli eventi storici (nella fattispecie: la dinamica a medio termine del capitalismo contemporaneo), ma anche una teoria corroborata da fatti. Una teoria del genere, corroborata dai fatti, non è purtroppo disponibile; pertanto, sotto questo profilo e «allo stato delle cose», Gianquinto ha davvero ragione. Ma il punto non è questo. Gianquinto non si limita a una considerazione di fatto. Gianquinto presenta argomenti per sostenere (o almeno per indurre a sospettare) che un «senso della storia» non solo non c’è (in altri termini: sul futuro non si dà alcuna ipotesi, per l’indisponibilità di teorie ben corroborate), ma nemmeno ci può essere (soprattutto se questo senso della storia viene ricercato con l’ausilio di teorie ipotetico-deduttive analoghe a quelle delle scienze standard)9. Dunque, la questione di fatto tende a prendere nella prospettiva di Gianquinto le caratteristiche d’una questione di diritto. Proprio su questo aspetto conviene riflettere e dissentire. Gianquinto presenta – insieme a una riflessione ricchissima sulle principali visioni cosmologiche, teologiche, filosofiche e sociologiche che hanno avuto come oggetto il tempo e la storia – alcune considerazioni che ribaltano il punto di vista da lui stesso avanzato nel 1985 (e ancora difeso nel 1992), in particolare l’idea che si possano dare leggi in grado di fornire previsioni circa l’evoluzione delle società umane, «sia pure di breve estensione temporale»10. Il mio percorso è stato diverso. Ancora in un libro del 2003, commentando un’osservazione di Manuel Castells (secondo il quale l’età della informazione sarebbe quella in cui può finalmente cominciare la storia degli uomini, perché questi si sarebbero liberati finalmente delle fatiche materiali dell’esistenza), affermavo che la storia può forse cominciare, «perché abbiamo la tecnica per disegnare il futuro»11. Più che a un fallimento di principio delle scienze sociali, assegnavo gli insuccessi degli uomini all’acrasia12, cioè all’osservazione che per essi non vale affatto il criterio enunciato da Aristotele nel libro H dell’Etica Nicomachea, secondo il quale «il saggio è tale non solo per il fatto di sapere, ma anche per il fatto di saper mettere in pratica»13. Ovviamente, non imputavo gli insuccessi alla mancanza di saggezza, quanto piuttosto al fatto che il sapere (di pochi) non è riuscito sovente ad essere l’elemento decisivo, soprattutto quando questo sapere fosse contrastato da ben altre forze materiali (efficaci sui più). Mi concentrerò pertanto, d’ora in avanti, sui problemi d’ordine epistemologico che il recente libro di Gianquinto solleva, rammaricandomi di non essere in grado di confutare le sue tesi esibendo una teoria della storia, cosa che probabilmente ci renderebbe entrambi più convinti e appagati, almeno sul terreno teoretico (mi riservo di sospendere il giudizio, quanto al possibile nostro appagamento sul terreno pratico, vista la durezza dei tempi e il pessimismo della ragione che in molti ormai avvertiamo). 6 [Gianquinto 2009: 79] [Gianquinto 2009: 80] 8 [Gianquinto 2009: 98] 9 [Gianquinto 2009: 108] 10 [Gianquinto 2009: 5] 11 [Giannoli 2003: 241] 12 [Giannoli 2003: 242 sgg.] 13 [Aristotele Eth. Nic.: H, 1152a 8-9] 7 16 Magari, sosterrò che qualche previsione siamo in grado di farla, anche se non all’altezza del miti e delle utopie che hanno segnato l’ultimo secolo e mezzo. Prima di entrare nel merito, vorrei però aggiungere una breve considerazione d’ordine bibliografico (che bibliografica in effetti non è): nell’ultimo libro di Gianquinto (contrariamente al precedente) non c’è alcuna traccia di Darwin, né della teoria dell’evoluzione naturale. La cosa, visto il taglio e le ragioni in gran parte epistemologiche dell’autocritica, si può in parte capire: quando ora parla di «teoria», Gianquinto lo fa avendo in mente un sistema di concetti e di asserti rigorosi e ben formati, un insieme finito di assiomi e di regole di derivazione; insomma: