William Shakespeare
Riccardo III
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Riccardo III
AUTORE: Shakespeare, William
TRADUTTORE: Raponi, Goffredo
CURATORE:
NOTE: si ringrazia il Prof. Goffredo Raponi per
averci concesso il diritto di pubblicazione. Questo
testo è stato realizzato in collaborazione con
l'associazione "Festina Lente C.I.R.S.A.".
CODICE ISBN E-BOOK: 9788897313632
DIRITTI D'AUTORE: si
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata
al
seguente
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TRATTO
DA:
traduzione
originale
da
"William
Shakespeare - The Complete Works", di William
Shakespeare Collins, London & Glasgow, 1951/60 Pagg.
XXXII, 1370
CODICE ISBN FONTE: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 28 giugno 2000
2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 21 luglio 2014
2
INDICE DI AFFIDABILITA': 3
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
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3
Indice generale
RICCARDO III..............................................................................6
NOTE PRELIMINARI.............................................................7
PERSONAGGI.........................................................................9
ATTO PRIMO.........................................................................11
SCENA I.............................................................................11
SCENA II...........................................................................20
SCENA III..........................................................................36
SCENA IV..........................................................................56
ATTO SECONDO...................................................................71
SCENA I.............................................................................71
SCENA II...........................................................................79
SCENA III..........................................................................88
SCENA IV..........................................................................92
ATTO TERZO.........................................................................97
SCENA I.............................................................................97
SCENA II.........................................................................109
SCENA III........................................................................117
SCENA IV........................................................................119
SCENA V.........................................................................126
SCENA VI........................................................................132
SCENA VII......................................................................133
ATTO QUARTO...................................................................146
SCENA I...........................................................................146
SCENA II.........................................................................152
SCENA III........................................................................160
SCENA IV........................................................................164
SCENA V.........................................................................195
ATTO QUINTO....................................................................197
SCENA I...........................................................................197
4
SCENA II.........................................................................199
SCENA III........................................................................201
SCENA IV........................................................................222
SCENA V.........................................................................224
NOTE....................................................................................227
5
RICCARDO III
di
William Shakespeare
Dramma storico in 5 atti
Traduzione e note di
Goffredo Raponi
Titolo originale:
“THE TRAGEDY OF KING RICHARD THE THIRD”
6
NOTE PRELIMINARI
1. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello
dell’edizione curata dal prof. Peter Alexander (William
Shakespeare, “The Complete Works”, Collins, London &
Glasgow, 1951-1960, pagg. XXXII-1370, con qualche
variante suggerita da altri testi, in particolare quello della
più recente edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da
G. Welles & G. Tayor per la Clarendon Press, New York,
U.S.A., 1988-1994, pagg. XLIX-1274; quest’ultima
contiene anche “I due nobili cugini” (“The Two Noble
Kinsmen”) che manca nell’Alexander.
2. Il traduttore ha aggiunto di sua iniziativa alcune didascalie
e indicazioni sceniche (“stage instructions”) laddove le ha
ritenute opportune per la migliore comprensione
dell’azione scenica alla lettura, cui questa
traduzione è essenzialmente concepita ed ordinata, il
traduttore essendo convinto della irrappresentabilità del
teatro di Shakespeare sulle moderne ribalte. Si è lasciata
comunque invariata, all’inizio e alla fine di ogni scena,
come all’entrata ed uscita dei personaggi nel corso d’una
stessa scena, la rituale indicazione “Entra”/“Entrano”
(“Enter”) ed “Esce”/ “Escono” (“Exit”/ “Exeunt”),
avvertendo peraltro che non sempre essa indica
movimenti di entrata/uscita dei personaggi, potendosi dare
che questi si trovino già in scena all’apertura della stessa,
o vi restino alla chiusura. Il teatro elisabettiano – com’è
noto – non aveva sipario.
3. Il metro è l’endecasillabo sciolto, alternato da settenari;
altro metro si è usato per citazioni, canzoni, proverbi,
cabalette e altro, quando, in accordo col testo, sia stato
richiesto uno stacco di stile.
4. I nomi dei personaggi che vi si prestano sono resi nella
7
forma italiana; sono lasciati comunque nella forma inglese
quando preceduti da “sir” o “lady”. Per esigenze di
metrica, i nomi inglesi di più sillabe che alla pronuncia
inglese suonano sdruccioli, bisdruccioli e perfino
trisdruccioli – come tutte le parole di questa lingua monobisillabica (es. Wèstmoreland, Làncaster) – possono
ritrovarsi diversamente accentati nel corpo del verso,
secondo la cadenza sillabica di questo.
5. Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzioni
precedenti, in particolare della prima versione poetica di
Giulio Carcano e di quelle del Baldini, del Lodovici, del
Melchiori, del Lombardo, del D’Agostino e di diversi
altri, dalle quali ha tratto in prestito oltre alla
interpretazione di passi oscuri o controversi, intere frasi e
costrutti; di tutto ha dato opportuno credito in nota.
8
PERSONAGGI
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RE EDOARDO IV
EDOARDO - principe di Galles, poi Re Edoardo V,
RICCARDO - duca di York - figli del re
GIORGIO - duca di Clarenza, RICCARDO, duca di
Gloucester, poi Re Riccardo III - fratelli del re
EDOARDO - conte di Warwick, figlio minore del Duca
di Clarenza
ENRICO - conte di Richmond, poi Re Enrico VII
IL CARDINALE BOURCHIER - arcivescovo di
Canterbury
THOMAS ROTHERHAM - arcivescovo di York
IL DUCA DI BUCKINGHAM
IL DUCA DI NORFOLK
IL CONTE DI SURREY - suo figlio
IL CONTE DI RIVERS (Antonio Woodville) - fratello
della regina Elisabetta, moglie di Re Edoardo
IL MARCHESE DI DORSET
LORD GREY, IL CONTE DI OXFORD - figli della
regina Elisbetta (dal primo marito)
LORD HASTINGS - Lord Ciambellano
LORD STANLEY - conte di Derby, suo amico
SIR JAMES BLOUNT, SIR WALTER HERBERT seguaci del Conte di Richmond
LORD LOVEL
SIR WILLIAM BRANDON
SIR THOMAS VAUGHAN
SIR WILLIAM CATESBY
SIR JAMES TYRREL
SIR ROBERT BRAKENBURY - luogotenente della
9
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Torre
UN PRETE (Christopher Urwick)
IL LORD MAYOR DI LONDRA
LO SCERIFFO DEL WILTSHIRE
HASTINGS - messo di giustizia
TRESSEL, BERKELEY - gentiluomini al seguito di
Lady Anna
UN PAGGIO
ELISABETTA - regina moglie di Re Edoardo
MARGHERITA - vedova di Re Enrico VI
LA DUCHESSA DI YORK - madre di Re Edoardo IV,
del Duca di Clarenza e del Duca di Gloucester
LADY ANNA NEVILL - vedova di Edoardo, principe di
Galles, figlio di Enrico VI, poi sposata al Duca di
Gloucester
MARGHERITA - contessa di Salisbury, giovane figlia di
Clarenza
GLI SPETTRI delle vittime di Riccardo III
Lords - Gentiluomini - Cortigiani - Vescovi - Borghesi - Cittadini
- Soldati - Alabardieri - Sicari - Messaggeri
SCENA: in Inghilterra.
10
ATTO PRIMO
SCENA I
Una via di Londra1
RICCARDO — Entra RICCARDO, duca di Gloucester
Ormai l’inverno del nostro travaglio
s’è fatto estate sfolgorante ai raggi
di questo sole di York;2 e le nuvole
che incombevano sulla nostra casa
son sepolte nel fondo dell’oceano.
Ora le nostre fronti
si cingono di serti di vittoria;
peste e ammaccate sono appese al muro
le nostre armi, gloriose panoplie,
e in giulivi convegni tramutate
le massacranti marce militari.
Deposto ha Marte l’arcigno cipiglio
e spianata la corrugata fronte,
e, non più in sella a bardati destrieri
ad atterrir sgomente anime ostili,
ora se’n va, agilmente saltellando
per l’alcova di questa o quella dama
alle lascive note d’un liuto.
Ma io che son negato da natura
a questi giochi, che non son tagliato
per corteggiare un amoroso specchio,
plasmato come son da rozzi stampi,
e privo della minima attrattiva
per far lo sdilinquito bellimbusto
11
davanti all’ancheggiar d’una ninfetta;
io, che in sì bella forma son tagliato,
defraudato d’ogni armonia di tratti,
monco, deforme, calato anzitempo3
in mezzo a questo mondo che respira;
io, che sono sbozzato per metà
e una metà sì sgraziata e sbilenca
che m’abbaiano i cani quando passo;
io, dico, in questa nostra neghittosa
e zufolante stagione di pace,
altro svago non ho, altro trastullo
da consentirmi di passare il tempo,
fuor che sbirciare la mia ombra al sole
e intonar col pensiero, in vari toni,
variazioni sul mio stato deforme.
Sicché, poiché natura m’ha negato
di poter fare anch’io il bellimbusto
di su e di giù, com’è frivola moda
di questi tempi dal parlar fiorito,
ho deciso di fare il delinquente,
e di odiare gli oziosi passatempi
di questa nostra età.
