«Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” per la Filosoia,
l’Epistemologia, le Scienze cognitive e la Storia della Scienza e delle Tecniche»
dell’Università degli Studi dell’Insubria – Varese
Via Ravasi n. 2 – 21100 – Varese
Direttore scientiico:
Fabio Minazzi
(Università degli Studi dell’Insubria)
Comitato scientiico:
Evandro Agazzi (Universidad Autonoma Metropolitana, Città del Messico),
Rolando Bellini (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano), Franco Cambi (Università
degli Studi di Firenze) Renzo Dionigi (Università degli Studi dell’Insubria),
Gianmarco Gaspari (Università degli Studi dell’Insubria), Dario Generali (ISPF, Cnr,
Milano), Clelia Martignoni (Università degli Studi di Pavia), Fulvio Papi (emerito
dell’Università degli Studi di Pavia), Jean Petitot (Crea, École Polytechnique, Paris),
Ramón Moreno Queraltó (Universidad de Sevilla, Spagna), Raul A. Rodriguez
(Universidad Nacional de Cordoba, Argentina), Gabriele Scaramuzza (Università degli
Studi di Milano), Roberto Taramelli (Università degli Studi dell’Insubria), Ezio Vaccari
(Università degli Studi dell’Insubria), Carlo Vinti (Università degli Studi di Perugia)
Studi
13
«Dal Settecento c’è, quasi sempre in minoranza, ma sempre abbastanza forte, un’Italia europea, moderna, progressista, che tende all’industrializzazione, al ringiovanimento del costume, al ripudio del peso morto delle tradizioni nazionali. L’Italia, tanto per
localizzare le cose in maniera topograica (pur con alquanta ingiustizia e approssimazione) di Torino e di Milano, contro quella di Roma, Napoli e Firenze». In sintonia con
questa preziosa indicazione di Giulio Preti – risalente al 1960 – questa collana intende
rilettere, in modo spregiudicato e problematico, sulla complessa ed articolata tradizione del razionalismo critico che ha trovato, proprio nella cultura milanese e lombarda,
dal Settecento ino all’epoca contemporanea (da Beccaria e i fratelli Verri a Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, da Martinetti, Bontadini e Bani, ino alla «scuola di Milano»,
alimentata dai contributi di studiosi come Preti, Paci, Cantoni, Dal Pra, Geymonat,
per non fare che pochi nomi ristretti all’ambito ilosoico, che andrebbe tuttavia dilatato e intrecciato con quello scientiico, letterario, artistico, poetico, teatrale, comunicazionale, architettonico, del design, etc., etc.), un punto di riferimento privilegiato
di autonoma elaborazione teorica, inseritosi, in modo spesso originale e fecondo, nel
quadro, anch’esso assai composito, per quanto oggi complessivamente misconosciuto,
del razionalismo critico europeo.
In questa articolata prospettiva di studio della tradizione ilosoica lombarda, la collana intende quindi promuovere – a più livelli: documentario, storico, teoretico, dialogico, ermeneutico e anche liberamente costruttivo (in una prospettiva volta ad indagare,
a trecentosessanta gradi, i differenti aspetti che sono anche il frutto più maturo di un
comune e tenace processo storico, civile ed economico di lunga durata quale quello innescato dalla modernità dell’occidente) – la costituzione di un ampio ed assai articolato
indirizzo critico-razionalistico.
Si tratta di un indirizzo non solo speciicatamente lombardo, ma anche europeo ed
internazionale, variamente presente entro le differenti tradizioni concettuali e i diversi
paesi. Tale programma di ricerca sarà svolto mediante un’analisi approfondita e una
spregiudicata disamina dell’esperienza storica (considerata in tutta la sua effettiva
ricchezza e nella sua tipica “complessità” e “vischiosità”), nonché attraverso la comprensione critico-ermeneutica di alcuni nodi problematici strutturali, aperti e decisivi,
per la storia complessiva della nostra stessa cultura contemporanea. Si vuole insomma ricostruire il quadro, assai sfaccettato, di un razionalismo critico, aperto, innovativo e dialettico, capace di cogliere anche l’emergenza di sempre più diffusi «nuclei di
apoditticità» tra le pieghe, più riposte e silenti, delle scienze contemporanee. Proprio
perché, come sottolineava per esempio un grande razionalista e ilosofo come Gaston
Bachelard, «la scienza istruisce la ragione». Conseguentemente, la ragione umana deve
sempre sapersi confrontare con le scienze e le tecniche più mature ed evolventesi (che
oggi potremmo meglio qualiicare come le tecno-scienze proprie del nostro patrimonio
conoscitivo attinente il mondo della praxis), onde saper ridisegnare, continuamente e
sempre in modo criticamente motivato, gli articolatissimi poliedri politecnici, per dirla
con Carlo Cattaneo, della propria complessa conigurazione teoretica, storica, civile,
culturale ed economica.
In tal modo questa collana intende favorire soprattutto una feconda tensione critica
tra differenti ambiti disciplinari, sviluppando, sistematicamente, una cultura del conine
e dell’interconnessione critico-disciplinare, nei cui ambiti potranno essere studiati, di
volta in volta, i nessi tra scienza e ilosoia, il problema della dimensione epistemologica, la questione del rapporto tra rilessione teorica e mondo della prassi, la conigurazione delle tecno-scienze, i problemi ilosoici delle differenti tecnologie, ma anche
l’intrecciarsi parallelo delle molteplici tradizioni letterarie, poetiche, architettoniche,
artistiche, di design, etc., etc., mettendo costantemente in luce le speciiche, poliedriche, originali ed innovative strutture formali che informano, variamente, l’azione
umana, nella radicata convinzione neoilluminista che la conoscenza rappresenti sempre
l’altro nome della libertà.
Federico Francucci
IL MIO CORPO
ESTRANEO
Carni e immagini in Valerio Magrelli
prefazione di
Clelia Martignoni
MIMESIS
Centro Internazionale Insubrico
Volume pubblicato con un contributo delle seguenti istituzioni:
Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” per la Filosoia, l’Epistemologia, le Scienze cognitive e la Storia della Scienza e delle Tecniche
Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate, Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche
e Naturali di Varese dell’Università degli Studi dell’Insubria
Programma di Ricerca coinanziato del Miur, Coin, anno 2008, prot. 2008ZX72NK_003,
unità dell’Università degli Studi dell’Insubria,
responsabile prof. Fabio Minazzi
Regione Lombardia
© 2013 – MiMesis edizioni (Milano – Udine)
Collana: Centro Internazionale Insubrico – Studi, n. 13
Isbn: 9788857518480
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Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)
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INDICE
PreFazione
di Clelia Martignoni
7
avvertenza
11
autointerventi
13
Per cominciare: interventi e rettifiche
Traccia
Malattia
Capo
Mostro
Codice a barre
Commento
Coda
Unghia (ripresa)
13
15
18
30
34
35
42
46
48
interFerenze civili
51
io, valerio Magrelli, sono Mio Padre, Mio Figlio, e io.
su GeoloGia di un padre
71
Premessa
Tempo in scatola (Coffee & cigarettes)
Padri e figli
Lo spirito della Terra
Grandi mammut ghiacciati
71
77
88
95
105
7
clelia Martignoni
PREFAZIONE
Ho il piacere di accompagnare alla stampa con poche parole di premessa
il libro denso e illuminante di Federico Francucci su Valerio Magrelli. Un
libro, dico subito, molto importante per gli studi su Magrelli, poeta tra i più
innovativi e stimabili della nostra epoca, prosatore singolare e seducente,
ottimo saggista, specializzato anche nel campo della traduzione. L’esordio
poetico risale come è ben noto al 1980, con il feltrinelliano Ora serrata retinae. Magrelli aveva allora ventitré anni e i suoi interessi erano già molteplici: consegue nel 1979 un diploma di teoria e solfeggio al Conservatorio
di Perugia, si cimenta nell’ambito della traduzione, studia lingua tedesca
(anche con borse e riconoscimenti del Goethe Institut), e dopo un anno di
studi alla Sorbonne si laurea in ilosoia alla Sapienza nell’84 sul moralista settecentesco Joseph Joubert, con Luigi de Nardis. Da aggiungere che
nell’85 segue a Napoli, presso l’Istituto italiano di Studi ilosoici, un corso
di Starobinski su un tema davvero cruciale, “Sensus corporeus”, destinato
a lasciare in lui profonde inluenze. Questi dati sommari valgono solo per
ricordare, scusandomi della spicciola pedanteria, che il giovanissimo Magrelli si distingue subito per la passione multi e inter-disciplinare che la sua
attività scrittoria continua a perseguire ed elaborare.
Ora serrata retinae, già molto maturo e di non facile decifrazione, impostava in partiture esatte, anti-effusive e anti-sentimentali, una mappatura
autoanalitica di corpo e scrittura, congiungendo rilessione ilosoica con
spiccata visività (aggettante verso un altro grande tema: e rinvio soprattutto
al bellissimo saggio su Valéry del 2002, Vedersi vedersi), astrazioni concettuali con iguralità ossessive e con percezioni isiche insieme limpide
e stravolte. Di opera già «ipocondriaca» ha parlato dopo Magrelli, suggerendo i legami con i nuclei futuri del suo lavoro. Alla prima raccolta ne
seguono inora altre quattro, tutte sperimentalmente differenziate, sempre
campite in strutture nitide. È del 2003 l’esordio in prosacon il sorprendente Nel condominio di carne, smembrata esplorazione diaristico-narrativa
(in un’opera però riluttante a deinizioni di genere), sul ilo di una ancora
ossessiva «patopatia» (così l’autore), attraverso oscuri tragitti biologici e
8
Il mio corpo estraneo
cognitivi nei meandri della corporalità-universo. Prosa/poesia: un’intrigante partita doppia, da auscultare con attenzione mobile e intrecciata, come
fa Federico Francucci nelle pagine che seguono. La prosa infatti era entrata
per tempo nel dominio della poesia, nel tessuto vario di Esercizi di tiptologia (1992); mentre sia Nel condominio di carne sia l’opera prosastica successiva, La vicevita (2009), includono versi propri e altrui; e la mescolanza
è replicata nel recente e notevolissimo Geologia di un padre (2013), «ultimo pannello» del quadrittico in prosa inaugurato dal Condominio (così
spiega l’autore nella succosa Nota conclusiva, p. 141).1Geologia di un padre, che va salutato senza dubbio come uno degli esiti maggiori del lavoro
di Magrelli, recupera infatti «brani e brandelli di opere precedenti», con
delicate operazioni di «intratestualità», o «autotrasfusione» (ancora dalla
Nota d’autore), riciclando inoltre citazioni altrui non meno signiicative
(indicate un po’ ellitticamente nella tavola inale, Citazioni).
Sono punti decisivi, procedure molto oculate di Magrelli, su cui indugia
con intelligente pazienza e con proitto Francucci. Che per Esercizi di tiptologia (e altri testi implicati), a proposito dell’intreccio nevralgico prosapoesia, scrive: «una volta si sarebbe deinito prosimetro», e così ancora
possiamo chiamare con l’elegante nome della tradizione questi organismi
ibridi (dalle satire menippee al Satyricon alla Vita nuova dantesca), magari
invocando, se non lo sperimentale “protonovecento” italiano non so quanto
familiare al nostro autore, almeno uno dei padri fondatori del moderno (e
del nostro stesso primo Novecento), quel Rimbaud da lui amato per certo.
Francucci si misura nel libro con i testi e con la poetica di Magrelli
dispiegando non comune acutezza, e lo stesso ardito accanimento con cui
Magrelli lavora la sua scrittura bio-archeo-geologica. Ne accerchia di fatto
con lucide strategie l’intera produzione, convocando poesia, prosa, emergenze saggistiche. Il discorso critico, secondo quanto domanda l’interconnessione stretta del corpus magrelliano, è molto coeso, pur se condotto da
due specole privilegiate: Nel condominio di carne e Geologia di un padre.
Quali siano i nuclei su cui Francucci più insiste accenniamo ora brevemente, per suggerire la ricchezza del libro e la sua concatenazione: il
sistema complesso delle citazioni (auto ed etero, inclusi i frequenti esergo)
tra prelievi, innesti, rifunzionalizzazioni; le metamorfosi di registri, tempi,
materiali; gli omaggi plurimi alla modernità esposti o celati nelle sensibilissime pliche testuali; l’osmosi prosa-poesia e loro diverse iuncturae;
l’alto tasso di iguralità e sua funzione portante; l’interessante dialettica
1
Per la lista delle poesie di Disturbi del sistema binario (2006) riprese nell’Appendice
di Geologia, rinvio allo studio di Francucci, nota 6 del terzo capitolo.
Prefazione di Clelia Martignoni
9
tra razionalismo e animismo-magismo; la centralità del Condominio anche
con intenso valore retrospettivo; la primarietà del tema/modo corporale rispetto alla pur forte istanza civile.
All’interno della corporalità, Francucci individua una progressione
nelle raccolte poetiche così compendiabile: corpo-segno governato da un
occhio-mente in Ora serrata retinae; corpo franto e “venato” in Nature
venature; corpo invaso da presenze altrui in Esercizi di tiptologia; e violentemente colonizzato in Disturbi del sistema binario(2006). Nel frattempo,
precisa Francucci, nel concettuale Magrelli emerge via via l’indagine biogeologica della famiglia, di passato einfanzia, e si fa dominante nel libro
ultimo. L’analisi condotta su Geologia di un padre, analisi recentissima
come recente è l’opera, è forse la più ine e rivelatrice, e sa mettere in luce
le complesse strutture del testo, gli anacronismi temporali, la strategia e
funzione di prelievi e citazioni, sino al felicissimo scioglimento di un quasi
rebus testuale (su Variazione fossile, cap. 49). Ma lasciamo qualche sorpresa al lettore perché il libro davvero lo merita.
11
AVVERTENZA
Il primo capitolo di questo libro è la versione aumentata e rielaborata di
un saggio apparso sul fascicolo numero 13 della rivista on line «L’Ulisse»,
intitolato Dopo la prosa. Poesia e prosa nelle scritture contemporanee,
messa in rete nel marzo 2010. Ringrazio i direttori della rivista, Alessandro
Broggi e Italo Testa, per avermi chiesto di scrivere e per aver ospitato il
mio testo.
Il secondo capitolo deriva dalla revisione e dall’accrescimento di una
conferenza tenuta al Circolo filologico e linguistico padovano nel maggio
2010, e ne conserva lo stile espositivo. Ringrazio gli amici Andrea Afribo,
Sergio Bozzola, Davide Colussi e Fabio Magro per le osservazioni puntuali e stimolanti che mi hanno rivolto, e che forse avrei potuto mettere meglio
a frutto.
Il terzo capitolo è stato pensato e steso tra aprile e giugno del 2013. Ringrazio gli amici Emmanuela Carbè, Vladimir D’Amora, Gabriele Frasca,
Massimo Gezzi, Isabella Mattazzi e Tommaso Ottonieri che l’hanno letto
quando era ancora rovente e mi hanno offerto incoraggiamento e consigli
preziosi.
Ringrazio Valerio Magrelli per l’accoglienza calorosa che ha voluto dedicare a queste pagine, e per le puntualizzazioni e i suggerimenti preziosi.
Ringrazio infine Clelia Martignoni per il fiducioso sostegno che non mi
ha fatto mai mancare in questi anni.
Pavia, giugno 2013
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AUTOINTERVENTI
Per cominciare: interventi e rettifiche
«In copertina: Autoritratto rettificato, di Valerio Magrelli», si legge in
fondo al testo in quarta di copertina di Nel condominio di carne. È una didascalia apparentemente solo di servizio, di quelle che tanto spesso si vedono e che informano sulla provenienza del particolare (in copertina vanno quasi sempre particolari), di un quadro o di un’altra opera d’arte, scelto
volta per volta per incollarlo sul bordo più esterno, sulla «prima manifestazione del libro che venga offerta al lettore», per dirla con Genette.1 Ma, anche a non voler insistere qui sul fatto che ogni ovvietà ha i suoi presupposti sovente non altrettanto ovvi, e talvolta impercepiti (quest’uso del
dettaglio, il suo ri-taglio, la sua manipolazione industriale, sono possibili
solo a partire dall’era della fotografia e grazie ad essa, e dunque dipendono
in toto da una tappa nel percorso dell’evoluzione tecnica: è la macchina il
nostro sguardo), più di un motivo spinge a fermarsi un po’ su questa didascalia, su questa copertina, e su ciò che risulta non dalla loro somma ma
dalla loro moltiplicazione. Autoritratto è un artefatto con cui un soggetto
cerca di dare un’immagine di sé, e prevede dunque un medium e un lavoro
su di esso; l’autore dell’artefatto coincide con il soggetto di questo, e nella
frase “autoritratto di…” il genitivo è bidirezionale, perché soggetto e oggetto dovrebbero coincidere. Ora, la copertina del Condominio di carne,
con ogni probabilità concertata dall’autore, al quale non sarà difficile pensare si debba pure la didascalia, ospita un dettaglio della radiografia di un
bacino umano; e se si parte dalla convinzione che la didascalia qui non sia,
o non soltanto, uno di quegli esempi novecenteschi di etichetta contraddittoria o spiazzante apposta su individui che sembrerebbero chiederne di diverse, e che dunque questo sia, in qualche modo, un “vero” autoritratto,
sorge qualche domanda sulla legittimità e sul senso dell’attribuzione di
1
G. Genette, Soglie, Torino, Einaudi, 1989, p. 19 [ed. or. Seuils, Paris, Les Editions
du Seuil, 1987].
14
Il mio corpo estraneo
quell’immagine a quel genere. Può una radiografia essere un autoritratto?
Che significato può avere il prefisso auto- per definire un’immagine ottenuta grazie alla regolazione di un congegno tecnico (una macchina fotografica speciale, usata a scopi diagnostici e clinici) fatta da una persona anonima e comunque diversa da quella radiografata? E d’altra parte, riusciremmo
mai a pensare questa lastra come un autoritratto se non intervenisse la didascalia a conferirle tale statuto (didascalia autoriale allora certamente, per
funzione se non per genesi)? È chiaro che per compiere questa operazione
Magrelli sfrutta molto consapevolmente, da teorico oltre che da scrittore,
quel resto di potere demiurgico, desacralizzato, mondanizzato e socializzato, su cui secondo alcune voci si sarebbe basata tanta parte dell’arte novecentesca, a partire dalla celebre Fontana di Duchamp.2 Tuttavia questa autoparodica consacrazione della radiografia ad opera d’arte serve, è la nostra
ipotesi, a dichiarare prima ancora che il libro cominci uno dei suoi scenari
e una delle sue poste in gioco. Non il volto o una porzione di figura includente il volto, osservata da uno sguardo umano, ma una parte bassa del corpo, i lombi, attraversati dai raggi del macchinario per mostrare le ossa e
l’ombra della carne: questo vediamo. Dovremo quindi fare i conti con un
sé, con un autòs, espropriato e tecnologicamente modificato, e con un ritratto incardinato su una figuratività sottopelle, intra o ultramuscolare.
E non solo. L’immagine radiografica mostra l’impianto di due corpi
estranei nell’autòs già tanto messo in discussione, due chiodi conficcati nel
bacino nel corso di un intervento chirurgico, per rimediare agli effetti di
una grave frattura, ricomporla, e permettere così al corpo di riacquistare la
stazione eretta e camminare normalmente. Una protesi, allora: la prima
delle molte che vedremo; e un intervento ortopedico, ossia, alla lettera e in
altre parole, rettificante. Della frattura del bacino Magrelli fa a più riprese
argomento di narrazione, nel Condominio e altrove. Ma quel bacino inchiodato esibito in copertina, per un lettore di buona memoria, ha un’altra valenza ancora: quella di una citazione, o meglio di un’autocitazione con
cambio di medium, dalla scrittura all’immagine. «Porto nel corpo viti, fisse, nascoste / e sembrano dare al passo un fervore / meccanico. Stringendole / accordo lo strumento, / ogni suo cavo, lo tempero / e ne regolo il gioco
sull’infisso / metallico come una stella / chiaro che mi brilla nell’anca»;
sono versi di Nature e venature, dalla sezione Fenomeni. Stringendo le sue
viti che gli sono state impiantate, uomo meccanico, l’io di questa poesia
2
Cfr. per esempio A. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte,
Roma-Bari, Laterza, 2008 [ed. or. The Transfiguration of the Commonplace,
Cambridge, Harvard University Press, 1981].
Autointerventi
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tira le corde del suo strumento, da autoaccordatore, e si suona, trasforma in
musica il cigolio sommerso delle ossa. Mettendo sulla copertina del Condominio la fotografia della situazione che gli ispirò quei versi di autointervento, Magrelli interviene ancora sul suo corpus, inserendo nel circuito
pubblico una fonte, che però, a contraddizione della cronologia, si presenta nelle fattezze di una citazione con ricodificazione transmediale: la causa
viene introdotta come effetto del causato.
Esagero, sottilizzo, deliro? Prevarico il testo gravando un suo margine decontestualizzato con un eccesso di cervellotica teoria (come si è spesso rimproverato la critica di fare e aver fatto nei decenni finali del secolo scorso)?
È quello che vedremo.
Traccia
Ci sono diversi motivi per cui uno scrittore può trovarsi a citare sé stesso, e diverse modalità in cui può farlo. Per rintracciare o rimarcare lo svolgimento di un percorso, segnato da più o meno profonde discontinuità, da
cambi di direzione discreti o clamorosi; per contemplare, ritessendolo, il
filo di uno sviluppo; per confrontare l’oggi con lo ieri, e verificare la tenuta di una somiglianza o il tasso di una trasformazione. Riscrivere sempre
“lo stesso” libro, non aver scritto che un unico libro fatto di tutti gli altri riuniti: sono numerosi gli autori anche grandi che hanno creduto di poter descrivere il proprio operato in questo modo, magari sfruttando, nelle dichiarazioni, le risorse metaforiche del formato cartaceo e del volume per
disciplinare le differenze e le eccentricità sul filo che separa recto e verso
del foglio. D’altro canto l’autore – una funzione o un dispositivo, e non una
persona, quindi tanto varrebbe parlare solamente di autorialità – serve proprio a recintare, unificare nel segno di un’intenzione progettante una serie
di testi scritti sì dallo stesso individuo ma per altri versi profondamente eterogenei (senza voler qui considerare i casi di apocrifia e pseudonimia).
Uno scrittore può citarsi alla lettera (ampiamente o per brandelli, dichiarandolo o no), può parafrasarsi, può commentarsi, può variamente mescolare queste tre opzioni, e altre ancora. Nella maggior parte dei casi i processi più o meno rigorosi e letterali di ripetizione di sé conducono (o
vorrebbero) a suggellare un’identità, e poco importa da questo punto di vista (il punto di vista della nuova identità raggiunta), che l’identità sia quella di un individuo (segnato da una storia personale e da caratteri psicologici stabili) o quella di un principio o ideale o potenza che supera tutti gli
individui e ne fonda e legittima l’appartenenza comune: è lo stesso, qui, ad
16
Il mio corpo estraneo
essere ripetuto per venire meglio affermato; ad essere ritrasmesso, rimesso
in circolazione affinché – pur attraverso un certo numero di modificazioni
locali e regolate – non cambi nella sostanza e possa, in vista di una fine impellente o anche solo lontanamente presagita di qualche suo supporto, attestarsi ne varietur. Nelle pagine che seguono vorrei provare a mostrare
come questa logica lavori in alcune opere di Valerio Magrelli, e come dalla peculiare composizione di queste opere essa sia a sua volta lavorata. Anche se la mia ipotesi è che la versione identitaria – in vari sensi che si tratta di precisare – della trasmissione di sé tramite ripetizione sia gravemente
messa in crisi nelle opere in questione, non intendo affatto dire che tale logica venga lì semplicemente negata, rifiutata o oltrepassata. In primo luogo perché un movimento di negazione e distacco del/dal “vecchio” sé è
d’obbligo in qualsiasi processo dialettico o ermeneutico che si metta in movimento, e questi processi mirano, pressoché invariabilmente, ad una reintegrazione finale (dunque non basta certo negare l’identità e la sua permanenza per uscire dal suo cerchio). In secondo luogo perché l’atteggiamento
(la posizione, la presa) di Magrelli nei confronti del plesso o nebulosa di
temi che decide di convocare, e i trattamenti, le scosse, le torsioni che imprime a questi temi, sono caratterizzati da frequenti contraddizioni, ripensamenti, incertezze, cambi di strada, che rendono l’analisi estremamente
complessa e impediscono di assumere un’ipotesi così netta. Prenderò in
considerazione nella mia analisi, in gradi diversi di dettaglio a seconda dei
casi, i due volumetti di prose Nel condominio di carne e La vicevita (usciti rispettivamente nel 2003 e nel 2009, e qui d’ora in avanti contrassegnati
con CC e V), le ultime due raccolte poetiche Didascalie per la lettura di un
giornale e Disturbi del sistema binario (1999 e 2006, d’ora in poi DID e
DSB),3 facendo riferimento quando necessario alle precedenti sillogi ma3
Le opere poetiche di Magrelli sono Ora serrata retinae, Milano, Feltrinelli, 1980;
Nature e venature, Milano, Mondadori, 1987; Esercizi di tiptologia, Milano,
Mondadori, 1992 (queste tre raccolte sono confluite, con l’aggiunta di un gruppo
di versi inediti in volume, in Poesie (1980-1992) e altre poesie, Torino, Einaudi,
1996, da cui sempre si cita nelle pagine che leggete), Didascalie per la lettura di
un giornale, Torino, Einaudi, 1999, Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi,
2006. Del lavoro in prosa qui si citerà da Nel condominio di carne, Torino, Einaudi, 2003, da La vicevita. Treni e viaggi in treno, Roma-Bari, Laterza, 2009, e infine Geologia di un padre, Torino, Einaudi, 2013. Le due uscite alle quali si fa
cenno nell’ultima parte del capitolo sono Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire, Roma-Bari, Laterza, 2010, e Il violino di
Frankenstein. Scritti per e sulla musica, Firenze, Le Lettere, coll. «fuoriformato»,
2010. Le citazioni saranno qui date con il titolo dell’opera, per esteso o in sigla, e
il numero di pagina secondo le edizioni segnalate in questa nota.
Autointerventi
17
grelliane di versi. Se non faccio oggetto di attenzione separata i diversi generi letterari, e metto a confronto scrittura “letteraria” e scrittura “critica”
non è perché intendo dare un’immagine a tutto tondo, o qualcosa del genere, dell’opera di Magrelli, utilizzando una tipologia scrittoria a sostegno o
contrasto delle altre per ricavare una specie di media panoramica o, al contrario, di fusione alchemica; e nemmeno o non soltanto per rispettare l’opinione assai corrente – poco monta se tra gli osanna o i crucifige – secondo
la quale gli steccati tra i modi espressivi delle diverse forme di conoscenza
sarebbero diventati permeabili e molte scritture un tempo per statuto indipendenti dalla letteratura sarebbero diventate «paraletterarie» (come sostenuto da R. Krauss già al tornante tra anni Settanta e Ottanta).4 Lo faccio invece soprattutto per tentare di isolare, attivamente e correndo il rischio
della sovrinterpretazione, la singolarità, intimamente differente e mai in
pacifico accordo con sé stessa, della traiettoria che Magrelli ha tracciato
nel corso degli anni per aprirsi una strada all’interno del de-genere in comune su cui molte scritture di diverse provenienze si affacciano, e che Gabriele Frasca (a Magrelli distantemente affine ben oltre la condivisione
dell’anno di nascita, 1957) chiama senz’altro «arte del discorso».5 Mi sembra che uno dei tratti salienti dell’opera di Magrelli stia proprio in una pratica di autocitazione che ha qualcosa del collage e qualcosa dell’impianto e
del trapianto. Cominciando a censire quanti e quali spezzoni Magrelli prelevi dal volume dell’opera pregressa, in che maniera le reinnesti e le reinvesta nell’aggregato testuale più recente, e come l’autocitazione, apparentemente circoscritta, si colleghi a una pratica citatoria/citazionista dal peso
e dagli effetti invece molto diffusi, si potrà nello stesso tempo accertare
l’interferenza reciproca tra questo piano (inter)testuale e il filone o corrente “tematico”, che si incanala in queste scritture, della trasmissione, dell’eredità, del contagio, della propagazione, della riproduzione, della ripetizione e della memoria. Verificando inoltre quali espedienti e tecniche
stilistico-retoriche (in particolar modo la tessitura sottile e strettissima di
una certa trama metaforica) siano chiamati di volta in volta ad amplificare
o contenere il suddetto intreccio in espansione, si cercherà di arrivare al
difficile, instabile, vissuto con sentimenti quantomeno ambivalenti processo di soggettivazione di cui nell’opera restano molteplici tracce.
4
5
R. Krauss, Post-strutturalismo e paraletterarietà, in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, Roma, Fazi, 2007 [ed. or. The Originality of the Avante-Garde and Other Modernist Myths, Cambridge, MIT Press, 1985].
G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo dei media, Roma,
Meltemi, 2005.
18
Il mio corpo estraneo
Malattia
Tra le particolarità dei due libri di prose, solo molto a fatica catalogabili
come narrative, di CC e V, sta senza dubbio il rapporto che il telaio dei libri
(piano costruttivo e livello portante della scrittura) stabilisce con un numero
piuttosto alto di altri testi, in versi e in prosa, chiamati a partecipare attivamente ai percorsi di ricerca intrapresi dai libri stessi, e però anche da questi
tenuti distinti tramite accorgimenti tipografici e strutturali codificati. Si tratta, come già detto, delle citazioni. Il processo citatorio magrelliano seleziona
e raccogli porzioni provenienti da testi altrui, ma anche da altre opere dell’autore stesso; e potrebbe sembrare un azzardo non tenere rigorosamente distinte le due tipologie, se non fossero proprio i libri, in un certo senso, a scoraggiare un simile rigore, “lavorando” i frammenti citati in maniera non troppo
dissimile. In Ora serrata retinae (d’ora in poi OSR), il libro d’esordio, non
ci sono citazioni esplicite marcate dagli usuali accorgimenti; l’unica e parziale eccezione è la traduzione-riscrittura (transgenerica) di un passo del Treatise di Berkeley, che costituisce a tutti gli effetti un testo della raccolta e porta,
evidenziato ma anche confinato nel titolo, il riferimento bibliografico all’opera di provenienza. In Nature e venature il numero di citazioni sale di parecchio e si attesta a otto, tutte in epigrafe, a sormontare testi per lo più privi di
titolo, e provviste ciascuna del timbro di riconoscimento costituito dal nome
dell’autore. Negli esercizi di tiptologia le citazioni sono raddoppiate – addirittura sette se ne addensano a coronare la prosa d’apertura, Alle lagrime, rovi
– e, pur conservando nella stragrande maggioranza la posizione in esergo a
singoli testi, fanno registrare un’eccezione, parziale anche in questo caso, ma
a guardarla alla luce degli esiti successivi, molto importante. In un’altra prosa del libro, infatti – intitolata Terranera – Magrelli inserisce, stavolta non in
esergo ma nel corpo del testo, alcuni versi, distanziandoli con due a capo dal
blocco della prosa (p. 256). I versi sono legati tematicamente all’argomento
che la narrazione sta svolgendo (i lampi), e non vengono fornite su di essi ulteriori notizie. Si tratta di una poesia del poeta arabo Ibn Brishî, tradotta da
Magrelli, e l’autore darà conto della “vera” paternità della poesia solo diciassette anni più tardi, in V, quando importerà questo brano nel tessuto di un’altra prosa (non potremo purtroppo controllarne i movimenti). Per ora basterà
annotare che un frammento di altro autore viene interpolato, cucito in un brano in base a criteri di affinità con le linee di sviluppo di quest’ultimo: un meccanismo analogo è tra i più potenti propulsori di CC. Qui, le citazioni vengono regolarmente integrate nei testi, segnalate dalle virgolette e, nel caso di
versi o spezzoni più lunghi, dagli a capo e dai rientri. I siti degli inserimenti
non offrono informazioni sui brani accolti, e nella nota in coda al libro si tro-
Autointerventi
19
va soltanto un elenco degli autori citati, ciascuno con il numero della pagina
in cui il testo di pertinenza è collocato. Esattamente nello stesso modo si
comporta Magrelli nei sette casi in cui l’origine del prelievo è un testo di sua
composizione; nessun ausilio informativo viene porto all’interno del brano
in cui l’autore cita sé stesso, e in chiusura, a seguire quello delle altre fonti citate, separato solo da una spaziatura, sta un elenco, sempre scarno e organizzato per numeri di pagina, dei loci magrelliani che hanno prestato testo. Per
concludere la prima sommaria descrizione bisogna aggiungere ai due tipi già
illustrati di citazione letteraria, maneggiati in modo analogo, un terzo tipo
che sta a metà tra citazione e allusione: nel discorso si trovano spesso titoli di
libri – riferiti correttamente oppure in qualche modo alterati (per fare solo
due esempi, Die Zauberberg e La rovina di Cascia) – e di film molto noti, insieme a personaggi e situazioni letterarie (Phlebas il fenicio, etc.) e altri rimandi a prodotti così diffusi da risultare quasi proverbiali della sfera culturale dell’Occidente. Le modalità compositive di CC sembrano testimoniare
dunque un lavoro di selezione, conservazione e trasmissione della memoria
letteraria e culturale, di cui ci si sente o ci si nomina eredi; e di tale memoria
sembrerebbe far parte anche il corpus magrelliano, fatto oggetto, così come,
mettiamo, quello di Nabokov o di Valéry, di prelievo, ripresa, rifunzionalizzazione. L’ipotesi trova una conferma, e insieme denuncia la necessità di una
correzione, quando la si proietta sul piano tematico. Infatti l’asse portante del
libro, o il suo colonnato, è tematicamente proprio la memoria, intesa come
memoria personale e genetica dell’io che in queste pagine compare come
soggetto parlante, e sembra non allargare il cerchio del suo discorrere molto
al di là del proprio corpo. CC si offre quindi come un vasto «referto» (p. 3),
come una lunga e accurata “autoanamnesi” dell’io (del “Valerio Magrelli”
che in ET aveva intitolato due prose con anagrammi del suo nome). Il lessico e l’immaginario clinici, già molto tipici di Magrelli almeno da ET, qui si
estendono e si ramificano fino a formare una specie di ragnatela cognitiva
che intercetta e allinea i fenomeni, o un preparato di contrasto che permette
allo sguardo dell’io rammemorante-indagatore di individuare le continuità e
di comporre le figure.
O almeno questo sembra essere l’auspicio dell’autore; perché la disposizione del quadro si rivelerà paradossale o addirittura impossibile. «Il mio
passato è una malattia contratta nell’infanzia. Perciò ho deciso di capire
come». Così prende inizio il libro, e in questo inizio una cornice interpretativa si profila e nello stesso tempo va in frantumi. Leggiamo:
Il mio passato è una malattia contratta nell’infanzia. Perciò ho deciso di capire come. Questo referto, dunque, non vuole essere un teatro anatomico, piut-
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Il mio corpo estraneo
tosto un susseguirsi di fotogrammi, dove quello che conta è il flusso dell’immagine, il corpo sgusciante che vibra sotto di me, la sua forma mutante tra le
forme: vasi sanguigni, conchiglie di molluschi, cellette d’api, snodi autostradali, pelvi di uccelli, cristalli e filettature aerodinamiche. Non c’è trama, ma trauma: un esercizio di patopatia. Non c’è teoria, ma racconto di piccole catastrofi,
giocate dentro gli spazi interstellari della carne (p. 3).
È sempre a partire da qui/adesso che l’io ha un passato, un presente-passato ritenuto dalla coscienza. Il passato è stato tradizionalmente pensato
come un’affezione della coscienza presente a sé stessa. Ma se il passato è
una malattia, questa affezione prende una sfumatura patologica, e rischia
sempre di alterare l’equilibrio della coscienza, che deve per di più temere
l’agguato della recidiva, che la faccia cadere fuori di sé, offuscando la sua
facoltà ordinatrice, tessitrice del tempo. Cosa può fare allora l’io, se non
cercare di «capire come» la malattia, cioè il proprio passato, è stata contratta, ovvero si è a un certo punto innestata (ma da dove?) nel proprio, nel
mio? Il che equivale a chiedere: quando ho acquisito, o mi si è impiantata,
la facoltà di avere un passato, che nello stesso tempo è la condizione per esserne espropriato? E l’innesto è avvenuto nell’infanzia, nell’età senza linguaggio; si può pensare che il linguaggio stesso sia la malattia, e che il referto riguarderà le modalità di trasmissione e gli sviluppi della malattia
linguistica, come infezione che si diffonde in un corpo e lo trasforma. Per
stare dietro alla metamorfosi del corpo, «forma mutante tra le forme», Magrelli istituisce una sorta di moto continuo, un’oscillazione inarrestabile tra
i campi semantici che via via mette in gioco, oscillazione segnata, dal punto di vista stilistico, dall’attivazione di una forte e persistente metaforicità.