un sistema formale, da cui sia possibile inferire prognosi e spiegazioni. È solo in questa accezione forte – se bene intendo la posizione attuale di Gianquinto – che la scienza della storia potrebbe differenziarsi dalla mera narrazione (mostrando finalmente qualche laicissimo «senso» delle umane vicende, fuori dal mito e dall’utopia). Tuttavia, come lui stesso mi ha a suo tempo insegnato, nemmeno le scienze naturali più “forti” e meglio corroborate – la fisica, la genetica, la chimica o la geologia – hanno davvero raggiunto quel grado di formalizzazione che i filosofi della scienza tendono spesso ad immaginare. Di più – malgrado in genetica molecolare, in epidemiologia, nello studio delle popolazioni di batteri e di virus, in molti altri ambiti della storia naturale, l’evoluzionismo abbia parecchio da dire – è del tutto palese che la struttura della teoria di Darwin è per molti aspetti sui generis: piuttosto che articolarsi in leggi, la teoria definisce principi del tutto generali, che non consentono di prevedere (per esempio) la data di una speciazione o le caratteristiche fenotipiche di una certa mutazione; per ottenere un livello di dettaglio più fine (ove mai sia possibile), la teoria dell’evoluzione deve ricorrere ad altre discipline. Analogamente, prima di affrontare nell’accezione più ampia il problema delle previsioni storiche, sarebbe utile specificare meglio a quale livello e con quale dettaglio queste previsioni dovrebbero essere formulate. Insomma: a mio modo di vedere, il riferimento alla teoria dell’evoluzione naturale potrebbe essere ancora di qualche utilità, nel definire e nel delimitare in modo congruo il concetto stesso di “storiografia” (questione della quale non mi occupo direttamente in questa sede: cosa mai dovrebbe essere, sotto il profilo della forma e della struttura, una scienza effettiva delle popolazioni umane, della loro dinamica, cioè dell’evoluzione dei loro rapporti sociali e della loro cultura). Ciò detto – e ricordato dunque che il problema della “grana” delle previsioni è sempre aperto, anche in ambiti diversi dalla storia – vengo agli aspetti che intendo esplicitamente trattare: - i problemi posti alla ricerca storiografica dalla esistenza di alcune particolari capacità cognitive, senz’altro attribuibili agli agenti sociali (in particolare, il problema della creatività); l’eventualità che sussistano vincoli, i quali impediscano (selezionino) i comportamenti collettivamente caotici dei sistemi sociali, soprattutto nei casi in cui si diano comportamenti individualmente aleatori (o comunque complessi) da parte dei singoli agenti sociali (più in particolare: il problema della trattabilità computazionale delle popolazioni di agenti). Si tratta delle due questioni a partire dalle quali Gianquinto costruisce i suoi due principali argomenti, circa l’imprevedibilità dei processi storici (cioè, nei suoi termini, circa l’irreperibilità di un senso della storia)14. I. Secondo Gianquinto, la creatività (quasi per definizione) non può che generare fatti fuori dalla norma: La lateralità rispetto alla norma è la sostanza dell’atto creativo, che si traduce in atti pragmatici assolutamente non conformi alle attese, illogici in se15. Nei suoi termini, il «pensiero laterale» annulla la «validità del modus ponens» (cioè, in altri termini: le azioni che scaturiscono da processi creativi non possono essere descritte come il prodotto di particolari processi mentali ipotetico-deduttivi)16. L’analisi storica non potrebbe mutuare dalle scienze naturali il ben noto paradigma ipotetico-deduttivo della spiegazione/previsione, perché gli eventi storici 14 [Gianquinto 2009: 7 sgg., 22 sgg., 108 sgg.]. [Gianquinto 2009: 7]. 