Ho tramato complotti d’ogni genere,
ho iniettato negli animi il veleno
con profezie, calunnie, fantasie,
per seminar mortale inimicizia
tra mio fratello Clarenza ed il re;
e se re Edoardo è uomo giusto e retto
com’io son furbo, falso e traditore,
proprio oggi Clarenza
dovrebb’essere preso e imprigionato
in virtù d’una certa profezia
secondo cui gli eredi di Edoardo
12
saranno assassinati da una “G”.4
Entrano il DUCA DI CLARENZA e
BRAKENBURY
Ma adesso, miei pensieri,
sprofondate nel fondo del mio cuore,
perché Clarenza è qui… Buondì, fratello.
Che significa questa scorta armata
che ti cammina a fianco?
CLARENZA — Per protezione della mia persona,
sua maestà m’ha assegnato questo corso
che mi meni alla Torre.
RICCARDO —
E perché mai?
CLARENZA — Perché mi chiamo Giorgio.
RICCARDO —
Ohibò, fratello!
Di questo tu non hai nessuna colpa;
per questo il re dovrebbe incarcerare
i tuoi padrini. Forse sua maestà
avrà in mente di farti battezzare
una seconda volta nella Torre…
Ma, sul serio, Clarenza,
di che si tratta, lo posso sapere?
CLARENZA — Sì, sì, quand’io l’avrò saputo anch’io,
Riccardo, perché ancora non lo so.
Per quanto n’abbia potuto sapere,
egli dà ascolto a sogni e profezie,
e ha strappato la “G” dall’alfabeto
perché un veggente, dice, gli ha predetto
che per mano e ad opera di un “G”
sarà diseredata la sua prole.
E poiché “G” è la lettera iniziale
13
del nome mio, ne segue, a suo giudizio,
che quel “G” sarei io…
Per questa ed altri simili sciocchezze
senza alcun fondamento, come apprendo,
sua altezza mi fa ora arrestare.
RICCARDO — Questo è quel che succede quando gli uomini
si fanno governare dalle donne.
Chi manda te alla Torre non è il re,
ma Lady Grey sua moglie; è lei, Clarenza,
che lo trascina a tal sorta di eccessi.
E non è stata lei, con suo fratello,
l’esimio ed onorato Antonio Woodville,
a indurre il re a rinchiudere Lord Hastings
alla Torre, da dove proprio oggi
è uscito in libertà?…
Noi non siamo al sicuro qui, Clarenza,
noi non siamo al sicuro.
CLARENZA — Penso, perdio, che non lo sia nessuno
al sicuro, all’infuori dei parenti
della regina e dei porta-messaggi
che nottetempo fan su e giù la spola
fra lui e mistress Shore.5
Non hai sentito che anche Lord Hastings
s’è dovuto ridurre umile supplice
presso di lei per esser liberato?
RICCARDO — Ed alla sua deità umilmente prono
ha potuto ottenere la libertà
anche il Lord Ciambellano. Credi a me,
fratello, se vogliamo mantenerci
i favori del re, non c’è altra via
che metterci al servizio di costei
e rivestirci della sua livrea.
14
Lei e quell’invidiosa anziana vedova,
dacché nostro fratello le ha innalzate
a gentildonne, son le due comari
più potenti di questa monarchia.
BRAKENBURY —
Supplico di scusarmi, signorie,
ma sua maestà ha severamente ingiunto
che nessuno, qualunque sia il suo rango,
parli in privato con vostro fratello.
RICCARDO — Oh, Bràkenbury, se vi fa piacere,
potete udire quello che diciamo!
Non parliamo di tradimenti, amico.
Dicevamo che il re è uomo saggio
e pieno di virtù, e la sua regina,
nobile dama, pur se un po’ attempata,
è sempre bella, e per nulla gelosa;6
e dicevamo che madama Shore
ha un bel piedino, un labbro di ciliegia,
un occhio seducente, una parlata
oltremodo piacevole all’orecchio;
e che fratelli e zii della regina
son diventati tutti gente nobile.
Che ne dite signore?
Potete voi negare tutto questo?
BRAKENBURY —
Io con questo, signore,
non ho proprio a che fare.
RICCARDO —
Come, come!
Male a che fare con madama Shore?7
Sai che ti dico, amico?
Che chiunque abbia a che fare con lei,
eccetto solo uno,
è meglio che lo faccia di nascosto.
15
BRAKENBURY —
E chi sarebbe quell’uno, signore?
RICCARDO — Eh, suo marito, diamine, birbante!