I fenomeni squadernati vengono tutti ordinati sul filo dell’analogia. «Vasi
sanguigni, conchiglie di molluschi, cellette d’api»: qui il lampo della somiglianza è fatto scattare dall’immagine della cavità, che fa da ponte tra i diversi domini a cui le tre immagini appartengono; le «cellette d’api», cave
sì ma anche numerose e rigorosamente organizzate, legano il terzetto di
metafore a ciò che lo segue – snodi, pelvi, cristalli, filettature – grazie alla
fibra della complessità. L’avvio della ricerca coincide con la partenza per
un grand tour – o linea di fuga – tra i regni, organico e inorganico, naturale e tecnico, umano e animale. «Come reagisce il nostro sistema mentale
alle trasformazioni del suo supporto?», si chiede Magrelli; e in questa domanda c’è ancora, forse, una traccia dell’io fenomenologico, della coscienza pura come risultato della riduzione trascendentale, sovranamente installata in OSR e poi con fatica e dolore aperta e “situata” sempre di più nelle
opere successive. Qui forse tale coscienza agisce sotto il travestimento del
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«sistema mentale» rapportato ma anche separato dal suo supporto corporeo: è come se la mente potesse guardare le trasformazioni da un punto di
vista staccato e privilegiato. Assieme all’asse della contiguità e del passaggio orizzontale, dunque, funziona in questo pezzo ancora l’asse topologico
sopra/sotto: è vero, si precisa che non si vuole ottenere un theatrum, lo spazio della visione totale e circolare, il «cielo del cervello», con l’immagine
di Emily Dickinson che Magrelli aveva usato in OSR; ed è vero che lo spettacolo è formato da immagini discontinue e artificiali («fotogrammi»),
però il corpo continua a sgusciare e a vibrare sotto di me:
cavalco un’onda che si disfa sotto di me, e disfacendosi mi sospinge. Cavalco l’avanzare di una cresta che si srotola sempre un po’ più in là. Cavalco la spinta che
è carne. Si creano rughe e pieghe. Faccio surf cellulare. Io non elencherò tutti i
miei mali, peraltro trascurabili, ma solo quelli in cui si distingue meglio la natura metamorfica dell’organismo. Si vede bene la spuma dell’onda, e, per un attimo almeno, il raggio che batte sul dorso teso dell’acqua sembra coincidere con il
suo vettore. Sono tableaux vivants e insieme grafici. Perché l’ho fatto? «Per scoprire se per caso sono un mostro molto più complicato di Tisifone» (pp. 3-4).
Lo sguardo (il «raggio») e il movimento (il «vettore») si sovrappongono
e per un istante coincidono: sembra che la scrittura messa in atto da Magrelli voglia assumersi l’onere (immenso, a dire il vero) di tenere insieme
l’incessante trasformazione materico-biologica, tramite gli incatenamenti
metaforici, e la luce (che nella tradizione occidentale è difficile pensare separata da una screziatura in vari sensi spirituale) dello sguardo. Il richiamo
ai tableaux vivants condensa in una formula o in un emblema l’intenzione
descritta: fare un quadro (con la regia e la chirurgia necessarie: il quadro è
anche un «grafico» e un ritaglio) in cui la vita non sia costretta, ma continui a proliferare liberamente. Qui interviene, discretamente, un’altra mossa difficilmente descrivibile in modo univoco. Alla domanda cruciale, e
personale quanto altre mai, sul motivo per cui l’io ha messo in moto questa
complicata operazione, Magrelli risponde con una citazione, con le parole
di un altro; e la frase di Platone sulla mostruosità, qualcosa di ammirevole
e terribile perché fuori dalla norma – qui uno dei fuori-norma per eccellenza come il Mito, richiamato dal nome di Tisifone – costituisce il primo dei
molti innesti o impianti testuali con cui l’autore cercherà di regolare la mostruosità ma non potrà impedirsi di alimentarla contemporaneamente. Anche in V il primo innesto citazionale sta nel brano d’apertura (stavolta è una
formula di David Grossman), che insieme a notevoli differenze contestuali e anche stilistiche mostra forti affinità e analogie con l’avvio di CC:
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Il mio corpo estraneo
Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e
solo in vista di qualcos’altro. Il suo scopo, cioè, risiede altrove: l’unico a fare
eccezione, è il personale viaggiante. La nostra vita pullula di queste attività
strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di altro. Possono essere atroci come la
burocrazia e la malattia (intesa come «burocrazia del corpo»), oppure neutre,
come appunto il viaggio. Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita (p. 3).
Molti elementi tornano: la malattia come processo che ci spossessa (così
come il passato-malattia ci invade, ci altera e non è nostro), la semantica del
movimento, del vettore e del veicolo, il distacco tra me e me. E come il treno porta via o porta lontano, così il corpo, quest’altro veicolo, è tutto un andarsene, un separarsi da sé. Non c’è traccia, tuttavia, dell’esuberante tecnica
metaforica di CC, e il tono sembra decisamente più scorato e disilluso.
Per comprendere cosa sia accaduto tra un’opera e l’altra dobbiamo continuare la lettura di CC. Dopo aver enunciato la tesi e operato il primo impianto testuale, il libro arriva a “descrivere” le vicissitudini medico-sanitarie del piccolo “io”, e lo fa riepilogando la posa di «innumerevoli protesi»,
altro nome per l’impianto. La prima protesi, la protesi originaria sono gli
occhiali, dispositivo tecnico di correzione che permetterà un giusta messa
a fuoco del campo visivo. Nel secondo capitolo, intitolato con inversione e
bisticcio linguistico Exfanzia; contrapponendo il prefisso ex- all’in- su cui
il libro si era aperto (per dire che si è fuori dall’infanzia quando il primo innesto è effettuato, ma anche che il dentro e il fuori sono inestricabili e non
si può tracciare un confine rigido a separarli), gli occhiali vengono descritti come «ricetrasmittente d’infezione», come macchinario e canale a doppio senso tramite il quale ci si sintonizza con il mondo e si è pronti ad interagire con esso, ovvero a contrarre e diffondere malattie: «perché fu il
guasto la mia vera guida, lo psicopompo, la voce fuori campo» (p. 5). E gli
occhiali da prova che l’oculista lascia sul viso del bambino conferiscono a
costui l’aspetto di un ibrido mostruoso che lega perfettamente con la citazione platonica del primo capitolo. Il procedimento analogico si occupa di
attenuare i confini tra la materia inerte e manipolata degli occhiali («cerchi
tarati e pesanti») e il dominio dell’organico, sfruttando l’anfibologia del
termine “antenne” (qui in uso catacretico) per fare del congegno una «creaturina ciliata» munita di «flagelli». Gli occhiali vengono così incorporati
e sentiti inseparabilmente come un oggetto e come un organo, come una
cura e come un fattore di deformità; il «senso di nauseante enucleazione»
provato in quel giorno lontano resterà sempre come marchio più proprio
dell’identità dell’io. A questo punto, una volta rovesciato l’io-corpo fuori
Autointerventi
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di sé senza però produrre lacerazione, trasformatolo in una membrana organico-macchinica, «i programmi potevano avere inizio» (p. 6).
Tutti i disturbi e le malattie elencati nei capitoli che seguono hanno come
filo conduttore disarticolazioni, svuotamenti, tumefazioni del corpo, crescita
di entità estranee sui suoi limiti e nel suo interno, difficili equilibri, nuove affezioni prodotte dagli espedienti per curare le vecchie. Le prose si combinano su criteri di ripresa, contiguità e somiglianza, secondo una specie di montaggio delle attrazioni; e anche nei limiti del pezzo singolo l’organizzazione
è affidata, più che alla sintassi – prevalentemente paratattica – o a uno sviluppo strutturato – abbondano anzi nessi logico-causali usati in maniera incongrua, vedi ad es. il «perché» dell’incipit del secondo capitolo6 – allo scorrere
e combinarsi delle immagini. Un breve regesto di questi temi-organi: gli occhi, le orecchie, la pelle, i piedi, le reni; cerume, eritemi, calcoli, verruche.
Nel corso di questa proiezione alcuni termini dalla semantica polivalente
sono sfruttati per collegare il corpo a ciò che sta fuori di esso, su varie scale
dimensionali: abbiamo già incontrato «gli spazi interstellari della carne», e
aggiungo almeno l’immagine della circolazione, nei cerchi di risonanza della quale trovano posto il traffico automobilistico e il percorso del sangue, i
viaggi e i circuiti elettrici. Va osservato che in questa maniera l’io viene sì
esautorato ed esonerato di parti sempre più consistenti del suo corpo, fino a
non sapere più dove si trova la sua residenza, se non nel movimento di entrata/uscita da “sé”, e che il corpo non più proprio appare assemblato con elementi indifferentemente vegetali, minerali, tecnici, in una sorta di laboratorio
del dottor Frankenstein, ma che d’altro lato lo stesso procedimento concorre
a reintegrare i “pezzi”, i frantumi eterogenei che ha prodotto in un unico corpo cosmico tenuto assieme dai campi magnetici delle analogie. L’unità e l’identità, smarrite a livello personale, resterebbero comunque garantite su un
piano superiore, e difficilmente percepibile. E allora sarebbe giusto la lingua
a restituirlo ai nostri sensi, questo piano, contribuendo col suo incanto e con
le sue legature magiche a mantenerci in contatto con esso. Le «parole-trattino» che Magrelli usa massicciamente a cominciare da ET sono un esempio
splendido del pendolarismo inarrestabile, della perplessità profonda di cui si
parla. E dato che la poesia di ET in cui questo genere di formazioni lessicali
6
Il secondo capitolo, intitolato Exfanzia, comincia così: «Perchè fu il guasto la mia
vera guida, lo psicopompo, la voce fuori campo» (p. 5). Va detto però che la vaghezza del nesso logico-causale si attenua se si legge questo incipit come direttamente collegato all’explicit del capitolo precedente, che cito di nuovo: «Perchè
l'ho fatto? “Per scoprire se per caso sono un mostro molto più complicato e fumigante di Tisifone”» (p. 4).
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Il mio corpo estraneo
è tematizzata viene citata – unico caso – sia in CC che in V, è il caso di insistere un po’ sulla questione, e dire di più delle modalità con cui Magrelli cita
sé stesso. Leggiamo Treno-cometa (il titolo è precisamente una parola-trattino), includendo le righe di una sentenza civile messe in esergo (p. 286):
Assumeva l’attore, a fondamento della domanda, che a seguito del passaggio di un treno merci si era sprigionato un incendio, il quale, dalla sede ferroviaria, si era diffuso alla confinante proprietà di esso attore, distruggendo le
culture ivi esistenti. Aggiungeva che l’incendio era stato determinato da un vagone del treno dai cui freni, rimasti bloccati malgrado il movimento del convoglio, si erano sprigionati fasci di scintille. Dalla allegata relazione di officina si
desume che, a causa dell’inceppamento del freno per ostruzione delle condutture dovuta a impurità dell’olio, i ceppi e i cerchioni del carrello erano fortemente arrossati per il surriscaldamento, ed il sottocassa, bruciato.
(sentenza n. 6286/87 del Tribunale Civile di Roma)
Treno-cometa
fiammifero stregato, ferro
sfregato contro le rotaie,
freno tirato e attrito,
treno-freno che strazia
e stride nella notte.
Venivo avanti con le ruote bloccate
le vertebre contratte
le parole-trattino
e dal mio sforzo veniva
un calore e un colore
e un odore di carne strinata:
scintille, una pioggia di lingue
focaie nella notte.
Ah vagoni frenati, ah parole-trattino
io fricativo, ritratto dell’attrito.
Si tratta di una delle poesie più importanti della silloge, in cui l’«io fricativo» sale sulla ribalta e prende il posto lasciato vacante dall’olimpico soggetto contemplatore (una versione di poco diminuita del cosmotheoròs) via
via sfaldatosi a partire da OSR. L’io è qui prodotto dallo sfregamento delle
sue vertebre contratte, subito avvicinate alle ruote bloccate del treno di cui si
dà conto nello stralcio di sentenza civile sulla soglia del testo.7 Il cigolio e lo
7
Il lungo passaggio in esergo, di misura superiore a quella del testo stesso e per di
più appartenente ad una “letteratura” così distante dalla poesia come quella giudiziaria, produce ovviamente un urto e uno squilibrio (un altro attrito, si potrebbe
dire). Anche in questo caso però si possono trovare dei fluidi per oliare la macchi-
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sferragliamento dei nessi consonantici di cui la poesia è sostanziata raggiunge il culmine nel processo paranagrammatico che lega «attrito» e «trattino»
intorno al «ritratto», l’io che può costruirsi solo come immagine di questo
avanzare bloccato del treno-spina dorsale che provoca incendi sul territoriocorpo. Il capitolo trentaquattresimo di CC riprende i versi 7-9 del testo all’interno di un paragrafo multistrato che bisogna citare:
Guardiamo allora alla discopatia. Breton su Picasso: tutto in lui è fisiologico, anche il modo di mettere in pila i pacchetti di sigarette per dare loro la forma di una colonna vertebrale. Sono questi pacchetti a farmi male, due specialmente. Il dolore, però, non proviene da un difetto interno, bensì dalla loro
errata collocazione. È un male della distanza, per così dire, anzi, dell’eccessiva
prossimità. L’attrito tra due giunti che si toccano, e il treno che si inceppa:
Venivo avanti con le ruote bloccate
le vertebre contratte
le parole-trattino
Se penso alla ferrovia, è perché più tardi, come fossi un convoglio, fui spedito nel tunnel della Tac […] (pp. 71-72).
Sembra del tutto evidente che l’autore, parlando del suo mal di schiena, riproponga come suggello del paragrafo alcuni suoi versi composti a partire
dalla stessa occasione; sembra non esserci altro, qui, che la pacifica riconferma di un’intentio auctoris. Ma più di un motivo deve indurci a fare attenzione. È senz’altro vero che l’autocitazione obbedisce a un criterio di contestualizzazione, ossia che riduce la vaghezza, l’indeterminatezza del dettato
originale di Treno-cometa disambiguando alcuni punti che lì restavano oscuri, e anche per questo suggestivi, e riportando la base, l’origine di quella poesia ad un evento preciso e ben fissato dell’esistenza dell’autore. Ho mal di
schiena, da qui parto per farne una poesia. Ma due o tre fattori contrastano
subito questa istanza memoriale e per così dire “autobiografico-realista”.
L’argomento della «discopatia» è avvicinato e insieme procrastinato dal transito per un riferimento culturale (una citazione senza virgolette) che contiene
na ibrida. In Sopralluoghi (il dvd è uscito da Fazi nel 2007), il filmato in cui Magrelli legge e commenta alcune sue poesie in “cornici” da lui individuate nella città di Roma, l’autore afferma di essere stato colpito dal «tono commosso» e dalla
potenza immaginifica della prosa legale (i “fasci” di scintille che si “sprigionano”,
la forza laconica del “bruciato” di chiusura) e la legge alternando la cadenza acciaccata e strascicata a impennate di solennità.
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Il mio corpo estraneo
una comparazione fra i pacchetti di sigarette di Picasso e le vertebre di una
colonna; al momento di dichiarare il dolore è in «questi pacchetti» picassianbretoniani che esso viene localizzato. Si è cioè già spostato nella zona di indiscernibilità fra dentro e fuori, corporeo ed extracorporeo, e si è installato in
un regime misto di parola propria e parola altrui, denunciata come altrui ma
scritta come propria. La spina estratta in modo non cruento dalla schiena è
reinserita nel circuito metaforico, e per questo può diventare un treno, con le
vertebre a fare da vagoni; ma poche righe più in basso la composizione della
figura si è ancora trasformata, ed è il corpo intero a entrare, come un treno appunto, nella galleria della Tac. Insomma se questo autoimpianto deve servire
a reinserire in un contesto, per dare cenni interpretativi, un frammento di
scrittura più vecchia, nel caso di CC è proprio il contesto, il quadro di inserimento che vede offuscarsi e sfaldarsi i suoi confini. Dunque riportare il prescritto al proprio corpo, come fa Magrelli in CC, significa non reimpossessarsene e poterlo utilizzare, mettere a frutto in qualche modo, ma al contrario
esporlo a quel movimento di continuo esproprio che definitivamente lo sottrarrà a chi lo ha scritto. Il fenomeno è molto palese per due versi di OSR riportati nel cinquantesimo capitolo di CC:
(Forse per questo continuo a guardare affascinato il modo di accosciarsi dei
bambini, come se invece delle rotule avessero un giunto basculante, o una vite
infinita. La potenzialità del loro destino sembra infinita, al pari delle angolature consentite ai menischi):
…e cieco e fermo
nella gamba riposa il ginocchio.
Riposa, per modo di dire. Il mio balla e traballa, e cigola la carrucola nel
pozzo della carne (p. 105).
In questo caso il rovesciamento è netto; il dettato della raccolta d’esordio viene apertamente contraddetto, e alla stasi sostituito il movimento (si noti inoltre
la nuova ricorrenza della citazione non virgolettata, qui perché notissima: ma
quel che conta è che, esattamente come nel brano citato in precedenza, il corporeo subisce un passaggio attraverso la memoria culturale e la parola di un altro).
Il testo ospite non potrà operare alcuna ortopedia sul frammento “in ingresso”, né potrà usarlo come rattoppo o pezza d’appoggio; al contrario,
entrambi si apriranno lungo linee che si possono ben dire di fuga o di deterritorializzazione. Ma, ripeto, l’impressione è che queste linee fermino a
un certo punto la loro corsa e si avvolgano in grandi ritornelli territoriali.
Torniamo alla parola-trattino: indice di distanza ma anche di legamento e
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articolazione, il trattino in cui metonimicamente la parola o meglio le parole si condensano ha la funzione di vincolare senza fondere campioni provenienti da aree semantiche diverse, trovando il modo di metterle in risonanza, di far balenare tra di loro una specie di somiglianza nascosta. Un
significativo specimine è al capitolo trentaduesimo:
Basta guardare l’ombelico. All’inizio, un cavetto per il feto orbitante nello
spazio celeste-materno, etereo-utereo. Alla fine, un nodino frettoloso, per ricordarci che siamo palloncini soffiati via, di quelli sagomabili, da fiera (p. 67).
I trattini sono gli assi su cui ruotano i cardini di una doppia porta che deve
segnalare la comunicazione tra entità distanti, e i due composti lessicali fanno da sostegno, da piano d’appoggio ai volteggi analogici del brano, che mescolano immaginario astrospaziale a fantasie di avvolgimento intrauterino. Il
modello concettuale sotteso a queste “simpatie”, suggerite in un caso da una
somiglianza fonica che sfiora la paronomasia è, credo, quello della concordia discors, che identifica al limite (al limite del sistema dei sistemi di analogie) i contrari, e permette di pensare che le profondità della Madre siano anche la volta celeste, che il Fuori assoluto sia anche un altrettanto assoluto
raccoglimento, che le acque materne siano anche l’etere, la materia impalpabile che si pensava riempisse lo spazio. La brusca riduzione della sfera «etereo-uterea» nel «palloncino» sagomabile dell’io non è incompatibile con una
strategia di camuffamento e miniaturizzazione di materiali mitologici; basti
pensare alla teoria del corpo umano come involucro in cui viene soffiata una
piccola porzione d’anima, di spirito, in esilio nella carne e nel mondo fino
che non confluirà di nuovo nel Grande Soffio. Il problema, allora, è capire il
motivo di una simile riattivazione di materiali mitologici, e più ancora individuare le linee di percorrenza dell’attraversamento magrelliano. Se ci sono
pochi dubbi che si abbia a che fare con un reincantamento (la parola letteraria effettua un sortilegio sui fenomeni tessendoli in una ghirlanda), è necessario comprendere a cosa conduce tale ritorno al carmen, se si attesti definitivamente sul piano, tutto sommato poco più che decorativo, di un
alessandrinismo sciamanico o se non riveli altre potenzialità.
Lo si può fare analizzando, prima di abbandonare CC, due testi molto diversi e però a mio avviso uniti da un richiamo, e arrivando così a uno dei profili più importanti del libro, che mettendo al centro l’agglomerato tematico
della trasmissione e della memoria non poteva non arrivare a trattare la figura insieme reale e simbolica della paternità. Il capitolo quarantacinquesimo è
dedicato, tra tutti gli scompensi e le fratture che toccano il corpo, ai fastidi di
un’unghia del piede destro che va incontro a trasformazioni dolorose e biz-
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Il mio corpo estraneo
zarre. Tutta questa vicenda, scrive Magrelli (e la sua dichiarazione si salda a
una catena che ho già messo in luce parlando delle vertebre-pacchetto)
in qualche modo, devo ammetterlo, fui io stesso a provocarla. Infatti, anni prima, avevo accettato di tradurre una lirica francese che recitava:
Unghia piena di tutte le virtù
unghia vestita solo
di un minuscolo guanto delicato.
Unghia, non unghia, no,
ma cristallo sottile che l’amante
stima più del diamante.
Unghia lucente e invisibile, aggiungeva il poeta, specchio in cui rimirarsi,
unghia limata, unghia deliziosa, continuava, unghia capolavoro di natura. Con
i suoi versi ossequiosi e prevedibili, L’ongle andava bene per i titoli di testa del
racconto, ma il seguito fu molto differente. Altro che dolce gioia dell’amata,
fonte di gloria, onice di grazia. Il fatto è che la mia iniziò a cambiare aspetto irreversibilmente, unghia mannara che si deforma e stacca ma non cade, solo
scolora, si stria, si torce, gira. Adesso, per un beffardo contrappasso, al posto di
quella porzione cristallina porto una torcia marmorizzata, un lapislazzulo foggiato da qualche ignoto maestro cosmatesco. (Fra i casi precedenti, ritengo necessario segnalare non tanto le dita chiuse nelle portiere di innumerevoli automobili, bensì la sera estiva in cui, correndo verso il mare, inciampai in una
pietra, e quella stessa unghia si spaccò di netto. Passai una notte insonne, provando a leggere ma senza mai riuscirci, perché l’intera forza del pensiero veniva risucchiata da quell’unico punto fluorescente di dolore. Intorno al suo nero
pulsar si organizzavano il mio sangue e le mie cartilagini, la mia attenzione, le
mie bestemmie, tutto. Al centro dell’universo stavo io, al mio centro, il mio
dito, e al suo centro, un puro gorgo di antimateria che lanciava segnali indecifrabili con l’alfabeto di una lingua morta) (pp. 95-96).8
A seguire la logica sconcertante di questo racconto, appena camuffata da
striature di colorante logico-argomentativo (l’«infatti» della seconda frase), si deve dire che la patologia dell’unghia è stata causata dalla traduzione di un testo all’unghia dedicato (vedi come questo testo venga impiantato qui in duplice modalità: citazione letterale dei versi e parafrasi in prosa;
da notare inoltre che si tratta di una traslazione al quadrato, visto che il testo annesso deriva già dal trasporto in una lingua diversa da quella in cui fu
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L’ongle, del poeta rinascimentale francese Gilles D’Aurigny, era uscita, nella traduzione di Magrelli, in Lodi del corpo femminile. Poeti francesi del Cinquecento
tradotti da poeti italiani, con una introduzione di G. Raboni e una nota di A. Principato, Milano, Mondadori, 1984. L’opera è stata ristampata nel 2013 da SE.
Autointerventi
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scritto l’originale), per l’effetto di una specie di magia cattiva: si passa
dall’incantamento alla stregoneria. L’unico elemento del testo trapiantato
che gode della citazione in lingua originale è il titolo, L’ongle, e bisognerà
ricordarsene. La scena successiva, la notte insonne passata ad ascoltare la
lingua morta e incomprensibile del dolore provocato dalla rottura dell’«unghia mannara», dell’unghia mutante, presenta la dinamica a cui ormai siamo abituati: un movimento in apparenza centripeto e autoreferenziale che
conduce però ad un centro, ad un nucleo, che al sé è completamente estraneo (ovvio richiamare l’extimité lacaniana). Prima di riaprire il quadro così
tratteggiato (che potrebbe essere facilmente e non ingiustamente, tutto
sommato, tacciato di ossessivo iperindividualismo e di totale mancanza di
senso del mondo, se appunto lo si potesse pacificamente limitare) collegando un altro brano a questo, vediamo come il capitolo prosegue, concentrandosi sui medici e sulle diagnosi formulate a proposito dell’unghia:
Quanto ai responsi, risultarono alquanto inattendibili. Un primo gruppo di terapeuti puntò su cause meccaniche. E fu la volta di analisi radiologiche, ricerca
di matrici sotto stress, questione di posture e traumi. La grande maggioranza,
tuttavia, si concentrò su funghi e infezioni. Necessità di controlli a largo spettro,
creme per mesi e mesi, con contagocce, pennelli, carte vetrate. Facevo bricolage di me steso, ma senza risultati. Giunge una nuova proposta: dopo aver dato la
vernice notturna, il dito andava incartato con il domopack. Feci anche questo, e
prima di addormentarmi pregavo di non morire durante il sonno. Pensavo infatti che, nella disgraziata eventualità del rinvenimento, una pratica simile avrebbe
suggerito la presenza di oscuri riti iniziatici (un morto con l’alluce sinistro allusivamente fasciato, magari in direzione dell’Oriente, come il seguace di un ungulato Anubi). Un caso a sé fu l’incontro con un medico umanista, esperto di argot, studioso di esoterismo. Sagaci giochi di parole, e l’unghia sempre a pezzi.
Poi uno calvo, più schietto, e con una vera vocazione bibliografica. Almeno parla chiaro. Prende dagli scaffali un’enciclopedia intitolata L’unghia, siede vicino
a me e comincia a sfogliare. In una specie di confronto all’americana, mi invita
a riconoscere il colpevole tra cento altri sospetti. E pagina dopo pagina, volume
dopo volume, scorrevano le unghie più rovinate del pianeta, una sterminata galleria di cheratine capaci di ogni forma immaginabile. Pietre preziose, a modo
loro, in un lapidario che spaziava su colori di ogni genere. Distrofia idiopatica,
concluse, o meglio, onicosi inesplicata. Trovo inoltre, su vecchi appunti, l’espressione «sindrome di half and half». Sarà un mio delirio o un termine tecnico? A ogni buon conto, scelgo qui di trascriverla (pp. 96-97).
Il libro-referto comincia a parlare dei referti sul corpo che gli ha dato origine, e si mette en abyme: il breve catalogo dei medici vale come rubrica degli
atteggiamenti di Magrelli medico di sé stesso che nel libro passa in rassegna
ogni possibile patologia comportante trasformazione. Se la «vera vocazione
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Il mio corpo estraneo
bibliografica» del compulsatore d’enciclopedie rimanda al complesso tessuto
culturale su cui Magrelli sempre costruisce le sue opere, l’umanista esoterico
esperto di argot può essere la controfigura umoristica del côté magico attivo,
come si è visto, nella scrittura di CC: i «sagaci giochi di parole» e lo sfruttamento del linguaggio fino alle sue più profonde riserve semantiche ricordano
da vicino le liaisons lessicali (fra cui anche le parole-trattino) intese a generare i campi magnetici di senso di cui si è parlato. «E l’unghia sempre a pezzi»:
lo sciamano moderno è privo di poteri. L’unica diagnosi, espressa nell’astrusa terminologia clinica, accerta che la malattia non ha cause accertabili, che è
assolutamente peculiare del soggetto portatore. Né l’enciclopedia né la simpatia universale o signatura rerum hanno da dire alcunché di utile in proposito,
se non appunto una formula (più o meno magica) che a malapena copre il loro
fallimento. E la refrattarietà della patologia all’analisi viene affiancata dall’enigmaticità di un frammento di scrittura “propria” in cui non ci si può riconoscere affatto, che, in tutta la sua opacità, non viene nemmeno più citato, ma
soltanto, e «ad ogni buon conto», trascritto.
Capo
Allora si dovrà rinunciare a una spiegazione, il linguaggio della malattia
resterà del tutto estraneo, impossibile da decifrare o almeno da attribuire a un
complesso di cause? La risposta si trova nel capitolo conclusivo di CC, forse
il più difficile, intricato e bello del libro (dove l’agudeza magrelliana raggiunge il suo culmine e con ciò anche l’inizio del suo tramonto, o trasformazione), dove finalmente nella costellazione linguistico-corporea assume
esplicitamente tutta la sua importanza, come anticipato, il tema della paternità (e della storia). Infanzia di un padre – questo il titolo – allinea ad un inizio
analogo a quelli che si sono già illustrati uno sviluppo inaspettato. Si comincia sempre con una malattia infantile, subito messa in risonanza con l’area
semantica della germinazione e della fruttificazione, con le già viste dinamiche di causazione paradossale: il «vento d’aprile» fa spuntare sul viso del
bambino «lievi semescenze esantematiche», come se diffondesse semi nel
corpo-orto. Al paragrafo incipitario segue un pezzo in corsivo (in questo caso
anche fra parentesi), secondo un’alternanza che si riscontra solo qui (Infanzia di un padre è composta da due tondi e due corsivi incrociati) in cui la metaforica della frutta, variamente declinata, si associa a quella dell’onda, riportando così la memoria alla prosa con cui il libro aveva avuto inizio. Leggiamo
per renderci conto dell’ammirevole costruzione della fibra del brano:
Autointerventi
31
(Frutta in conserva, vertebre che si incollano come prugne nel vaso della
dispensa, zuccheri animali, cartilagini lente e pesche sciroppate nel loro sugo.
Mi frollo, mi spezio, mi trasformo. Con un lunghissimo brivido, miliardi di cellule si vanno succedendo, onda su onda, mutando il materiale di cui sono composto. Ma tutto così gradualmente, ma tutto così dolcemente, da conservare
pressoché immutata l’ansa che via via colmano di sé. Io stesso, dunque, costituisco il medesimo testo di tanti anni fa, ma nutrito di lettere nuove, di sillabe
alterate. Sono un esercito nel vivo della battaglia, dove i rincalzi subentrano a
chi cade, o un abito rattoppato con la sua stessa stoffa, un rammendo visibile,
un telaio di carne, «molecole su e giù come una spola») (p. 117).
Il flusso immaginale in cui la parola sembra disciogliere il corpo, con
una specie di attività alchemica, qui è costruito su un criterio di molteplice
intreccio che seguo brevemente. Il corpo è dapprima frutta in conserva,
ascritto dunque al campo vegetale e alimentare (nella conserva è presupposto anche un intervento tecnico umano), poi diventa vertebre che si incollano (figura che torna spesso in Magrelli, come si è visto e si vedrà ancora,
tanto da fare da modello alle parole-trattino), mantenute agganciate alla
frutta dal “come” e dalla comparazione; i due poli coinvolti (vegetale-animale) sono poi mescolati nella figura di sintesi «zuccheri animali», e infine nuovamente separati e tenuti agganciati nella doppia immagine suturata
dalla comparazione. Dopo questo tour de force, dove l’evidenza della costruzione, sottolineata dalla simmetria delle partizioni, sta a testimoniare
l’artificio, il carattere tecnico e non “naturale” del composto, il discorso si
sposta bruscamente, tornando al carattere tondo («Ma basta») e utilizzando
un’altra malattia per narrare un soggiorno terapeutico al Gran Sasso d’Italia, che diventerà il proscenio di un vero dramma psichico e non solo. L’io
racconta di aver alloggiato, giunto in quel «rustico Zauberberg […] fuori
mano e sconsolato e brullo», nello stesso albergo «da cui venne rapito un
Mussolini imbelle, patetico fantoccio» (p. 118). Il richiamo a Thomas
Mann è subito doppiato dal riferimento a Goya, e queste due citazioni incastonano l’immagine del volto del duce, «il volto emaciato, la debolezza
fintamente altera di quel tiranno ridotto a prestanome». E l’«ombra del
Duce» si ritrova subito dopo, «almeno nel nome», quando l’autore racconta delle lunghe partite a «calcio balilla» che faceva al ritorno dalle «escursioni familiari nel vuoto». Ma non basta:
Rimbomba la pallina, ticchetta per i corridoi deserti che videro il raid tedesco, cade, finisce sotto armadi polverosi. Ma io, starò guarendo? Poi, molto
tempo dopo, la lettura di una notizia che mi turbò: nel cuore di quella medesima montagna, l’installazione di un laboratorio nucleare. E tre. Come legare,
adesso, la scoperta del gioco, Mussolini, e l’auscultazione dei quark? C’è forse
32
Il mio corpo estraneo
un biliardino di particelle elementari nascosto sottoterra? Oppure i calciatori di
plastica pesante, rossa e blu, equamente infilzati nelle lance d’acciaio, si disputano la testa del Puzzone – all’uso azteco, dico? Riti sacrificali, iniziazioni, la
morte e la rinascita del cosmo. Oppure: La rovina di Cascia. Un Theatrum
mundi casareccio, appenninico. E ancora, il Kurt di Apocalypse Now che sbuca
nella Maiella come un re-sacerdote destinato al macello (e lui stesso, del resto,
non commerciava avorio, e dunque, lui calvo, palle da biliardo?) Eccolo, è un
Marlon Brando molisano che mima il Ramo d’oro […] (pp. 118-119).
Dopo aver mostrato la tecnica nel prodotto finito, Magrelli apre l’officina e ammette il lettore nel processo generativo del suo testo: gli attrezzi e
gli ingranaggi. Qui infatti il resoconto verte sulla ricerca e sulla confezione
delle analogie, sull’opera di sartoria o orchestrazione che porterà alla melodia avvolgente o al tessuto fine di metafore sulla pagina. Si formula la
domanda centrale: «come legare?», la si proietta su scala insieme cosmica,
microscopica e storica, la si riporta ad un’esigenza di comprensione e di
orientamento, e la si immerge in una sorta di brodo o pastiche di citazioni
di libri o film di argomento o temperatura mitico-sacrale (in un altro capitolo era stato menzionato anche Il mulino di Amleto), tutti però rapidamente abbassati dall’ambientazione della provincia centro-meridionale. Il sollevamento del velo sulla fabbrica rompe l’incanto (o vorrebbe) delle onde
analogiche e le fa intendere come messa in scena, artificio non cerimoniale ma euristico, tentativo di comprensione tramite uno strumento “radiofonico” particolarmente ricettivo: un cannocchiale aristotelico, se vogliamo
tornare al “primo impianto” di cui si parla nel capitolo secondo, che insegni attraverso la meraviglia.
Tralascio molti altri spunti di questo brano, che andrebbe minuziosamente commentato per intero, per insistere su un particolare. Perché deformare il titolo del best-seller mitostorico di Calasso (La rovina di Kash; ancora un libro su regicidio e ordine cosmico) in La rovina di Cascia? Lo si
scopre pochi righi più in basso, nel corso della seconda tranche in corsivo
del racconto-meditazione su Mussolini:
Altro che Sansone: la sua forza giaceva in quel cranio polare (potenza e
prepotenza volumetrica), quadridimensionale (altezza, lunghezza, larghezza,
dolcezza), magnetico – un bucranio capace di rassicurare le famiglie, mentre
dietro, pizzetti e manganelli. Le belve dei torturatori in camion. (A Cascia,
piazza Magrelli, lontano zio torturato. Oncle e Ongle strappata dalle dita. Infinita pietà del bambino che ne ascolta la morte) (p. 121).
Autointerventi
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La tortura del lontano parente ad opera delle «belve» fasciste è in grado di
inserire una piccola deformazione nell’ordito citazionistico, pur se a sua volta ne viene ripresa e coinvolta: il gioco tra «Ongle» e «Oncle» non può non
richiamare la sestina di Arnaut Lo ferm voler, e in più stabilisce un collegamento intratestuale con il capitolo quarantacinquesimo, dedicato all’unghia
martoriata dell’io accostata tramite la poesia L’ongle, il cui titolo francese è
citato esplicitamente. Dato che l’analogia, anche fonica, e anche molto sottile e lambiccata, costituisce senz’altro uno dei principi strutturanti di CC non
sarà troppo azzardato restituire qui la serie unghia-ongle-oncle-zio, e dire che
quel «puro gorgo d’antimateria», il fortissimo dolore che in XLV il soggetto
si ritrova al centro dell’alluce destro altro non è che il dolore provato da suo
zio sotto tortura. Ci tornerò tra poco; intanto riprendo l’immagine della testa
del Duce-palla da biliardo per mostrare, ancora una volta saltando molti passaggi, come Magrelli arrivi a dolersi che l’Italia, quella testa, non sia stata capace di farla rotolare, consumando così pienamente l’assassinio rituale del
Padre che nel racconto freudiano è il crimine rimosso che sta alla base della
civiltà (e nella fattispecie di CC si intende la civiltà moderna, le origini della
democrazia liberale):9
La scure inglese su Carlo primo, la ghigliottina su Luigi sedici, e in ultimo
noi. Ma pavidi, senza il coraggio di arrivare fino in fondo alla diminutio capitis. Un’esecuzione clandestina, tremebonda, pudica. Tortuosi e nevrastenici,
incapaci di iniziare dal capo, abbiamo concluso con la testa sull’asfalto. Senza toccarla, però, senza sporcarci le mani; solo le scarpe. Comunque, possiamo finalmente dirci europei, con buona pace dell’Italia fratricida di Umberto
Saba. Dopo Romolo e Remo, il Contra Tyrannos, e il nostro ingresso nella Cee,
il Mercato Unico del Padre Assassinato.