16 [Gianquinto 2009: 108] 15 17 sarebbero il risultato di azioni non soggette a una determinazione nomotetica (in quanto il processo di decisione – nei suoi aspetti creativi – sarebbe non deduttivo). Ora, qui, la prima osservazione che si potrebbe fare è questa: dalle (eventuali) modalità non deduttive secondo le quali i singoli agenti prendono le loro decisioni, non discende che il comportamento collettivo di una o più popolazioni di agenti (soggetti a vincoli relazionali e soprattutto ambientali) sia per principio imprevedibile (e, in particolare, non descrivibile medianti asserti universali di tipo condizionale). Del resto, si danno esempi di sistemi fisici e biologici i quali esibiscono significative regolarità e strutture, anche se i componenti elementari di questi sistemi hanno un comportamento (prima facie) del tutto aleatorio; è la combinazione dei comportamenti individuali, e soprattutto l’esistenza di vincoli, a dare origine a leggi di sistema, anche laddove (per motivi intrinseci – legati ai gradi di libertà dei componenti, oppure sistemici – legati alla numerosità degli individui) il comportamento individuale dei componenti non sia descrivibile mediante leggi deterministiche di tipo implicativo. Noi non staremmo oggi a studiare la struttura dei sistemi planetari, se l’esistenza di vincoli strutturali molto semplici (la gravitazione e, forse, la presenza di materia “oscura”), agendo sulle turbolenze caotiche delle nebulose primordiali, non avesse lentamente organizzato i gas e i minuscoli granelli della polvere interstellare, dando luogo a granuli, poi a planetesimi e finalmente ai nuclei17. Né, d’altra parte, noi stessi staremmo oggi a vivere e a meditare, se l’orologiaio cieco della natura, con un meccanismo molto semplice di selezione delle mutazioni aleatorie, non avesse provveduto a rendere sempre più complessa la struttura degli organismi viventi (malgrado ogni componente elementare di questi organismi non avesse alcun progetto di questo tipo)18. La mia osservazione non implica che le azioni individuali (e i processi cognitivi che le determinano) non possano svolgere un ruolo decisivo, in qualche fase della storia; però, l’argomento secondo il quale la creatività di ogni singolo homo sapiens impedisce di prevedere il comportamento di homo sapiens come popolazione (o come specie) si basa sull’assunto che le caratteristiche di un insieme debbano riprodurre necessariamente quelle delle sue parti, assunto che palesemente non tiene. Trovo echi della Kritik der Urteilskraft e della Lehre vom Genie, in questo tipo di argomentazione19. Del resto, è proprio vero che la creatività è una caratteristica del pensiero umano che rivela una modalità cognitiva assolutamente eterogenea, rispetto a quelle ordinarie (deduzione, induzione, abduzione)? Già nel 1972 Newell e Simon avevano affrontato la questione, nell’ambito dei loro primi studi sul problem solving20. Nel 1987, insistendo sull’idea secondo la quale la creatività in un certo dominio poggia essenzialmente: i. sulla memoria di lavoro, ii. sulla conoscenza specifica di quel dominio e iii. su processi cognitivi particolari (in grado appunto di portare a risultati innovativi), lo stesso Simon e altri studiosi misero a punto modelli computazionali della creatività scientifica, idonei a essere implementati su calcolatori21. Quanto ai processi che generano innovazione, si deve preliminarmente notare che – una volta riscontrato l’emergere di un problema sistemico – l’analista delle soluzioni innovative può assumere nel modello che queste emergano socialmente con una certa probabilità, senza alcun bisogno di scendere al livello (dell’individuo e) dei processi mediante i quali le soluzioni vengono generate. Ovviamente, se si passa ad analizzare questi ultimi, il programma di ricerca mirerà a giustificare le probabilità attribuite, costruendo modelli specifici dei processi innovativi in questione (concepiti semmai come euristiche). Ma questo è esattamente il modo in cui procede la scienza, affrontando per step i suoi problemi; non vedo differenze metodologiche, quando oggetto dell’analisi diventano i processi cognitivi delle popolazioni umane. Naturalmente, si