Non vorrai mica prendermi in castagna?
BRAKENBURY —
Vostra grazia, vi prego di scusarmi
e di voler troncare il suo colloquio
con il nobile duca.
CLARENZA — Conosciamo la tua consegna, Brakenbury,
e ad essa obbediremo.
RICCARDO — Noi non siamo che gli umili vassalli
della regina, e dobbiamo obbedire.
Addio, fratello. Andrò per te dal re,
e farò tutto quel che posso fare
– dovessi pur chiamar “sorella mia”
la vedova di Edoardo –,
per ottener la tua liberazione.
Frattanto questa profonda lesione
alla nostra comune fratellanza
mi tocca al cuore più che non immagini.
CLARENZA — Lo so, molto piacere
essa non fa a nessuno di noi due.
RICCARDO — Bene, vedrai che la tua prigionia
non sarà lunga: ti libererò,
o altrimenti prenderò il tuo posto.8
Nel frattempo, tu devi aver pazienza.
CLARENZA — Dovrò averla per forza. Arrivederci.
(Escono Clarenza e Brakenbury)
RICCARDO — Va’, segui la tua strada
dalla quale più non farai ritorno,
ingenuo, candido fratello mio;
16
ti voglio tanto bene, che ben presto
farò volare al cielo la tua anima….
se pure il ciel vorrà accettare il dono
dalle mie mani… Ma chi viene qui?
Hastings appena uscito di prigione?
Entra HASTINGS
HASTINGS — Il buon giorno al grazioso mio signore!
RICCARDO — Altrettanto al mio buon Lord Ciambellano!
Bentornato tra noi all’aria libera.
E come ha sopportato la prigione
vossignoria?
HASTINGS —
Con pazienza, signore,
come deve qualunque prigioniero.
Ma spero, signor mio, di viver tanto
da poter fare i miei ringraziamenti
a quelli che m’han fatto carcerare.
RICCARDO — Senza dubbio, signore, senza dubbio;
e lo stesso farà anche Clarenza,
ché sono suoi nemici
quelli stessi che sono stati i vostri,
e han prevalso su lui come su voi.
HASTINGS — Più triste è che in gabbia siano l’aquile,
mentre avvoltoi e falchi
predano in libertà.
RICCARDO —
Che nuove in giro?
HASTINGS — Nessuna sì cattiva quanto questa
che abbiamo in casa: ed è che il re è malato
indebolito e triste, e i suoi dottori
temono assai per lui.
17
RICCARDO —
Per San Giovanni,
questa è davvero una notizia brutta!
Ahimè, da troppo tempo
ha seguito una vita sregolata
che doveva finire fatalmente
per logorar la sua regal persona.9
È penoso pensarlo. Dov’è adesso?
A letto?
HASTINGS —
Sì, signore.
RICCARDO — Andate avanti voi. Vi seguirò.
(Esce Hastings)
Non può vivere, spero, nel suo stato,
ma non deve morire
prima che Giorgio sia a spron battuto
spedito in cielo. Adesso vado dentro
a rattizzargli in cuore, con menzogne
corazzate di solidi argomenti,
il suo cieco livore per Clarenza;
e se il segreto mio scopo non falla,
Clarenza non ha più giorni da vivere…
Dopo di che, si prenda pure Iddio
il Re Edoardo nella Sua mercé,
e lasci il mondo a me,
perch’io possa giostrarmici a mio agio.
Perché allora mi prenderò per moglie
una figlia di Warwick, la più giovane…
Sì, le ho scannato suocero e marito,
ma che importa? Per fare di ciò ammenda
a lei, la via migliore e più spedita
è farmi io suo padre e suo marito.
E lo farò: non tanto per amore
18
quanto per altra mia segreta mira,
che sposandomi a lei devo raggiungere.
Ma non mettiamo il carro innanzi ai buoi.10
Clarenza ancor respira;
Edoardo è vivo e regna.
Questi due una volta liquidati,
potrò tirare il conto dei profitti.
(Esce)
19
SCENA II
Londra, un’altra strada.
Scortata da alabardieri, entra la salma di Enrico VI con Lady
ANNA in gramaglie; con lei sono TRESSEL, BERKELEY e altri
gentiluomini
ANNA — Sostate un po’; posate pure a terra
l’onorato fardello – se l’onore
può essere ravvolto in un sudario –,
ch’io possa qui, per qualche istante ancora,
piangere e lamentar, secondo il rito,
l’acerba fine del virtuoso Làncaster.