La pallina del calcio balilla, di spostamento in spostamento, è diventata
la testa del Duce, «il capo del capo». E forse in chiusura di libro si è arrivati a dare una concausa storica e insieme psichica a tutti i malanni e le alterazioni di cui si è fatto certosino censimento, e a reinserirli in modo credibile su uno scenario geopolitico, per giunta. Si può ora arrivare all’explicit
di CC, a una lettura distratta segnato da feroce privatismo, e in realtà molto più complesso:
9
Sull'uccisione e più ancora sul cadavere di Mussolini, e sulle vicissitudini di questo nella realtà e nell'immaginario, cfr. S. Luzzato, Il corpo del duce, Torino, Einaudi, 1998.
34
Il mio corpo estraneo
Non mi interessa la storia, ma i miei mali, le sue cristallizzazioni, i nostri
calcoli: la renella del sogno. Io ho trascorso l’infanzia insieme a un’ombra. Io
sono nato dopo un regicidio (p. 122).
Occorre prestare grande attenzione a come il terzetto di aggettivi possessivi attenui di molto la perentorietà della dichiarazione iniziale, probabilmente scelta da Magrelli, nella sua sempre ammirevole tecnica compositiva, per introdurre il termine “storia” nel primo membro di una frase
avversativa. Non la storia dunque ma i miei mali, (che sono) le sue (della
storia) cristallizzazioni. Nel capitolo introduttivo si trovava scritto che
«mentre con il termine “somatizzazione” si intende la maniera in cui il corpo risponde a una pressione interna, qui vorrei provare a parlare di “psichizzazione”, al modo in cui si magnetizza un oggetto» (p. 3): riunendo il
capo e la coda del libro (che per tutta la sua estensione è rimasto indeciso,
sospeso tra l’ipotesi di averli e quella di non averli, capo e coda, cioè limiti e ordine) si può dire ora che i mali forse sono storia (sempre un incubo,
dunque) cristallizzata attraverso il filtro della psiche. Ai “miei” mali e alle
“sue” cristallizzazioni si aggiungono infine, come sintesi, i “nostri” calcoli, dove il termine bivalente sta sia per i granuli calcarei che si formano nei
reni (di cui Magrelli parla lungamente), per quanto attiene al polo del corpo-io, sia per le macchinazioni, i progetti criminali del livello storico (che
vengono nominati apertamente molto meno). La «renella del sogno» è dunque il depositato dell’interminabile incubo della storia nei meandri della
mente-corpo. La malattia contratta nell’infanzia (cioè il linguaggio e la capacità di avere un passato), questo parassita e questo invasore, fa sì che nello spazio più intimo si installi, come un corpo estraneo, la fitta lancinante
degli accadimenti storici, degli eventi e dei meccanismi socio-politici. Mi
fa male mio zio torturato, mi fa male Mussolini ucciso quasi nascondendosi, mi fa male l’Italia. Psico(fisio)storia.
Mostro
In DID Magrelli aveva tentato un rapporto relativamente più diretto con
la sfera sociale e con l’ambito collettivo, utilizzando la griglia tipografica
del quotidiano come sonda e insieme come protezione nei confronti dell’attualità, avvicinandosi ad essa ma anche dividendola e versandola nelle rubriche e nelle pagine del giornale, da cui ciascun pezzo della silloge prende il titolo. Si ha così un effetto di familiare serialità (affidato ai titoli)
sempre confinante con l’ottundimento, che certo i versi si occupano di tur-
Autointerventi
35
bare e smentire, ma senza cessare di servirsene come basilare mezzo di ordinamento della materia. Il libro, che si apre sotto l’egida luttuosa di una
data truccata, perché spaccia per “oggi” ciò che è accaduto “ieri”, il morto
per il vivo, creando un tempo misto e paradossale che Magrelli chiama
«trapassato presente», sfrutta a pieno regime le tecniche retorico-architettoniche già perlustrate in precedenza, facendo salire al massimo i giri del
motore metaforizzante, e appuntando con frequenza i cardini delle paroletrattino. Ma il piano generale su cui l’analogia dovrebbe impiantarsi per
metterne in risalto, tramite le sue colorazioni, pieghe, costole e fasce muscolari è in questo caso un piano assolutamente astratto e che si sottrae
dall’inizio a tutti gli sforzi dell’immaginazione di renderne figura, o grappolo figurale, se non adeguato per lo meno cognitivamente utilizzabile. Infatti ciò a cui DID cerca di dare qualche tipo di concretezza, sia pur solo
verbale, è il mondo (o l’immondo, il non-mondo) dei flussi di capitali e di
informazioni sempre più smaterializzati che confidano nella velocità della
corrente elettrica per la loro circolazione, il mondo in misura sempre maggiore tradotto nella forma della merce, che come si sa è piena di capricci
metafisici, nient’affatto ridimensionati, anzi il contrario, dal carattere vieppiù elettronico e informatico assunto dalla merce stessa, e dall’assorbimento ogni giorno più meticoloso dell’attività mentale nei grandi flussi deterritorializzati del vendibile. Valga come esempio il seguente: (p. 7)
Codice a barre
Onoriamo l’altissimo vessillo
che sventola sul regno della cosa
l’anima crittografica del prezzo
rosa del nome e nome della rosa
mazzo di steli, fascio
di tendini e di vene
– polso
per auscultare
il battito del soldo
Il mannello di versi regolari (endecasillabi i primi quattro, settenari i vv. 5,
6 e 8, rispettivamente bisillabo e quinario i rimanenti due, che però se uniti
formano un altro settenario) svolge l’ormai noto dispiegamento o tappeto di
somiglianze: il codice a barre è una bandiera per la forma di un rettangolo
poggiato su uno dei lati maggiori, e può sventolare sul regno che simboleggia; è anima crittografica perché i suoi numeri e le sue barre, indecifrabili
36
Il mio corpo estraneo
all’occhio umano, vengono però penetrati dalle macchine (per esempio i lettori ottici di cui tutte le casse sono munite) per ricodificare le informazioni
ottenute in un prezzo. Il verso successivo, perfettamente simmetrico e dai
toni allegorico-religiosi, ad indicare la natura intangibile e misteriosa di ciò
che riveste questo vero e proprio nome in codice, apre la via per il regno vegetale in cui entriamo subito dopo con il «mazzo di steli» (le barre verticali
ravvicinate): l’immagine di corpi filiformi e verticali ravvicinati si specifica
nell’altra sua concretizzazione «mazzi», che sono i ponti per varcare i confini del dominio animale («mazzi di tendini e vene»), e arrivare finalmente al
termine più importante, quel «polso» isolato a costituire un verso e introdotto dal trattino, che dovrebbe servire a chiudere la gettata o colata metaforizzante in un tracciato circolare, e così «auscultare / il battito del soldo». Ma il
denaro è per eccellenza ciò che non fa rumore; è l’equivalente universale e
perciò l’entità più astratta che si possa incontrare tra la terra e il cielo. Il battito, allora, rimane soltanto un auspicio di battito, tanto più che il denaro di
cui parla qui Magrelli è del tutto elettronico e virtuale, e il “battere moneta”
una realtà ormai anacronistica. L’incanto malefico del denaro è troppo forte
perché la parola possa romperlo con la sua fatagione. «Adesso Sherazade
non può più nulla», come scriverà Magrelli a sconsolato suggello del testo
intitolato non a caso Economia (p. 69). E se, come si è visto, l’attitudine clinica è assai presente anche qui, i toni sui quali viene orchestrata, specie in un
piccolo sottoraggruppamento di poesie intitolate proprio Medicina e dedicate alle manipolazioni genetiche, sono senza dubbio di riprovazione e disgusto. Nella poesia Innestati nelle fragole alcuni frammenti di DNA delle lucciole (p. 36) si legge che «sarà il barbaglio fra le siepi notturne / la nostra
risposta biogenetica / al roveto ardente. / Non più specie o famiglie, / solo la
solitudine di chi, ibrido, / scivola via da un corpo all’altro, / fiamma senza
contorno / che già divora il bosco delle forme». Non si perita di scomodare il
racconto biblico e la teologia, Magrelli, esprimendo inequivocabilmente il
suo orrore per l’applicazione alla vita stessa del Dispositivo tecnico globale
(così recentemente Pietro Montani ha proposto di tradurre l’heideggeriano
Ge-stell10): il dio ineffabile ma presente nella fiamma dell’Antico Testamento
è rimpiazzato da un “fuoco” immateriale, illocalizzabile (qui si percepisce
bene quanto la metafora debba rassegnarsi alla sua intrinseca inadeguatezza),
che spazza via l’ordinato bosco delle forme abolendo ogni distinzione (è
un’idea di Natura che si affaccia qui, in un poeta che tanto aveva messo in
questione tale concetto) e creando un deserto di luce tecnologica e sperdi10
Cfr. P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Roma, Carocci, 2007.
Autointerventi
37
mento totale. La foresta – immagine archetipica di luogo sacro e numinoso,
nonché emblema della complicazione organizzata e decifrabile della scrittura letteraria – è polverizzata da una magia nera più forte di lei, resa inabitabile. Al poeta non resta, sembra dire Magrelli, che prendere atto di questo suo
progressivo accecamento, della vanità dei mezzi a sua disposizione, continuando giocoforza ad usarli per cercare ormai non più di opporsi alla desertificazione, ma di organizzare microresistenze locali di valore simbolico.
All’interno di questa strategia anche le parole-trattino subiscono un implemento che le tende fino al limite di rottura, come si vede in questi versi di
Manchette pubblicitaria (p. 80):
Vivi pure la vita,
a patto di ricordare
che siamo al mondo per acquistare, ossia
per far girare lo squalo del denaro,
creatura primitiva che,
in quanto priva di
apparato respiratorio autosufficiente,
per esistere deve circolare
senza fermarsi mai,
pesce-moneta-cane.
Incuneando “moneta” alla giuntura dei termini della parola di partenza,
già composta, “pescecane” Magrelli prova forse a dare un equivalente verbale (quasi sprovvisto di versante immaginativo) mostruoso del mostro di cui
sta parlando, in continuo e necessario movimento per stabilizzare il piano del
Valore, per l’uomo del tutto invivibile. La parola con due trattini, la parolamonstrum, è una specie di agglomerato inteso a striare il piano completamente liscio del Valore, così come il piano di una delle sue alleate, la lingua sempre più uniforme, scriteriata, insensatamente bisbigliante della pagina
giornalistica. Un grumo che dovrebbe per un attimo mettersi di mezzo ai
flussi di denaro-lingua, lanciando un bagliore prima di essere riassorbito.
E ancora il mettersi di traverso, l’innestarsi come un corpo estraneo,
senza relazioni visibili con l’ambiente ospite, segna l’ultima sezione di Disturbi del sistema binario, finora ultimo libro magrelliano di versi, sezione
intitolata L’individuo anatra-lepre (una parola-trattino, dunque) e su cui
vorrei brevemente insistere. In questo caso il corpo estraneo è la sezione
stessa, come si spiega nel Dialoghetto sull’opportunità di un’appendice
dedicata all’individuo anatra-lepre posto a introdurla (e a tenerla a distanza, giustificandola e in qualche modo riducendone l’impatto disgregante
sull’organicità dell’opera) come spazio vestibolare dal décor didascalico.
38
Il mio corpo estraneo
Organizzato in domande e risposte, come una sorta di (auto)intervista, il
Dialoghetto afferma che la «sezione messa di traverso» dovrebbe agire
«“come una diga sbarra un fiume”» (di nuovo una dinamica di flusso e argine, dunque) e, «fuor di metafora», «segnalare non tanto la scoperta del
Male, quanto quella della sua localizzazione, rivelatasi molto più vicina del
previsto» (p. 51). Si è pervenuti a questa scoperta, importantissima nell’economia dello spazio logico e poetico di Magrelli, come dovrebbe ormai
risultare evidente, grazie all’ennesimo frutto di contaminazione e spostamento, praticato nel tentativo di spiegare «eventi analoghi e apparentemente inspiegabili»: l’applicazione «alla sfera dell’etica di un modello ispirato
alla psicologia della percezione. Il risultato è un’opera di fantascienza, o
“scienza fantastica”, nel senso letterale del termine» (p. 51). Annotato
come ancora e nonostante tutto Magrelli si affidi all’operato della “fantasia”, la facoltà di manipolare le immagini (o di crearle), come sostegno per
la conoscenza, anzi come elemento da combinare e impiantare sulla facoltà intellettiva, passiamo a considerare il paragone complesso di cui lo scrittore si serve per spiegare l’ultimo quadro del suo libro:
È stato come accorgersi che il Nemico ha un avamposto in casa; di più, che
la sua azione si colloca a livello neurologico. Nella stessa maniera, l’immagine
dell’individuo anatra-lepre si è insediata nel libro senza che il firmatario potesse farci nulla, se non provare ad esporre, tramite questo dialogo, le ragioni della sua resa (p. 51).
La sezione si è insediata nel libro, a dispetto del suo firmatario, così
come l’immagine dell’anatra-lepre è penetrata nel cervello del firmatario
stesso; entrambe stanno dentro i rispettivi contenitori o ambienti, ma come
nemici, come avamposto del nemico o come sua figura segnaletica. E, aggiungo, agiscono a dissestare e smontare via via, in modo quasi impercettibile ma continuo, le strutture e le cadenze di quel dentro. L’anatra-lepre è
ovviamente il test percettivo su cui in modo quasi maniacale si arrovella
Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: una figura che può essere vista
come anatra e come lepre (ma mai nello stesso tempo come anatra e lepre,
e che naturalmente non è né un’anatra né una lepre). Sarebbe interessante,
ma non si può fare qui, verificare come Magrelli legge Wittgenstein (in maniera assai poco wittgensteiniana, direi); meglio allora indagare il senso
che la figura e la formula verbale dell’anatra-lepre assume nella sezione.
La cifra che la contrassegna è quella di una duplicità aconflittuale, complanare – come scrive lo stesso autore – e foriera di impoverimento e vertiginosa diminuzione del senso della complessità del mondo. L’invasione
Autointerventi
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dell’anatra-lepre non è una fra le altre, è l’invasione che sembra mettere
fine alla poetica dell’ibrido e del mostruoso, al modo di dare forma nel linguaggio ad una situazione percettiva e fors’anche ontologica, come mezzo
di conoscenza per contatto portata avanti tra difficoltà e ripensamenti per
tanti anni da Magrelli. L’Anatra-lepre è l’invasione stabilizzata, nella sua
versione imperialistica, cristallizzata in dominio. La molteplicità non irreggimentabile in cui sembrava implicato il processo di soggettivazione – una
molteplicità preindividuale di cui l’individuo non era che la temporanea e
sempre diveniente saturazione, in termini simondoniani se si vuole11 – qui
viene denunciata come puramente immaginaria, un luminescente sfarfallio
che copre una realtà ben più semplice e più dura. Duplice e non molteplice, questo scomparto, lo è già a partire dall’impaginazione (e quindi
dall’impatto visivo indipendente dalla lettura): fatto salvo il Dialoghetto
d’ingresso e un Post-scriptum (bipartito) di cui si dirà fra poco, consta di
venti brevi poesie disposte una per pagina, in corsivo sulla pagina di sinistra e in tondo su quella di destra. La duplicità malefica modifica anche il
valore della parola-trattino: “anatra-lepre” non può riferirsi ad alcun fenomeno di fluidificazione e poi di irretimento metaforico, ma sancisce al contrario la disfatta di questa tecnica, esautorata della sua firma dal Nemico.
«Esseri doppi popolano il mondo. / Sembra che lo raddoppino, / in realtà
lo dimezzano» (p. 56); perché «nessuno può vedere anatra e lepre / insieme. O l’una o l’altra, / e l’una dopo l’altra» (p. 57). Nell’arbitrio con cui
Magrelli si impossessa del test psicologico e del suo transito wittgensteiniano rientra l’attribuzione di caratteri morali alle due silhouettes animali
(è un fattore del trasferimento alla sfera etica), caratteri anch’essi fortemente polarizzati: la lepre è perfida e sanguinaria, l’anatra è non certo
“buona” ma illusa di esserlo (quindi sostanzialmente sciocca, cieca, e per
una ragione ben precisa). E da quest’arbitrio “idiomatico” discende anche
la «terza regola», ossia che, fra le due figure, la prima ad essere percepita è
sempre quella illusoriamente buona, e l’altra «arriva sempre per seconda»
(p. 57). Questa creatura inoltre non ha coscienza della sua duplicità, poiché
«grazie a un apposito commutatore neurologico, / non c’è passaggio tra le
due metà» e, rincara Magrelli in modo addirittura paradigmatico, «Jekyll e
Iago esistono soltanto nelle fiabe» (vaporizzate, lo si è visto in DID, dai
«numeri» dell’economia). Ed è difficile resistere al pensiero che la micidiale macchinetta anatra-lepre sia crudelmente proiettata da Magrelli su
11
Cfr. G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, a c. di P. Virno, Roma,
Derive/Approdi, 2006 [ed. or. L’individuation psychique et collective, Paris, Aubier, 1989].
40
Il mio corpo estraneo
temi e tòpoi della sua scrittura, per smantellarne il vecchio significato e sostituirlo col nuovo e orrendo; non può essere un caso che nella poesia che
si è cominciato a citare l’anatra-lepre venga messa davanti allo specchio, e
integrata così (a meno che non sia vero il contrario) in quella serie di riflessi speculari semplici o doppi che occupano un posto concettualmente così
importante nel lavoro letterario e critico dell’autore romano.12 L’anatra allo
specchio non «vedrà spuntare il suo secondo profilo»: «questa specie di
mostri disconosce / la sua parte mostruosa, / senza che possa esistere agnizione. / La crudeltà dell’anatra appartiene alla lepre, / che infatti, non a
caso, guarda dall’altra parte» (p. 59). E quando l’io prova «a mettere un’anatra di fronte / alle azioni compiute dalla lepre», tenendola ferma a forza,
non ottiene ugualmente nessun riconoscimento, anzi la macchina si disattiva come per sovraccarico o corto circuito: «c’è un relais, in quei disegni, /
che non consente loro alcun passaggio / da un lato all’altro della prospettiva. / Per questo certe lepri sono in grado / di fare paralumi in pelle umana,
/ mentre l’inconsapevole anatra/ volge il viso» (p. 65). È fin troppo evidente, dunque, che a mancare in questa nuova versione della parola-trattino è
quell’«attrito» che la parola aveva in origine la funzione di ritrarre: l’«io
fricativo» di Treno-cometa ha lasciato il posto a un’agenzia di autoesonero
che solleva il soggetto dalla consapevolezza delle crudeltà di cui pure è, indirettamente quanto si vuole, responsabile. Niente attrito, niente dolore, e
niente contatto con il presente e la storia (era questo, abbiamo visto, l’intreccio sempre sciolto e riallacciato di CC): tutto fila liscio come l’olio.
Anche la scrittura poetica è dunque costretta a rivedere il proprio statuto, e
ad assumerne uno più modesto e integrato: «ninnoli fatti con calcoli renali? /Se con i propri, passi. Poesie. / Smaltimento rifiuti» (p. 64). Dalla «renella del sogno» come fondo in cui leggere i traumi nascosti della storia si
è passati ad una dignitosissima e forse perfettamente vana autoecologia: i
calcoli non sono più “in comproprietà” con la storia, ma soltanto e desolatamente propri, buoni per il riciclaggio e la decorazione. Braccialetti per
l’anatra e niente più. L’abbandono del terreno ideale su cui i precedenti lavori di Magrelli avevano condotto il loro sperimentare, senza che a tale rinuncia corrisponda l’attivazione di un diverso campo di forze, porta la poesia al suo punto di massima e apparentemente irrimediabile paralisi nella
coppia di testi del Post scriptum, dove la resa completa è sancita da quella
che si deve chiamare una visione, ambientata durante un sei di gennaio,
12
Oltre ad attraversare, tra scomparse e riemersioni, l’opera poetica, la figura
dell’uomo allo specchio è investigata a lungo da Magrelli in Vedersi vedersi. Modelli e circuiti cognitivi nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002.
Autointerventi
41
«Nera Epifania» con tanto di maiuscole allegorizzanti, squarcio del velo.
L’ultimo fondo su cui si era nonostante tutto sperato di poter organizzare
una resistenza, di orchestrare un piccolo cerimoniale da opporre, anche
solo simbolicamente, a quello strapotente del Capitale immateriale e informatizzato, per tenere in vita almeno qualche piccolo cenacolo di cospiratori, si rivela già parassitato, invaso dal consueto Nemico:
la lepre mi balzò agli occhi
e mi rispose mentre mi rivolgevo all’anatra.
Fino ad allora avevo ciecamente
creduto nella sacra liturgia del colloquio.
Comunicare, per me, significava comunicarsi nella comunione di una parola comune.
Quel giorno compresi lo scopo del Giano animale:
vanificare, ossia «gianificare», ogni scambio verbale.
Adesso è un mondo invaso da ultracorpi, dove chiunque potrebbe rivelare
un profilo nascosto,
parallelo,
ignoto anche a se stesso.
Tutte le venature pneumatologiche che si potevano scorgere nella tessitura della pagina magrelliana qui vengono esposte in maniera diretta come mai
prima, nella figura etimologica complessa che concatena o meglio identifica
comunicazione, comunità e comunanza nel soffio della parola e nell’arte
dell’ascolto partecipe, solo per cedere alla “gianificazione” che ne contaminerà il potere vivificante rendendolo non più affidabile. Non sarà ormai più
possibile pensare una molteplicità che ha una lingua in comune, cioè che viene insieme articolata e tenuta insieme dalla lingua che ciascuna singolarità
lavora sul limite del proprio corpo (corpo proprio sempre esposto estaticamente ad un’apertura originaria sul mondo, in quello che Merleau-Ponty definiva «chiasmo»), ma l’unico modello disponibile per la nuova situazione
sarà quello dell’ultracorpo, del parassita alieno impiantato nell’organismo
ospite fino a farne parte integrante. Comunità di anatre-lepri, di virus, di
Aliens. Vedere l’amica anatra, con la quale è amabile colloquiare, trasformarsi improvvisamente in un essere mostruoso e crudele instilla un intollerabile
dubbio retroattivo sui precedenti colloqui: ci saremo parlati davvero? con chi
parlavo? È così diventato illusorio confidare nella presenza di una «lingua
comune» (p. 75) o nella capacità di costruirla; il «pesce-moneta-cane» privo
di apparato respiratorio autonomo ha scompigliato con un colpo di coda la
piccola sfera del respiro messo in comune.
42
Il mio corpo estraneo
Creature biforcate e logo-immuni
mi sorsero davanti,
invulnerabili alla verità.
Ero entrato nell’era dell’anatra-lepre,
in un’età del ferro, del silenzio. (p. 75)
Commento
Si potrebbe dire che V sia la continuazione di DID e di DSB con i mezzi di CC: confermato l’assetto complessivo del precedente libro di prose, V
offre pezzi brevi (mediamente più brevi che in CC), disposti in una serie
dettata da un tema o occasione unico – qui i «treni e viaggi in treno», come
da sottotitolo, là il corpo e i sui metamorfici malanni – tema svolto in entrambi i casi tuffandosi nel materiale biografico e biologico; si ripresentano i complicati intrichi di citazioni dai libri degli altri e dai propri, e l’accostamento di prosa e poesia, e analogo è l’intento di autoanalisi e
riconsiderazione della propria traiettoria esistenziale. Ma la temperatura
emotiva, l’attitudine e direi quasi il timbro con cui si attuano questi procedimenti è simile piuttosto al (quasi) disperato sconforto dei due volumetti
poetici, e gli elementi di novità di V sono, si direbbe, sviluppi degli esiti in
quelli raggiunti. La fisionomia de V è quella di CC sottoposta ad un intervento che la modifica sensibilmente, anche se non è subito facile comprendere in che modo. In linea di massima, e con le precisazioni che seguiranno, dico che qui Magrelli riprende e ribatte, come al solito, porzioni del suo
repertorio e si serve ancora della tecnica del richiamo, dell’ibridazione e
dell’innesto, ma per cercare la maniera di contenere, di arginare e separare
da sé la mostruosità con cui si era per un certo periodo rivestito, secondo la
direttiva “farmacologica” che si è vista. Questo nuovo cambio di strada deriva dalle conclusioni che all’autore è sembrato di poter trarre da una parte
sulla qualità solo immaginaria e illusoria della sua precedente teratologia
come sonda di indagine e contatto (o forse più direttamente, sulla natura illusoria di ogni immaginario), e vira verso la ricerca (o la nostalgia, o il rimpianto postumo) di una «giusta distanza», tra sé e sé e con le cose, di un
punto d’osservazione affidabile. Per cominciare, Magrelli ripropone una
sua tematica antica come quella del sonno, che a partire da OSR è già stata l’oggetto di più d’una manipolazione e rovesciamento, e la declina secondo la “postura spirituale” di DSB. Già raccoglimento essenziale in cui
il soggetto si ritira in sé stesso e accede all’ambito protetto dell’elaborazione del pensiero e dello sguardo (in OSR), già riposo turbato e interrotto dal-
Autointerventi
43
le voci che il muro della casa, emblema e dispositivo identitario, non riescono a tamponare sufficientemente (in ET), qui al sonno viene attribuito
un carattere comatoso e «agonico» (p. 7), in cui l’io smarrisce («Smarrimento. Smarrimento») sia ogni lucidità “eidetica” sia ogni ascolto del brusio interno/esterno del mondo. Questa radicale perdita dei sensi è inoltre
ambientata, nel primo dei molti pezzi dedicati alla questione nel libro, su
un treno notturno in corsa, e accompagnata da una fortissima perdita di luogo, dal soggiorno in uno spazio interstiziale, unione e separazione (ancora
Giano); e questo spazio si estende, e assimila a sé tutti gli altri:
Viaggiavamo di notte, su convogli stipati, senza cuccetta, senza nemmeno il
posto. A volte si dormiva nei corridoi, finché una volta ci dovemmo arrendere,
e ci accomodammo sul passaggio pensile. […] Acque abissali, dieci, quindici
ore di un sonno agonico. Smarrimento, smarrimento. E dunque cosa cambia,
dormire dentro un letto o sopra una lastra d’acciaio, a picco sui binari, in un
rombo, uno scasso a centoventi all’ora? Io dormivo così: ero il sogno del treno
(p. 7).
Lo stile di V presenta rispetto a quello di CC una proliferazione metaforica molto minore, è mediamente più secco, scarno. La mouvance e gli effetti di risonanza semantica sono assai diminuiti, anche se le prose continuano a succedersi non secondo un disegno o programma prestabilito ma
per affinità e contiguità interne. La discontinuità, la forte cesura rispetto al
passato si vede particolarmente bene in alcuni casi di autocitazione. Ad
esempio:
Fino a pochi anni fa, appena dietro le Mura Vaticane, una strada senza
uscita conduceva alla Stazione San Pietro, piazzetta per lezioni di scuola guida, quadretto paesano stremato e dolcissimo. Da lì partiva il treno per Viterbo.
Il Lazio, il proto-Lazio!, col suo parlare sgraziato e povero, mozziconi e parole, l’aria rustica e Oriolo, Settevene, Spizzichino.
Ora è cambiato tutto. Inevitabile, certo, ma dico solamente che è cambiato.
La piazzetta è diventata una rotatoria, la stazioncina, un fabbricato moderno. E
adesso che ci penso, ricordo che c’era addirittura la vasca dei pesci rossi… Inutile rimpiangere – e rimpiangere cosa, alla fin fine? Giusto le lezioni di scuola
guida. Meglio dimenticare. Obliteriamolo, questo passato, obliteriamolo come
un biglietto, anzi, per dirla tutta, come un “titolo di viaggio”. E così sia (p. 16).
Il primo paragrafo viene da Terranera, una delle prose “memoriali” di
ET, ma è da notare come rispetto all’inclusione tendenzialmente integrante (secondo il paradosso ricordato dell’intimo come il più estraneo)
44
Il mio corpo estraneo
di CC, dove le tracce dell’avvenuto innesto non erano così evidenti, qui
il testo si presenti nettamente bipartito, e le componenti siano differenziate anche dall’uso del corsivo e del tondo (la cui alternanza si trovava
già in CC, ma mai a discernere narrato da commentato o ora da allora). Il
passo citato non è più l’intimamente estraneo motore del testo, il processo autocitatorio non si conta più nel novero delle oscillazioni che tracciano e cancellano il confine tra dentro e fuori, tra corpo e mondo, tra memoria come conservazione e oblio come libero riutilizzo; qui i rapporti
temporali e concettuali tra le parti nettamente distinte si allineano su una
ben precisa gerarchia. La citazione in corsivo è il passato, ed è lo stile e
l’attitudine magico-evocativa che trova un angolo arcaico nel cuore della metropoli moderna o postmoderna; l’altra sezione è il presente della riflessione – quasi un piccolo soliloquio a mezza bocca, con espressioni e
sintassi semicolloquiali – che marca la distanza da quel passato, lo commenta congedandolo e guardando fisso a quello che c’è ora. Il passato va
dimenticato o meglio obliterato; e il termine si attesta subito nell’orrendo uso che se ne fa recentemente, come sostituto asettico e tecnico-burocratico di “timbrato”, con riguardo ai biglietti dei mezzi di trasporto (altri dice “vidimato”). La correctio seguente, che cancella (oblitera?)
“biglietto” a favore di «“titolo di viaggio”», è la seconda spia della resa
della lingua alle derive nell’insignificante e nell’inutilizzabile: e si pensi
al Post scriptum di DSB e alla perdita, lì denunciata, di una lingua comune (la perdita di un sogno, come detto esplicitamente, il sogno di ricondurre la “comunicazione”, feticcio fra i massimi degli ultimi cent’anni di
società spettacolare, al calore di una comunione, di un mettersi in comune nella lingua), disperatamente rimarcata qui dalla formula iussiva-ottativa di chiusura («e così sia»). Magrelli non “viralizza” più il suo corpus
scrittorio depositato, facendosene a sua volta viralizzare nell’opera in
corso di fattura, in un movimento di duplice disorientamento costruttivo;
al contrario, l’autore ristabilisce delle distanze accertabili, disciplina il
corpus e la storia personale e culturale, e si avvicina molto, fino ad aderirvi pienamente, al codificatissimo genere del commento.
Si tratta di una mossa di grande peso interpretativo. Un dispositivo di
aggregazione testuale partito come indice e produttore di disidentificazione – quello dell’auto-etero citazione – fa segnare per ora la sua ultima
tappa approdando alla spiegazione di come l’autore ha scritto certe sue
poesie. In CC questo sarebbe stato non meno che impossibile; invece V
sceglie di chiudere (positio princeps, quindi: la coda) proprio con un autoesegesi, e per di più indirizzata all’importantissima Treno-cometa, il testo della parola-trattino come «ritratto dell’attrito». L’ordine della pagina
Autointerventi
45
e le movenze della prosa sono rivelatrici: il testo poetico è posto in alto,
riportato integralmente (incluso il lungo brano in esergo), seguito, dopo
una spaziatura (una distinzione), dalla prosa che si avvia con una tipica
formula metalinguistica: «questa poesia, la sola che ho dedicato per intero al treno, ha una storia piuttosto complicata». Le cinque pagine successive saranno occupate dagli sforzi di dispiegarla, di districare la complicazione; e Magrelli si muove secondo le più riconoscibili e istituzionali
regole di un commento ben fatto. Distingue innanzitutto gli elementi che
il testo ha annodato e sovrapposto, chiamandoli «visioni» ed enumerandone quattro (clinica, aneddotica, storica, mitologica) forse con non so
quanto volontario richiamo ai canonici quattro sensi di una scrittura prescritti dagli esegeti tardoantichi e medievali; passa quindi alla spiegazione separata di ciascuna delle quattro, inserendo persino due lunghi passi
di Tito Livio e di Baltrušaitis (e, in aggiunta, citando un «intero volume»
«scaricato da internet»: il commentatore aggiorna i suoi strumenti di ricerca) che gli sono serviti come spunto (non c’è commento che possa sollevarsi da un’adeguata ricerca delle fonti), e conclude compendiando il
senso ultimo del testo, l’interpretazione da dare all’io fricativo: «La sofferenza è la pietra molare su cui affilare la nostra identità» (p. 103). Un
poscritto a piè di pagina, entro parentesi tonda, chiosa: «(Queste prose,
perciò, sono gli ultimi focolai delle scintille sparse dal treno in corsa)».
Nel dubbio se questi focolai (termine anche medico) si stiano spegnendo,
oppure se siano ancora capaci di riattizzarsi e far divampare di nuovo
l’incendio; e nell’incertezza se l’identità affilata sulla mola del dolore sia
ancora in qualche modo condivisa e storica, oppure solo narcisisticamente individuale, tutta intenta a medicarsi, si può finire qui inscrivendo V
sotto un’egida, un vero e proprio emblema che il libro racchiude facendosene racchiudere. Si trova in un pezzo, uno dei numerosi, incentrato
sul mal di schiena e sulle misure adottate dall’io narrante-ragionante per
alleviarlo, in questo caso l’iniezione di antidolorifico che deve somministrarsi durante il viaggio in treno, nella toilette. Abbiamo così l’estremo
autoritratto allo specchio che l’autore ci consegna; non di fronte ma di
spalle, in disagevole torsione, con le brache calate, cercando di individuare grazie al suo riflesso il punto in cui far penetrare l’ago. La proiezione mitologica, una delle molte che troviamo nell’opera di Magrelli, e
che andrebbero studiate attentamente, è anche in questo caso ambigua, e
se da una parte la solenne drammaticità del mito è bruscamente ridotta
dall’ambientazione in cui è costretta, non è inverosimile pensare che la
direzione del movimento potrebbe anche invertirsi:
46
Il mio corpo estraneo
Cercavo di individuare il bersaglio mobile, fra sussulti improvvisi dei binari, contorcendomi spalle allo specchio. Io, piccolo Perseo medico, volgevo gli
occhi verso quello scudo magico per sconfiggere il male, la tremenda Gorgone
dorsale che altrimenti mi avrebbe pietrificato. Più o meno a quel punto bussavano, i Banali, per distrarmi, per spingermi a fallire; ma intanto il più era fatto,
il colpo già vibrato, il paletto di frassino calato, per inchiodare il Vampiro del
dolore alla bara del Buscopan.
Quest’autoritratto con specchio e siringa (o scudo e spada, o vampiro e
paletto di frassino), che sarebbe di stupendo manierismo, non fosse per il
grammo di bonarietà che colora l’ironia, espone le cifre del soggetto che
agisce in V, dolorante, in equilibrio incerto, che interviene sul suo corpo
con uno strumento tecnico non per verificare affascinato la porosità dei
suoi confini e l’indecidibilità tra proprio e altro, ma per sedare le fitte, mettere fine ai morsi del vampiro (altro che le vertebre-pacchetti di CC): se
non proprio per diminuire l’attrito, almeno per ridurne farmacologicamente gli effetti percepibili.
Coda
Nel gennaio 2010 Magrelli ha pubblicato Nero sonetto solubile, un
bellissimo saggio critico su dieci diverse trasmissioni, e quindi riprese,
quasi esclusivamente in area francofona, del sonetto baudelairiano Recueillement. Nei capitoli più teorici, il primo e l’ultimo (il capo e la
coda), l’autore discute lungamente del problema che in fondo si ritrova,
variamente svolto e sfumato, in molta parte della sua opera letteraria, ossia quello dell’eredità, del destino di una tradizione, non solo letteraria,
attraverso il tempo, del rapporto tra libertà e costrizione nel contatto con
i Padri, di una fedeltà che sia anche incessante trasformazione. E lo fa
con un massiccio ricorso – sostanziato qui apertamente da una ricca bibliografia filosofica, soprattutto francese – sia all’area lessical-concettuale della malattia e della patogenesi, sia alla figura o non-figura del mostruoso. La tradizione non è pensata come Patrimonio, sempre da
proteggere contro i pericoli di alienazione, di sperpero, ma proprio come
focolaio d’infezione, come virus, come parassita che infetta i testi di epoche successive: li infetta vivificandoli, mettendoli in mutamento e mutando essa stessa nel contatto-contagio. I frutti vivi della tradizione, mostruosi perché singolari, sono non quelli che vi attingono come ad una
riserva (un parco storico o geografico), bensì quelli capaci di esserne af-
Autointerventi
47
fetti, di inocularsela, e di produrre così tanti testi-malattia ognuno diverso dall’altro. Magrelli indica un’alternativa, sul terreno dell’intertestualità, tra un modello di riferimento edipico-genitoriale e uno
virologico-parassitario, «il primo basato sulla figura autoritaria e isolata
del genitore, l’altro su quella plurima e pervasiva dell’inquilino. […] Potremmo da un lato immaginare la citazione come un uovo, una cisti, che
giunge ad annidarsi nella nicchia dei testi altrui; dall’altro vedere l’autore come un agente di trasmissione, intento a covare e incubare la tradizione sotto forma di dono e contagio» (p. 210). Come contrappeso al favore
qui espresso nei confronti della citazione-contagio, può forse giocare il
fatto che Magrelli l’abbia espresso così chiaramente nell’ambito tendenzialmente oggettivizzante (immunizzato?) della scrittura critica. Ma potremmo altresì pensare che questo sia un modo per “spingere la scrittura
critica” verso l’opera, in una fruttuosa indeterminazione: è quello che da
qualche anno fa Gabriele Frasca; e forse è anche quello che sta tentando,
certo con cautele molto maggiori, anche Magrelli.