può dubitare che le euristiche sulla base delle quali Simon e i suoi collaboratori progettarono il loro modelli siano proprio quelle utilizzate dagli esseri umani nella risoluzione dei loro 17 [Armitage 2009] [Dawkins 1986] 19 [Kant 1790: § 46] 20 [Newell – Simon 1972] 21 [Langley e al. 1987] 18 18 problemi adattativi (anche se i cosiddetti “sistemi esperti” si basano proprio sull’analisi dei resoconti verbali dei processi cognitivi). Si potrebbe continuare ad insistere che l’insight è una caratteristica irriducibile a meccanismi computazionali, tipica degli esseri umani. Però, fino a quando non sarà data una argomentazione rigorosa (che richiede, tra l’altro, un chiarimento preventivo e una definizione precisa dell’insight), insistere su questa “irriducibilità” assume inevitabilmente il sapore di una petizione di principio. Qui, devo solo osservare che questa non sembra essere la tesi prevalente in psicologia cognitiva. Per brevità, mi limiterò a citare soltanto due punti di vista, entrambi convergenti sull’idea che si possa dare un resoconto computazionale della creatività. Una ventina d’anni fa, Philip Johnson-Laird ha fissato le seguenti condizioni per la creatività22: 1. i risultati di un processo creativo devono essere nuovi, almeno per chi li crea, malgrado siano necessariamente prodotti a partire da elementi già pre-esistenti; 2. i risultati non devono essere generati mediante un mero richiamo dei dati presenti nella memoria, o mediante un algoritmo banalmente inferenziale; tuttavia, il fatto che si possa non avere consapevolezza dell’algoritmo applicato non implica che il risultato sia qualcosa di diverso dal prodotto di una computazione; 3. i risultati devono necessariamente soddisfare a una serie di restrizioni preesistenti, relative al dominio, al problema specifico affrontato, alle limitazioni nella memoria di lavoro, eccetera. Quanto invece agli algoritmi che potrebbero dare luogo a risultati creativi, Johnson-Laird identificava sostanzialmente tre classi: - algoritmi neo-darwiniani, i quali operano mediante: i. combinazioni casuali di vecchi elementi; ii. selezione dei risultati secondo una gerarchia di adeguatezza al problema; iii. iterazione della procedura; algoritmi neo-lamarkiani, i quali impongono preliminarmente opportuni vincoli alle combinazioni dei vecchi elementi, poi effettuano selezioni casuali delle soluzioni più idonee; algoritmi misti, i quali, in cicli diversi, effettuano combinazioni degli algoritmi neo-darwiniani e neo-lamarkiani. Istanze di questi algoritmi producono simulazioni della creatività matematica (generazione di congetture) e di quella musicale (improvvisazione). Da parte sua, un paio di anni dopo, Margaret Boden affermava invece che: 1. un’idea è creativa (per una persona) se quella persona non avrebbe mai potuto averla prima; 2. un’idea è storicamente creativa, se nessuna persona avrebbe mai potuto averla prima. La creatività, in questo quadro, richiede una «mappatura» e una «ristrutturazione» dello spazio concettuale; l’impossibilità che un singolo individuo (oppure la classe di tutti gli individui di una certa epoca) disponga ex ante di una certa idea creativa non è di tipo logico, ma cognitivo: semplicemente, quell’idea (come tale) non esisteva nello spazio concettuale dell’individuo (o della popolazione), prima della creazione. Per la Boden, la ristrutturazione dello spazio concettuale (che prelude alla invenzione creativa) può assumere varie forme; questa varietà delle forme non implica che il processo creativo non sia per principio passibile di rappresentazioni computazionali (anzi, per la Boden, un modello computazionale deve essere comunque prodotto, quando si voglia studiare la creatività in modo scientifico). L’imprevedibilità di un atto creativo (entro una griglia di possibilità definite) è legata al fatto che i processi di mappatura e di ristrutturazione possono presentare aspetti aleatori: anche se la scelta di un’alternativa (tra quelle possibili) è presumibilmente legata alla presenza di vincoli e di attrattori, non tutte le condizioni sono trasparenti al soggetto creativo, o a chi mette a punto il modello. 