Povera spoglia d’un re consacrato,
fredda come una chiave,
pallide ceneri di casa Làncaster,
resti esangui di quel sangue reale,
ch’io possa, Enrico, chiamare il tuo spirito
ad ascoltare le lamentazioni
della misera Anna,
la consorte del tuo figliolo Edoardo,11
trucidato da quella stessa mano
ch’ha inferto a te tutte queste ferite.
Ecco, nel vano di queste finestre
che han lasciato fuggire la tua vita
io verso il balsamo inefficace
dei miei poveri occhi. Oh, maledetta
la mano che ti aperse questi squarci!
Maledetto quel cuore
cui bastò il cuore di far tanto scempio!
Maledetto quel sangue
20
che ti fece versare tanto sangue!
Sopra quell’esecrato malfattore
che ci fa miseri con la tua morte
scenda sorte più cruda che augurare
io possa solo a ragni e rospi e vipere
e quant’altre creature velenose
vivono sulla terra. Se avrà un figlio,
che gli nasca come un mostruoso aborto,
prima del giusto tempo di natura
e tale che col suo deforme aspetto
atterrisca la speranzosa madre
ed erediti la paterna infamia.
E se avrà una moglie, questa sia ridotta
per la sua morte ancora più infelice
che non lo sia io per quella tua
e quella del mio giovane marito.
(Ai portatori del feretro)
Avanti, ora, col vostro sacro peso,
fino a Chertsey,12 perché s’abbia colà
la sua definitiva sepoltura.
E se per via vi coglierà stanchezza
nel portarlo, sostate pure ancora,
ch’io possa alzar sul corpo di Re Enrico
altre lamentazioni.
Entra RICCARDO
RICCARDO —
Fermi là,
voi che portate il cadavere, giù,
riposatelo a terra!
ANNA — Qual mai nero stregone
avrà evocato qui questo demonio
ad interrompere devoti riti
21
di cristiana pietà?
RICCARDO —
Giù quel cadavere,
furfanti, o, per San Paolo, un cadavere
farò di chi rifiuta d’obbedirmi!
ALABARDIERE —
(Sbarrandogli il passo con l’alabarda)
Fate passar la bara, monsignore,
state indietro.
RICCARDO —
Sta’ fermo tu, piuttosto,
cane screanzato, quando io te l’ordino!
E leva via da me quest’alabarda,
o, per San Paolo, ti stendo morto
ai miei piedi, pezzente, e ti calpesto
per tanta tua insolenza!
ANNA — (Agli alabardieri)
E che! Tremate tutti di paura?.
Ahimè, non posso certo biasimarvi;
siete mortali, e l’occhio d’un mortale
non sopporta la vista del demonio.
(A Riccardo)
Orribile ministro dell’inferno,
vattene! Il tuo potere
non va oltre il suo corpo:
la sua anima tu non puoi averla.
E dunque va’, allontànati da qui!
RICCARDO — Dolce santa, per carità di Dio,
non esser sì cattiva.
ANNA —
Immondo diavolo,
per l’amore di Dio, vattene via!
Non venire a turbar la nostra pace.
22
Tu di questa felice nostra terra
hai fatto il tuo inferno, l’hai riempita
d’urla imprecanti e di basse bestemmie.
Se ti piace ammirare i tuoi misfatti,
guarda questo campione
dei tuoi massacri. Guardate, signori,
oh, guardate, guardate le ferite
di Enrico morto: le lor fredde bocche
spalancate riversano ancor sangue…
(A Riccardo)
Vergogna a te! Vergogna,
ammasso di deforme luridume,
perché è la tua presenza
quella che fa versare questo sangue
da vene vuote e fredde e inaridite;
il tuo misfatto, innaturale ed empio
provoca questa innaturale uscita
di sangue. O Dio, Tu che questo sangue
hai creato, vendica la sua morte!
E tu, o terra, che di questo sangue
t’abbeveri, fa’ anche tu vendetta
della sua morte. Incenerisca il cielo
col suo fulmine questo maledetto
assassino, o la terra
si faccia sotto i suoi piedi voragine
e se lo inghiotta vivo, come inghiotte
ora il sangue di questo buon sovrano
trucidato dal suo braccio infernale.
RICCARDO — Madama, voi mostrate d’ignorare
le regole di quella carità
che rende bene per male,
benedizioni per imprecazioni.
23
ANNA — Sei tu che ignori, infame,
tutte le leggi di Dio e degli uomini.
Non c’è bestia che sia tanto feroce
da non conoscere almeno un briciolo
di pietà.
RICCARDO —
Ma io non la conosco,
perciò non sono bestia.
ANNA —
Oh, meraviglia,
quando i diavoli sono veritieri!
RICCARDO — Ancor più meraviglia
quando gli angeli sono così in collera.