Ancora del 2010 è un altro libro magrelliano, pubblicato nella collana
«fuoriformato» dell’editore Le Lettere, diretta da Andrea Cortellessa. È un
libro di pezzi per musica e sulla musica (assieme al libro ci sono tre cd su
cui si possono ascoltare gli arrangiamenti, le orchestrazioni di testi compresi nel volume), e ha come titolo Il violino di Frankenstein. Musica e
mostruoso, dunque, e per di più accostati in un’autocitazione (innalzata addirittura a epigrafe). Così l’explicit di Lezione di metrica, in ET: «Il violino di Frankenstein mi chiama. / E io sono il mostro musicale / condannato
alla ruota musicale / della sua musicale nostalgia» (p. 284).13
L’ultima reviviscenza analogica di V, a dispetto della disillusione e del
dolore, compara il treno agli spermatozoi, «creature caudate che corrono
verso la fecondazione, per sparpagliare i loro semi nel mondo» (p. 104),
con doppia sovrapposizione, che rimane da immaginare al lettore, tra coda
di vagoni, coda dello spermatozoo e coda del libro: colpo di coda, zigzag
per riaprire e reinventare da un’altra parte.
13
E già il testo in versi prendeva spunto, in pratica citandola, da una nota scena del
film Frankenstein jr, di Mel Brooks (1974); a sua volta parodia dei molti Frankenstein cinematografici, tutti debitori, per parte loro, del romanzo di Mary Shelley,
che d’altra parte è anche una riscrittura del mito del Golem. Un palinsesto stratificatissimo, insomma.
48
Il mio corpo estraneo
Unghia (ripresa)
Dieci anni dopo CC, l’unghia metamorfica e psicostorica riaffiorerà tra le
pagine di Geologia di un padre. Di questo libro si avrà modo di parlare a lungo nell’ultimo capitolo, seguendo piste in parte diverse da quelle tracciate
qui; ma forse è il caso di illustrare brevemente, ora, una ripresa tanto forte
che però è anche un deciso allontanamento. Il capitolo 39 di Geologia comincia riportando un spezzone del capitolo 55 di CC, quell’Infanzia di un
padre che chiude il libro riannodando molti dei suoi fili. Come già si è visto
in qualche esempio tratto da V, il brano più vecchio è messo in corsivo (e stavolta impaginato anche con un rientro maggiore, ad accrescere la distinzione
tipografica dal resto), e in questo caso anche in capo al brano più recente.
Con l’aggiunta, e qui sta la novità, di una frase in tondo tra parentesi quadre:
A Cascia, piazza Magrelli, lontano zio torturato. Oncle e Ongle strappata
dalle dita. Infinita pietà del bambino che ne ascolta la morte. [Mi correggo:
nessuna piazza, bensì i “Giardini Mario Magrelli”] (p. 59).
«Mi correggo»: Magrelli, si direbbe, rettifica. Una preoccupazione di
esattezza geotoponomastica, però, stride non poco con il metodo di avvicinamento alla storia (la storia d’Europa e la sua tragedia novecentesca più
grande, la Seconda Guerra Mondiale) per mezzo della trance provocata dal
dolore e alimentata dalle parole della letteratura, visto all’opera in CC.
Questo vuol dire, probabilmente, che col passare degli anni qualche ingranaggio del procedimento si è dimostrato mal funzionante, o che l’intero sistema è stato investito da un dubbio sulla sua validità. Ne parleremo nel
prossimo capitolo. Qui è importante evidenziare che la necessaria vaghezza che fa funzionare la serie analogica e transidiomatica unghia-ongle-oncle-zio è proprio ciò che si decide di ridurre, attraverso ricerche d’archivio
e consultazioni familiari. Scrive Magrelli:
Cugino e amico di partigiani, dicevo, ma era una storia vaga. Finché, grazia
all’INSMLI di Milano, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, ho trovato un articolo comparso sull’edizione romana dell’«Unità» nell’agosto 1940 (fondo corpo volontari della libertà, fasc. 546/b) (p. 59).
E giusto procedure contro la vaghezza questo capoverso mette in atto:
presenta un acronimo e lo scioglie, dà conto della consultazione di un archivio e di ciò che ne salta fuori, riporta date, collocazioni e segnature d’archivio; e, nei paragrafi successivi, il reperto viene trascritto. Il trentanovesimo è uno dei capitoli più lunghi di Geologia, ed è per gran parte
Autointerventi
49
occupato dal testo dell’articolo del 1940, dedicato al «martire» Mario Magrelli e tutto teso a costruirne, senza lesinare la retorica più sonante, un’immagine santificata di «umile, silenzioso Eroe, che per la libertà della Patria
immolò sorridente la sua giovinezza» (p. 61; ancora citazione dall’«Unità»). Il capitolo continua per un’altra strada. Ma noi dobbiamo chiederci in
che senso il materiale riportato commenti il brano di CC sotto il quale è posto. È una pacifica integrazione? O segnala invece qualcos’altro? E, va detto ancora, la visita in archivio ha assunto in Magrelli, dopo CC, un’importanza sempre maggiore; basti pensare che molti brani di Addio al calcio
sono composti quasi interamente da materiali non scritti dall’autore e rinvenuti in diversi centri di stoccaggio, fisici oppure virtuali. Perché questo
cambiamento? Perché queste uscite ripetute dal formicaio del corpo? Magrelli aveva dichiarato in un’intervista, all’indomani dell’uscita di CC, di
parlare solo del suo corpo «perché basta e avanza».14 Per quale motivo, anni
dopo, questo non è più vero?
14
L’intervista, raccolta da Marco Cicala, è uscita sul «Venerdì» di «Repubblica» del
19 agosto 2003, pp. 104-105.
51
INTERFERENZE CIVILI
Dopo aver seguito lungamente gli autotrapianti e i criteri di prelievo,
reinserimento e rifunzionalizzazione, e prima di spostarmi, nel prossimo
capitolo, su altri innesti e altri margini dell’opera di Magrelli, ora tenterò
un riesame delle tematiche investigate finora, ma condotto stavolta sui testi trattati come entità stabili e finite, e non come giardini metamorfici
(come nel capitolo precedente) né camere di spettri (come nel capitolo che
seguirà). Lo faccio per formulare un’ipotesi sul cambiamento intervenuto,
dopo CC, nel lavorio di Magrelli sulle proprie composizioni, e per cercare
di mettere in luce le modalità specifiche, rinvenibili nei procedimenti strutturali e nelle dichiarazioni di poetica, con cui la scrittura magrelliana del
corpo proprio/improprio stabilisce un contatto con una dimensione diversa, collettiva, sociale, e civile.
Leggerò soprattutto le due più recenti raccolte di versi, DID e DSB, (con
qualche accenno agli Esercizi di tiptologia, terz’ultima per ora silloge pubblicata da Mondadori nel 1992 e riproposta da Einaudi nel 1996), ma resterò anche in stretta vicinanza con CC e con Il violino di Frankenstein. Ripeto che se considero insieme, in forte relazione, poesia e prosa, è perché mi
pare che nella scrittura di Magrelli ci siano alcuni tratti morfologici e strutturali che scavalcano i generi e si ripropongono costantemente in gran parte
di quello che l’autore romano ha prodotto; è come se le tipologie scritturali
convergessero tutte, per certi versi, in un grande genere comune e de-generato. Vediamo meglio un paio di questi caratteri. Il primo tratto è l’avvicinamento tra versi e prosa condotto procedendo ad una (certo parziale) “metricizzazione” della seconda. Non parlo tanto, quindi, della commistione,
nella stessa opera, di parti in prosa e parti versificate (Esercizi di tiptologia,
come altri libri di Magrelli successivi a questo, è quel che una volta si sarebbe definito un prosimetro). A tenere vicine le prose brevi di CC e le raccolte poetiche sta la presenza, nelle prime, di consistenti porzioni che si possono scandire in versi regolari. Occorrerebbe effettuare uno spoglio
sistematico, e tuttavia mi sembra che tali sequenze si concentrino soprattut-
52
Il mio corpo estraneo
to negli incipit e negli explicit, quindi in posizioni molto marcate, e che più
volte si specifichino in coppie di endecasillabi (con qualche accorgimento
prosodico di larghissimo uso nella metrica regolare novecentesca). Tre
esempi di coppia di endecasillabi in apertura: «Perché fu il guasto la mia
vera guida, lo psicopompo, la voce fuori campo» (II, Exfanzia, p. 5); «Il
grande continente delle orecchie – porta sonora, conchiglia dell’ascolto»
(VII, p. 12); «Qui lo scenario cambia bruscamente, e diventa l’anello di un
autodromo» (XXIV, p. 53). E tre esempi tratti dalle chiuse: «una qualche
preghiera al dio sconnesso di questo calcinato lego osseo» (XXXIV, p. 72);
«in questa Terra sarta e sforbiciata, chi ha voluto recidermi il cammino?»
(XXXIII, p. 70); «e questo video che mi spara in faccia il mio essere plancton, il mio svanire» (L, p. 107). Si può pensare, a questa altezza ancora un
po’ astrattamente, che Magrelli lavori a inserire cadenze cantabili e memorabili, veri e propri cursus, nella sua prosa; cercherò di fare un’ipotesi sulle
motivazioni possibili di questa scelta.
C’è però un altro aspetto di macroscopica analogia che non solo vincola i
versi e la prosa “letteraria”, ma si estende (anche qui in misura variabile caso
per caso e libro per libro) alla prosa saggistica; ed è la fortissima, e direi a
Magrelli del tutto peculiare nel panorama italiano odierno, metaforicità del
dettato. Le metafore (e più alla larga i costrutti analogici) in Magrelli non
sono ornamento (e forse dipende anche da questo malinteso la taccia di alessandrinismo, intellettualismo, decorativismo che qualche volta è stata data al
Magrelli post-Nature e venature), ma costituiscono una vera e propria tessitura, una rete che struttura il testo nella sua interezza: hanno per così dire una
funzione portante. Anche di questo vorrei ipotizzare una giustificazione, ma
intanto presento tre campioni estratti da altrettante opere di diverso genere.
Il primo viene da DID:
Elenco distributori
Sta sotto il cofano,
giusto davanti,
occupa il vano motore.
Tipografia, concessionaria, pubblicità, amministrazione, redazione.
Lezione di meccanica:
le rotative al posto dei cilindri
e infine il movimento del veicolo,
l’invisibile forza propulsiva
della notizia.
(p. 8)
Interferenze civili
53
Il secondo è estrapolato da CC, e precisamente dal pezzo citato prima (il
VII capitolo), che inizia con: «il grande continente delle orecchie, porta sonora, conchiglia dell’ascolto» (come vedete, già uno stralcio significativo
anche a questo riguardo); l’autore, parlando della rimozione del cerume, si
esprime nei termini seguenti:
L’altra cura, meccanica, prevede invece l’asportazione del materiale per via
di pinzette, tenaglie, falcetti. Un’orribile messe di vegetazione infetta, o anche,
una speleologia dell’udito, con tanto di lumino fissato sulla fronte del nano-minatore che si cala nelle grotte. Gioielli neri, carbonchio, uno spurgo interiore,
una fossa biologica che svela la nostra natura segreta: produttori di liquami (p.
13).
Il terzo ritaglio viene da un saggio del 1991 intitolato Pandemonium, ora
raccolto nel Violino di Frankenstein, dedicato a Jurgis Baltrušaitis; a proposito della Ricerca di Iside, il libro dello studioso lituano sulle diffrazioni, diramazioni e reinvenzioni del mito egizio o dell’Egitto come mito, Magrelli scrive:
Per me, l’Egitto di Baltrušaitis […] è un proto-paese irrigato dal Vuoto, frutto di un’invenzione, falso, retrospettivo, irresistibile: una carogna storica che
tuttavia continua a riprodurre una danzante nuvola di immagini volanti (p. 46).
Il brano poetico fornisce con evidenza quasi paradigmatica il modello del procedere magrelliano; a titolo va il designato, l’elenco dei distributori del quotidiano, e i versi sono occupati dall’allacciarsi di una prolungata catena analogico-metaforica, tutta imperniata sul parallelo
fondamentale quotidiano-automobile. A partire da questo, che è il germen del testo, il suo generatore, le metafore si snocciolano secondo diversi criteri di analogia: qui di posizione («davanti»: la sommità della
prima pagina e il cofano dell’autovettura, il vano motore), e di funzione
(la propulsione: i distributori stanno al giornale come il motore sta alla
macchina; e il movimento che questa spinta ingenera). A fare da cerniera tra i due fronti semantici e tematici sta la parola «meccanica», vero
cuore del testo, perché sutura, grazie al suo opportuno livello di vaghezza, tipografia e motoristica, i due campi messi in risonanza dall’analogia. Un discorso simile si può fare per il brano del Condominio: l’orecchio e la grotta sono associati in base all’immagine della cavità, ed ecco
che una visita otorinolaringoiatrica può diventare un’esplorazione speleologica. È più interessante però notare qui la correctio o ipotesi supplementare con cui la catena speleologica viene introdotta; il testo citato
54
Il mio corpo estraneo
inizia infatti con un’immagine che afferisce di più al taglio e alla mietitura (dunque un’attività di superficie), e solo dopo, con quell’ «o anche», il moto da orizzontale diventa verticale e diretto verso il basso.
Faccio notare rapidamente due cose. Da una parte qui si distingue bene
una peculiarità del metaforizzare di Magrelli, e cioè il suo servire da veicolo per la formulazione di ipotesi. Ogni volta che ci si trova in presenza di concatenazioni analogiche, in questo Magrelli, il testo cerca di rispondere alla domanda “che cos’è?”, oppure alla domanda “come
funziona?”; e le risposte sono invariabilmente date per mezzo di immagini o composizioni di immagini, appunto. Questo è molto importante.
Secondo, (e da questo rispetto il campione non è stato selezionato a
caso), il moto indagativo rivolto, in CC, al corpo, è sempre o quasi sempre un moto che va verso il basso. Il corpo, a questo livello (e non è l’unico livello, come si vedrà) è un buco, una caverna oscura, un tunnel semintasato; e le esplorazioni non mancheranno di portare alla luce tante
piccole cose disgustose.
Un altro motivo per cui non si può fare secondo me nessun discorso su
Magrelli che non comprenda CC è che questo è un libro, nel corpus autoriale, un po’ eccentrico e, alla lettera, stra-ordinario; finora un unicum a cui
non si avvicinano nemmeno gli altri suoi libri in prosa. In esso infatti Magrelli mette a punto un trattamento del tema del corpo in parte differente da
quello che si trova nelle raccolte poetiche, e queste prese distinte, se messe
a confronto, possono dare indizi illuminanti sulla particolare tonalità assunta, nelle sillogi in versi, dal discorso “civile” e orientato sulla collettività. Ripromettendomi di tornare sul punto, dico intanto che si tratta di due
tipologie di sguardo sul corpo che non si susseguono o si alternano linearmente e che quindi non si possono ordinare in base alla cronologia delle
opere. Si tratta piuttosto di un’oscillazione, di un’incertezza profonda che
sembra costitutiva del pensiero dell’autore, e che può pendere volta per
volta da una parte o dall’altra del suo problema fondamentale: appunto il
corpo. Qui possiamo fare un passo avanti e dire che per Magrelli quello del
corpo è sempre il primo polo, o motore, del suo scrivere, e che il polo “civile” o “sociale” o collettivo è sempre logicamente secondo. Questo non lo
priva certo di importanza, ché anzi esso agisce sul primo, lo limita, lo riorienta, ne cambia la configurazione.
È a questo punto necessario chiarire – o almeno provare a farlo – che
cosa si debba intendere, leggendo Magrelli, per corpo; che cos’è corpo,
che cosa può fare il corpo, e che cosa c’entra con il corpo la poesia e la
scrittura. Per cominciare bisogna dire che in Magrelli non c’è mai un corpo personale, individuale, ma il corpo è sempre sub- oppure ultra- e tran-
Interferenze civili
55
sindividuale: corpo stratificato, profondissimo, geologico, oppure corpo
diffuso, reticolare e atmosferico, il corpo non è mai, in Magrelli, soltanto
il corpo di un soggetto, il mio corpo. L’autore è passato nel corso della
sua traiettoria attraverso un certo numero di posizioni. Nella silloge di
esordio, OSR (del 1980), si ha a che fare con un corpo-segno che si dispone placidamente, pur con qualche scricchiolio nell’insieme lieve, sotto la regia di una mente-occhio («essere matita è segreta ambizione»,
suona un verso di OSR) e viene proiettato sul planetario, sulla volta del
cervello (Magrelli parla proprio di «cielo del cervello», mutuando, credo,
l’espressione dalla celebre poesia di Emily Dickinson, «The Brain is wider than the sky»1); da NV (1987), la seconda opera in versi, Magrelli
cercherà di uscire da quel claustrum, da quel giardino, registrando le
sempre più grandi spaccature che si aprono in quel corpo-natura mentalizzato e significato, e lasciando uno spazio via via maggiore alla presenza degli altri, fino ad arrivare, in ET (1992, come detto), all’invasione del
corpo da parte delle voci altrui, e all’auscultazione, insieme affascinata e
angosciata, di questo corpo contemporaneamente proprio e altrui, che
giunge a farsi «cassa armonica / delle loro storie» (cito il finale di Parlano, poesia fondamentale di ET). Con il progressivo articolarsi dei suoi
temi, Magrelli è giunto a caratterizzare sempre più palesemente il polo
corporale della sua produzione sotto l’insegna della mostruosità, di quanto, cioè, recalcitra ai tentativi di dargli una forma, perché sempre eccessivo rispetto ad essa, sempre all’opera per cancellarne instancabilmente i
confini. Simultaneamente si è andata delineando una dorsale – un elemento strutturale e strutturante importantissimo – che si può definire autobiologica, autogeologica e autogenealogica, nella quale, sempre attorno al problema del rapporto tra corpo e segno/scrittura, il soggetto (tutto
quel che ha scritto Magrelli è imperniato su un io ragionante e per così
dire “tessitore”) sonda il proprio passato: l’infanzia, le figure genitoriali,
la crescita, la formazione; ma ben al di là di questo ambiente familiare/
personale vagamente soffocante, risale all’indietro fino alle radici della
stirpe (lo stampo preistorico) e al buio primordiale. Di questo processo
1
Questa è la prima quartina della famosa poesia: «The brain is wider than the sky,
/ for, put them side by side, / the one the other will include / with ease, and you beside» (cito da E. Dickinson, Tutte le poesie, a c. di M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 1997, p. 716). È da segnalare che questi versi sul rapporto tra cervello
(«brain», non «mind») e mondo sono molto cari a un grande neurobiologo radicalmente materialista come Gerald Edelman, che nel 2004 ha pubblicato un libro intitolato proprio Wider than the sky (trad. it. Più grande del cielo, Torino, Einaudi,
2004).
56
Il mio corpo estraneo
chiamo a testimonianza le cinque prose incluse in ET, e in particolare le
due che mettono a titolo anagrammi del nome e cognome del poeta (Alle
lagrime, rovi e Rivelarmi al gelo, dove mi pare si veda l’intenzione di
reinserire il nome proprio, e il suo portatore, nella circolazione del senso
propria del linguaggio), e una poesia di DSB intitolata emblematicamente Cronache dal Pleistocene, che riporto (si tratta del primo elemento di
un poemetto quadripartito titolato Un padre). Con questa poesia cominciamo, dopo averle costeggiate, ad affrontare direttamente le nostre questioni:
I Cronache dal Pleistocene
La linea di mio padre:
gli ossuti, gli afflitti, i consunti,
ecco metà del mio sangue,
il fantasma di cui sono il lenzuolo.
Magri Magrelli,
astucci pelle e ossa
tessuti su un telaio portentoso
di nervi, un traliccio di scossa,
ira, ira,
e tutto un zig-zag di tragedia
sul Nulla-Ciociaria,
terra cava da cui sorsero Loro,
splenetici profeti dell’angoscia
venuti dal deserto in vestaglie di lana
con erbe amare,
anatemi, scongiuri.
Due annotazioni per proseguire. La «linea» e il «sangue» sono definiti
(ancora con la tecnica metaforizzante tipica di Magrelli) «fantasmi»: presenze inconsistenti di cui il corpo proprio, il corpo dell’io, è «lenzuolo», rivestimento che rende visibile ciò che altrimenti non lo sarebbe (se quindi
dovessimo trarre da questi versi un’autodefinizione dell’io, questa sarebbe
più o meno: lo straccio gonfiato dal soffio spettrale della mia origine preistorica); anche la stessa origine geografico-geologica, la Ciociaria, è equiparata a una cavità e a un «Nulla», attraverso un altro procedimento tipicissimo di Magrelli, che lui stesso definisce, per la prima volta in un testo di
ET, delle «parole-trattino». Non posso fermarmici come meriterebbe, ma
lo ritroveremo più avanti. Il movimento tramite il quale la genìa si manifesta a partire da questo nulla è duplice; è un’ascesa e una tessitura. «Loro»,
Interferenze civili
57
i fantasmi, vengono su dalla cavità oscura, e insieme però si tessono, o vengono intessuti, sono cioè organizzati, disposti secondo schemi regolari, che
danno loro tenuta («tessuti», «telaio», «traliccio»). Questi due movimenti
e tendenze/tensioni, quella del venire fuori, del venire su da un abisso, e
quella all’intelaiatura ed all’intarsio, sono entrambi tratti fra i più pertinenti di tutto l’operare magrelliano e si trovano regolarmente collegati all’indagine, dicevo prima, autobiologica e autogeologica. Una poesia di ET intitolata Xochimilco e aperta da un rigo di Michaux («Mi costruisco su una
colonna assente»; e Magrelli ha più volte dichiarato che la citazione in
esergo o occhiello funziona per lui come una guida e un «segnavia»): termina così «[…] e sorsi sul franare / e nacqui dal mancare / palafitta del nulla / palo nel nulla fitto»; e ancora in ET la prosa intitolata L’Anti-Mazur, ultimo componimento della silloge, chiude aggregando indagine dell’io su di
sé, buio primordiale e moto d’ascesa: «io sto salendo dal fondo del mio
buio»; e in explicit «getto e pollone delle tenebre, sbocco, e bolla d’aria
espulsa da un infinito boccaglio di tenebre» (p. 292: nota la ripresa “a rima
identica” e i versi, novenario sdrucciolo-ottonario e endecasillabo sdrucciolo finale: altro esempio di prosa numerosa). Le immagini-guida o strumenti cognitivi e operativi adottati per arrangiare questa configurazione
fondamentale o tipo psichico sono prevalentemente due, e molto legati. Il
primo è la malattia, il secondo è la traduzione. In ET, in DSB, e soprattutto
in CC il corpo è sempre, regolarmente e in prima battuta, un corpo malato,
disturbato, infestato, parassitato, visitato da decine di svariatissimi sintomi.
I testi presentano l’anamnesi, la diagnosi, e spesso la terapia dei diversi
mali (anche con notevole utilizzo della terminologia medica); la scrittura
sta al corpo di cui parla come la terapia sta alla malattia. E gli organi malati, le membra piagate, emettono segni, e parlano una lingua. Al soggetto il
compito di comprenderla, di tradurla (di trasportarla) nella propria. Quasi
superfluo far notare che questa lingua, però, si presenta come una lingua
morta, enigmatica, indecifrabile (addirittura «un puro gorgo di antimateria» – che però manda segnali –, la definisce Magrelli in CC), e che l’opera di traduzione è di conseguenza una sfida, una continua lotta, da un certo
punto di vista considerata fin dall’inizio come impossibile. Annotato di volata che Magrelli è anche un ottimo traduttore, che una sezione di ET ospita esclusivamente testi tradotti, e che anche le numerose brevi citazioni da
opere straniere disseminate lungo il corpus magrelliano sono quasi sempre
fornite nella traduzione dell’autore, cambiamo fronte e chiediamoci piuttosto qual è, che specificazioni possiede, la lingua propria, la lingua nella
quale il soggetto importa, reambienta, trapianta, quanto strappa all’idioma
sepolto del corpo. Semplificando molto (perché ci vorrebbe un discorso
58
Il mio corpo estraneo
lungo), la definisco per ipotesi lingua dello Spirito, con la tentazione della
esse maiuscola, intendendo con Spirito il prodotto del pensiero e della cultura dell’Occidente durante tutti i secoli della sua storia; si tratta di una lingua della Memoria e dell’Identità (di nuovo con le iniziali maiuscole), anche in questo caso memoria e identità sovrapersonali che dovrebbero
funzionare da garanzia e da salvaguardia. In che modo? Intessendo, associando reti, figure, luoghi, all’interno e sotto la protezione dei quali il soggetto, l’identità personale, possa costituirsi. Attraverso e dentro questa lingua il buio e il primitivo grumo, la pasta/palta primeva del corpo possono
essere detti, cioè messi in una forma; in altri termini e in un certo senso spiritualizzati, a costituire un corpo-spirito, e si dica pure, un’anima. Con tutta evidenza sto parlando di un’opera di incantamento, quasi di magia bianca.
Rileggiamo un breve brano dal primo capitolo di CC:
Il mio passato è una malattia contratta nell’infanzia. Perciò ho deciso di capire come. Questo referto, dunque, non vuole essere un teatro anatomico, piuttosto un susseguirsi di fotogrammi, dove quello che conta è il flusso dell’immagine, il corpo sgusciante che vibra sotto di me, la sua forma mutante tra le
forme: vasi sanguigni, conchiglie di molluschi, cellette d’api, snodi autostradali, pelvi di uccelli, cristalli e filettature aerodinamiche. Non c’è trama, ma trauma; un esercizio di patopatia. Non c’è teoria, ma racconto di piccole catastrofi,
giocate dentro gli spazi interstellari della carne (p. 3).
Questo passaggio è significativo per diverse ragioni. Innanzitutto per
quella prosa numerosa o “proesia” di cui parlavo prima che, qui, mi pare, è
particolarmente evidente. Proviamo a scandire dall’inizio, limitando la ricerca al terzetto endecasillabo-settenario-quinario: Il mio passato è una
malattia (endecasillabo); contratta nell’infanzia (settenario); Perciò ho deciso di capire come (endecasillabo); Questo referto dunque non vuole essere (endecasillabo); un teatro anatomico, piuttosto (endecasillabo: dunque
sequenza iniziale di quattro endecasillabi); dove quello che conta è il flusso delle immagini (doppio settenario); la sua forma mutante tra le forme
(endecasillabo); vasi sanguigni, conchiglie di molluschi (quinario e settenario); cellette d’api, snodi autostradali (endecasillabo); pelvi d’uccelli
(quinario); non c’è trama ma trauma (settenario); un esercizio di patopatia
(endecasillabo); non c’è teoria (quinario); ma racconto di piccole catastrofi (endecasillabo); giocate dentro (quinario); gli spazi interstellari della carne (endecasillabo; dunque un finale con alternanza di due quinari e due endecasillabi).
Interferenze civili
59
Passando all’asse topologico, viene detto esplicitamente che il corpo sta
giù, sta sotto, e che sopra, in alto, sta l’io, che quindi è insieme uguale e distinto dal corpo. Terzo aspetto: il referto e l’esercizio di patopatia (cioè di
avvertimento, percezione della malattia) si compiono attraverso la realizzazione, o addirittura la sintesi di fotogrammi, e i fotogrammi o microsequenze elencati si dispongono in una specie di grande ventaglio imperniato su un criterio analogico-metaforico che tiene uniti il campo organico,
quello inorganico, quello meccanico, fino ad ampliarsi, e restringersi, a dimensioni insieme cosmiche e microscopiche, nell’immagine dello «spazio
interstellare». Il movimento conduttore del brano, e del libro, sale dal profondo e dall’indicibile e si squaderna in una specie di grande volta celeste
analogica. Usando una bellissima parola-trattino di Magrelli, contenuta in
un altro punto dell’opera (cfr. il primo capitolo di questo libro), si può dire
che la mira del libro è la costruzione di un ambiente «etereo-utereo» (che
attiene insieme all’etere e all’utero; con una fortissima paronomasia), profondo, tellurico, e insieme atmosferico e aeriforme; uno spazio che leghi
insieme − tramite somiglianza − le ragioni della profondità e quelle dell’altezza.
Fermiamoci un momento su un’altra parola contenuta nel brano appena
letto, e precisamente la singolare neoformazione «patopatia». È una parola
composta di impronta fortemente grecizzante e tipica dei linguaggi settoriali (specie scientifici, quello medico, ad esempio, ma non solo) in cui
però – ed è la sua particolarità – la parte sostantivale e quella aggettivale
che la qualifica hanno la medesima radice, il verbo πάσχω, che alla lettera
significa porto su di me, sopporto. Il termine sfrutta le due aree semantiche
occupate dal verbo greco, diverse ma collegate; da una parte quella della
malattia come particolare affezione del corpo, dall’altra quella della percezione di cui ci si prende carico, sempre col proprio corpo; la si potrebbe parafrasare dunque, come ho fatto sopra, “percezione, avvertimento del
male”. Ma la co-radicalità dice qualcosa di più; dice che il male e la sua
percezione-organizzazione-configurazione sono strettamente imparentate,
forse fatte della medesima materia. C’è qualcosa, nel male che colpisce inspiegabilmente e indecifrabilmente i corpi, che può essere utilizzato per
comprendere, spiegare il male stesso. Riassumendo, sembrerebbe che il
problema di Magrelli sia qui quello di portare il corpo, estraneo e impenetrabile, a parlare, a produrre un senso agibile, tramite un processo di incatenamento-incantamento verbale delle forze basato sull’analogia e sulla,
diciamo, cantabilità e memorabilità del dettato.
60
Il mio corpo estraneo
Per essere più chiaro vorrei tentare un breve paragone attraverso l’indicazione di un possibile ascendente, di un possibile intercessore. Se ne potrebbero trovare parecchi; il discorso che sto per fare funzionerebbe bene
anche, per esempio, scegliendo Ernst Robert Curtius o Leo Spitzer o Károly
Kerényi; io però opto, perché mi sembra fornire un’analogia di particolare
forza, nonostante la sua presenza esplicita sia nell’opera magrelliana molto marginale, per Aby Warburg.
Magrelli infatti cita Warburg, a mia conoscenza, solo una volta, in un contesto però che mi sembra significativo, nel già citato saggio intitolato Pandemonium e principalmente dedicato a Baltrušaitis. Lì Magrelli menziona la
«“Schlitterlogik” (vale a dire “logica scivolosa”), di cui parlò Aby Warburg
a proposito dell’astrologia, dove scivolosa sta per animistica, qualitativa, creaturale, frutto cioè di quel sapere millenario precedente la grande frattura della rivoluzione scientifica» (VF p. 45); subito prima, discutendo di Baltrušaitis,
Magrelli aveva parlato della potenza, come strumento di migrazione e di trapianto di contenuti mitologico-leggendari, della «parentela fonetica» o addirittura dell’«etimologia fonetica», cioè della pretesa somiglianza semantica o
comunità di designato sulla base della somiglianza del suono. Com’è noto,
secondo Warburg la logica scivolosa è una logica degradata, ma che conserva ancora, pur se svilita, una traccia dell’autentico pensiero cosmologico
dell’Antico (del Greco). È dunque attraverso questa logica, riprendendola,
dragandola, esponendosi ai pericoli che comporta (quali? in sostanza la perdita di quel che Warburg chiama Denkraum, spazio di pensiero, ossia lo spazio e l’ambiente in cui il pensiero dell’uomo può attecchire e svilupparsi); è
senza abbandonare questa logica, dicevo, che la ricerca deve muoversi per
recuperare e rimettere in circolazione il nucleo di autenticità che essa ricopre,
oscura, ma anche, ovviamente, ancora contiene. Con la formula warburghiana, si deve procedere per monstra ad sphaeram, dalla deformità mostruosa
dei materiali quasi completamente privi di spirito, salendo alla sfera della
chiarezza e dell’equilibrio. Occorre, allo scopo, una vera e propria danza
concettuale che soggioghi le forze del caos (che dunque ci sono ancora: sopravvivono) disponendole in una ghirlanda, in una figura dotata di ritmo e di
senso. Se questo piccolo parallelo regge, non è troppo azzardato pensare che
anche quello di Magrelli sia un tentativo di costruire, nel medium linguistico, un carmen, un concatenamento ordinato, risonante, metamorfico ma di
una metamorfosi regolata, nel quale condurre alla parola le oscure profondità del corpo e dell’origine.
Ho fin qui cercato di dare una descrizione della polarità o del modo corporale nella scrittura di Magrelli, modo che è, lo ripeto, in lui primo e fondamentale. Ora il problema è come si possa, da questa configurazione molto
Interferenze civili
61
concettuale, da questa scrittura quasi filosofica, da questa lotta per la domesticazione del profondo condotta tutta “in solitaria”, passare all’altro polo,
quello sociale, civile, collettivo. Il problema non è stabilire se questo polo ci
sia (è evidente che c’è, basta leggere DID, DSB, e anche CC), né chiedersi
quale dei due sia più “importante” o “valido”. Il problema, almeno credo, è
capire come questi due modi trovino consistenza, come si compongano, anche, al limite, tramite rapporti di reciproca negazione. Quando lo sguardo di
Magrelli si allarga sul campo sociale, all’osservazione dei meccanismi molto pratici e molto materiali che regolano l’esistenza della collettività, mi pare
che disponga i fenomeni sotto due grandi rubriche o lungo due direzioni di
percorrenza, strettamente interconnesse. Da una parte sta un’area che potremmo definire in senso largo comunicativa e tecnica. Comunicativa, perché Magrelli si è dimostrato attento agli effetti della diffusione sempre più
estesa dei media elettrici, e ai loro progressivi sviluppi (cellulari, tv, computer, rete telematica); tecnica, perché attenzione almeno pari è dedicata all’avanzamento delle conoscenze scientifiche che hanno permesso interventi
sempre più massicci, da parte dell’uomo, sul presunto “ordine naturale delle
cose”. Dall’altra parte, una critica sempre più esplicita e serrata – e va detto,
disperata – del nuovo capitalismo globalizzato, informatizzato, immateriale,
volatilizzante. Non sono molti i poeti italiani grossomodo coetanei di Magrelli che hanno insistito con tanta sistematicità, nelle loro opere, su questo
punto. La cosa che mi sembra interessante è che lo spessore civile e collettivo emerge, comincia a manifestarsi, in Magrelli, a partire da un’ombra, o da
un sospetto di malfunzionamento nei riguardi del dispositivo, corporeo e insieme linguistico e immaginifico, di riconduzione alla luce del profondo. È
questa l’oscillazione di cui parlavo all’inizio del capitolo: l’osservazione del
mondo induce a sospettare che la tessitura analogica del corpo-cosmo sia in
realtà completamente illusoria, e che, in un esemplare caso di eterogenesi dei
fini, produca effetti ben diversi da quelli che ci si aspetta.
Porto due testimoni in versi, tratti da DID il primo e da DSB il secondo.
Da DID:
Costume
Ritorna lo yo-yo,
l’orbitante, l’astrale,
con il ron-ron dell’ape
in volo attorno al favo
della mano, Fort-da,
ossia conoscenza
62
Il mio corpo estraneo
come miele della prossimità,
un sapere che accoglie il «questo e quello»
scongiurando l’aut-aut nel ronzare
del ciclo, fiamma
che viene e va
legata a un dito.
Da DSB
La guace
I
Acqua salmastra, né dolce né salata
bensì salata e dolce.
È quanto accade quando i fiumi
della guerra e della pace
si gettano in un unico acquitrino,
in una stagnazione della vita
infestata di morte,
in una effervescenza della morte
inquinata di vita.
II
La porta del Tempio di Giano
è diventata quella di Duchamp,
aperta e chiusa insieme:
non serve più a tenere fuori i mostri,
ma nemmeno ad accoglierli.