22 [Jonhson-Laird 1988: cap. XIV] 19 Proprio perché la creatività è guidata (delimitata) da precisi vincoli, essa si distingue dalla eccentricità; come nel caso di Johnson-Laird, la Boden riconosce un ruolo al caso, ma sempre nei limiti fissati: i. dalla tipologia del problema; ii. dallo spazio concettuale che pre-esiste alla creazione; iii. dalle capacità cognitive dell’individuo creativo. L’esito di entrambi gli approcci è allora compatibile con il punto di vista hempeliano, quanto al carattere sui generis delle spiegazioni/previsioni in ambito storico o biologico: c’è un elemento di indeterminismo, ma non si danno motivi di principio per riconoscere un’imprevedibilità assoluta; previsioni possono essere tentate, circa la probabilità degli esiti e l’affidabilità della prognosi. Più recentemente, lo stesso Johnson-Laird ha proposto un modello generativo per l’insight, basato sulla combinazione dei sistemi induttivi, abduttivi e deduttivi, attivati in diverse fasi del processo23. Alla base della costruzione e della manipolazione dei “modelli mentali”, ci sarebbero sempre processi di questo tipo. «Si danno processi mentali differenti?», si chiede Johnson-Laird; e la risposta è decisamente negativa, sia nel campo della scienza, come in quello della guerra, come in quello dell’arte. II. Tutto ciò ricordato, vengo ora al secondo degli argomenti che Gianquinto avanza, per dare conto della sua autocritica: quello della intrattabilità computazionale delle umane gesta. Il problema investe, a suo giudizio, la questione della prevedibilità dei processi storici, condizione perché si possa parlare, in senso proprio, di storia (cioè di scienza). Vorrei preliminarmente osservare che il tempo storico, prima ancora che al futuro, è rivolto al presente: la spiegazione del passato è condizione del darsi della soggettività nel presente (dunque dell’azione, dunque delle modalità del darsi stesso degli eventi futuri). La ricostruzione del passato e la proiezione verso il futuro sono strettamente legate alla costituzione della soggettività: lo sono in un senso tecnico, cognitivo, per quanto riguarda la storia evolutiva della mente umana, lo sviluppo della consapevolezza fenomenologica e il consolidamento dell’identità personale24; ma, soprattutto, lo sono sul terreno politico, che in questa sede più ci interessa. La previsione storica del futuro passa per la costituzione della soggettività e non può essere pensata al di fuori di questa. La previsione storica non si applica a un materiale che evolve senza (frammenti di) autocoscienza. La previsione storica può fallire non soltanto se la diagnosi è sbagliata (e la previsione è infondata o impossibile), ma anche se la diagnosi non diventa coscienza condivisa, poi comportamento25. È qui che – nei termini dell’Etica Nicomachea – si instaura la possibilità dell’acrasia, cioè la possibilità che la maggioranza degli agenti non persegua affatto interessi sistemici e non sia dunque saggia. È qui, nel presente, che la politica dovrebbe trasformare la diagnosi in prognosi; se la politica non ce la fa, ciò non falsifica la ricostruzione storica del passato: cambia soltanto la prognosi. È quello che io sospetto sia avvenuto, tra il 1918 ed il collasso del “socialismo reale” dei successivi anni ’80. Detto ciò sul passato e il presente, devo venire finalmente al futuro, con maggiore dettaglio. Contrariamente a quello che accade (o dovrebbe accadere) nelle scienze della natura, nella scienza storica si darebbe per Gianquinto una a-simmetria di carattere epistemologico, tra la spiegazione (ex post) e la previsione (ex ante): la prima sarebbe possibile (anzi «logica»), perché la ricostruzione dei nessi causali che legano gli eventi passati ha come oggetto una