Oh, dégnati, divina perfezione
di donna, di concedermi licenza
che di questi supposti miei delitti,
io con te, giust’appunto, mi scagioni.
ANNA — Degnati tu di dar licenza a me,
tu, cancerosa pestilenza d’uomo,
di urlarti sulla faccia, maledetto,
questi ben conosciuti tuoi delitti.
RICCARDO — O bella più che lingua possa dire,
accordami quel tanto di pazienza
che mi dia agio di giustificarmi.
ANNA — O tristo, più che cuor possa pensare,
altra discolpa non potrai trovare
se non che nell’appenderti a un capestro.
RICCARDO — M’accuserei da me,
con un tal gesto di disperazione.
ANNA — No, con quel gesto tu ti assolveresti,
ché con esso faresti su di te
24
degna vendetta degli atroci eccidii
consumati da te uccidendo gli altri.
RICCARDO — Se dicessi che non li ho uccisi io?
ANNA — Sarebbe dire ch’essi da nessuno
furono uccisi; eppure sono morti,
e per tua mano, diabolico schiavo!
RICCARDO — Non ho ucciso io vostro marito.13
ANNA — Allora non è morto?
RICCARDO —
È morto, sì,
ma per mano di Edoardo.
ANNA —
Immondo ipocrita!
Tu menti per la gola. La regina
ha visto il tuo micidiale pugnale
ancor tutto fumante del suo sangue;
e tu stavi in procinto di piantarlo
già nel petto di lei, se i tuoi fratelli
non te ne avessero sviato il colpo.
RICCARDO — Fui provocato, in quella circostanza,
da quella sua calunniosa linguaccia
che voleva addossar la loro colpa
sulle mie spalle, del tutto incolpevoli.
ANNA — No, a provocarti fu la tua natura
sanguinaria, che non sognò mai altro
che sangue e stragi. Ed ora questo re
non l’hai ucciso tu?
RICCARDO —
Concedo, sì.
ANNA — Ah, lo concedi, brutto porcospino!
Così voglia concedere a me Dio
25
che ti sia data dannazione eterna
per questa turpe azione.
Oh, quanto mite e nobile e virtuoso
egli era!
RICCARDO —
Tanto meglio per il cielo
che l’ha ora con sé.
ANNA —
Sì, egli è in cielo,
dove tu non sperar d’andare mai.
RICCARDO — Sia dunque grato a me
che l’ho aiutato ad andare lassù
se più a quel luogo egli era congeniale
che alla terra.
ANNA —
Sì, come congeniale
ad altro luogo tu sei che l’inferno.
RICCARDO — Oh, un luogo diverso ci sarebbe,
se posso dirlo…
ANNA —
Sì, una prigione,
o che altro?
RICCARDO —
La tua stanza da letto.
ANNA — Non conosca riposo quella camera
ove giaci.
RICCARDO —
Così sarà, madama,
finché io non mi giaccia insieme a te.
ANNA — Lo spero bene.14
RICCARDO —
Io ne sono certo.
Ma, lasciamo da parte, mia gentile,
26
questo arguto duello di cervello,
e scendiamo a un parlare più concreto:
chi è stato causa delle acerbe morti
di questi due Plantageneti, Enrico
ed Edoardo, non è altrettanto reo
di chi ne è stato il pratico strumento?
ANNA — Tu sei stato la causa,
e tu il loro maledetto effetto.
RICCARDO — No, questa tua bellezza, ed essa sola,
è stata causa di quell’effetto;
questa bellezza tua che m’ossessiona
fin nel sonno, da spingermi a pensare
di dar morte magari a tutto il mondo
pur di vivere un’ora sul tuo seno.
ANNA — Se mi venisse mai un tal pensiero,
io ti dico, assassino, che quest’unghie
farebbero a brandelli la mia faccia
per cancellarne via questa bellezza.
RICCARDO — S’io vi stessi vicino,
questi occhi certo non sopporterebbero
quella devastazione di beltà;
non potresti offuscarla, me presente.
Ché come il mondo s’allieta del sole,
così di quella io; è la mia luce,
è la mia stessa vita.
ANNA — La nera notte offuschi la tua luce,
la morte la tua vita.
RICCARDO — Non imprecare contro te medesima,
bella creatura: tu sei l’una e l’altra.
ANNA — Ah, vorrei esserlo, per vendicarmi!
27
RICCARDO — Vendicarsi di chi t’ama, è querela
assai contro natura.
ANNA — È giusta e ragionevole querela
per me cercar vendetta
contro colui che ha ucciso mio marito.