Cominciamo dal testo di DID, con qualche rilievo stilistico. Sembra che
l’economia costruttiva magrelliana non sia diversa da quella illustrata precedentemente; anche qui abbiamo a che fare, a partire da un titolo (quasi)
referenziale, con una serie di immagini radunate per analogia attorno al
perno, diciamo, dello yo-yo iniziale (volo, orbita; cambiamenti bruschi di
scala, macro e microcosmo). Ma la natura, la qualità del movimento è cambiata decisamente; qui non siamo più di fronte all’allacciarsi di una rete, al
tracciarsi di un percorso molteplice e ordinatamente ramificato, bensì alla
ripetizione invariabile e “stupida” di uno stesso moto, che altro non produce se non un leggero rumore (sibilo, ronzio) ed un niente di fatto. E quelle
che Magrelli usa qui sono e non sono parole-trattino, ne sono in un certo
senso la parodia, perché il trattino unisce (con eccezione del freudiano
«fort-da») due parole identiche; nessuna somiglianza sorprendente e rivelatrice, nessuna migrazione del senso, ma solo la ripetizione di un sempre-
Interferenze civili
63
uguale, all’insegna del «questo e quello», cioè di una congiunzione che in
realtà indistingue, precipita nell’indifferenziato. Il trattino, che era stato segno dello sforzo di costruire un senso molteplice, decade a mera congiunzione che impedisce l’addensamento di un senso praticabile. La trasformazione è compiuta nella poesia di DSB, dove l’acqua non è salata-dolce, ma
«salata e dolce», e la porta non è aperta-chiusa, ma «aperta e chiusa». In
questa poesia è venuto meno il trattino, che Magrelli definisce in maniera
chiarissima, nella poesia di ET in cui introduce la formula «parole-trattino», come il «ritratto dell’attrito». Forse si può riconoscere l’emblema di
questa condizione nel titolo, dove guerra e pace si confondono, diventano
indistinguibili, nella crasi che origina la parola-valigia «guace». Dunque a
occasionare le scelte magrelliane sta qui un fatto storico perfettamente riconoscibile, uno dei fenomeni più salienti dei vari sud del mondo negli ultimi quarant’anni, le cosiddette, con orrendo mascheramento terminologico, “guerre a bassa intensità”, in cui le azioni sono rare, non è possibile
individuare con precisione un “teatro”, e le popolazioni dei territori interessati sono costrette a vivere, usando l’immagine magrelliana, in un acquitrino in cui vita e morte sono oscenamente confuse.2 «Dicesi “guace”», precisa il poeta in una noticina a piè di pagina, «la confusa mescolanza di
guerra e pace caratteristica della nostra epoca». Ciò che rende tanto sventurata l’epoca della “guace” e del “questo e quello” è che non si riesce più
a capire se i mostri siano dentro, tra noi, oppure fuori, in qualche fuori.
Quel che si è perso, quel che è svanito – sembra dire Magrelli – è proprio
il trattino, cioè l’articolazione tra dentro e fuori, quell’opera di accoglimento, cioè come si è visto di conservazione e domesticazione, dei mostri. Ora
i mostri, dato che non sono da nessuna parte, sono dappertutto, e possono
scatenarsi dovunque e in qualsiasi momento.3
La mia ipotesi, in poche parole, è che il côté sociale e pubblico della
scrittura magrelliana sia attivato, e animato, dalla constatazione che alcuni macromeccanismi, economici e tecnici, che configurano ferramente il
mondo attuale funzionano secondo criteri che sembrano il raddoppia2
3
Scrivendo che la porta del tempio di Giano (che veniva chiusa, nell’antica Roma,
in tempo di pace) è diventata quella di Duchamp, Magrelli allude all’“opera” di
Marcel Duchamp, Porta, 11, Rue Larrey, Paris 1927. Nell’appartamento parigino
dell’artista, una porta di legno, incardinata in un angolo, serviva contemporaneamente due vani, per cui chiudendo l’uno apriva l’altro, e viceversa.
Sulle parole composte tramite l’uso del trattino, sul loro senso in una certa tradizione filosofica moderna, e sulla loro scomparsa ho trovato pagine illuminanti in
G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione, Macerata,
Quodlibet, 2006.
64
Il mio corpo estraneo
mento diabolico, o la controfigura spaventosa, di quelli messi in gioco
dall’autore per ordinare la scena – psichica e compositiva – della sua
scrittura del e sul corpo. Se questa mirava a evocare e edificare un ambiente di molteplicità regolata che armonizzasse il corpo-mostro senza
cancellarlo, illuminandolo di una luce spirituale e culturale, quelli squadernano una falsa molteplicità, scintillante ma piatta, dove ogni scelta si
equivale, facendola sciamare caoticamente al di sopra di un piano senza
forma, completamente astratto, piano del valore e dei flussi di denaro e
informazione che attraversano il pianeta alla velocità della corrente elettrica. Nei confronti di questa potentissima stregoneria, che annienta i limiti e toglie il senno, e tanto più desertifica la realtà quanto più sembra
affollarla di oggetti, idee, possibilità, innovazioni (tutti ridotti a merci), la
paziente tessitura dello scrittore-terapeuta si trova non solo impotente,
ma per giunta parassitata, come svuotata dall’interno, oltrepassata sul suo
stesso terreno. Qual è l’atteggiamento dello scrittore, o meglio del soggetto ragionante che continua a parlare sulla sua pagina, nei confronti
della situazione che lo circonda e lo condiziona, e quale la condizione, e
il destino, della comunità umana all’interno del quadro abbozzato? Ci
sono due serie di poesie, quasi speculari, di DID che offrono delle risposte. Si tratta della serie Medicina e della serie Posta dei lettori, entrambe
di quattro testi (ma l’ultimo elemento della Posta è tripartito). Scelgo un
solo testo per ciascuna ripartizione, e do di passata qualche informazione
sui rimanenti.
Medicina: L’occhio di Dolly
Mentre noi festeggiamo il cinquantesimo anniversario
della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
proliferano pecore sintetiche.
Il nome della prima è stato «Dolly»,
dal greco «Dorotea». Dono di Dio?
Strappatagli, piuttosto, prototipica,
teo-repellente creatura.
Guardate come il doppio la abita
e trapela dal suo sguardo. Sta lì
come un miraggio, sosia, corpo vicario,
ombra che sembra attendere il ritorno
di qualcuno.
È il viandante smarrito
alla biforcazione della razza.
Interferenze civili
65
Quelli di Medicina sono i testi del mostruoso che appare, della mescolanza confusa di tutte le forme, dell’invasione, da parte dell’operare umano, di
ambiti – è sempre il parere di Magrelli – che non gli dovrebbero competere.
Sono dedicati tutti e quattro ai risultati dell’ingegneria genetica (e in generale delle tecniche più avanzate), in campo sia medico che alimentare /agricolo. Va notato che le poesie applicano agli eventi di cui parlano una evidente
surenchère, un sovraccarico teologico, che serve a dire come l’azione umana
supportata dalla tecnica abbia ormai preso il posto, rispettivamente, del roveto ardente in cui il Signore si presenta (non visibile) a Mosè, del Lògos prima greco, poi giovanneo e cristiano, della creazione e infine della resurrezione. I versi che abbiamo letto sono quelli in cui l’uomo si arroga qualità
demiurgiche e, per colmo di blasfemie, attribuisce alla sua creatura teo-repellente, abitata dalla duplicità costitutiva, un nome che dice la provenienza da
dio. Qui e negli altri tre testi, il giudizio pronunciato senza mezze misure è
quello di sacrilegio, di violazione di un ordine che non andava toccato. Qui è
abbastanza naturale pensare di nuovo a un collegamento con Warburg (e ovviamente con tutta una larga corrente di pensiero novecentesco antitecnologico e contro il moderno), secondo il quale, per fare un esempio tra i molti
possibili, le onde radio erano sacrileghe, perché rendevano praticabile da
chiunque l’etere, e smembrandolo così, smembravano (sono le immagini che
usa Warburg) il corpo di Zeus.4
La Posta dei lettori rappresenta una specie di isola di resistenza alla mostruosità che ormai ha inzuppato il mondo perfino sulla scala molecolare;
una resistenza che consiste ormai soltanto nella possibilità di prendere coscienza, di comprendere precisamente che cosa sta accadendo. Prima di
leggere il testo che ho scelto dal gruppo e avviarmi a concludere, qui si può
fare un’ipotesi sul motivo per cui Magrelli abbia scelto, come supporto e
come medium delle Didascalie, proprio il quotidiano. Cioè un’entità ancora cartacea e tipografica, mentre il mondo che il poeta descrive con orrore
nell’opera è ormai un mondo elettrico ed elettronico; la scelta di Magrelli
sembrerebbe, ed è, secondo me, anacronistica (consapevolmente, è chiaro).
Il motivo è che il giornale è già nelle mani del nemico, ossia diffonde il veleno del «questo e quello» (il giornale per come appare in DID non è quasi nient’altro che un contenitore di fatuità, irrilevanza, chiacchiera, giochini: un terribile campionario di idiozia), eppure, forse proprio grazie alla sua
4
Trovo queste formula nel saggio Le forze del destino riflesse nel simbolismo
all’antica, in A. Warburg, Per monstra ad sphaeram, a c. di D. Stimilli e C. Wedephol, Milano, Abscondita, 2009. Affermazioni del tutto simili si leggono anche
in chiusura di A. Warburg, Il rituale del serpente, Milano, Adelphi, 1998.
66
Il mio corpo estraneo
tipograficità, è ancora una forma, sebbene appunto svilita, degradata, commercializzata, triviale. E Magrelli conserva questa ombra, questa traccia di
forma disponendo i testi sotto le rubriche di cui il quotidiano è composto.
È un po’ come se il giornale fosse l’ultima forma ancora largamente condivisa e circolante, e solo all’interno di questa forma, anch’essa scaduta
nell’ambito di quel che Magrelli definisce, proprio in un testo della Posta
ai lettori, la «Manutenzione universale», si potesse tentare di far sentire ancora qualcosa, di rendere nuovamente distinguibile la voce degli individui
(non è un caso secondo me che DID sia finora la raccolta magrelliana che
presenta l’assetto metrico complessivamente più regolare). Insomma a mio
parere in DID il quotidiano deve essere pensato come un campo di battaglia, come l’ultimo lembo comune in cui il progetto tecnocapitalistico e il
progetto, chiamiamolo così in mancanza di meglio, umanistico, possono
incrociarsi. Finalmente leggiamo:
Posta dei lettori: Ah, la burocrazia…
I
Il confine tra la vita e la mia vita
corre fra gli allegati che sto compilando da sempre.
Sono io l’allegato. Sono io
venuto alla luce per questo?
Per questo ho superato febbri e fratture
e morti e lutti e offese?
Ho superato le offese solo perché il mio tempo,
carne-tempo, fosse così smembrato e offeso
e capillarmente umiliato?
La disappropriazione
che una volta veniva dal lavoro
ora è Metastasi.
Perciò, se cancellassi le ore immolate al nulla,
non resterebbe l’età di un neonato
– l’aborto che qui scrive.
Qui si vede bene come un movimento peculiare di Magrelli venga riproposto, e insieme come se ne sancisca la vanificazione. Si tratta, si sarà capito, del “venire alla luce” (del venire su, col corpo, dall’oscurità demoniaca del corpo), superando (verbo importantissimo) «febbri e fratture / e
morti e lutti e offese»; ma questo superamento conduce soltanto ad un’offesa più grande, e d’altro tipo: il prodotto virtuoso del superamento dell’offesa, ossia la «carne-tempo» (a questo punto non serve insistere sull’importanza del fatto che Magrelli, per verbalizzare il risultato dell’opera di
Interferenze civili
67
autoestrazione, usi una parola-trattino), sia – e facciamo attenzione ai verbi – «offeso», «smembrato», «umiliato». la carne-tempo, che come si è visto è una carne spirituale, una carne di connessioni linguistiche, carne armonizzata e armonica, viene nuovamente smembrata (cioè disarticolata), e
umiliata, ripiombata giù, nella terra, nella pasta senza forma, nella metastasi, nella proliferazione incontrollata che distrugge il funzionamento di ogni
tessuto (corporeo e linguistico, di nuovo). La condizione che spetta all’individuo in questo quadro è quella di allegato, di addendum in margine (qui
Magrelli fa giocare una piccola anfibologia, riferendosi da una parte ai
gadgets che vengono appunto allegati ai quotidiani, e dall’altra all’allegato come pratica, come incartamento burocratico). Questa poesia è particolarmente importante perché prefigura un’idea del rapporto tra corpo e soggetto che Magrelli ha sviluppato in alcuni paragrafi supplementari al
Condominio (usciti in rivista nel 2003 e ora raccolti nel Violino) e nei Disturbi del sistema binario.
Penso sia interessante riportare un passaggio di uno di questi addenda,
intitolato Alcuni presupposti, con qualche nota di commento: da un lato
perché dà una formulazione molto netta, perspicua e perentoria (non a caso
Magrelli lo definisce contestualmente «manifesto»; ma nello stesso tempo
se ne smarca con discrezione, almeno in parte, mettendolo in corsivo e affermando che si tratta di un testo composto di getto e sull’onda di una lettura che «mi ha preso la mano»: ma non divaghiamo), dall’altro perché richiederebbe un discorso ancora parzialmente diverso da quello condotto
sin qui. Un discorso che dovrebbe mobilitare altre citazioni e altri luoghi
testuali, e vertere sulle vicende del rapporto tra la forte componente psichica “illuminista” di Magrelli e l’altrettanto forte sua componente magicoimmaginativa. Ecco il brano, dunque, in cui il corpo è equiparato alla burocrazia sotto il segno dell’ostacolo allo sviluppo dell’individuo, e l’io
vero, ci si sente autorizzati a dire, non è di questo mondo:
La burocrazia in quanto controllo del campo sociale (ossia come l’insieme
delle prestazioni collettive richieste ad ogni individuo, siano esse sacrifici umani, cerimonie liturgiche o protocolli amministrativi) si è plasmata mimeticamente sulla struttura del nostro corpo. {Dunque il tipo o archetipo del male è il
corpo – nota mia, come le successive in parentesi graffe}[...] Corpo e burocrazia hanno cioè lo scopo di intercettare e impedire il pieno, libero sviluppo delle facoltà umane. Noi non viviamo grazie ad essi, ma loro malgrado. Questi due
dispositivi cultuali mirano a ridurre le potenzialità di ogni soggetto, costringendolo ad investire la parte migliore del suo tempo in “pura prammatica”. Non
esistono differenze sostanziali tra un attacco di emicrania o la scadenza delle
imposte: l’importante è che all’individuo sia tolta la capacità di essere tale, os-
68
Il mio corpo estraneo
sia di “restare in sé”. [...] Esistere, significa dover assistere alla nostra impossibilità di goderne. Siamo di fronte al trionfo del dio malvagio: vivere, solo per
constatare l’inutilità di farlo {ancora la teologia, qui con un timbro palesemente gnostico}. A cosa serve essere un uomo, invece di un anaconda o un ciclamino, se tutte le mie traboccanti, infinite facoltà dovranno comunque venire assorbite ed esaurite da una fistola anale o da una fila in banca? {caso esemplare
di Schlitterlogik warburghiana, proprio perché la vicinanza fonica fa slittare il
senso di una parola nell’altra e viceversa} Il paziente, l’utente, altri non è che
il semi-uomo a cui sono stati requisiti tempo e pensiero. [...] La nostra autentica, impossibile vita, vive lontano dalle pulizie dentarie e dagli uffici tributari,
dalle analisi cliniche o dai caselli autostradali, dalle farmacie o dai ministeri.
Oramai è merce rara, spacciata di nascosto. Forse sarà vietata. Forse non ci sarà
nemmeno più bisogno di vietarla. In conclusione, ci è stato dato questo corpo e
questa società per impedirci di essere (pp. 109-110).
È un passaggio sorprendente, che rischierebbe di risultare incomprensibile a un lettore ipotetico che conoscesse soltanto, della produzione magrelliana, CC (e pensare che è comparso come suo supplemento), ma che
invece si trova molto più in sintonia con la problematizzazione a cui gli esiti di CC sono andati incontro negli anni a seguire. Per essere tale, l’individuo deve restare in sé, e ad impedirgli questa integrità che gli spetterebbe
per etimo e per diritto, sembra di poter inferire dal testo, stanno il corpo
biologico e quello burocratico (lo sfiancante e impenetrabile meccanismo
con cui il potere celebra sé stesso macinando uomini). Un individuo non è
dunque il suo corpo? O qui rientra la tentazione di pensare il corpo come
mero supporto di qualcos’altro, che farebbe l’essenza dell’individuo? E ancora, il corpo descritto in CC non finiva per somigliare, in fondo, a una
confederazione, o se mi si passa il termine disfederazione, burocratica di
agenzie tutte collegate, ma secondo alleanze e inimicizie insondabili?
L’immersione feconda e faconda nello «spazio interstellare della carne» si
deve considerare congedata, e per di più con una nota di biasimo? Oppure
questa non è che l’istantanea di un pensiero dilemmatico, che continua a
funzionare non nonostante, ma in ragione del suo interno dissidio?
Nel 2011 Magrelli ha riorganizzato e integrato un certo numero di interventi su temi civili (in prosa e in versi) apparsi su giornali e riviste, e ne ha
fatto un pamphlet pubblicato da Einaudi; secondo un’idea che conta parecchi sostenitori, l’ha intitolato Il Sessantotto realizzato da Mediaset (nello
stesso anno Mario Perniola ha fatto uscire un opuscolo dall’epigrafe pressoché identica – Berlusconi o il Sessantotto realizzato – e dai contenuti as-
Interferenze civili
69
sai simili). Nella noticina di congedo si trova una figurazione del rapporto
tra scrittore e società nella quale il primo è esposto agli effluvi venefici della seconda, che gli provocano le convulsioni. La riporto a conclusione di un
capitolo che non conclude:
Qualche anno fa mi sono imbattuto in una pagine di Filippo De Pisis dedicata Pozzuoli. Nella grotta campana, leggiamo, un guardiano faceva esibire
ogni giorno il suo cane davanti ai turisti. Lo mandava a respirare le esalazioni
dell’anidride carbonica, fino a quando, dopo aver danzato ebbro sulle zampe,
l’animale cadeva a terra di botto.
Scorrendo quelle righe, mi è venuto spontaneo pensare al rapporto fra scrittore e società, perché nella figura di chi si occupa di letteratura, io non riesco a
scorgere né una sentinella, né un soldato d’avanguardia, né un antesignano, né
un diagnosta, ma semplicemente una cavia: il cane che cade per primo (p. 73).
71
IO, VALERIO MAGRELLI,
SONO MIO PADRE, MIO FIGLIO, E IO
Su Geologia di un padre
Premessa
Geologia di un padre è «l’ultimo pannello», scrive l’autore nella noticina di chiusura (o quasi: è seguita infatti da una tavola delle citazioni, come
avveniva nelle altre componenti della serie, anche se con modalità non
sempre identiche), di una tetralogia di libri in prosa portata a compimento
nell’arco di un decennio. Se l’aggettivo «ultimo» non segnala soltanto la
posizione in una cronologia (il più recente, l’ultimo per il momento), ma
sancisce la chiusura di una certa linea di composizione e di sperimentazione, e insomma il raggiungimento di un capolinea, dove bisognerà scendere
e cambiare mezzo, varrebbe la pena di analizzare minuziosamente questo
ultimo capitolo, verificarne la fattura e i sensi possibili, controllare in che
modo si colleghi ai tre precedenti episodi, e provveda a ridefinirne poco o
tanto l’orientamento e i confini. E occorrerebbe farlo per più ordini di ragione. Innanzitutto per un’importante ragione compositiva, già vista all’opera nel Condominio e nella Vicevita, e utilizzata anche in Addio al calcio
e appunto ora in Geologia di un padre (queste le stanze del fabbricato): ciascuna di queste opere accoglie al suo interno, e dunque rielabora e rimaneggia, porzioni delle opere magrelliane precedenti, appartenenti alla tetralogia oppure no; e dunque ognuna di esse effettua sulle precedenti dei
prelievi, o sottrazioni, destabilizzanti che dovrà cercare di compensare in
qualche modo, secondo riconfigurazioni nuove e tracciati di ordine metastabile: a seguire l’immagine dell’«autotrasfusione» con cui Magrelli, autocitandosi, ha voluto etichettare nella suddetta noticina questa sua tecnica
di scrittura,1 bisogna pensare che ogni nuova entità-opera, né morta né
1
Ecco la nota: «secondo una pratica già sperimentata dieci anni fa, Geologia di un
padre recupera brani e brandelli di opere precedenti, riportandoli in circolo, innestandoli si un nuovo tronco narrativo. Così, parafrasando quanto mi è capitato di
osservare in una ricerca sul tema della riscrittura, potrei dire che ognuno di questi
quattro libri in prosa partecipa alla “diffusione di particelle esogene, di colonie
72
Il mio corpo estraneo
viva, si animi grazie allo svenamento, controllato secondo protocolli tecnici, delle altre. In secondo luogo per una ragione tematica, o di contenuti: se
come si è visto la paternità biologica e simbolica è emersa più volte nell’opera di Magrelli, un libro che fin dal titolo la prende a oggetto potrebbe
mostrare la messa a punto di un pensiero, e suggerire nuovi legami tra episodi e posizioni che fino a questo momento potevano sembrare irrelate o
collegate diversamente. Infine, ma non da ultimo, per una ragione di rilevanza: con la chiusa di Geologia di un padre, questa tetralogia per cui bisognerebbe cercare qualche definizione diventa uno degli edifici in prosa
italiana più significativi, per ingegno, altezza di pensiero ed elaborazione
formale fusi insieme, degli ultimi tempi.2 Se si è usato il condizionale
nell’indicare i compiti con cui deve misurarsi una esauriente lettura critica
di questo quartetto di testi, dipende dal fatto che la lettura critica tentata
nelle pagine che seguono non sarà esauriente, e lo dichiara subito. Si concentrerà invece su un aspetto specifico di Geologia di un padre, che verrà
2
straniere, di materiali alloctoni, di presenze aliene, ossia, altrimenti detto, di citazioni”. L’intratestualità, cioè il ricorso a inserti di mie composizioni, funziona insomma come un a sorta di autotrasfusione, vale a dire “una procedura […] per
mezzo della quale viene prelevato sangue da un paziente per trasfonderlo nello
stesso, in caso di necessità” – dove ai miei occhi necessità è semplicemente sinonimo di letteratura» (G, p. 141).
La collocazione editoriale dei quattro volumi induce, tra le altre cose, a qualche
pensiero sia sui meccanismi di “consacrazione” del Magrelli prosatore, sia, purtroppo, sugli orientamenti e sulle scelte della grande editoria italiana negli ultimi
tempi. Quando pubblicò Nel condominio di carne, nel 2003, Magrelli era noto
come studioso di letteratura francese e, soprattutto, come poeta, uscito nelle più
prestigiose collane nazionali (Feltrinelli, Mondadori, Einaudi); ma il Condominio,
probabilmente a causa delle sue peculiarità di stile, struttura e concetto, uscì per
«Stile Libero», una collana almeno nel nome priva di una precisa linea di conduzione e riservata per lo più a scrittori “giovani” e/o ad argomenti che si ritenevano in grado di attirare l’interesse di lettori “giovani” di ogni età. In molti si sono
chiesti, dieci anni fa, che cosa ci facesse Magrelli accanto, giusto per fare un
esempio, a Gioventù cannibale. La vicevita, nel 2009, fu pubblicato da Laterza
ancora in un collettore marcato dai segni della “gioventù” e, si direbbe oggi, della smartness, come «Contromano», dove il libro entrava per una ragione tematica
(il viaggio). Addio al calcio, nel 2010, ha visto finalmente l’approdo di Magrelli
nei «Supercoralli» di Einaudi, forse la sede che sarebbe stata adeguata fin dall’inizio al livello delle sue prose. Nello stesso tempo, però, Einaudi ha deciso di pubblicare nei Supercoralli in pratica tutta la narrativa (e non solo) che non fosse ristampa o nuova edizione di classici, né marcata con troppo evidenti contrassegni
di genere, inserendo così nella collana titoli che di superlativo avevano poco o
niente. Insomma, purtroppo Magrelli ha avuto accesso ai Supercoralli nel periodo
del loro maggiore appiattimento. È quasi superfluo rimarcare quanto auspicabile
sarebbe la pubblicazione in un solo volume delle quattro opere.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
73
preso come oggetto privilegiato dell’attenzione, e anche se con rammarico
ne tralascerà molti altri. In più di un senso, quel che si leggerà di seguito è
ingiusto nei confronti del suo soggetto; non solo perché ne ritaglia artificialmente una porzione, lasciando fuori dal cerchio del suo sguardo aspetti molto importanti e riducendone così la complessità, ma anche perché, per
ragioni di tempo, spazio e metodo, non dà conto a sufficienza di quello che
si potrebbe chiamare, semplicemente, la bellezza del libro: il suo tratto intimo, commovente, toccante. Mettendo l’opera sotto il bisturi e il microscopio, la tratta, almeno in partenza, un po’ gelidamente; sperando ciononostante che le lunghe analisi di zone testuali decentrate riescano a dire
qualcosa su uno dei nuclei radianti del libro. Ed ecco il programma: se nel
caso del Condominio di carne e della Vicevita si erano seguiti i tragitti degli autointerventi magrelliani, in quello di Geologia di un padre si interrogherà la provenienza e il senso delle “allocitazioni”, per motivi che si spera risulteranno più chiari strada facendo. Si cercherà inoltre di riflettere
sulla struttura del libro e su come questa rifletta la sua materia e si rifletta
su di essa, con alcuni effetti paradossali.
Geologia di un padre somiglia a un congegno che funziona con correnti a diverso voltaggio. Inserendo nel libro la spina degli occhi, ce n’è una,
più forte, che si avverte immediatamente, e attiva una traiettoria di scorrimento molto visibile, la strada maggiore del testo, quella debitamente segnalata anche dalla quarta di copertina: preparato ed assemblato dopo la
morte di Giacinto Magrelli, padre di Valerio, il libro costituisce il risultato
tangibile dell’elaborazione del lutto, la sistemazione, per quanto divagante, della materia della memoria, personale e familiare, la narrazione del legame tra padre e figlio, quel padre e quel figlio, dall’infanzia di Valerio
fino alla malattia degenerativa (il Parkison), allo spegnersi e alla morte di
Giacinto, e oltre (le procedure per il seppellimento, la sopravvivenza del ricordo e del fantasma). Ho menzionato la quarta di copertina perché solo lì,
e non all’interno del testo, viene offerta un’informazione importante su una
caratteristica basilare del libro, ossia la corrispondenza tra il numero dei
capitoli e il numero degli anni vissuti da Giacinto: ottantatre. Una serie di
strati di Geologia di un padre, dunque, è composta da materiale biografico,
di Valerio e di Giacinto Magrelli, e ripercorre, o rievoca, le vicende private o intime del rapporto tra i due, proprio loro due, con interventi di altri attori che però valgono quasi sempre come interferenze, spesso dolorose o
foriere di malintesi e situazioni spiacevoli. E la scelta di disporre la carne
del libro su uno scheletro formale e numerico prefissato (gli anni vissuti dal
padre), è a sua volta tipica del lavoro di Magrelli, che fin dall’inizio della
sua carriera di scrittore ha sempre operato partendo da vincoli più o meno
74
Il mio corpo estraneo
forti, all’interno dei quali cercare la sua libertà; basti ricordare, per fare
solo due esempi, l’attenzione alla metrica nella scrittura in versi (e forse,
come si è visto, anche in prosa), e il telaio di Addio al calcio, diviso, sul
modello di una partita, in due tempi, o blocchi di testi numerati, per un totale di novanta. La metrica, i minuti, gli anni: nei telai delle opere magrelliane c’è il desiderio, o l’angoscia, di un’economia del tempo e del suo conteggio, o scansione.
Tuttavia, è sufficiente leggere qualcuno di questi capitoli (che per lo più
si estendono tra una e tre pagine, con importanti eccezioni di capitoli brevissimi o più lunghi), per avvertire anche l’altra corrente, meno intensa,
meno immediatamente decifrabile, che fa girare macchine solo in apparenza perfettamente integrate con quelle messe in opera dalla prima. In questa
seconda serie di strati, variamente ripiegata sull’altra, non solo i confini tra
quel padre e quel figlio si fanno molto più sfumati, ma, e forse soprattutto,
entrano in scena concetti di paternità, filiazione, trasmissione, trasformazione, ripresa e differenziazione molto diversi, sebbene non indipendenti,
da quelli biologici.
Forse una delle più grandi abilità di Magrelli è stata quella di mettere a
punto un testo-conduttore che sapesse farsi attraversare da queste due correnti, mantenendole separate eppure in comunicazione: una specie di armonizzazione elettrica che arriva a far percepire come accordo ciò che, a
un secondo ascolto, si rivela dissonanza; a far sembrare chiaro, autoevidente, ciò che a un secondo sguardo si rivela enigmatico e profondamente
combattuto.
Si cercherà, con ascolti pazienti e ripetuti, di mettere in evidenza questa
doppia voce. Intanto, però, un indugio sul titolo e uno, più lungo, sulla
struttura potranno cominciare a stringere l’attenzione sull’ambiguità, o sul
paradosso, che si diceva.
Cominciamo dal titolo, e più precisamente dalla sua seconda parte, che
non recita né mio padre, né il padre, ma porta l’articolo indeterminativo: un
padre.3 Nel titolo (e si è già mostrato quanto questa soglia testuale sia importante per Magrelli) l’autore evita sia l’eccessiva compromissione autobiografica e la dichiarazione di stato di famiglia, sia una formula che sarebbe suonata inevitabilmente, in tempi di fin troppo corrive divulgazioni lacaniane o
pretese tali, sbilanciata sul versante dell’ordine simbolico e della Legge. Un
3
Ricordiamo che già l’ultimo e cruciale capitolo di CC si intitolava Infanzia di un
padre, e che DSB alberga un insieme di quattro testi intitolato Un padre. Non saprei dire se Distante un padre, la raccolta di Milo De Angelis uscita nel 1989, possa aver esercitato qualche suggestione su Magrelli.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
75
padre, chi è? Non solo nel corso del libro sia Giacinto che Valerio si troveranno più volte ad occupare il posto sia del padre che del figlio, senza che la
successione, o discendenza, possa essere disposta lungo un asse cronologico
lineare di eredità controllata e avvicendamento ordinato delle generazioni;
ma sarà proprio partendo da questo disordine, e da questa formidabile ambiguità, che l’opera saprà arrivare ai suoi punti più complessi e produttivi. Sarà
subito il caso di aggiungere che c’è un altro livello su cui il libro di Magrelli
si dimostra duplice e richiede uno sguardo altrettanto duplice; e questo livello riguarda la figura e il ruolo della madre. Non si può non riconoscere, infatti, che la presenza della madre è assai ridotta, e anzi volutamente confinata
negli angoli, o tolta dalla scena: è una cosa talmente palese che l’autore ha
voluto dedicare un capitolo alla questione (il cap. 72) per rendere conto di
questa clamorosa omissione. Ma se la madre biografica è messa in parentesi,
forse con il segreto auspicio di poter raccontare altrove la sua storia, altre madri sono invece fatte oggetto di attenzione, o addirittura costantemente tenute accanto e manipolate. In primo luogo, e lo vedremo leggendo dettagliatamente i capitoli iniziali, un posto importante spetta alla madre del padre, la
spaventosa vecchina rinsecchita con cui comunicare è impossibile; e nei dintorni di questa nonna verrà detto, ci torneremo, qualcosa su un padre che lascia un’eredità materna. Ma ancora di più, questo avvicinamento a un padre
(che ha forse qualcosa a che vedere con l’Acercamiento a Almotasim di borgesiana memoria) viene condotto lavorando con attenzione e cura non meno
esigenti per il fatto di non essere iperesibite la lingua madre, insieme supporto e medium del’intero tentativo.4 Ma procediamo: di un padre, qui si farà geologia, dice il titolo, facendo scivolare questo termine insieme scientifico e
tellurico al posto del consonante e apparentemente più appropriato
“genealogia”.5 Non dunque un albero genealogico (Giacinto che generò Valerio che generò…), né semplicemente la trasmissione di un nome, ma qual4
5
Ma occorre annotare subito che Magrelli ha tradotto un libro importante sul lutto
per la perdita della madre come Journal de deuil di Roland Barthes (Einaudi
2010; il volume è stato intitolato, pare per i consueti terrori di scarsa appetibilità
commerciale nutriti da editori che a tutto pensano fuorché a fare il loro lavoro,
Dove lei non è). Mettere a confronto ciò che in Geologia di un padre si dice della
traduzione (il protagonista, che la pratica per lavoro, la lega alla scarsa conoscenze delle lingue da parte del padre, e a una sorta di rimorso per aver assistito a una
défaillance paterna in materia), e il fatto di aver tradotto da una lingua straniera,
operazione che risulta dunque associata alla figura paterna, un libro sulla morte di
una madre, potrebbe offrire lo spunto per qualche riflessione.
Un precedente potrebbe essere il terzo capitolo di Mille Plateaux (forse il capolavoro di Deleuze e Guattari, uscito nel 1981), intitolato, manipolando un titolo
nietzscheano, La géologie de la morale.
76
Il mio corpo estraneo
cosa che ha a che vedere con le stratificazioni, gli avvolgimenti, le placche,
la Grande Molecola del pianeta, e con i resti di forme viventi estinte che vi si
sono conservati.
Ora qualche parola sulla struttura del libro, anche in questo caso apparentemente pacifica e allo stesso tempo, si potrebbe dire, autodecostruttiva. Il
blocco di ottantatré capitoli a cui si è già più volte accennato, infatti, costituisce il corpo centrale e quantitativamente predominante di un edificio tripartito. La centralità di questa porzione testuale, oltre che risultare dalla planimetria dell’opera, è più volte sottolineata, direttamente e indirettamente;
direttamente, perché dà il titolo all’intero libro (o lo riprende), Geologia di un
padre, indirettamente perché le restanti due parti sono qualificate come appartenenti a due generi diversi di addenda: la prima è una «prefazione» e l’altra è un’«appendice». La sezione eponima appare dunque incorniciata, inquadrata, messa a fuoco, messa al sicuro, in bella evidenza. Ma proprio in questa
inquadratura le cose cominciano a non quadrare. Non potremo analizzare
come sarebbe necessario l’appendice; limitiamoci a dire che è in versi e rimaneggia, a partire dal titolo Cronache dal Pleistocene, materiali provenienti
dalla sezione “familiare” di Disturbi del sistema binario,6 e affrontiamo la
prefazione, dove Magrelli fa giocare insieme tutti i caratteri istituzionali e codificati di questo genere letterario e contemporaneamente li incrina e li usa
per assestare un primo forte colpo all’equilibrio dell’opera.7 La prefazione,
intitolata L’uomo di Pofi, è firmata Giacinto, non Valerio, Magrelli, e non è
scritta, bensì disegnata. Dei disegni di Giacinto si parlerà più volte, con am6
7
Do qui solo un resoconto stenografico del riadattamento. La seconda sezione di
DSB, intitolata La volontà buona, comincia con la serie di quattro poesie, già
menzionata, a titolo complessivo Un padre. La serie è così strutturata: la prima
poesia si intitola Cronache dal Pleistocene, e non ha citazioni in esergo (la si è
analizzata nel secondo capitolo di questo libro); la seconda, senza titolo, porta in
esergo due citazioni, da Bellow e Joyce; la terza, senza titolo, dedicata «a Giacinto, mio padre», porta in esergo due citazioni, da Mario Luzi e Caillois; la quarta si
intitola Gran Caffè L’Obitorio e non ha citazioni in esergo. Tutti e quattro i testi,
con ordine immutato, entrano in Geologia di un padre come appendice; il titolo
del primo testo, Cronache dal Pleistocene, diventa epigrafe dell’intera appendice,
nel cui esergo risalgono o migrano le due citazioni (Bellow e Joyce) che in DSB
si leggevano in esergo alla seconda poesia (le analizzeremo più avanti in questo
capitolo). Nell’appendice, dunque, i primi due testi sono anepigrafi e senza citazioni in esergo; il terzo assume a titolo ciò che, in DSB, era dedica («A Giacinto,
mio padre»), e conserva in esergo Luzi e Caillois; l’ultimo testo è l’unico che il
transito lascia del tutto immutato.
Per la struttura della cornice e per i suoi effetti inarrestabili e destabilizzanti sulla
topologia del testo si rimanda a J. Derrida, La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
77
mirazione e affetto, nella sezione centrale, e potrebbe sembrare un commosso omaggio averne piazzati alcuni in apertura di libro; potrebbe sembrare anche, e così è in un certo senso, che far cominciare il libro con Giacinto sia il
riconoscimento di una preminenza, e di un debito. Ma la faccia inquietante di
questo Giano, custode della soglia, non tarda a svelarsi. Contrariando la consegna affidata all’etichetta, questa è una prefazione in cui nulla viene detto;
prefazione afasica occupata da disegni di edifici con funzioni, stili e segni
d’epoca diversi (templi romani, monumenti che sembrano assecondare un
gusto modernista per il gigantesco razionalizzato, fari neoclassico-futuristi)
che presi insieme non possono non dare un effetto di anacronia; prefazione in
pure res che nulla nel prosieguo del testo si curerà di spiegare, enigma muto
ospitato nello spazio testuale che di solito dice qualcosa sul libro che va a cominciare, e che invece, in questo caso, rimane lì come rovina enigmatica.