evidenza già data, finita, soggetta al più al molteplice limitato delle interpretazioni; la seconda sarebbe invece (praticamente, logicamente e computazionalmente) impossibile perché: - i dati a disposizione sono in genere sotto-determinati, rispetto ai gradi di libertà dei sistemi che si pretende di mettere sotto controllo26; i nessi che legano gli stati passati a quelli futuri (mediati dall’azione creativa) non sono deterministici27; 23 [Johnson-Laird 2006: 351 sgg.] [Tulving 1985]; [Suddendorf – Corballis: 1997]; [Suddendorf – Corballis 2007] 25 [Marx 1845: tesi XI] 26 [Gianquinto 2009: 10] 27 [Gianquinto 2009: 108] 24 20 - l’esplorazione delle alternative possibili, stante la complessità dei sistemi analizzati, porta inevitabilmente a esplosioni combinatorie, rendendo impossibile l’approccio computazionale28. Come ho già detto, una confutazione adeguata di questo argomento richiederebbe che il critico – piuttosto che limitarsi a controbattere sul piano logico e metodologico – esibisse qualche teoria (o qualche frammento di teoria) della storia, in grado di fornire previsioni effettive sulla condizione sociale degli esseri umani nel futuro, almeno in un non remoto futuro. Ora, mentre rientra ragionevolmente nelle capacità attuali della ricerca costruire scenari che riguardano per esempio il riscaldamento globale, la disponibilità di materie prime e di risorse energetiche, la fertilità del terreno e le connesse prospettive alimentari, la demografia, l’inquinamento dei mari, la disponibilità di acqua potabile, i flussi migratori, la resistenza agli antibiotici, lo spostamento a oriente del baricentro socioeconomico del mondo contemporaneo ed innumerevoli altri aspetti decisivi per la condizione di homo sapiens e del suo habitat terreno (e ciò non è poco), sarebbe effettivamente difficile opporre allo scetticismo di Gianquinto un contro-esempio, che riguardi per esempio l’assetto dei rapporti di produzione in Europa da qui a cento anni (atteso che lo stesso Mao, sia detto per inciso, ci chiedeva di pazientare almeno diecimila anni, perché rilevassimo qualche effetto empiricamente controllabile del materialismo storico; sul punto, ci sarebbe qualche riflessione da fare sul tema della morte, che Gianquinto affronta in un capitolo specifico29). Non disponendo di un contro-esempio adeguato (all’altezza del problema che abbiamo preteso di affrontare, con una militanza che ci ha segnato la vita), mi concentrerò sulla questione epistemologica dell’intrattabilità degli eventi storici, dal punto di vista computazionale. La questione del carattere algoritmico di certi oggetti matematici (cioè della possibilità di descrivere/calcolare questi oggetti secondo procedure effettive) è stata precisata negli anni Trenta del secolo scorso, grazie all’identificazione del concetto di funzione ricorsiva30. Per motivi di questo genere, la questione del carattere algoritmico della realtà (matematica, fisica, sociale) è stata spesso riformulata nei termini della seguente domanda: il mondo è ricorsivo? (dove il termine “ricorsivo” allude appunto alla eventualità che gli stati del mondo e delle sue sottoparti finite siano determinabili mediante procedure di calcolo effettive)31. Dunque, volendo revocare in dubbio l’argomento di Gianquinto (circa l’intrattabilità computazionale della storia), potremmo provare a controllare il fondamento epistemologico di una tesi equivalente, che potrebbe essere espressa in questo modo: il mondo non è ricorsivo. In fisica, un problema di questo tipo può essere a grandi linee disarticolato in cinque sottoquestioni, corrispondenti a cinque diversi livelli di complessità dei modelli che possono essere adottati per descrivere il mondo (o qualche sua sotto-parte): - modelli finiti modelli infiniti ricorsivi modelli infiniti non ricorsivi modelli infiniti non discreti modelli infiniti aleatori I primi due modelli sono quelli computazionalmente trattabili, di cui si occupa