RICCARDO — Chi ti privò del marito, signora,
lo fece perché tu potessi averne
uno migliore.
ANNA —
Migliore di lui
non ce n’è che respiri sulla terra.
RICCARDO — Vive e respira invece sulla terra
chi t’ama meglio ch’egli non sapesse.
ANNA — Dimmi il nome.
RICCARDO —
Plantageneto.
ANNA —
Ebbene,
era lui quello.
RICCARDO —
Ha lo stesso nome,
ma è uno di natura superiore.
ANNA — Dov’è costui?
RICCARDO —
È qui davanti a te.
(Anna gli sputa in faccia)
Perché mi sputi addosso?
ANNA — Vorrei che fosse veleno mortale,
per te.
RICCARDO —
Mai scaturì mortal veleno
28
da così dolce fonte.
ANNA —
Mai veleno
restò rappreso a più schifoso rospo.
M’infetti gli occhi! Via dalla mia vista!
RICCARDO — Son gli occhi tuoi ad avere infettato
questi miei, soavissima signora.
ANNA — Basilischi vorrei che essi fossero,
per darti morte.15
RICCARDO —
Oh, sì, e poter morire
subito qui! Se no, a morte lenta
m’uccidono i tuoi occhi, che dai miei
han saputo spillare amare lacrime,
ombrandone le luci
con un diluvio di puerili gocce;
questi occhi miei da cui non scese mai
lacrima di rimorso,
neppure quando mio padre ed Edoardo
piansero a udire il pietoso lamento
di Rutland, quando l’efferato Clifford
gli vibrò la fatale pugnalata;16
né quando quel guerriero di tuo padre
ci raccontò piangendo e singhiozzando
come un bambino la morte del mio,
sì che le guance di tutti gli astanti
eran come alberi stillanti pioggia.
Perfino in quel momento di tristezza
stragrande questi miei occhi virili
sdegnaron di versar l’umile lacrima.
Ma quello che non seppero strizzare
dagli occhi miei quelle tristi vicende,
lo doveva ora far la tua bellezza,
29
che me li rende accecati di pianto.
Pregato non ho mai nemico o amico,
mai la mia lingua seppe pronunciare
carezzevoli frasi di lusinga,
ma ora che m’arride come premio
la tua bellezza, l’altero mio cuore
incita la mia lingua
e suggerisse ad essa le parole.
(Anna lo guarda con disprezzo)
Non insegnar, signora, alle tue labbra
tanto disprezzo; non per disprezzare
esse son nate, bensì per baciare.
Se il tuo cuore ha tal sete di vendetta
da non conoscere alcun perdono,
ecco, ti do la mia spada affilata:
affondala, se vuoi, in questo petto
a te fedele, e fanne uscire l’anima
che t’adora; io qui me lo denudo
per il colpo mortale,
ed umilmente inginocchiato a te
a te chiedo la morte.
(S’inginocchia e si scopre il petto; ella
afferra la spada che egli le offre, fa per
colpirlo, ma si trattiene)
Non esitare: ho ucciso io Re Enrico,
ma fu la tua bellezza a provocarmi.
Colpisci, presto: sono stato io
a pugnalare il tuo giovane Edoardo,
ma fu il tuo volto d’angelo a istigarmi.
(Anna lascia cadere dalle mani la spada)
Raccogli quella spada, o rialza me.
30
ANNA — Riàlzati, via, simulatore!
Per quanto possa voler la tua morte,
non voglio essere il tuo giustiziere.
RICCARDO — (Rialzandosi)
Dimmi allora d’uccidermi da me
e lo farò.
ANNA —
Questo te l’ho già detto.
RICCARDO — Sì, ma è stato nell’impeto dell’ira.
Ripetilo ora a freddo,
e questa mano che per amor tuo
ha ucciso l’amor tuo,
ucciderà con quella stessa spada
un amore di quello assai più vero;
sarai così tu stessa la cagione
dell’una e l’altra morte.
ANNA — Vorrei poter discernere
quello che hai nel cuore…
RICCARDO —
Il cuore mio
è tutto quanto nelle mie parole.
ANNA — Temo siano bugiardi l’uno e l’altre.
RICCARDO — Mai allora ci fu uomo sincero.
ANNA — Ebbene, su, rinfodera la spada.
RICCARDO — Pace fatta?
ANNA —
Questo lo saprai poi.
RICCARDO — Potrò almeno vivere sperando?
ANNA — Come vivono, spero, tutti al mondo.
RICCARDO — Degnati di portare quest’anello.
31
ANNA — (Lasciandosi infilare l’anello al dito)
Prendere non è dare, sia ben chiaro.