Sarà dunque il resto del libro a dover costeggiare quell’enigma, farci in qualche modo i conti? E non c’è soltanto questo. Si è detto che mettere il padre
all’inizio poteva essere un atto di giustizia e di riconoscimento, ma mettere il
padre morto come autore di una prefazione complica di molto le cose e fa saltare il dispositivo di inquadramento della cornice. La prefazione, infatti, è di
solito quella parte che si scrive dopo, a libro finito, e si posizione prima, all’inizio, per illustrare, valutare, lodare, legittimare il contenuto dell’opera; spesso affidata a un “maestro” o a una firma per qualche verso autorevole, è uno
dei luoghi deputati alle procedure di riconoscimento e accreditazione simbolica che tanto contano nel campo sociale della cultura. Ma farla stendere
all’uomo la cui morte è in un certo senso il motore, il nucleo generativo del
libro conferisce al tutto l’alone, sia pure discreto, del paradosso. Si tratta, di
nuovo, di un paradosso temporale; all’acronia dei disegni si aggiunge, a un
secondo sguardo, un certo anacronismo della struttura. Forse non è azzardato chiamare ironico il procedimento seguito da Magrelli, purché si faccia riferimento a quell’ironia formale praticata dal primo gruppo di romantici, ad
esempio, per riaprire obliquamente l’opera, metterne in discussione compiutezza e finitezza senza distruggerne la forma.8
Tempo in scatola (Coffee & cigarettes)
Dopo queste considerazioni liminari possiamo entrare nella zona geologica del testo, vagliandone prima di tutto, sulla scorta di quanto già visto,
8
Si rimanda naturalmente a W. Benjamin, Il concetto di critica nel Romanticismo
tedesco. Scritti 1919-1922, a c. di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1982.
78
Il mio corpo estraneo
la temporalità e la concatenazione interna, per passare poi ad una lettura
più fine che unisca questi due indici, importantissimi, alla variegata materia del libro. Gli ottantatré capitoli della sezione centrale sono, a loro volta, teatro o meglio campo di tensione fra diverse forme, e idee, di temporalità. È necessario sottolineare ancora, prima di mostrare in che modo sia
ironicamente trattata, l’importanza della corrispondenza tra capitoli e anni
vissuti dal padre: questa griglia numerologica è il punto di partenza, e anche in un certo senso l’arma di difesa, lo scudo, con cui Magrelli decide di
scendere, partendo dal tempo contato secondo criteri lineari e indici universalmente riconosciuti, nel tempo come montaggio anacronistico di tempi e addirittura epoche diversi.9
Questo traliccio rassicurante viene infatti subito lasciato indietro non
appena si entra nei capitoli; la “narrazione” in essi contenuta non solo non
è ordinata secondo cronologia nel passaggio da un capitolo all’altro, ma
anche all’interno dello stesso capitolo spesso (non sempre) segue tortuosi
itinerari che passano repentinamente dall’infanzia all’età adulta di Valerio
(e di Giacinto), e addirittura si proiettano in un passato così lontano che
nessuno dei due può averlo realmente vissuto.
Se il legame tra capitolo e capitolo non corre sul filo della cronologia,
cosa provvede a collegarli, e quanto conta questo collegamento? Già parlando del Condominio di carne si è avuto occasione di dire che la successione degli episodi obbedisce a una regola morbida di analogia, per cui
spesso un elemento di somiglianza o di ripresa passa da un pezzo all’altro
e provvede a suggerire delle serie più o meno estese; le cose funzionano
così anche in Geologia di un padre, ma rispetto al libro iniziale della tetralogia sembra che a Magrelli prema una legatura più stretta, che in molti
casi si traduce in una legatura verbale, ossia nella ripresa di una parola importante di un episodio in quello o quelli successivi. Anche Geologia di un
padre dunque è un libro che fa i conti col problema del capo e della coda;
è una specie di serpente, o di catena di anelli, forse non immemore di un
modello baudelairiano,10 i cui componenti tollerano diverse ipotesi di apparentamento e continuità.
9
10
Cfr. per questo il volume di G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo
delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2007 [ed. or. Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, Paris, Les Editions de Minuit, 2000].
Giusto il modello dei Petits poèmes en prose, introducendo i quali Baudelaire scriveva, nella famosa lettera dedicataria a Arsène Houssaye: «Mon cher ami, je vous
envoie un petit ouvrage dont on ne pourrait pas dire, sans injustice, qu’il n’a ni
queue ni tête, puisque tout, au contraire, y est à la fois tête et queue, alternativement et réciproquement. Considérez, je vous prie, quelles admirables commo-
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
79
Il capitolo 53 contiene una dichiarazione importante non sulla tecnica di
composizione, ma sul materiale di partenza; Magrelli parla di un «mucchio
di bigliettini dove ho trascritto i miei appunti per quasi dieci anni», e dice
che «sembra una cesta piena di pulcini: che pigolìo sale da quel paniere, in
cui ho raccolto e conservato tanti foglietti! Sapevo che ogni voce era una
gola che domandava cibo. Sapevo che ogni richiamo era come un filo, il
bandolo canoro di un’infinita matassa di storie» (p. 89). Dunque quel mucchio canoro e vocale, accatastato non si sa dove all’inizio, e poi, grazie
all’immagine della covata di pulcini, trasferito in una cesta (un contenitore
quindi c’era, o si produce strada facendo lungo questo brano) è una matassa che dev’essere filata, ossia districata e ritessuta, e quindi scritta, secondo percorsi da inventare. Il libro, bisogna pensare, è e non è fatto della materia di quei biglietti, che l’autore avrà dovuto alimentare, o mettere a
cuocere in quel vaso alchemico, per estrarne la trama verbale e musicale
della sua opera. E se di un libro di memoria si tratta, bisogna subito leggere però quanto a questo proposito scrive Magrelli diversi capitoli prima, nel
quattordicesimo. Si tratta di due episodi che occupano posti lontani nella
concatenazione del libro, ma sono molto affini perché in entrambi, e solo
in questi se non ho visto male, è esplicitamente convocato il tempo della
scrittura del libro; al passato prossimo in 74 («ho trascritto»: ma si è già osservato che abbiamo a che fare con qualcosa di molto diverso da una semplice trascrizione), addirittura al presente in 14 (che comincia con «mentre
scrivo queste righe», p. 26). Tirando il filo che li unisce, si deve dire che
Magrelli sottolinea fortemente come l’opera non solo sia composta, ma anche getti le radici, unicamente nella scrittura propria, nella scrittura dell’autore, e che quindi faccia affidamento unicamente su una memoria personale, o addirittura idiosincratica.
È interessante leggere uno spezzone un po’ più lungo di 14:
dités cette combinaison nous offre à tous, à vous, à moi et au lecteur. Nous pouvons couper où nous voulons, moi ma rêverie, vous le manuscrit, le lecteur sa
lecture; car je ne suspends pas la volonté rétive de celui-ci au fil interminable d’une intrigue superflue. Enlevez une vertèbre, et les deux morceaux de cette tortueuse fantaisie se rejoindront sans peine. Hachez-la en nombreux fragments, et
vous verrez que chacun peut exister à part. Dans l’espérance que quelques-uns de
ces tronçons seront assez vivants pour vous plaire et vous amuser, j’ose vous
dédier le serpent tout entier» (cito da Ch. Baudelaire, Lo spleen di Parigi, edizione col testo a fronte a c. di A. Berardinelli, Milano, Garzanti, 1999, p. 4); sulla
questione del testo-serpente si veda ancora il commentario di Derrida in Donare il
tempo. La moneta falsa, Milano, Cortina, 1996 [ed. or. Donner le temps. La fausse monnaie, Paris, Galilée, 1991].
80
Il mio corpo estraneo
Mentre scrivo queste righe, vedo davanti a me lo scatolone sigillato in cui ho
riposto le agende dei suoi ultimi vent’anni. Le ho trovate qualche settimana fa durante un trasloco, ne ho sfogliate un paio, e poi le ho messe via per mandarle in
soffitta. Possibile che non sia curioso di leggerle? Sono sbalordito dalla mia mancanza di interesse, ma devo prenderne atto. Non mi importa nulla degli archivi, e
provo nausea per i documenti. L’unico documento sono io: la carta moschicida
del ricordo. Una cosa, però, devo confessarla. Scorrendo gli appunti dei suoi ultimi mesi, l’ho scoperto ossessionato dalla defecazione (p. 26).
È facile vedere come queste affermazioni continuino in un certo senso
quelle del Condominio di carne, dove si leggeva «non mi interessa la storia ma i miei mali»; e inoltre a sfavore della scrittura del padre gioca in Geologia anche una ragione di economia interna, perché al padre, architetto
con inclinazioni da artista grafico, pertiene qui il medium del disegno e delle immagini, e non quello degli astratti segni scritturali; tuttavia, come sarà
evidente tra poco, la memoria-carta moschicida può catturare le sue prede
solo entrando negli archivi, e solo servendosi di documenti, pur se di generi particolari. E infatti, lo scrivente deve «confessare» di averli letti, quei
quaderni del padre; e proprio dallo spunto offerto da quella lettura saprà
costruire uno dei capitoli più toccanti del libro, il quindicesimo, in cui si
racconta della morte del genitore.
Leggendo attentamente i primi cinque capitoli, quanto detto in precedenza potrà risultare più chiaro, e arricchirsi di nuovi elementi. In particolar modo risulterà evidente il sovraccarico di senso con cui Magrelli ispessisce l’historia rerum gestarum, agendo sulle immagini; i raccordi tra
tempo e tempo; l’importanza dei contenitori, anche in questo caso di tipi
diversi, per stoccare materiali diversi (abbiamo già incontrato il paniere, la
cesta e lo scatolone); infine il peso decisivo dell’archivio.
Trascrivo di seguito il primo capitolo:
Mio padre sta versando il caffè nelle tazzine degli ospiti. Sono un bambino
e non bevo caffè, ma oggi questa scena mi incuriosisce, perché mio padre è ferito. Sembra averlo scordato, adesso, mentre ride chiacchierando, col carillon
dei cucchiaini che girano tintinnanti nel sole pomeridiano. Eppure il suo mignolo è avvolto in una smisurata garza, per proteggere l’unghia rimasta schiacciata nello sportello di un’auto, qualche giorno fa. Io guardo affascinato l’enorme dito bianco che oscilla sulla tavola, finché, di colpo, lo vedo immergersi nel
liquido fumante, senza che lui, distratto, se ne accorga.
Sto lì, ipnotizzato, in mezzo al tepore postprandiale, tra l’odore di cibo e di
tabacco, senza dire nulla, senza avvertirlo del nero che intanto va montando
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
81
lungo la fasciatura, risalendo verso la sorgente del dolore, lentamente, inesorabilmente. Più su, più su, e lui niente. Adesso, però, l’intera benda è diventata
scura, intrisa di un bitume incandescente. Così la mia infanzia si arresta, attraversata da un urlo improvviso, il tonfo del bricco, le schegge di ceramica, gli
schizzi sulla tovaglia. Ecco che cos’è per me “la voce del sangue”: la fitta di chi
chiama dall’interno, e chiama e chiama, finché la gente intorno si decide a
ascoltarla, mentre lento si spande l’aroma del caffè (p. 5).
«Mio padre sta versando», «sono un bambino», «oggi»: questo primo
episodio a scena fissa ostenta la marca di un presente; non si tratta di un
presente storico, né tanto meno onirico, piuttosto segnala una specie di visione procurata, una sequenza fatta di ricordi ma attentamente lavorata in
un altro presente, quello della scrittura. Qui si espone uno dei tratti più importanti del lavoro sul tempo di questo libro; vale a dire non una banale
cancellazione del tempo pubblico con i suoi segnali (le date, per esempio)
e del tempo storico col suo fardello evenemenziale, ma la combinazione
spiazzante di queste cronologie e delle loro tavole con scenari temporali ultrapersonali e quasi mitologici: l’infanzia, la maturità, la vecchiaia, la morte: epoche della vita dei singoli, di per sé indipendenti dagli avvenimenti
storici. Nessuno di questi due paradigmi del tempo ha semplicemente la
meglio sull’altro, ma fra di loro si accende una dialettica che verrebbe voglia, fraintendendo un po’ ad arte Adorno, di chiamare negativa. Nel mio
studio insisto quasi esclusivamente sul versante mitobiografico del tempo,
ma bisognerebbe vedere bene dove e come questo incrocia l’altro e come il
secondo influisce sul primo, e viceversa.
Nell’oggi richiamato artificialmente in vita, e in cui un rumore di fondo
viene trasformato nella musica d’accompagnamento di un carillon, l’io sdoppiato di chi scrive sovrappone discretamente, tanto che sarà possibile percepirlo appieno solo continuando la lettura, all’occasione rievocata una trama
simbolica che attraverserà, complicandosi, tutto il libro. Tutto quanto, all’inizio, è immerso nel chiarore di un placido pomeriggio; in questo chiarore,
come in un quadro di Vuillard, fa la sua apparizione un bianco diverso, quello della benda: la candida benda che protegge il dito ferito del padre. Solo a
questo punto un elemento presente fin dalla prima frase entra davvero al centro dell’azione e prende una valenza, o occupa una posizione, molto importante: si tratta del caffè, di cui ora si è costretti a percepire il nero, che imbeve e colora la garza bianchissima. La reazione del bambino è descritta in
maniera inequivocabile: fascinazione, ipnosi, paralisi; gli risulta impossibile
avvertire il padre di quanto sta accadendo. In seguito all’effetto della nera be-
82
Il mio corpo estraneo
vanda, il padre, da tranquillo che era, si fa furioso, getta un grido, rovescia e
manda in pezzi il bricco del caffè. Ora, proseguendo la lettura, risulta chiaro
che questa scena, in apparenza non particolarmente marcata, presenta invece
in figura la bipartizione fondamentale, la scissione, dolorosa per lui e per chi
gli sta intorno, che divora il padre; in questo libro si deve affrontare continuamente un padre bianco, affettuoso, premuroso, e un padre nero, furibondo,
distruttivo, melancolico. E l’umore nero del caffè anticipa e prefigura la bile
che a tratti tracima nel padre e lo trasforma. Questa bipolarità, inoltre, si fa
sentire anche nel figlio, sebbene attenuata; ed è oggetto di inquietudine proprio per la sua capacità di venire trasmessa di padre in figlio. Valerio, contagiato dal padre, si augura che i suoi figli siano risparmiati dal male. E di quella benda, schermo, protesi e protezione che ritarda il contatto della nerità
rovente col vivo della carne, può darsi che anche il figlio si sia, nel corso degli anni, e proprio scrivendo, fasciato.
Per di più, la rottura del bricco è solo una delle tante frantumazioni a cui
assistiamo nello snodarsi dei capitoli. Un’intera serie si costruisce intorno
al sorprendente legame delle cose che si rompono, e in fondo è il rapporto
col padre che continuamente si rompe e continuamente si rimette insieme,
o in qualche modo inanella i diversi andare in pezzi;11 la sequenza degli oggetti infranti si incrocia con una figura o tema che serpeggia in più di una
sequenza, come un tema musicale può entrare in più d’una composizione,
e che si potrebbe chiamare tema della distanza. Quello ricostruito da Magrelli è un incessante elastico tra padre e figlio, con avvicinamenti, contatti, distanziamenti, incapacità e poi impossibilità di capirsi e toccarsi.
Con il valore emblematico e prolettico che si è cercato di mostrare, la
prima scena è piuttosto stabile; è un ricordo d’infanzia battuto e ribattuto
dall’artefice che deve servire da porta d’ingresso. Già dal secondo si possono notare quei fattori destabilizzanti a cui si accennava in precedenza.
Ne trascrivo una parte:
Gli era sempre piaciuto il caffè, per questo, alla fine, non mi sono sorpreso
più di tanto quando ho capito che lo sarebbe diventato. Mi riferisco alla tomba
di famiglia. […] (p. 6)
11
La figura della lesione non è nuova in Magrelli, e attraversa da tempo la sua produzione in versi e in prosa. Il penultimo capitolo di CC finisce con queste parole:
«Gli oggetti nella mia casa: tutti rotti. Io fratturo le cose. Le incito a lesionarsi. Cedono sotto la mia vicinanza. Esorto la fessura. Guardate questo tavolino, ad esempio» (p. 116). Per ciò che riguarda i versi, ricordo soltanto che in ET è inclusa la
traduzione della poesia di Sully Prudhomme intitolata Le vase brisé, e molto altro
si potrebbe dire, risalendo fino a NV.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
83
Annotiamo in fretta due cose. Con quella ripetizione di parola così forte
che incatena questo paragrafo al precedente, e finisce per somigliare a una
capfinidura, risulta già chiaro che il trait d’union di questa prima serie è
proprio il caffè, anzi il termine “caffè”, che serve sia come segno di continuità linguistica sia, o soprattutto, come aggregatore di immagini; nello
stesso modo sarà trattato il secondo genere voluttuario di cui molto si parla nei primi quattro pezzi, ossia il tabacco. La ripetizione di una parola serve come ancora a cui assicurare, perché stia insieme, perché non si disperda, un carico, o sovraccarico, di immagini. E ancora, è chiaro che con la
dichiarazione iniziale di 2 torniamo dalle parti di quella ana-logica magica
e risonante già vista all’opera nel Condominio di carne, e commentata nel
saggio su Baltruŝaitis incluso nel Violino di Frankenstein (e va notato a che
salti mentali costringa questo incipit, a contrasto con una pronuncia così
posata e apparentemente limpida). È ora da vedere come, in questo capitolo, una simile logica, partendo dal caffè e ritornandoci, possa aiutare il figlio nell’impresa cui si appresta: una specie di discesa agli inferi, pur se irreggimentata da norme burocratiche. Cosa c’entra dunque la tomba di
famiglia? Il fatto è che, alla morte del padre, si scopre che la tomba di famiglia ha bisogno, per poter ospitare altre salme, di un intervento urgente.
Contrariamente agli usi di altri paesi, dove i cadaveri vengono affidati alla
terra, in Italia li si inscatola più volte e li si racchiude in costruzioni impermeabili, dove, impossibilitati a sciogliersi nella Grande Molecola della
Terra, se ne stanno a colliquare finché qualcuno non arriva a fare pulizia.
Ciò che avanza, dopo quell’intervento che si fa di solito a una ventina d’anni dalla morte, e che consiste nel travasare ciò che del cadavere non si è
sciolto dalla grande scatola di zinco della bara a una piccola scatola di latta numerata, viene chiamato la «resa». Passare per analogia dai morti custoditi nella sfoglia di zinco ai cibi in scatola, o ai vini in botte, non comporta un salto molto lungo. Ma la parola «resa» favorisce l’entrata, sempre
per analogia o equivoco, di un altro campo semantico, quello della moneta
e dell’economia:
La resa è la differenza di quanto, dopo morto, ognuno paga con la propria
vita: l’avanzo degli avanzi, l’autoreliquia. Ogni resa equivale a un corpo, o
piuttosto a ciò che ne rimane una ventina d’anni più tardi. La tomba, insomma,
è una macchinetta distributrice che dà indietro il resto, sia pure dopo un’attesa
alquanto prolungata (p. 7).
Dunque la resa è il resto di una transazione commerciale, e la tomba è
una macchinetta del caffè di fronte alla quale basta essere sufficientemen-
84
Il mio corpo estraneo
te pazienti. Ma nel capitolo successivo, questo filo analogico ha in serbo
un’altra accensione, che sembra portare a un’acquisizione definitiva:
Quando il camion con le bare dissestate è andato via, lasciando a terra una
pila di cassette luccicanti, ho capito cos’erano le rese. Le rese sono i morti torrefatti e neri, trasformati in caffè. Saremo tutti cotti nello zinco, per diventare
tutti polvere di caffè (p. 10).
La tomba come camera di tostatura, ecco l’anello che mancava per dare
ragione della frase con cui il secondo capitolo iniziava, con il divenire-caffè del padre; in questo modo, per giunta, il nero del caffè viene legato al
nero della morte e dei morti. Ma lungo questa traiettoria circolare c’è stato
un incremento, o per restare in campo economico un guadagno, che il testo
ha fatto registrare, di nuovo puntando, se non sbaglio, su un profilo emblematico: la discesa nell’avello, la procedura di pulizia, l’attenzione portata
sulle scatole di varie dimensione e sul trattamento dei morti, e forse soprattutto l’insistenza sul fatto che questo compito sia toccato proprio a lui, fra
i tanti parenti possibili, fa pensare che questa sequenza di gesti e pensieri
trovi un corrispettivo nell’operazione della scrittura. Con Geologia di un
padre, Magrelli mette le mani, per interposta lingua (così come, nella narrazione, lo fa non di persona, ma tramite la mediazione degli esperti, degli
addetti), nella pasta dei morti, perché non se ne resti nascosta in qualche
cripta segreta, ma venga in qualche modo messa in ordine, sistemata. A differenza però di quanto accade nei fatti raccontati, le scatole in cui Magrelli versa la materia nera della morte non sono impermeabili; al contrario,
sono costruite apposta per lasciar passare, per trasmettere; forse addirittura
per purificare, restituire al bianco, quella materia. Capitoli come scatole,
ma non di zinco: scatole di parole, scatole-radio, scatole-depuratori.
Ricominciamo però dal caffè. Questo è quanto segue, in 3, all’ultima
frase citata:
D’altronde, alla medesima conclusione, era arrivato anche un grande poeta.
Nel suo testamento del 1949, il tolemaico di Gottfried Benn espresse infatti
questa precisa disposizione: «Disperdere al vento di settembre la metà delle
mie ceneri, e conservare l’altra in una scatola vuota di Nescafè». Aggiungo che,
in alternativa, l’impresa svizzera di Algordanza, adottando un procedimento di
origine russa che prevede una pressurizzazione di due settimane, trasforma le
ceneri degli estinti in diamanti di circa un carato. Tra i clienti migliori, i messicani. Allego infine la leggenda metropolitana secondo cui il cantante Keith Richards avrebbe sniffato le ceneri del padre, mescolandole con un po’ di cocaina (p. 10).
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
85
Ancora tre esempi di conservazione, assimilazione o trasformazione dei
morti, uniti tramite semplice giunzione. Ma se la trovata dell’impresa svizzera riporta al tema, molto caro a Magrelli da almeno un decennio a questa
parte, dello sfruttamento economico della vita e della morte, e al filo monetario che già correva in questo capitolo, e se il gesto di Richards è qualificato come una voce che circola, e come tale riportata, che senso ha la citazione da un testo letterario? Come interpretare l’atteggiamento dello
scrivente, che sembra voler segnalare quella coincidenza di vedute quasi
come un’approvazione da parte di Gottfried Benn?12 Abbiamo già visto
leggendo il Condominio che queste citazioni, che inseriscono la cultura, o
addirittura lo spirito, nei più remoti anfratti della carne (e qui, addirittura,
dei resti della carne dei morti) sono dallo stesso Magrelli giudicate importantissime, alla stregua di segnavia. Proveremo ora, con Geologia di un padre alla mano, a verificare come il trattamento delle citazioni si sia evoluto, e più in generale che ruolo abbia, in questa tessitura, la letteratura o
l’arte. Nel frattempo si può già dire che, specie in questo libro, le citazioni
si provano a svolgere uno tra i compiti più difficili di tutti, ossia dare
un’immagine, o una formulazione analogica, alla morte.
A Benn fa seguito, all’inizio del capitolo 4, Jean Cocteau: non al caffè si
associa «l’immagine della morte», ma al tabacco; allo scrittore francese
piaceva descrivere le sigarette come «regine d’Egitto, “piccole mummie
dalle cinture d’oro”».13 Ebbene se dal padre morto, e dal destino della carne, si era arrivati al caffè e a Benn, ora, dopo aver contrapposto a quest’ultimo Cocteau, si passa attraverso le sigarette per arrivare alla nonna. Testi
letterari come rampini per risalire in senso inverso la discendenza genetica? Come visto nel Condominio, queste articolazioni culturali sono fondamentali per lo sviluppo sia delle argomentazioni che dei racconti:
12
13
Il frammento citato si legge in G. Benn, Romanzo del fenotipo e Il tolemaico, a c.
di L. Zagri, Torino, Einaudi, 1973, pp. 117-118: «Il negozio, il grattacielo, la metropoli che spezza boschi e lago: qui avevo fondato la mia vita, qui volevo fissare
la sua fine con la precisa disposizione di disperdere al vento la metà delle mie ceneri e di conservare l’latra in una scatola vuota di Nescafè». Ricordiamo troppo
rapidamente che uno dei mezzi individuati da Benn per mantenere ai suoi testi
l’irriducibilità alla riunificazione in una coscienza era l’arte delle citazioni, dirette e più spesso solamente alluse.
Questi versi di Cocteau, provenienti – lo leggiamo nella nota – dalla poesia intitolata Espagne, erano stati già citati da Magrelli, che qui si produce in una specie di
citazione al quadrato. Le sigarette-mummie erano infatti già nell’esergo di Alle lagrime, rovi, prosa parautobiografica raccolta in Esercizi di tiptologia.
86
Il mio corpo estraneo
Da qui una toccante visione: le sigarette viste come regine d’Egitto, «piccole mummie dalle cinture d’oro». Ho conosciuto bene quella sensazione di vuota levità, buia ed aerea; la provavo da piccolo sollevando mia nonna. Stava da
noi ogni tanto, Christopher Walken, veniva abbandonata in una stanza dove sostava, come un soprammobile. Era scesa tanti anni prima dai monti della Ciociaria, e recava con sé, atrofizzato, un dialetto tenebroso e arcaico come le sue
vesti (p. 10).
La nonna, il cui unico nome all’interno del libro sarà “Christopher
Walken”, per l’impressionante somiglianza con l’attore americano (un tratto, questo, comune a più d’una donna del ramo paterno; e questa somiglianza condivisa e spiazzante, anch’essa anacronistica, getta su queste
donne un alone inquietante), è la prima testimonianza dell’origine, e della
terra d’origine, del padre, che assumerà poi un’importanza fondamentale
nello sviluppo del racconto; piccola e leggera come una mummia o una sigaretta, nonna-morte, radice immobile e disseccata, raduna in sé i due colori che saranno anche di Giacinto, e di Valerio: al nero delle vesti e del dialetto si uniscono la «pelle candida, traslucida, e infine lunghissimi capelli
bianchi annodati in una crocchia. E quando li scioglieva… Sembrava un
ragno al centro di un’infinita tela luccicante d’argento!» (p. 11). La sospensione sintattica e il punto esclamativo rendono bene stupore e tremore di
fronte alla metamorfosi che dispiega la natura mostruosa della nonna, ragno nero al centro della tela, apparato di cattura pronto a divorare le sue
prede; e quella ragnatela è talmente resistente che, lo leggiamo in 3, la si ritrova intatta, nella cripta di famiglia, in mezzo al marcire colliquativo.
Un’«apparizione» misteriosa, per restituire alla quale la sua natura umana
occorre la perizia del «capomastro» dell’impresa di pulizia tombale, l’esperto di resti, il connaisseur di cadaveri: solo la sua expertise dissipa il
piccolo incubo psicotico dell’ava-ragno che stende la sua tela per trattenere ancora, orribilmente, una fanghiglia che cerca solo di andarsene in pace
e ne è già impedita dalle mura tombali. Ostile nei confronti del nipote, di
cui ha sempre rifiutato di imparare il nome, chiamandolo con quello di suo
figlio, la nonna non è solo presentata come mummia e vedova nera; c’è una
terza mostruosità, la più spaventevole, di cui il nipote si accorge e che gli
impedisce per molto tempo addirittura di guardarla, ed è la sua natura di
buco nero, di voragine.
Leggiamo ancora da 4:
Finché un giorno mi accorsi con orrore che aveva il vuoto fra i globi oculari e le orbite. Solo in seguito notai che quello spazio dischiuso nella parte superiore dell’occhio, a mo’ di sottotetto, appare anche nel David di Michelangelo.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
87
Tale scoperta, però, avvenne assai più tardi; lì per lì la sua improvvisa teschificazione mi impedì di guardarla per mesi. Occhi, e poi nulla, da passarci dentro
un dito, là dove tutti noi siamo (o perlomeno fummo) compatti, colmi di carne,
a mascherare ogni fessura (p. 11).
Se è vero che, secondo Lacan, il cavo oculare è il posto dello sguardo, e
lo sguardo (dell’altro) ha funzione di oggetto a, ossia è messo lì a tappare
un buco e a tamponare l’angoscia,14 quando il nipote vede che lo sguardo
della nonna è cavo, ossia anziché fare schermo evidenzia il buco in cui si
alloggia, avverte questo sguardo insostenibile come un’entità mortifera
sfuggita in qualche modo alla legiferazione del simbolico, e in grado di veicolare nell’ambiente del senso qualcosa dell’amorfo devastante dell’Origine, della vita o della morte impersonale e indistruttibile. Ancora con Lacan,
si potrebbe dire che questo occhio senza sguardo è una lamella, o «falso organo», espressione diretta di un Reale intollerabile, che occorre ricacciare
indietro. Come è già capitato di notare spesso, anche in questo caso Magrelli “risolve” il problema in una maniera il cui carattere di soluzione è
tutto da interpretare. La nonna, introdotta da Cocteau come mummia rinsecchita e addomesticata, immaginetta portatile della morte, ma presto rivelatasi una forza attiva e paralizzante, viene riaddomesticata, ma solo «assai più tardi», grazie a un dettaglio di un’opera d’arte: Magrelli scopre che
il David di Michelangelo presenta la stessa conformazione anatomica
dell’occhio vista con raccapriccio tempo prima nella nonna. Il testo non offre spiegazioni su come questa coincidenza possa aver richiuso, in un certo senso, quella voragine; ma è come se l’averla trovata rifatta, ricostruita
artificialmente, in un prodotto artistico l’avesse resa meno terrificante.
L’arte, in questo caso, non si occupa di chiudere le fessure imbottendole di
carne, ma le riproduce in un altro materiale, e con il gesto di ricreare il buco
cerca, quasi in maniera rituale, di tenerlo sotto controllo. Tuttavia bisogna
osservare ancora una cosa: nella statua michelangiolesca, Magrelli seleziona un dettaglio che si carica di senso (almeno all’interno dell’episodio che
narra la vicenda) solo a partire da una ricezione molto personale e preorientata da un accadimento biografico. Insomma, se l’arte qui è chiamata rifare lo schermo, è a partire da un’esigenza idiosincratica, del tutto esterna
alle regole e alle categorie estetiche, che avviene questa chiamata; se per
14
Cfr. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XI, Les quatre concepts fondamentaux de la
psychanalise, texte établi par J.-A. Miller, Paris, Les Editions du Seuil, 1973. In
questo stesso seminario Lacan dedica un’analisi tanto discutibile quanto geniale
al quadro di Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori, e a quella strana entità lamellare e anamorfica al centro della scena, che, rettificata, si rivela un teschio.
88
Il mio corpo estraneo
parlare del padre e della nonna è necessario ricorrere a stralci, spezzoni o
dettagli di opere dello spirito, è altrettanto vero che dev’esserci, nella vita
o nel racconto biografico, qualcosa che formi un’attenzione e una modalità ricettiva molto specifica nei confronti delle opere. Come sa chiunque lavori consapevolmente con i documenti, non si entra in archivio senza un’ipotesi, o addirittura senza una bacchetta da rabdomante.
Non abbiamo ancora finito con la nonna, perché dopo il suo incombere
inconsapevolmente minacciosa sul nipote, nel capitolo 5 ci viene presentato uno stralcio del suo rapporto col figlio, e sempre a proposito delle sigarette. Giacinto, infatti, aveva giurato, da ragazzo, alla «nonna sigarillo» di
non fumare più, e il voto fu rotto solo dopo la morte della vecchia madre.
Già settantenne, Giacinto ricomincia, ma come? Con una strategia di trasgressione della norma tramite una forma di truffaldino rispetto, per cui il
limite di poche sigarette giornaliere rigorosamente autoimposto viene, senza mai dirlo, costantemente spostato in alto. Così, rigorosamente, Giacinto
passa da cinque a dodici sigarette al giorno, finché il medico non gli impone una diminuzione drastica. Ma se una sigaretta dovrà essere, allora dovrà
essere una sigaretta eccezionale. Giacinto scova una marca tedesca che
fabbrica sigarette lunghissime, che durano anche un quarto d’ora. Il padre
rispetta la proibizione e il vincolo, ma beffardamente, e questo aggiramento della norma, forse più ancora del gusto del tabacco, gli provoca uno straordinario godimento. Prima il divieto materno e poi quello medico sono
stati giocati. E per descrivere la rara felicità di questo padre impenitentemente ligio alla norma, Magrelli ricorre ad un paragone letterario in cui si
ferma una delle immagini più struggenti del libro, con il fumatore «inebriato» che «taceva tra le spirali, dolce Brucaliffo, sorridendo felice, rigorosamente felice» (p. 13).
Padri e figli
Allargando il raggio dell’analisi ad altre zone testuali si potrà ora verificare la validità di queste considerazioni. Faremo un passo indietro nel percorso del libro, tornando sulla soglia non del libro ma della sezione eponima e leggendo con attenzione le citazioni che la popolano. Magrelli usa da
molto tempo gli eserga, sul limine dell’opera o anche di suddivisioni interne, per disporvi numerose citazioni da testi scritti, letterari o no, che concettualmente corrispondono in maniera precisa all’occhio del David, isolate come sono da un corpus più grande e riposizionate; cercheremo di
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
89
capire in che modo. In apertura di Geologia di un padre ne troviamo tre; le
trascrivo così come si offrono al lettore.
Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo.
SIGMUND FREUD
Ormai sono solo al mondo, egli pensò, la catena di un’ancora si è spezzata…
io salgo alla superficie!
ROBERT MUSIL
Se i resti umani trovati a Pofi risulteranno più antichi di 130000 anni, essi
assumeranno senza dubbio un notevole interesse. Ma non v’è chi non veda che
quell’interesse rivestirebbe un carattere veramente eccezionale se l’antichità
dei resti stessi dovesse risultare superiore ai 180000 anni. In quest’ultimo caso
potrebbe toccare proprio a Pofi dare un contributo decisivo alla migliore conoscenza dei caratteri morfologici dei tipi umani vissuti prima dei neandertaliani,
ma dopo i pitecantropi, specie per quanto riguarda l’Europa.
Qualche giorno dopo il ritrovamento della nota ulna umana, la Dottoressa
Mariella Taschini, collaboratrice del Prof. A. C. Blanc, vedendomi entrare
nell’Istituto di Paleontologia dell’Università di Roma, mi disse sorridendo e
scherzosamente: Dott. Fedele, avremo il Pofantropo?
PIETRO FEDELE
La prima citazione, da Freud, è quella che sembra meno problematica.
Non c’è da stupirsi che un libro scritto dopo la morte del padre voglia utilizzare una frase di Freud sul padre morto. Ma proprio a partire da quest’ovvietà si pone una domanda forse altrettanto ovvia: lì dove pare che Magrelli pieghi un’autorità culturale novecentesca a un fine individuale, non c’è
forse qualcosa, nel testo di partenza, nel luogo in cui è stato operato il prelievo citazionale, che può aiutare a capire meglio il tentativo individuale?
Non sarà, questo gesto di ritaglio, una maniera di convocare, richiamandola indirettamente, una porzione di testo più grande in cui quella ritagliata si
inseriva? Ossia, non sarà il caso di fare a ritroso la strada di questa decontestualizzazione (o passaggio da scatola a scatola, da cornice a cornice) e
controllare se il piccolo campione di testo trapiantato non sia la richiesta di
leggere, più di quanto non sembri, il testo di arrivo alla luce del testo di partenza?
Verifichiamo. Le parole di Freud vengono dall’ultimo capitolo di Totem e
tabù, intitolato Il ritorno del totemismo nei bambini, dove Freud chiede a ciascuno di guardare alla propria storia personale e al comportamento dei bam-
90
Il mio corpo estraneo
bini per dare consistenza alla sua ipotesi dell’uccisione del padre primordiale da parte dei figli maschi come gesto fondativo della civiltà, e del pasto
totemico come ripetizione rituale di questo gesto, in cui il padre veniva divorato dai figli per assumerne la forza. Il padre morto diventa più forte di quanto fosse da vivo perché, dopo la sua cruentissima uccisione, i figli, per il fenomeno che Freud chiama «ubbidienza postuma», dipendente dal rimorso, si
proibiscono da soli quegli atti che il padre gli proibiva; proprio per liberarsi
da quei divieti il padre era stato ucciso. Magrelli mette all’opera la sua seconda mano in uno dei lavori più azzardati di Freud, uno di quelli più indimostrabili e che più sconfinano nella leggenda. Ma non è tanto questo a interessarci ora, quanto piuttosto il fatto che, parlando di padre morto, Freud parla
qui simultaneamente di padre assimilato, interiorizzato, dai figli. E si è visto
come, nei primi capitoli di Geologia, Magrelli insistesse su analogie che trasformavano il padre in bevanda, in sostanza da assumere (la leggenda di
Keith Richards potrebbe in questo modo essere una sorta di ripresa o risposta a quella di Freud), e come questa sostanza fosse nera. Vedremo che
un’importante costola di Geologia di un padre racconta questa assimilazione
come un contagio, e come una progressiva emersione del padre nel figlio.