in generale la fisica. Possiamo lasciarli da parte, perché non pongono problemi di intrattabilità di principio. La non ricorsività all’infinito (o non ricorsività del comportamento ultimo) è quella esibita per esempio da certi sistemi fisici artificiali, il cui comportamento viene forzatamente legato alla soluzione di problemi 28 [Gianquinto 2009: 11, 12, 26] [Gianquinto 2009: 155 sgg.] 30 [Church 1936] 31 [Delahaye 1994: 201 sgg.] 29 21 indecidibili dell’aritmetica (non ricorsivi, in linea di principio). Un giocattolo teorico di questo tipo è per esempio il gioco della vita proposto dal matematico inglese John Conway sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso32. Modelli di sistemi reali, che esibiscano questo tipo di ricorsività, non vengono in genere presi in considerazione. La non ricorsività dei modelli non discreti è legata al problema del continuo. Gianquinto pone qualcosa del genere, quando accenna al paradosso del cartografo e alle approssimazioni che accompagnano ogni scelta delle condizioni iniziali33. Ma, come è noto, l’ipotesi del continuo è in fisica una mera stipulazione convenzionale (la quale, estrapolata a distanza inferiori a 10-33 cm, implica probabilmente qualche inconsistenza concettuale)34. È opinione di molti che leggi della fisica potrebbero essere riscritte tutte in forma discreta35. La fisica considera prive di significato domande del tipo: «c’è una infinità numerabile di punti in un centimetro cubo di spazio?». Anche se in una varietà continua possono essere definite funzioni ricorsive che presentano derivate non ricorsive (e sono, per questo solo aspetto, non computabili)36, l’esistenza di enti matematici di tal genere non comporta che essi siano perspicui a rappresentare enti fisici. In definitiva, sotto questo profilo, «è difficile vedere come in qualcuna delle teorie fisiche [classiche] possa esserci qualche significativo elemento “non computabile”»37. La non ricorsività delle sequenze aleatorie è legata all’eventualità che il mondo contenga davvero qualche sorgente di aleatorietà essenziale (cioè di aleatorietà sotto tutti i punti di vista). Ma è ben noto che anche i modelli vigenti nell’ambito della meccanica quantistica non sono aleatori sotto tutti i punti di vista: è aleatorio (fino a prova contraria) l’istante in cui una certa sostanza radioattiva emetterà una particella, ma il formalismo quantistico permette di calcolare esattamente la distribuzione media delle emissioni radioattive nel tempo. Del resto, l’idea che l’indeterminazione quantistica possa avere qualche rilievo nella dinamica dei processi macroscopici (e in particolare dei processi storico-sociali) può essere lasciata senza preoccupazioni sullo sfondo: al livello macroscopico, le fluttuazioni quantistiche si cancellano sempre (salvo costruire situazioni-giocattolo, in cui l’esito di una vicenda epocale sia per esempio deciso dal risultato di una osservazione, su uno stato a priori indeterminato). In breve, e per venire al punto, non c’è in fisica (e, più in generale, nelle scienze della natura) alcuna ragione di principio, di carattere logico, che possa garantire una condizione di privilegio della fisica stessa – in ordine alla tassonomia dei processi trattabili – rispetto ad altri domini della ricerca scientifica. Sotto questo profilo, la tesi secondo la quale i sistemi fisici sono per loro natura trattabili e quelli sociali non lo sono non si capisce su cosa possa fondarsi. La fisica costruisce soltanto modelli ricorsivi, perché di questi modelli può occuparsi una attività cognitiva basata sul calcolo (la quale miri a spiegare e a prevedere)38. Analogamente, una scienza della storia potrà considerare soltanto modelli ricorsivi, 32 [Gardner 1970] [Gianquinto 2009: 12] 34 «Simply put, we assumed a continuum because that was the appropriate mathematics at everyday scales on Earth when modern science put down its roots, and we extrapolated this to large and