Passiamo alla seconda citazione, forse ancora più interessante e meritevole di attenzione, tratta da uno dei capolavori più riconosciuti del Novecento letterario, L’uomo senza qualità. La frase citata da Magrelli è estratta dai pensieri di Ulrich che cammina dietro il feretro del padre, durante il
funerale. Basterà rileggere L’Anti-Mazur, una delle prose di Esercizi di tiptologia, oppure Xochimilco, versi della stessa raccolta, per verificare quanto quel venire alla superficie di cui parla Ulrich sia congeniale al pensiero
o forse meglio all’autopercezione magrelliana (che si vede spessissimo
come qualcosa che emerge da una tenebra sconfinata). Ma ancora più importante è notare che, nel romanzo musiliano, la frase citata da Magrelli è
una ripetizione, a cui solo pochi dettagli impediscono di essere puramente
una seconda occorrenza, e che è proprio il narratore a farne rimarcare il carattere iterativo:
Adesso non sentiva più che l’assurdità confusamente oscillante dell’ordine
umano e di se stesso. «Ormai sono solo al mondo, – egli pensò, – la catena di
un’ancora si è spezzata… io salgo alla superficie!» In quel ricordo della prima
impressione avuta nel ricevere la notizia della morte del padre tornò a vestirsi
il suo sentimento mentre egli avanzava tra le due muraglie di uomini.15
15
Cito da R. Musil, L’uomo senza qualità. Nuova edizione italiana a c. di A. Frisé,
Introduzione di B. Cetti Marinoni, Torino, Einaudi, 1996, p. 805. Le prossime ci-
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
91
Ripetizione e ricordo, dunque. Ulrich aveva infatti già pensato quella
frase quando aveva ricevuto il telegramma che gli annunciava la morte del
padre, consegnatogli da Clarisse che lo aveva atteso a casa per uno sconcertante tentativo di seduzione. Sarà la morte del padre che riporterà Ulrich
nella dimora familiare e che gli farà reincontrare sua sorella Agathe; e
com’è noto il costituirsi di questa coppia paragemellare e paraincestuosa
imprimerà una grande torsione all’edificio del romanzo. «Egli pensò:
“Adesso son proprio solo al mondo!” Non intendeva in senso letterale
quelle parole poco corrispondenti al rapporto or ora troncato dalla morte;
piuttosto gli pareva, con meraviglia, di salire verso l’alto, come se si fosse
spezzata la catena di un’àncora, o sentiva che adesso entrava davvero in
uno stato di allontanamento dalla vita, alla quale suo padre ancora l’aveva
tenuto legato» (pp. 744-745).
Ma nell’annuncio della morte c’è un che di sorprendente, anzi di «comicamente sinistro»; solo diverse pagine più avanti, quando Ulrich sarà sceso alla stazione della città paterna, sapremo di cosa si tratta: «Aveva in tasca lo strano messaggio del padre e lo sapeva a memoria: “Ti partecipo il
mio avvenuto decesso”, gli aveva fatto telegrafare il vecchio – o si doveva
dire gli aveva telegrafato? – e anche qui si rivelava quella sua tendenza al
fantastico, perché il dispaccio era firmato: “tuo padre”» (p. 760).
Ripetendo, con la citazione, una frase che già nel testo di Musil è una
ripetizione, ed è la seconda metà di un anello che circoscrive una porzione narrativa abbastanza lunga, Magrelli convoca seppure fantasmaticamente l’intero brano. E nel brano troviamo, per cominciare, un esempio
paradossale di scrittura post-mortem; un padre morto che scrive al figlio
partecipandogli così la propria morte. Con tutte le diversità del caso, Magrelli ha fatto qualcosa di analogo con la prefazione a Geologia; l’idea di
affidare al segno un controtempo e di legarlo alla figura paterna era già
scritta prima che Magrelli la riattivasse per trattare il proprio lutto, ed era
scritta in un’opera in cui il lutto per la morte del padre gioca un ruolo significativo. E se, continuando a leggere il brano di Musil, ci imbattiamo,
durante la permanenza del cadavere in casa e poi durante il funerale, in
scene in cui Ulrich «per la prima volta sentiva il vero carattere della tradizione», e rivolgendo lo sguardo verso il carro funebre si vedeva restituita dai vetri la propria immagine, sentendosi ora «l’erede» che «riprendeva il cammino al posto dell’estinto», non possiamo non pensare che la
progressiva reincarnazione del padre morto nel corpo del figlio, al centro
tazioni dal romanzo di Musil vengono tutte da questa edizione, e se ne segnala soltanto il numero di pagina.
92
Il mio corpo estraneo
della scrittura di Geologia, vada volutamente ad iscriversi in un solco,
culturale, letterario; e che il racconto della trasmissione genetica voglia
imparentarsi, o affiliarsi, con la via maggiore della trasmissione non genetica dell’Europa moderna. Insomma, questo è un libro che parla di padri biologici ma lavorando un’eredità pesante di padri culturali che riflettono sulla doppia via della paternità.
Prima di spostare il discorso avvicinando la terza citazione in esergo,
c’è un altro esempio da presentare che potrebbe confermare quanto detto finora. Si tratta di nuovo di una citazione, o piuttosto di una minuscola costellazione di citazioni, che ora si illustrerà. Tanto per rimanere al
livello più alto della cultura letteraria europea moderna, dopo Musil sarà
il turno di James Joyce e di Ulysses. È ovvio che, proprio come nel caso
dell’Uomo senza qualità, Ulysses non è un’opera qualsiasi da citare in
un libro sulle eredità paterne. Dobbiamo lasciare momentaneamente la
partizione centrale di Geologia per assestarci sull’esergo della sezione
finale, quell’appendice che comprende poesie già lette in Disturbi del sistema binario; e in quell’esergo, assieme a un rigo di Saul Bellow che
per questioni di spazio tralasciamo, ma che meriterebbe più attenzione,16
troviamo una laconica citazione da Joyce: «Un padre, […] un male necessario». Siamo nel nono capitolo dell’Ulisse, indicato negli schemi
Linati e Gilbert come Scilla e Cariddi, e a parlare è Stephen: «– Un padre, disse Stephen lottando contro la disperazione, è un male
necessario».17 Ci troviamo all’interno di una biblioteca, e Stephen, davanti a un piccolo gruppo di intellettuali suoi conoscenti, tra i quali,
sempre pronto ad irriderlo, Buck Mulligan, sta parlando non di sé, o non
direttamente, ma di Amleto; di Amleto e di suo padre Amleto, del fantasma che grida «Sono lo spirito di tuo padre», «la voce ascoltata nel cuore di colui che è sostanza della propria ombra, il figlio consustanziale al
16
17
«Un padre, un essere sacro, un re», queste parole di Bellow Magrelli sceglie da accompagnare a quelle di Joyce. Ma quel che sembra una bipolarità netta impiega
poco, solo che si rintracci il luogo di Herzog che presta testo (o a cui viene estorto testo) a cambiare aspetto. La frase infatti è un commento del narratore ad una
delle numerosissime scene ricordate della vita familiare, e si incontra nel momento in cui il padre, Moses Herzog, rientra a casa lacero e pesto: il camion che guidava, carico di alcolici da smerciare di contrabbando, è stato assalito, le bottiglie
rubate, l’autista percosso duramente. Un padre, un essere sacro, un re, e torna a
casa conciato così? È un padre disonorato, il cui disonore viene insieme nascosto
e alluso, che prende posto sulla soglia magrelliana; ed è un padre battuto, come,
vedremo, è stato Giacinto.
J. Joyce, Ulisse, a c. di E. Terrinoni, traduzione di E. Terrinoni con C. Bigazzi,
Roma, Newton Compton, 2012, p. 220.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
93
padre».18 Stephen, di cui Bloom si è già messo in cerca, e con cui formerà una specie di coppia unita da un legame pseudopaterno, nell’Ulisse di
Joyce (romanzo in cui, lo diceva Derrida, ci si trova sempre scritti), sta
dando la sua interpretazione del rapporto tra padre e figlio in un’altra
delle opere fondative dell’identità europea, come Amleto. Citando questo capitolo di Ulisse, Magrelli, come e più profondamente ancora di
quanto era accaduto nel caso di Musil, convoca obliquamente i padri per
fare i conti col fantasma del padre.19
18
19
Ivi, p. 211.
Se non sbaglio, tutte le citazioni da Ulysses che si trovano nell’opera di Magrelli
provengono dal nono capitolo. In Geologia di un padre, l’altro esplicito ritaglio
joyciano (probabilmente però Ulysses gioca sottotraccia in molti altri casi) si trova nel capitolo 45, dove si parla di nei. «Un neo non scompare – scrive il protagonista – e costituisce piuttosto la garanzia dell’identità (Stephen nell’Ulisse di Joyce: “Quel neo è l’ultimo ad andarsene”)» (p. 71). Dopo aver coinvolto nel suo
discorso addirittura lo Hegel dell’Estetica, Magrelli passa a parlare di un neo verde che suo padre portava sul labbro superiore, e che al figlio bambino faceva pensare a un’origine marziana. Ma il neo di cui parla Stephen è un suo neo, non del
padre ma del figlio, dunque; ed è sì stabile, ma solo attraverso il continuo mutamento della materia che lo compone. È d’obbligo, a questo punto, una breve citazione: «e come il neo a destra del mio petto si trova lì dov’era quando sono nato,
per quanto il mio corpo abbia continuato tutto il tempo a intessere nuova materia,
com’attraverso il fantasma del padre si erge l’immagine del figlio non più in vita.
Nell’istante intenso dell’immaginazione, quando la mente, dice Shelley, è un carbone quasi spento, quel che io ero è quel che io sono e quel che potenzialmente
potrei finir per essere. Così nel futuro, sorella del passato, potrei vedere me stesso
ora qui seduto, ma soltanto come riflesso di quel che sarò» (J. Joyce, Ulisse, cit.,
pp. 208-209). Molti interpreti dell’opera hanno riconosciuto il peso veramente decisivo delle parole di Stephen; vi si leggerebbe infatti chiaramente il nucleo generativo del capolavoro joyciano, con l’autore che getta uno sguardo sul sé passato
(sotto le spoglie di Dedalus, l’artista da giovane), e su sé come figlio, per far diventare questo sé-figlio, anche attraverso la scrittura dell’opera, non il padre ma
l’artefice che James Joyce è (diventato). Ci sarebbe insomma in questo passaggio
quel paradossale sguardo tra i tempi, o montaggio di tempi, con il passato che immagina il futuro che guarda al passato come proprio riflesso, attraverso cui lo
scrittore riesce a crearsi. Per tutto questo si veda ora il bellissimo libro di Gabriele Frasca, Joyicity. Joyce con McLuhan e Lacan, Napoli, d’if, 2013. Lo stesso paragrafo di Ulisse era stato citato un’altra volta da Magrelli nel Condominio di carne, precisamente nell’ultimo capitolo intitolato, guarda un po’, Infanzia di un
padre (lo si è in parte commentato nel primo capitolo di questo libro). Ecco il brano di Magrelli, che sta parlando del suo corpo mutante: «Sono un esercito nel vivo
della battaglia, dove i rincalzi subentrano a chi cade, o un abito rattoppato con la
sua stessa stoffa, un rammendo invisibile, un telaio di carne, “molecole su e giù
come una spola”» (p. 117). L’ultima frase tra virgolette è citazione da Joyce, letto
qui nella classica e ai tempi del Condominio ancora unica traduzione italiana di
94
Il mio corpo estraneo
Non è tutto. È infatti noto come prosegue il discorso di Stephen dopo il
taglio operato da Magrelli, ossia con una definizione spietata della funzione, o meglio finzione, del padre:
La paternità, nel senso dell’atto cosciente di mettere al mondo, è sconosciuta all’uomo. È una condizione mistica, apostolica, dal solo generante al solo generato. È su quel mistero, e non sulla madonna, gettata in pasto dallo scaltro intelletto italiano alla marmaglia d’Europa, che si fonda la Chiesa, e lo fa in
maniera irremovibile perché fondata, come il mondo, macro e microcosmo, sul
vuoto. Sull’incertezza, sull’improbabilità. L’Amor matris, genitivo soggettivo
e oggettivo, potrebbe esser l’unica cosa certa della vita. La paternità sarà al più
una finzione legale. Chi è il padre d’un figlio qualunque, perché un figlio qualunque debba amarlo, oppure il contrario?20
L’unica cosa certa della vita, sostiene lo Stephen alluso, o tenuto in sospeso da Magrelli, è l’amore della madre per il figlio che la ama (amore che
continua finché il figlio vive e oltre; si pensi alle ricorrenti allucinazioni di
Stephen in cui gli si presentano colori e odori e parole della madre defunta, verso la quale lui sente di aver mancato, soprattutto per non aver ancora generato), e tuttavia, è al male necessario e alla finzione legale del padre
che Geologia è dedicato, nel titolo, nella materia e nell’intarsio di testi
scelti per accompagnarlo. Ma cosa ha lasciato questo padre al figlio, se si
eccettua il nome? A questo proposito, nel capitolo 10 troviamo una dichiarazione che apparentemente è solo una piccola pointe, una delle tante acutezze magrelliane giocate su analogia ed equivoco, ma forse invece può rivelare molto di più: «fu un’immersione nel regno delle Madri, ciò che mi
venne trasmesso da mio padre» (p. 20). Partendo da qui, arriveremo a capire il senso anche della terza citazione, quella non letteraria, messa in esergo a Geologia di un padre.
20
Giulio De Angelis, ed è di qualche interesse verificare di cosa sta parlando qui
Stephen (queste parole vengono subito prima del brano sul neo, citato in questa
stessa nota). Riprendiamo la traduzione di De Angelis: «Come noi, oppure la madre Dana, intessiamo e disintessiamo i nostri corpi, disse Stephen, di giorno in
giorno, le loro molecole su e giù come una spola, così l’artista intesse e disintesse
la sua immagine» (J. Joyce, Ulisse, traduzione di G. De Angelis, Milano, Mondadori, 1960, p. 180).
J. Joyce, Ulisse, a c. di E. Terrinoni, cit., pp. 220-221.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
95
Lo spirito della Terra
Cos’è raffigurato nel disegno di Giacinto Magrelli scelto per la copertina di Geologia di un padre?21 La grotta di Polifemo, dice la didascalia. Un
episodio odissiaco, tratto dal nostos fondativo della civiltà europea, dal
racconto del ritorno di Ulisse a casa, dove Penelope e Telemaco lo hanno
atteso per tanti anni. Ma, riguardando nel corso della lettura l’immagine
dell’essere gigantesco che divora piccoli umani, è difficile resistere alla
tentazione di sovrapporre a quell’immagine un altro racconto: quello di Saturno che divora i suoi figli. Giacinto è Ulisse o Saturno? Entrambi, bisogna rispondere. Collerico, furibondo, attraversato da una corrente d’ira incontrollabile, invasato da una forza che lo mette letteralmente fuori di sé;
oppure sprofondato in un tedio immobile, in una melanconia che svuota
ogni cosa: Magrelli descrive suo padre come una creatura metamorfica che
passa repentinamente da una fase e da una forma regolamentata, e si potrebbe dire antropomorfa, a una in cui, medium o conduttore di un’energia
che gli viene da qualche parte, assume fattezze per definire le quali occorrono tutte le risorse della leggenda e del mito. Padre lupo mannaro, padre
divinità pre-olimpica, padre sotto l’influsso di un pianeta nefasto. Padre le
cui epiche, inenarrabili bestemmie erano invocazione e presenza del
«Nume», «brivido preistorico e preconoscitivo, di natura sessuale, plenaria
e rettiliana, ultimo resto di un’esperienza magico-tattile del creato» (p. 20).
E ancora, padre sonnambolico, in trance, e progressivamente, attacco dopo
attacco, colpito a morte dall’ira (ma Magrelli arriva a usare una maiuscola
allegorica e personificante: Ira) che lo spinge a colpire. In base a questa duplicità concentrata in un solo attore Magrelli dispiega uno dei movimenti
più toccanti del suo libro: la malattia, che porterà il padre alla penultima
trasformazione prima di quella finale, e che lo renderà un vecchio pressoché muto e murato in sé, è stata provocata da centinaia di piccoli ictus, che,
col tempo, hanno danneggiato irreparabilmente il cervello. Ictus significa
colpo: colpendo, il padre veniva colpito, o si colpiva, e l’energia preistorica che lo visitava gli preparava anche il destino. Introdotto come colore
21
Si legge sul primo risvolto: «In sopracoperta: La grotta di Polifemo, di Giacinto Magrelli, elaborazione grafica di Zest». Riccardo De Gennaro, recensendo il libro su
«Alias» del 20 gennaio 2013, ha segnalato che Zest è il nome d’arte del figlio di Valerio Magrelli (grafico, come si è già avuto modo di accennare), e che la sua “elaborazione” è «garanzia della continuità della saga familiare». Ma, e anche questo lo si
è già visto, l’intero libro è un lavoro o una “rielaborazione” sull’eredità. L’elaborazione di Zest consiste in un viraggio al nero, che colma il disegno di un’oscurità minacciosa e calamitante.
96
Il mio corpo estraneo
della morte, insomma, il nero è in questo libro anche il colore della rabbia
e dell’umore melanconico: quella rabbia e quell’umore che da una parte
trasformano Giacinto in un essere del tutto sconosciuto ed estraneo al figlio, ma dall’altra parte costituiscono anche buona parte dell’eredità che il
padre gli ha lasciato: di nuovo un esempio di duplicità contraddittoria, così
come duplice e tragicamente ironica è la vicenda del padre nel racconto del
figlio. E la progressiva sovrapposizione, nell’aspetto fisico, dell’immagine
del figlio con quella del padre (Magrelli parla di «mimetismo» e di «specchio genetico»22), tanto che l’autore descrive in questo libro, tra le altre
22
Tra i molti possibili cito solo l’esempio della terza poesia dell’appendice (trapiantata, come si è visto, da DSB), dal titolo A Giacinto, mio padre. Ecco i primi versi: «Vecchiaia - inizia il Grande Mimetismo, / divento sempre più simile a mio padre. / Giacinto, ti raggiungo! / disco che mi colpisce per farmi uguale a te. / Volto,
gesti, inlessioni, andatura: / torno all’originale, / semplice applicazione di un programma. / O forse mi travesto per salvarmi, / barricato nel suo recinto genetico...»
(p. 137). L’autore ha commentato questa poesia in un testo raccolto nel Violino di
Frankenstein; io la riporto qui perché mi permette di aggiungere ancora qualche
parola sull’uso e sul signiicato delle citazioni nel versante geologico-genealogico
della scrittura di Magrelli. La poesia porta in esergo due ritagli, il primo di Mario
Luzi («Vibra il cielo, il giacinto effuso cade») e l’altro di Roger Caillois («Ogni
volta si tratta del contrasto [...] tra il meccanismo cieco e la libertà, tra la issità e
la storia»); il primo aspetto notevole è proprio l’accostamento di autori e atmosfere tanto diversi. Il verso di Luzi è l’incipit della sesta poesia del Quaderno gotico,
ultimo e tardivo, sebbene splendido, frutto della stagione ermetica del poeta; si
tratta, in linea con tutta la piccola raccolta, di un testo largamente giocato sulle
corde dell’allusività musicale e simbolista. Giocando sull’ambiguità che si crea
tra «Giacinto» e «giacinto», nome proprio e nome comune, persona e iore, Magrelli vuole probabilmente richiamare la tonalità di attesa inquieta e attonita, e il
sentimento di una visitazione imminente, che spirano dalla poesia: la presenza che
vi alita misteriosa si trasforma, in Magrelli, nella igura di Giacinto che si ri-presenta in quella di Valerio. Le prime due quartine di Luzi: « Vibra il cielo, il giacinto effuso cade / fra le brune pareti, l’aria spira / nelle vesti, una nube mi pervade,
/ quale insidiosa presenza respira? // Una rara vertigine è passata / sulla fronte,
ecco, un fuoco vivo piove / fuso con l’ombra quieta e animata, / un’essenza invisibile si muove» (cito da M. Luzi, L’opera poetica, a c. e con un saggio introduttivo di S. Verdino, Milano, Mondadori, 1998, p. 139). Basterà rileggere, in DSB,
Cronache dal Pleistocene (analizzata nel secondo capitolo di questo libro, e
anch’essa conluita nell’appendice di Geologia) per vedere come in Magrelli il
sofio che gonia le vesti sia immagine usata per esprimere il ritorno dell’origine
nello straccio, o lenzuolo, del soggetto. Forse ancora più interessante è il frammento di Caillois, che reintegrando il taglio operato da Magrelli si legge così:
«Ogni volta si tratta di un contrasto tra l’insetto e l’uomo, tra il meccanismo cieco e la libertà, tra la issità e la storia». Senza insistere troppo sul fatto che il testo
provenga da un saggio (A proposito di un vecchio studio sulla mantide religiosa,
in L’occhio di medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Milano, Cortina, 1998;
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
97
cose, non solo il suo divenire padre, ma il suo divenire suo padre, porterà
per forza di cose a fare i conti con la dimensione preistorica, demoniaca,
pandemonica ereditata dal padre da cui il figlio si trova lavorato senza veramente poterla conoscere; e che teme, a sua volta, di trasmettere alla sua
discendenza (intanto, saltando l’anello di giunzione paterna, il figlio di Valerio passa giorni a disegnare, come faceva Giacinto, suo nonno).23 Il figlio,
insomma, teme che suo padre, o meglio ciò che attraversava suo padre e
che l’ha distrutto, finisca per divorare anche lui. È per questo motivo che,
lo vedremo tra poco, andando a cercare la traccia primitiva di suo padre a
Pofi, numinoso paesino d’origine, è sé stesso che Magrelli arriverà a disseppellire.
Il libro è costellato da episodi che, nella scrittura bicefala di Magrelli, realistica e simbolica o allegorica, mettono in scena la lotta contro il nero e il
desiderio o la nostalgia del bianco. Se ne commenta brevemente uno, perché
in maniera molto significativa, e riprendendo una consolidata abitudine
dell’autore, assume come luogo dello scontro la casa, la dimora, il contenitore protettivo che d’improvviso si scopre infestato. Parliamo del capitolo 56,
inserito in un trittico di pezzi in cui il tema della casa, e il ricordo della dimora di famiglia in via delle Fornaci, a Roma, servono da articolazione a una se-
23
ed. or. Méduse et Cie, Paris, Gallimard, 1960) che ne riscrive - quindi ripete e varia - un altro molto più vecchio (La mantide religiosa, in Il mito e l’uomo, Torino,
Bollati Boringhieri, 1998; ed. or. Le mythe et l’homme, Paris, N.R.F. - Gallimard,
1938), dirò soltanto che Caillois affronta in queste pagine un tema basilare anche
per Magrelli, come il condizionamento biologico dell’immaginazione, intendendo il mito come anello di congiunzione (secondo il pensatore francese, che parte
da premesse bergsoniane, il mito rappresenterebbe per la coscienza «l’immagine
di un comportamento di cui essa avverte la sollecitazione», e i costumi della mantide religiosa sarebbero «mito in atto»; L’occhio della medusa, cit., p. 47).
Per un’indagine di quel che significa avere figli nell’opera di Magrelli si può vedere il bel saggio di C. Bonsi, Amputarsi, mutilarsi, abdicare… Una lettura di
“Children’s corner” di Valerio Magrelli, in «Per leggere», XI, 20, primavera
2011. Segnalo inoltre che Elegia (in DSB), testo in cui l’io si trova, di sera, «nella stanza dei miei figli» e li ascolta «cinguettare», porta in esergo i noti e durissimi versi coi quali Philip Larkin ci consegna This Be The Verse: «L’uomo passa
all’uomo penuria. / Si approfondisce come un’insenatura. / Esci prima che puoi, /
e non aver figli tuoi» («Man hands on misery to man. / It deepens like a coastal
shelf. / Get out as early as you can, / And don’t have any kids yourself»). «Quanto ai versi di Philip Larkin, – avverte Magrelli nella nota a piè di pagina – che ho
ritradotto, mi seguono da anni: ho deciso di impiegarli come esergo, perché ai
miei occhi essi indicano il divario tra ciò che sarebbe stato giusto, e ciò che invece è stato vero» (p. 40). Leggo il testo inglese in Ph. Larkin, Finestre alte, a c. di
E. Testa, Torino, Einaudi, 2002.
98
Il mio corpo estraneo
rie di quadri e vicende diverse e ambientate in tempi tra loro diversi; qui purtroppo è necessario tagliare di netto questa rete di riferimenti incrociati e
insistere solo su uno di essi. Trascrivo integralmente il capitolo, perché non
ne vadano perse la linea e la stratificazione:
In quella casa vissi poco più di vent’anni, e la porto stampata nel cuore. Era
fresca, alta, soleggiata, pulita. Per questo, quanto accadde durante una remota
notte d’agosto, mi lasciò sbalordito. Dovevo aver mangiato troppo, a cena, ragion per cui, verso le tre del mattino, mi ritrovai in cucina, a bere direttamente
dal rubinetto. Mentre ingoiavo grandi sorsate d’acqua gelida, con la coda
dell’occhio guardavo in basso, e mi dicevo: «Strano. Il nostro pavimento è
sempre stato chiaro. Come mai è diventato tutto nero?» Insonnolito, accaldato,
andavo formulando la domanda in maniera svagata, del tutto indifferente alla
risposta. Ma la risposta venne poco dopo, da sé.
Superato lo stordimento della luce, che li doveva avere ipnotizzati, centinaia di scarafaggi fuggirono atterriti sotto i miei piedi nudi, svelando, finalmente,
l’effettivo candore delle mattonelle. Galleggiavo letteralmente sopra un mare
di blatte, e cominciai a gridare, percorso da un ribrezzo irrefrenabile. Quando
arrivò mio padre. Era ormai troppo tardi: le brulicanti truppe avevano battuto
in ritirata, svuotando la cucina come d’incanto.
Il giorno dopo, tuttavia, ebbe luogo il Gran Consiglio. Pianificammo un’azione congiunta per sterminare gli intrusi, ovvero il Luccicante Mantello Notturno Animale. Ci accordammo per mettere la sveglia alle tre esatte, e così avvenne. Nel buio più completo, indossate enormi scarpe, ci avvicinammo
lentamente alla cucina, armati entrambi di scope. A un gesto convenuto, accendemmo la lampadina, e cosa non apparve!
Praticamente un’unica distesa di gusci cheratinici, immobili, nerissimi, pietrificati dalla luce. Fu un attimo, e la strage ebbe inizio. Prima che quella schiera cominciasse a ondeggiare, centinaia di esseri cadevano scricchiolando sotto
i colpi, fra le urla con cui inutilmente cercavamo, schifati, di tenere distante il
raccapriccio. Tutto finì con un cumulo di spoglie, un sacco croccante di orrori
ridicoli.
Sedemmo, stanchi e felici, che albeggiava. La Regina era salva, i Proci uccisi, e il piccolo Telemaco poteva finalmente ritornare a dormire. Poi venne
l’uomo della disinfestazione, e completò il lavoro.
Saranno state le strutture fatiscenti, forse, a nascondere, ad allevare tante
creature delle tenebre. Questo, nel cupo interno dell’edificio. Ma che pianure
accecanti si aprivano sui tetti! È stato proprio lì, sul vasto altopiano deserto delle terrazze condominiali, che ho imparato ad andare in bicicletta, fra i panni stesi, spinto da mio padre, ai confini del cielo (pp. 93-94).
La casa, pur se descritta con un quartetto di aggettivi che ne sottolineano il carattere aereo e luminoso, e pur con tutto il bianco del piastrellato,
non può non essere collegata anche alla terra, alle tenebre e ai loro servito-
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
99
ri. Così, ciò che di solito è bianco può, al buio e senza che gli abitanti se ne
accorgano, durante il loro sonno, ricoprirsi del nero disgustoso degli scarafaggi: la notte, che avvolge anche la casa chiara, è favorevole alle sortite
delle sue creature. L’equilibrio di una situazione, evidentemente, consolidata si rompe quando la digestione (un altro richiamo dal basso, stavolta
del corpo) disturba il sonno del figlio e lo spinge nella stanza dalle piastrelle candide in cerca d’acqua. Un po’ per la lucidità ancora scarsa del ragazzo (come spesso accade nel libro, dove l’io è preda di molti tipi di stordimenti, dormiveglia, fantasticherie, sogni ad occhi aperti), un po’ perché la
luce, quella elettrica in questo caso, paralizza l’orda di insetti, il nero viene
sì notato, ma la sua natura rimane ancora inspiegata. Il prosieguo del racconto, con la percezione finalmente esatta delle cose, le urla di orrore, l’arrivo del padre, la progettazione e realizzazione dell’agguato e il finale ironicamente trionfale, offre ancora diversi motivi di interesse. Innanzi tutto
ribadisce la (quasi) totale assenza, o cancellazione, della figura materna,
qui mai in scena nonostante la concitazione e le grida in piena notte. In secondo luogo associa esplicitamente, sia pure come si è detto in maniera ironica, l’azione concertata di padre e figlio a uno dei momenti più emozionanti dell’Odissea, la strage dei proci, e così facendo assegna a Giacinto la
parte di Ulisse e a Valerio quella, come il testo stesso si premura di sottolineare, di Telemaco (la madre-Regina rimane nelle sue stanze; e forse il parallelo odissiaco fornisce una sorta di giustificazione alla sua mancata presenza). Questo è uno dei capitoli in cui l’accordo tra padre e figlio è più
completo, in nome della santa rabbia (e dell’inenarrabile disgusto) con cui
scacciano i neri invasori dalla mura domestiche (da notare anche che la distesa di scarafaggi è definita, ancora con maiuscole allegoriche, «Luccicante Mantello Notturno Animale», e che isolando quelle iniziali e mettendole in sequenza si ottiene LMNA, una specie di retrogrado con privazioni
vocaliche della parola “animale”, una specie di sigla geroglifica), e della
tenerezza con cui, narrato l’eccidio e lo scampato pericolo, si rievocano le
prime pedalate sul punto più alto e più luminoso della casa, la bianca incubatrice di mostri, sul tetto, tra lenzuola che bisogna pensare bianchissime:
bianco custodito nella memoria e immacolato. Infine, un’allusione letteraria lasciata cadere in modo quasi casuale, sembrerebbe, dice forse più di
quanto non sembri. Quando si narra del figlio che si accorge di sovrastare
un tappeto di insetti, nel testo si incunea l’immagine landolfiana del «mare
di blatte»; potrebbe trattarsi, data l’esiguità della citazione, di una specie di
memoria automatica, anzi è probabile che sia così, ma tale automatismo si
porta dietro, volente o nolente, anche qualcos’altro. Nel racconto di Landolfi, infatti, il viaggio della nave sul mare di blatte, e l’invasione della co-
100
Il mio corpo estraneo
perta da parte di questi esseri mostruosi, viene troncato in maniera sconcertante dalla rivelazione della sua natura finzionale, e dal ritorno alla scena in
cui questa narrazione nella narrazione viene prodotta, ossia un interno borghese; gli scarafaggi sono “solo” raccontati da un figlio che vuole, simultaneamente, ottenere dal padre i mezzi di sussistenza, e conquistare la donna di cui è innamorato. Abbiamo quindi un figlio che racconta a suo padre
e alla sua (futura) fidanzata una storia che ha per protagonisti lui, suo padre, la fidanzata e il mare di blatte. Pur se in maniera più aleatoria di quanto accadeva per Ulisse e L’uomo senza qualità, anche in questo caso la citazione letteraria apre una piccola vertigine nella quale è vero sia che un
testo letterario viene utilizzato come testimone autorevole dei fatti biografici narrati, sia che questi fatti prendano l’aspetto un po’ fantasmatico di
“cose già scritte”, a rimarcare la presenza di due linee di filiazione, quella
biologico-biografica e quella culturale.
Il viaggio a Pofi, il ritorno nella patria in cui non è mai stato, che conosce
indirettamente tramite i disegni del padre, e il cui unico frammento sperimentato era la nonna-mummia, si impone dunque al figlio per fare i conti con
il lato più oscuro e pericoloso dell’eredità paterna. Ma, seguendo il passo del
libro, questa è una consapevolezza che va conquistata. Ripercorrere questa
caccia al tesoro, che è caccia al padre e anche autocaccia, ne farà forse comprendere meglio snodi e obiettivi. È solo mettendosi a sua volta in caccia, di
dettagli, minuzie, e delle tecniche del loro montaggio, che il lettore di Geologia di un padre può affrontare non impreparato il suo punto di massima ambiguità e reversibilità. Prendiamoci dunque il tempo necessario; bisognerà
passare, di nuovo, attraverso diversi strati di materiali.
Tanto per cominciare, i viaggi a Pofi sono almeno due. Uno è quello per
tanto tempo nemmeno pensato, e invece dopo la morte del padre via via vagheggiato, temuto, programmato, studiato su volumi e documenti, interrogato fino a trovargli un senso decisivo; un altro, cronologicamente successivo
al primo, è quello realmente compiuto, ben diverso rispetto alla sua controparte cerebrale e immaginata. Il racconto dei due viaggi occupa i capitoli 4850,24 e due su tre sono dedicati al primo viaggio, al contatto con Pofi tramite
i media delle pagine, dello schermo, e della mente. Vediamo come.
Il capitolo 48 è uno dei più lunghi della compagine, ed è particolarmente importante perché si incarica di mettere in dubbio una dichiarazione fatta dall’io scrivente diverse pagine prima, quella sull’indifferenza agli ar24
Anche in questo caso, però, siamo in presenza di una ripresa e parziale riscrittura;
una prima versione del racconto contenuto in questi tre capitoli era già uscita su
rivista ed era stata poi raccolta nel Violino di Fankenstein.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
101
chivi e l’odio per i documenti. La carta moschicida del ricordo, in questo
caso (e in molti altri) si è dovuta arrendere a consultare una memoria esterna. Il capitolo, infatti, è composto per la maggior parte di estratti provenienti da studi di storia locale, guide per il viaggiatore, materiale informativo trovato su siti internet; questo supporto documentario è sezionato e
alternato a brevi commenti di altro tono, che dovrebbero adeguare il suo
nudo tono informativo alla ricerca, molto più affettiva e conoscitiva, che il
consultatore si propone di intraprendere. Pofi è in un primo momento affrontata da lontano, e la curiosità con cui Magrelli spulcia le fonti sembra
l’altra faccia di un’estrema cautela che confina con il timore. La brevissima epigrafe del capitolo («Piccola terricciuola è Pofi») è tratta da un testo
ottocentesco, il Viaggio da Roma a Montecassino nuovamente descritto da
Alessandro Guidi, pubblicato a Roma da Salviucci nel 1868; mettendo il
nomen omen di Guidi e la sua guida in cima al capitolo, Magrelli, a guardare le cose retrospettivamente, sembra voler esporre subito la tonalità di
questo. Un viaggio nelle tenebre non si fa saltando nel buio. E proprio di
tenebre è il caso di parlare, perché l’avvicinamento a Pofi è inaugurato dal
personaggio più inquietante e tenebroso del libro, la nonna (la sigaretta, la
mummia, il teschio, la voragine oscura), riportata in scena con un riferimento preciso (quel «dicevo») al capitolo 4:
Mia nonna-sigarillo, dicevo, era scesa dai monti della Ciociaria. Io non
l’amavo, eppure questa donna era il segnavia dell’origine, stava a indicare il
luogo da cui proveniva mio padre: il Lazio meridionale, che ignoravo, e che
continuo a conoscere così poco… Cosa fare con Pofi, per esempio, il suo paesetto natale? Non ci sono mai stato, ho solo qualche immagine che lui
schizzò a matita, da giovane. Stradine assolate. Cortili. Un asinello. I suoi
disegni (p. 76).
Poi, senza alcuna giuntura che unisca le due parti, il testo prosegue con
una lunga citazione tra virgolette, tratta, ci verrà detto più avanti e dettagliato nella tavola delle citazioni, da un volume su Pofi scritto da Vincenzo
Celletti: «il visitatore che raggiunge l’altura su cui sorge il centro abitato,
si rende conto subito…». Il visitatore che arriva a Pofi sulla pagina di Celletti si vede proporre uno scarno elenco di date e dati: la rocca, il materiale
basaltico con cui gli edifici antichi sono costruiti, le eruzioni vulcaniche da
cui questo originò, «tra 430000 e 120000 anni fa», una chiesa romanica e
l’affresco del Giudizio Universale lì dipinto. Qui la citazione si interrompe
e subentra il primo commento:
102
Il mio corpo estraneo
Un bel compendio, non c’è che dire: eruzioni e apocatastasi. Prima la lava,
poi la reintegrazione dei corpi. L’importante è attenersi allo stretto necessario.
Come patria elettiva, comincia già a piacermi (p. 77).
Giusto il tempo di proiettare sul nudo tono referenziale l’ombra delle
cose prime e ultime, e la citazione riprende con le razze e i percorsi di chi
popolò anticamente la zona, con le carestie e le invasioni, gli spopolamenti e le ripopolazioni, e infine con la fondazione di Pofi. Nello stesso studio
storico, il cui autore, Vincenzo Celletti, viene a questo punto nominato (e
inserito di contrabbando nella famiglia dell’io scrivente: ha infatti «il nome
di mio nonno, il cognome di mia nonna»), Magrelli scrive di aver trovato
una fonte letteraria, anche se di dubbia attribuzione: un sonetto di Marino
dedicato a Pofi in cui si dice, nella chiusa, che le mura del paese furono edificate da Saturno: un’altra nota del tappeto risonante è così surrettiziamente introdotta. Si passa poi all’etimologia, e le sorprese non sono poche, visto che le ipotesi riportate da Magrelli vogliono Pofi «corruzione di Proci»
(quest’Odissea ce la si ritrova ovunque), oppure in qualche modo derivante dal greco ophis, serpente, perché sede di una colonia di devoti a Esculapio. Già, proprio Esculapio, col serpente addomesticato e avvolto sul bastone, veleno e contravveleno, rimedio nel male; e visto che l’io scrivente
non sta in fondo cercando che di vaccinarsi del padre, questo riferimento
pescato tra grigie pagine di erudizione è perfettamente adeguato al progetto ideale del libro.25 Il paragrafo si conclude con un’altra occorrenza di
Pofi, inserita tra parentesi, ma in questo caso si tratterà solo di un equivoco che ci si affretta a fugare: «Il protagonista del romanzo di Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, ha nome Pofi, ma non c’entra niente» (p. 78).
Con che cosa non c’entra niente il Pofi di Pizzuto? In questa estraneità entrano ben poco le ragioni etimologiche, e molto di più, invece, quelle concettuali: il mondo di Si riparano bambole è percorso dal chiacchiericcio
corale delle comari che trattano, instancabilmente, smisuratamente, «argomenti di genealogia teoretica, di genealogia pratica, per spiegarsi a vicenda chi era mai la tale, e con chi maritatasi, l’età presunta deduttivamente»;
il ragazzino e poi giovane Pofi deve muoversi tra onde perigliose di sottane sororali, materne, ziesche e via frusciando;26 mentre il progetto magrel25
26
Ma visto che tra breve farà la sua apparizione Karl Kraus, non sarà male apporre
qui una chiosa pertinente che viene dalla sua penna: «Morì morsicato dal serpente di Esculapio». Parole che si leggono nella sezione Umori, parole, di Detti e
contraddetti (a c. di R. Calasso, Milano, Adelphi, 1992, p. 162).
Cito da A. Pizzuto, Si riparano bambole, a c. di G. Alvino, con una nota di G.
Contini, Palermo, Sellerio, 2001, p. 21.
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
103
liano mira alla geologia, non alla genealogia (lo dirà nel capitolo successivo), e le donne di famiglia, ad esempio la cugina Giacinta (nel capitolo 70),
vanno tenute lontane proprio per la loro mitologica maldicenza.
Salto qualche passaggio, che alla lettura aumenterebbe l’impressione
che qui si tenti una specie di storia universale sub specie Pophitatis, e arrivo alla stretta finale del capitolo 48. «Su internet», Magrelli scopre che a
Pofi c’è un «prestigioso Museo Preistorico», che intrattiene rapporti scientifici con grandi istituzioni europee («dunque, mio padre a Pofi non è
solo…», commenta l’io scrivente), e sulla pagina riporta ancora materiale
informativo proveniente dalla pagina web del museo, in cui si parla dei reperti lì conservati, di antichissime manifatture, e infine di «manufatti litici
più elaborati, in cui assume particolare significato tipologico e cronologico
l’amigdala» (p. 79). Amigdala è un termine che designa una pluralità di referenti, dagli oggetti preistorici a varie parti del corpo umano, e queste entità così diverse per funzione possono stare sotto lo stesso lemma per una
questione di somiglianza morfologica, ossia di immaginazione analogica:
hanno tutti grossomodo la forma di una mandorla (amigdala, in greco, è appunto mandorla). Questa coincidenza verbale e figurativa consente a Magrelli di proseguire introducendo, ancora senza alcuna spiegazione, un
nuovo capoverso racchiuso tra parentesi:
(Per quasi quindici anni: tonsille, Bastava niente, e le sentivo gonfiarsi, tra
febbri e tosse. Così di seguito fino alla mia piena maturità, secondo un quadro
eziologico che continuava a apparire indiscutibilmente puberale. Airbag. Ma la
scoperta definitiva avviene in Francia, quando, ammalato, apprendo che le
chiamano “amygdales”. Come pietre scheggiate dalle popolazioni primitive,
come punte di frecce, come reperti del cenozoico, questi due pendenti continuano a far bella mostra di sé nella bacheca della mia gola) (p. 79).
Questo brano è prelevato dal Condominio di carne, dove occupa per intero il capitolo XVII; solo il titolo (La gola) è tralasciato da Magrelli. L’amigdala litica, reperto della terra paterna, viene messa in gola, e entra così a far
parte del corpo proprio-improprio che abbiamo analizzato nel libro del 2003.
Tramite l’amigdala, per azione magica, la terra paterna è ciò che per anni e
anni ha fatto ammalare Valerio, e ciò che lo ha trattenuto, molto oltre il limite atteso, in un quadro clinico da preadolescente: un’ancora (e pensiamo a
Musil), un freno, un ostacolo ignoto nel cammino verso la maturità (la maturità, afferma a un certo punto l’io scrivente nel capitolo 80, citando King
Lear, e precisamente un discorso rivolto da Edgar al vecchio padre, è tutto: e
“tutto”, continua Magrelli, è proprio quel che a suo padre mancò). Questo è
l’unico esempio di riutilizzo di materiali del Condominio che si commenta in
104
Il mio corpo estraneo
queste pagine, ma penso possa bastare a suggerire quanto l’operazione sia
importante. Il discorso sui «miei mali» che permettono una percezione psicostorica del passato trova in Geologia di un padre una continuazione, o meglio
un’estensione all’indietro, vero l’origine.
Ma ancora una volta, forse non è tutto qui. Amigdala si chiama anche
una parte del cervello umano che gioca un ruolo importantissimo nel vaglio
delle emozioni e nell’attivazione di altre parti del cervello, e poi dell’organismo, in caso di stimoli sentiti come pericolosi: l’amigdala fa funzione di
campanello d’allarme e procura quella combinazione di reazioni biochimiche che siamo soliti chiamare paura. Se è vero che il testo di Magrelli funziona su una logica non strettamente causale, ma piuttosto analogico-risonante, non sarà forse eccessivo richiamare quest’altro senso e funzione
dell’amigdala, tanto più che il capitolo 48 si avvicina rapidamente, adesso,
alla sua cruciale agnizione, o sovrapposizione:
Poi, finalmente, arriva il passo-chiave: «Qui sono esposti soprattutto i reperti preistorici provenienti dal territorio di Pofi: le faune, i manufatti e i resti umani di Cava Pompi: Uomo di Pofi, datato tra 400000 e 300000 anni».
Acqua, fuochino, fuoco! Eccolo, l’Uomo di Pofi: era mio padre! È lui che
sto cercando, mentre mi limito a studiare da lontano la sua culla preistorica. È
nella notte della mia infanzia, tra 400000 e 300000 anni fa, che si annida il mio
diretto progenitore, con armi, vasellame, ossa, rituali.
L’Uomo di Pofi, ossia il POFANTROPO! (p. 80)
Il Pofantropo, nominazione scherzosa incontrata sul limite della sezione centrale del libro, qui comincia a prendere corpo, ed è questo il punto in cui in maniera più decisa, consapevole e disorientante viene fatto giocare un fortissimo
anacronismo, accompagnato da un altrettanto sorprendente incrocio o scambio
o identificazione tra soggetto e oggetto della ricerca: la culla preistorica del padre, contemplata da lontano e attraverso lo schermo, diventa la notte dell’infanzia immemorabile del protagonista, nella quale «si annida» il progenitore, sepolto e integrato in una parte irraggiungibile di colui che ha generato.27 Sarà in
27
Se si accetta che uno dei gesti tipici dell’operare magrelliano sul metallo della parola sia una specie di percussione che risveglia le risonanze più nascoste di questa e ne
riporta in luce la tramatura semantica come fosse una musica, allora non sembrerà
inaccettabile aggiungere qui un altro senso del termine “mandorla”. Nella pittura sacra, la mandorla è un elemento dal contorno ogivale – legato, ancora una volta per
analogia morfologica, al sesso femminile – destinato a contenere un’immagine,
spesso quella del Cristo (il Figlio unito al Padre e da lui distinto). Che cosa vede apparire Valerio nella mandorla della sua tonsilla, dell’arma del padre, della terra ma-
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
105
questo strato di tempo profondissimo che offusca tutte le distinzioni tra interno
e esterno, prima e dopo, padre e figlio, che la ricerca dovrà addentrarsi. Eppure
il corredo (quasi un corredo funebre) di oggetti di cui l’Uomo di Pofi viene circondato allaccia relazioni semievanescenti con oggetti che si incontrano nel
corso della narrazione di episodi della vita di Valerio con Giacinto, ambientati
dunque nel tempo ordinario della biografia. Le armi:il libro non dice che il padre le abbia usate, nemmeno in guerra, ma certo ne ebbe sotto mano diverse, anche basandosi solo sui racconti del figlio: pistole, un fucile da caccia, un pistolone di ceramica che stava sopra un armadio, col divieto di toccarlo, finché il
figlio non lo mandò in mille pezzi. Il vasellame: Geologia di un padre si apre su
un servizio da caffè e inanella molti altri vasi, quasi tutti infranti per distrazione,
tentazione o progetto. Le ossa: un teschio esce dalle pagine del Condominio di
carne per accomodarsi in quelle del libro più recente. E, infine, di rituali non c’è
certo scarsità; tra poco ne vedremo alcuni. Dalla cripta del padre-figlio molti
spiriti si levano e aleggiano negli altri tempi e spazi del libro.
Grandi mammut ghiacciati
Il capitolo successivo, il 49, è quello in cui i due filoni attinti da Magrelli per i prelievi testuali da montare sulla pagina, quello letterario e quello
tecnico-informativo, vengono intrecciati in un esercizio attivo (si tratta di
una riscrittura) dal forte sapore cerimoniale e rituale. Questo esercizio è
una specie di autoiniziazione ai misteri del tempio condotta lontano dal
tempio. Come al solito lo si dovrà seguire con una certa accuratezza. «Per
avvicinarsi al senso preistorico delle mie radici», scrive il protagonista, e
accorciare un po’ la distanza, geologica e non genealogica, che lo divide da
suo padre, «Giove furente, Saturno pofantropico» col quale sembra non
poter avere alcun contatto né affinità («che c’entro io»?) si deve cominciare da «due strani versi di Guillaume Apollinaire», che lo scrivente afferma,
senza altri chiarimenti, di ricordare:
dre? Tanto il padre quanto il figlio. Ma soprattutto, il buio, la nerità attiva. Viene alla
mente allora una grande poesia di Celan, intitolata proprio Mandorla, di cui riporto
i primi versi: «In der Mandel – was steht in der Mandel? / Das Nichts. / Es steht das
Nichts in der Mandel. / Da steht es und steht. // Im Nichts – wer steht da? Der König.
/ Da steht der König, der König. / da steht er und steht». («Nella mandorla – cosa sta
nella mandorla? / Il nulla. / Nella mandorla sta il nulla. / Lì sta e sta. // Nel nulla, chi
sta? Il re. / Lì sta il re, il re. / Lì sta e sta». Cito da P. Celan, Poesie, a c. e con un saggio introduttivo di G. Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p. 414).
106
Il mio corpo estraneo
Ora questi pensieri morti da millenni
Avevano il gusto insipido dei grandi mammut ghiacciati (p. 82).
Si tratta dei versi 32-33 di Palais, una poesia di Alcools. Gli attori principali del testo sono «mes rêveuses pensées», che si dirigono in abito di gala al
palazzo di Rosamunda, «au fond du rêve». Il palazzo è «don du roi», e «comme un roi nude s’élève / Des chairs fouettées des roses de la roseraie». I pensieri sognatori o fantasticatori si dirigono a una dimora regale che sta in fondo, nel punto più basso, o anche alla fine, del sogno, e si erge come un
gigantesco corpo sovrano sulla carne delle rose frustate, in un’atmosfera onirica che unisce il sontuoso al crudele. Ai pensieri verrà offerto un banchetto,
dove verranno imbanditi, come arrosti («rôtis»), «pensées mortes dans mon
cerveau / Mes beaux rêves mort-nés en tranches bien saignantes / Et mes souvenir faisandés en godiveax»; i pensieri sognatori si trovano offerti come
cibo a sé stessi, carni arroste e fatte in polpette. «Or ces pensées mortes depuis del millénaires / Avaient le fade goût des grands mammouth gelés / Les
os ou songe-creux venaient des ossuaires / En danse macabre aux plis de mon
cervelet».28 Un autodivoramento cannibalico con grandi vassoi di carni macellate, preistoriche carni di sogno e di pensiero.
Subito dopo i due versi, Magrelli scrive così:
Ebbene, per avvicinarmi al senso preistorico delle mie radici, ho elaborato
un cervellotico esercizio di scrittura, o meglio di riscrittura, forse, chissà, solo
a fini propiziatori. Partito da due pagine di un semplice manuale di paleontografia, ho cercato di adattarle alla mia vita. Ecco l’originale, a firma Yvette
Gayrard-Valy: (p. 82)
Segue un paragrafo tra virgolette in cui si racconta del viaggio, in territorio russo, per raggiungere il cadavere di un mammut semiemerso dal, e
semisommerso nel, terreno, il difficile e faticoso lavoro per liberarlo (è necessario costruire una specie di forno e riscaldare il terreno) e, fattolo a
pezzi, portarne via i monumentali resti.29 Poi Magrelli continua:
28
29
Cito da G. Apollinaire, Poesie, a c. di R. Paris, Roma, Newton Compton, 1971,
pp. 110-114.
Ecco il brano: «la via è stata lunga: seimila chilometri in slitta da Irkutsk alla Berezovka. Ma il 14 settembre, attraverso i larici, appare il cranio. Il tronco e gli arti
sono ancora sepolti nella terra e nel ghiaccio. È un’enorme massa congelata impossibile da dissotterrare. S’impone una soluzione: riscaldare il suolo e far fondere il ghiaccio. Tutt’intorno viene costruita una capanna di legno, simole a una sauna riscaldata da due fornelli. A poco a poco, in un fetore spaventoso, le carni si
ammorbidiscono, la pelle si stacca, i visceri appaiono. Nello stomaco, serpillo, ra-
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
107
ed ecco il mio adattamento. La proposta di lettura consiste nel sostituire
all’immagine del “mammut”, quella del “bambino”, con tutto ciò che ne consegue. Questo perché, come ho detto, mi interessa l’aspetto geologico del passato, anzi, per meglio dire, la geologia della biografia (p. 83).
La riscrittura rituale («forse, chissà, solo a fini propiziatori») si esercita sì,
lo si incomincia a capire, sul brano manualistico, ma in questo brano si deve
sentire l’afflusso sotterraneo della poesia di Apollinaire sulla carne preistorica dei pensieri morti e sulla danza macabra delle ossa intorno al cervelletto:
solo grazie a questa carica, a questo ingresso di energia, il mammut dei paleontologi può diventare il bambino che Magrelli è stato in un tempo sottratto
al ricordo e reso mitico; solo grazie alla parola letteraria, ancora medianica
nonostante tutto, il documento può dare accesso alla vita fossilizzata. E nello stesso tempo è proprio dal documento, e dalla scrittura scientifica, che si
decide di partire, il che vuol dire anche forse da una ricerca disciplinare verificabile, dai protocolli sottoposti a pubblica discussione, portata avanti dal lavoro collettivo: insomma, per certi versi il contrario della produzione e ricezione letteraria. Ma che la parola letteraria abbia nel procedimento ideale e
costruttivo di Magrelli un’importanza enorme è confermato anche dal fatto
che il tentativo autogeologico, avviato in questo capitolo da Apollinaire, prima di riportare l’esercizio di riscrittura della fonte evochi un altro nume tutelare proveniente dalla letteratura, e una frase che Magrelli si porta dietro da
anni, di opera in opera (peccato non poterne seguire qui la migrazione e i riadattamenti). Si tratta di Karl Kraus:
C’è una frase che rende tutto ciò in maniera mirabile. Difficile da tradurre,
io la intendo così: «Più noi proviamo a guardarla da vicino, più lei ci osserva
da lontano». Il suo autore, Karl Kraus, si riferiva alla parola e alla sua potenza
estraniante. A me invece, in un primo momento, è venuto in spontaneo applicarla all’impressione che provoca in noi lo sguardo di una bestia. Mi sbagliavo:
si trattava dell’infanzia. Da qui, la mia Variazione fossile (p. 83).30
30
nuncoli e genziane: il suo ultimo pasto. E nella terra, masse di peli. Per sei settimane i tre scienziati, inviati in Siberia dall’Accademia delle Scienze di Pietroburgo, sezionano e tagliano la carcassa. Soltanto il 10 ottobre il lavoro può dirsi
finito. I pezzi più grossi sono stati riposti in sacchi di pelle. Mille chili di ossa, carne e visceri. È il 15 ottobre 1901 quando Herz, Sevastianov e Pfizenmayer abbandonano Kolymsk trasportando, con dieci slitte trainate da cavalli, il primo esemplare scoperto in tempi moderni» (pp. 82-83).
L’aforisma krausiano, molto citato, amatissimo, per esempio, da Walter Benjamin, suona così nell’originale: «Ja näher man ein Wort ansieht, desto ferner blickt es zurück». Questa la traduzione di Calasso, che lo interpreta in maniera molto
diversa da Magrelli: «Quanto più da vicino si osserva la parola, tanto più lontano
108
Il mio corpo estraneo
C’è un piccolo trattato sulla lettura condensato in queste poche frasi. Leggere è per prima cosa tradurre e intendere qualcosa in un certo modo, superando le difficoltà che questo messaggio pone; nello stesso tempo è applicare
quel che si è inteso a un oggetto diverso dall’originario; e poi poter cambiare
idea su quest’applicazione, e proporne un’altra senza tornare a quella iniziale.
Insomma, leggere è trasformare un tema in una variazione; è «da qui», dice
Magrelli, dall’infanzia come terzo oggetto supplementare di un aforisma di
Kraus, dunque già da una variazione su Kraus, che viene la Variazione fossile. Questa, dal canto suo, è sì variazione sul tema della pagina di manuale, e
quindi ragionevolmente arricchita dell’epiteto “fossile”, ma è anche un paradossale processo variativo fossilizzato, un mutamento geologico fotografato,
i cui tempi lunghissimi sono stati raccorciati in mezza pagina. Un movimento
immobile, si direbbe, e, come si vedrà, orchestrato secondo tutte le modalità
dell’enigma. Un altro rebus, stavolta di sole parole, dopo quelli di sole immagini costituiti dai disegni di Giacinto e dalla sua prefazione. E un fermo immagine, ancora con Kraus, in cui l’estraneo e l’intimo arrivano ad infiltrarsi reciprocamente: il mostruoso mammut (di Apollinaire) estinto da millenni che
può essere la memoria sepolta di un bambino, e viceversa. Ecco il testo:
La via è stata lunga: quarantasette anni a piedi da casa a casa. Ma il 4 giugno, spuntando attraverso l’oblio, compare il cranio. Il tronco e gli arti sono ancora sepolti nei sogni e nei terrori. È un’enorme massa congelata impossibile
da dissotterrare. S’impone una soluzione: riscaldare il suolo e far fondere il
ghiaccio. Tutt’intorno viene costruita una capanna di fogli, penne e matite, simile a una fornace alimentata da fascine di versi.
A poco a poco, in un fetore spaventoso, le carni si ammorbidiscono, la pelle si
stacca, i visceri appaiono. Nello stomaco, ciocorì, zabaione e biscotti Gentilini: il
suo ultimo pasto. E nella terra, masse di peli. Per quarantadue settimane gli scienziati, inviati a Roma dall’Accademia dei Ricordi di Pofi, sezionano e tagliano la
carcassa. Soltanto il 10 giugno il lavoro può dirsi finito. I pezzi più grossi sono
stati riposti in sacchi di pelle. Novanta chili di ossa, carne e visceri.
È il 16 giugno 1988 quando Magrelli abbandona le terre dell’infanzia trasportando, con due libri trainati da cavalli, il primo esemplare scoperto in tempi moderni. (pp. 83-84)
L’abbondanza di indici temporali e spaziali coincide, in questo brano,
con un fondamentale disordine del tempo e dello spazio. Rileggiamo cercando di fare qualche ipotesi. Come si combinano i quarantasette anni e la
data del quattro giugno che troviamo nella seconda frase? Il 4 giugno 2004
essa rimanda lo sguardo» (Detti e contraddetti, cit., sezione Pro domo et mundo,
p. 252).
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
109
potrebbe essere la data della morte di Giacinto, e i quarantasette anni l’età
di Valerio a quella data; da casa a casa, più che indicare un tragitto da una
dimora all’altra, potrebbe descrivere in pochissime parole il ritmo di una
vita, nei suoi tragitti anulari quotidiani (come a dire dalla mattina alla sera).
Se la proposta di soluzione dell’enigma è giusta, il giorno della morte di
Giacinto sarebbe quello in cui il cranio, la testa fossile del figlio-mammut
emerge dal grembo della terra, che ancora trattiene in resto del suo corpo.
Non è un’infanzia biografica quella che affligge, potremmo dire, questo reperto, perché nessun accenno si fa alle dimensioni ridotte del corpo, del quale anzi, alla fine, si riporteranno via in sacchi novanta chili di ossa, carni e
visceri. È invece una sorta di infanzia psichica e prenatale, e la morte del padre coincide con l’uscita della testa da questa infanzia. Si tratta, insomma,
di una nascita, o di una rinascita. Che avrà bisogno di energiche cure maieutiche. È davvero salito alla superficie, Valerio, dopo la morte di Giacinto;
come nell’esergo musiliano, e come già nell’Anti-Mazur, la prosa di Esercizi (e ci risiamo) di tiptologia ricordata in precedenza. Come l’Anti-Mazur, il
figlio di Geologia di un padre è sprofondato così tanto nella terra nera dei
sogni e nei terrori da sbucare, alla fine, dall’altra parte, alla fine del sogno
come il palazzo di Apollinaire. Ma c’è da completare l’opera, o meglio da
mettere in forma, in parole, la narrazione del suo compimento. I materiali
con cui si costruisce il forno che servirà a ammorbidire il terreno congelato
sono quelli della scrittura, e il combustibile sono le poesie, le fascine di versi radunati e legati insieme; le poesie scritte, prima di tutto, e poi anche quelle lette. Valerio Magrelli scrive per alimentare il forno che riporterà alla
luce, rimetterà al mondo, Valerio Magrelli, o permetterà a lui stesso di portare a casa la parte fossile di sé. Forse poche volte l’autore romano è riuscito come nelle righe che seguono a presentare e insieme a estraniare un’immagine del suo operato, in versi e in prosa. Ripercorrendo la sua opera è
possibile trovare numerose coincidenze e corrispondenze con quanto si dice
qui: l’esposizione delle carni, la pelle, i visceri, addirittura il fetore (si pensi a quella pagina del Condominio di carne in cui al protagonista viene mostrata la testa del suo femore, dopo la sostituzione con una protesi, e alla sottolineatura dell’odore; e non è l’unico caso). Sulla falsariga del brano
assunto come base, anche qui c’è un’équipe di scienziati, che partendo da
Pofi raggiungono Roma, sede, evidentemente, del rinvenimento paleontologico; si era detto che l’avvicinamento al paese paterno veniva condotto da
Magrelli con ogni cautela, ma qui addirittura sembra che l’intero viaggio si
capovolga e cambi di senso, perché sono gli scienziati dell’Accademia dei
Ricordi di Pofi che viaggiano fino a casa di Valerio, ed è dunque Pofi che organizza una spedizione a Roma, per disseppellire, ripulire, e far nascere Va-
110
Il mio corpo estraneo
lerio affinché possa un giorno, finalmente, andare a Pofi. La carcassa dell’enorme bambino fossile31 viene sezionata senza pietà per quarantadue
settimane, ossia il tempo limite di una gravidanza a termine (quindici giorni dopo la data presunta del parto, calcolata dai ginecologi), e quindi l’insaccamento dei pezzi più grossi, ossa carne e visceri, coincide con l’uscita dal
grande sacco, il sacco della terra, e della madre. Nel 1988 Valerio Magrelli
aveva 31 anni. Perché proprio quest’anno è stato scelto per datare l’abbandono delle terre dell’infanzia (che, d’altra parte, potranno essere lasciate
soltanto alla morte del padre: e anche questo è un caso di fortissimo anacronismo)? Difficile dirlo. Meno difficile ipotizzare che i due libri usati per trasportare i novanta chili del corpo (sezionato dal vero e per metafora) di
«Magrelli» siano i primi due volumi di versi di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae, del 1980, e Nature e venature, del 1987. Ma il 10 e il 16 giugno,
perché sono chiamati a fare, sembrerebbe, da spartiacque, da tappe decisive? Qui devo molto alla cortesia di Magrelli, il quale mi ha informato che il
10 giugno è la data in cui ha avuto il grave incidente stradale in seguito al
quale gli sono state impiantate le viti nel bacino, e ha che il 16 giugno è il
giorno del suo matrimonio. E per una straordinaria coincidenza, il 16 giugno è il Bloomsday; il giorno in cui Joyce ebbe il suo primo (o secondo) appuntamento da Nora Barnacle, da cui uscì uomo (sono sue parole), il giorno
che Joyce scelse per mettere Leopold Bloom sulle tracce di Stephen Dedalus, il giovane artista che lo stesso Joyce era stato, di modo che i due, unitisi, formassero un «duumvirato», una pseudocoppia di padre e figlio legati
da un vincolo non genetico.
Liberandosi, espellendosi faticosamente dalla terra dei sogni e dei terrori,
in questo paragrafo di riscrittura («forse, chissà, solo a fini propiziatori») Valerio si mette al mondo, è l’artefice della propria nascita, diventa suo padre e
suo figlio. E per l’insistenza su una nascita fuori dall’ordinario, invertita o
contro natura, il capitolo 49 consuona fortemente con il capitolo 15, dove si
narra la morte del padre. Nel capitolo 14, lo si è già sottolineato, l’io scrivente, di fronte allo scatolone delle agende del padre, dopo aver dichiarato di non
averle lette, si vedeva però costretto a confessare di averlo fatto, almeno in
parte, e di aver trovato negli appunti degli ultimi mesi di vita una vera ossessione per la defecazione. Quegli appunti del vecchio padre diventano una
chiave: «quell’insistere sul processo della deiezione, mi ha svelato retrospettivamente il senso stesso della sua morte, o meglio, della Morte» (p. 26).
31
Già in Nature e venature, uscito, lo ricordiamo, nel 1987, Magrelli aveva parlato
di «natura fossile del bimbo», nell’ultimo verso della poesia intitolata Nei disegni
dei bambini (p. 146).
Io, Valerio Magrelli, sono mio padre, mio iglio, e io
111
Ora, dopo aver tanto tagliuzzato il testo di Magrelli, dopo aver vagato
per spazi liminari e di incerta paternità, dopo aver sistematicamente eluso
e nascosto la sua bellezza, è arrivata per me l’ora di risarcirlo. Trascrivo qui
di seguito la scena della morte del padre, osservata dal figlio al suo capezzale, senza commento, invitando soltanto a confrontarla con le linee dei discorsi fatti fino a qui.
Io continuavo a guardarlo come un cane che divori ogni particola di un osso.
La sua immagine era il mio osso, e i miei occhi-denti (piraña, allora) andavano
rosicchiando, mio malgrado, minutissimi dettagli. Un neo sul braccio sinistro
mai visto fino a allora, la zona sotto il mento mal rasata, i bottoni del pigiama.
Il respiro diventava sempre più difficoltoso. Restai solo a tenerlo, e lo vedevo
concentrato come non mai, dietro la maschera per la respirazione, con gli occhi
chiusi. Intento a respirare, avrei creduto: ma non era così. Non mi vedeva nemmeno. La cosa che più mi commosse, e mi commuove ancora, è il modo in cui si
faceva forza con un braccio, seduto sul lettino, spingendo con la mano sinistra
come per tirarsi su. Chi si appoggia sul braccio così?, mi dicevo. Quando ci si appoggia sul braccio così?, mi chiedevo. Dove ci si appoggia sul braccio così?, mi
scervellavo. Adesso lo so, ma in quel momento sarebbe stato impossibile pensarlo. Ci si puntella così per defecare. Questo, dunque, è il segreto dei segreti. Mio
padre cacava se stesso, ossia cacciava via quel tremendo bolo che ormai era diventata la sua vita. Non cercava di trattenerla, al contrario: soffriva proprio perché non riusciva a estrarla. Espelleva se stesso dal mondo, e io, che non lo avevo
mai visto al gabinetto, dovevo assisterlo in quel gesto postremo.
Era il contrario di quanto avviene in sala parto. La differenza sta nella mancanza della madre. Per questo, il morente è chiamato a impersonare due ruoli
insieme: è la fattrice e il neonato, l’espulsore e l’espulso. Si tratta di ripassare
dall’altra parte, e il cunicolo è stretto, e nessuno, proprio nessuno, può aiutarti.
Il punto è questo: devi farlo da solo, affrontando una dilatazione topologica
dello spazio in cui la coscienza-oloturia è chiamata ad estroflettersi.
Non ci furono grida o contrazioni, bensì il paziente estrarsi di sé da sé, come
nel caso della bottiglia di Klein, laddove il contenente si travasa nel contenuto.
E tutto nella tristezza delle feci, il cui congedo diuturno mio padre andava annotando con tanta straziante acribia. Pian piano è uscito tutto dalla vita, sgusciando via, alla fine, fino in fondo. Il braccio, poi, non gli è servito più., e ha
smesso di far leva. L’ho visto sparire sotto i miei occhi. Sarà sbucato dall’altra
parte del mondo (pp. 27-28).32
32
Non un commento, per mantenere fede alla promessa, ma un semplice allegato.
Trascrivo la poesia Il partoriente, da ET: «Presenza e assenza. / Mutazione geologica. / Io che cedo sotto il suo peso. / Subsidenza, / e il mio lento sprofondare. /
ma in verità non cedo / sotto un peso, poiché gli sono sopra, / scendo, sto sopra e
scendo, Toboga, / e il suo peso è un tirare / dal basso, un prendere forma attirandomi / giù, sabbia da sabbia, / perché io riappaia capovolto come / filiale di me
stesso / al capo opposto / di questa clessidra genetica» (p. 230).
Pubblicazioni del «Centro Internazionale Insubrico “C. Cattaneo” e “G. Preti”»
Studi
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del 1936, il carteggio con Moritz Schlick, lettere con Antonio Bani e Mario Dal
Pra), 2010;
Giovanni Carozzini, Gilbert Simondon ilosofo della mentalité techniquem, 2011;
Brigida Bonghi, Il Kant di Martinetti. La iaccola sotto il moggio della metaisica
kantiana, 2010;
Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano. Tra pensiero poetante e poetare
pensante, 2011;
Fabio Minazzi, Giovanni Vailati epistemologo e maestro, 2011;
Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione. Scienza, ilosoia e religione da
Galileo ai buchi neri e oltre, 2011;
Elisabetta Scolozzi, Immanuel Kant epistemologo. Interesse ed attualità
dell’epistemologia trascendentalista, 2012;
Fabio Minazzi, Suppositio pro signiicato non ultimato. Giulio Preti neorealista
logico studiato nei suoi scritti inediti, 2011;
Rossana Avanzi, Alla ricerca del testo perduto. Il libro, la lettura e la scrittura in
Italo Calvino: Se una notte d’inverno un viaggiatore, 2012;
Evandro Agazzi, Ragioni e limiti del formalismo. Saggi di ilosoia della logica e
della matematica, a cura e con una Prefazione di Fabio Minazzi, 2012;
Massimo Stevanella, La scoperta scientiica e la sua logica. La teoria
dell'abduzione tra scienza, ilosoia e letteratura, 2012;
Gabriele Scaramuzza, Kafka a Milano. Le città, la testimonianza, la legge, 2012;
Federico Francucci, Il mio corpo estraneo. Carni e immagini in Valerio Magrelli.
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con Il discorso di saluto al Presidente della Repubblica Italiana di Renzo Dionigi,
introduzione, note e cura di Fabio Minazzi, 2011; seconda edizione rivista e
aggiornata 2012;
Gilbert Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma
ed’informnazione, a cura di Giovanni Carrozzini, 2011, 2 voll.;
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Italian by Richard Sadleir, 2011;
Daria Menicanti, Il concerto del grillo. L’opera poetica completa con tute le poesie
indite, a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvia Raffo, con la Bibliograia
menicantea, 2013;
Antonio Bani, La crisi, Prefazione di Carlo Bo, Postfazioni di Fabio Minazzi e
Fulvio Papi, 2013.
Atti di simposi
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Evolutionism and Religion, Evandro Agazzi and Fabio Minazzi editors, 2011;
VareseComunica. Tecnologia fra i saperi, a cura di Daniela Fornaciarini e Fabio
Minazzi, 2012;
Il contributo di Giulio Preti al razionalismo critico europeo, a cura di Fabio
Minazzi e Maria Grazia Sandrini, 2012;
Le scienze cognitive nel dibattito contemporaneo. Problemi e prospettive, per un
approccio epistemologico alle neuroscienze, in corso di pubblicazione.
Cataloghi delle mostre
1.
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3.
Fabio Minazzi, Giulio Preti: le opere e i giorni. Una vita più che vita per la
ilsooia quale onesdto mestiere, Presentazione di Renzo Dionigi, con una nota
critica di Rolando Bellini, 2011;
Antonio Ria e Serena Savini (a cura di), Lalla Romano e Daria Menicanti «mentre
tu scrivi», Presentazione di Fabio Minazzi, con un’intervista inedita a Daria
Menicanti, 2012;
Dario Generali e Fabio Minazzi, «La causa dei lumi e della libertà». Itinerario
filosofico, storico e archivistico tra le carte – edite ed inedite – di Carlo Cattaneo,
Presentazione di Guido Bersellini, 2012.
Collezione di compact disc
1.
2.
Daria Menicanti, Canzoniere per Giulio, a cura di Fabio Minazzi, recitato da Silvio
Raffo, Laboratorio Multimediale di Ateneo, Università degli Studi dell’Insubria,
2011;
Laboratorio Multimediale di Ateneo-Università degli Studi dell’Insubria, Giulio
Preti: le opere e i giorni. Testimonianze, 2011.
Plaquette
1.
Daria Menicanti, Commutazione. Una poesia inedita, a cura e con commento
di Silvio Raffo, con una nota critica di Fabio Minazzi, Università degli Studi
dell’Insubria, 2011.
Libri fotograici
1.
2.
3.
Carlo Meazza, I luoghi di unʼamicizia. Antonia Pozzi Vittorio Sereni 1933-1938,
Prefazione di Fuvio Papi, con i contributi di Graziella Bernabò, Onorina Dino,
Pierangelo Frigerio, Clelia Martignoni, Fabio Minazzi e Stefano Raimondi, 2012;
Insubria rurale. Pratiche agronomiche sostenibili e biologiche e forme
dell’imprenditoria rurale per una nuova immagine della natura, fotograie di Carlo
Meazza, contributi teorici di Giorgio Binelli, Brigida Bonghi, Luca Colombo,
Marina Lazzari, Guido Locatelli, Fabio Minazzi, Giovanni Nicolini, Federico
Pianezza, Gianni Tamino, Ezio Vaccari, Alberto Vianelli, Giorgio Zanatta, con
schede analitiche delle Aziende sostenibili e biologiche, 2013;
Vittorio Sereni, Un posto di vacanza. Luoghi di una poesia, testi di Franco Loi,
Stefano Raimondi, Gabriele Scaramuzza, fotograie di Carlo Meazza, 2013.
Quaderni di appunti
1.
2.
Giulio Preti, 2011;
Carlo Cattaneo, 2012.
Finito di stampare
settembre 2013
da Digital Team - Fano PU