small scales. But this turn out both to be illogical and to get us in trouble» [Majid 2008: 69] 35 [Delahaye 1994: 191] 36 [Myhill 1971] 37 [Penrose 1989: trad.it. 282] 38 È particolarmente istruttivo, sotto questo punto di vista, il caso del sistema solare. Proprio grazie a simulazioni numeriche, si è potuto recentemente stabilire che i moti dei pianeti sono caotici, per le complesse interazioni gravitazionali con tutti gli altri pianeti. Tuttavia, anche per questo sistema (che ci aspeteremmo essere computazionalmente intrattabile, in quanto caotico), le proiezioni permettono di valutare con grande precisione quali saranno le orbite dei pianeti per i prossimi dieci milioni di anni. Quando si passa invece a calcolare la situazione tra cento milioni di anni, le stime diventano indeterminate, proprio a causa della caoticità delle orbite. Tuttavia, quando la proiezione si estende ancora di più verso il futuro ed arriva a toccare i cinque miliardi di anni (un tempo pari all’età del sistema solare), la stima converge di nuovo. Addirittura, è stato stimato come sono variate e come potrebbero variare nel futuro le eccentricità delle orbite dei pianeti, entro un periodo compreso tra cinque miliardi di anni (nel passato) e quindici miliardi di anni (nel futuro). Ovviamente, anche queste stime costituiscono una sorta di sistema-giocattolo, il quale non tiene conto dell’eventuale arrivo di corpi extra-solari, né dell’espansione della superficie (e del volume) del Sole, una volta che quest’ultimo (dopo essersi spento) si sia contratto fino al punto di innescare la trasformazione dell’elio in carbonio. Ma, anche in questi modelli-giocattolo, è straordinario constatare che il carattere caotico di certi processi fisici non determina affatto l’imprevedibilità a medio termine del loro comportamento [ 33 22 finiti, discreti, non affetti da aleatorietà di principio, computabili entro tempi che siano adeguati alla vita e agli scopi degli esseri umani. Sono possibili modelli di questo genere? Sono idonei a dare conto dei fatti? O la storia è intrinsecamente aleatoria? Oppure – come Gianquinto suggerisce – sono possibili soltanto modelli banali, che riguardano l’agire strumentale di soggetti razionali?39 Come al solito, la prova d’un budino consiste nell’assaggiarlo. Dal fatto che certi modelli siano falliti (nei limiti posti dall’acrasia, tipica dell’agire umano), non segue che altri modelli non siano possibili; ho ricordato anzi che alcuni modelli (parziali) che riguardano il futuro prossimo (sotto il profilo dell’ambiente, della dinamica delle popolazioni, della divisione internazionale del lavoro e dell’efficacia dei farmaci) sono già stati proposti, abbastanza affidabili. Gianquinto sottolinea elementi che (al più) possono deporre a favore della difficoltà di costruire modelli dei processi storici (e, soprattutto, della difficoltà di trasformarli in prassi); non fornisce elementi che portino a propendere per una impossibilità di principio. Tra l’altro, come lui stesso provò a insegnarmi nel lontano secolo scorso, è proprio sulla base dei risultati ottenuti nell’ambito della teoria della complessità e della computazione che oggi noi sappiamo questo: nel caso in cui la successione delle vicende umane fosse davvero non ricorsiva, non avremmo alcuno strumento ricorsivo per controllarlo40. In altre parole, ed estrapolando: per motivi di principio, è impossibile dare una dimostrazione logica della impossibilità della storia. L’unica chance che noi abbiamo è quella di provare a farla. Questo ci lascia un po’ più di speranza per il futuro – mi sembra – di quanto non suggeriscano le posizioni di Gianquinto. 39 40 [Gianquinto 2009: 1] [Chaitin 1987] 23 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ARISTOTELE, Etica Nicomachea ARMITAGE P.J. [2009], Astrophysics of Planet Formation, Cambridge UK: Cambridge Un. Press BATYGIN K., LAUGHLIN G. 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