RICCARDO — Guarda come il mio anello cinge bene
il tuo dito; così stringe il tuo seno
il mio povero cuore;
portali entrambi con te, sono tuoi.
E se il tuo povero e devoto servo
può impetrar dalla tua graziosa mano
ora una grazia, lo confermerai
per sempre nella sua felicità.
ANNA — Quale grazia?
RICCARDO —
Che tu voglia lasciare
questa luttuosa funebre incombenza
nelle mani di chi ha più d’ogni altro
cagione di occuparsi delle esequie17
e dirigerti invece a Crosby Place;18
quando avrò dato degna sepoltura
nell’abbazia di Chertsey19
a questo nobile re e versato
contrite lacrime sulla sua tomba,
là verrò a renderti in tutta fretta
il mio devoto omaggio.
Ti supplico di farmi questa grazia
per un insieme d’intime ragioni.
ANNA — Con tutto il cuore, e molto rallegrata
di vederti sì vòlto a contrizione.
Tressel e Berkley, venite con me.
RICCARDO — Il tuo saluto…
ANNA —
È più di quanto meriti;
ma poiché sei maestro di lusinga,
32
immagina d’averlo ricevuto.
(Esce con Tressel e Berkley)
RICCARDO — Signori, su la bara ed in cammino.
GENTILUOMO —
A Chestley, monsignore?
Ai “Frati Bianchi”;20
RICCARDO —
e là aspetterete il mio arrivo.
(Escono, con il feretro, portatori e
alabardieri)
Ci fu mai donna in quello stato d’animo
circuita d’amore?
Ci fu mai donna in quello stato d’animo
conquistata?… L’avrò, ma non a lungo.
Non ho quest’intenzione.
Ma come! Io, l’assassino confesso
del marito e del suocero, d’un tratto
carpirle il cuore ancora colmo d’odio,
con le sue labbra ancor maledicenti
ed agli occhi le lacrime… e presente
là il testimone ancora sanguinante
del suo sdegno; e presenti ancora Dio,
la sua coscienza e tutti i vari ostacoli
che si frappongono fra lei e me!
Ed io, senz’altro amico accanto a me
a sostener la mia preghiera a lei
se non il diavolo a viso scoperto
e il mio ceffo beffardo, la convinco:
il mondo intero contro un nulla! Puah!…
Ha dunque ella già dimenticato
quel valoroso principe d’Edoardo,
suo signore, che in un accesso d’ira
33
ho ucciso a Tewksbury, non son tre mesi?
Un gentiluomo più che dolce e amabile,
cui natura era stata molto prodiga,
giovane, valoroso, saggio, intriso
d’un tale tratto di regalità,
che non ne vedrà un altro il vasto mondo.
Ed ella abbassa su di me lo sguardo,
su di me che di quel soave principe
ho falciato l’aurata primavera,
e l’ho ridotta vedova di lui
in un letto di pianto?
Su di me, il cui tutto non eguaglia
la metà di Edoardo? Su di me,
deforme e claudicante come sono?
Il mio ducato contro pochi spiccioli21
che io mi sono ingannato fino ad oggi
sopra la mia figura,
s’ella mi trova – al contrario di me –
un uomo di straordinario fascino.
M’accollerò, costi quello che costi,
la spesa d’uno specchio,
e ingaggerò due dozzine di sarti
che studino le fogge di vestiti
più adatti ad abbellirmi la persona.
Poiché sono strisciato fino al punto
di venire gradito anche a me stesso,
voglio tenermi su a qualunque prezzo.
Prima però sistemerò a dovere
nella sua tomba quel brav’uomo là;
poi torno dal mio amore
a versare sospiri sul suo seno.
E tu splendi, bel sole,
finché mi sia comperato uno specchio,
34
ch’io possa rimirare, camminando,
la mia ombra riflessa sul terreno.
(Esce)
35
SCENA III
Londra, sala nel palazzo reale.
Entrano la REGINA ELISABETTA, LORD RIVERS e LORD
GREY
RIVERS — Dovete aver pazienza, mia regina:
il re riacquisterà rapidamente
la sua salute, non ci sono dubbi.
GREY — Con questo vostro umore contristato
non farete che peggioragli il male.
Perciò, in nome di Dio,
fate cuore e cercate di mostrarvi
viva e gioviale, a confortar sua grazia.
ELISABETTA — Che sarebbe di me s’egli morisse?
GREY — Nessun altro malanno che la perdita
d’un signore par suo.
ELISABETTA — La perdita per me d’un tal signore
porta con sé ogni sorta di malanno.
GREY — Il cielo v’ha mandato, a confortarvi,
con un bel figlio, s’egli vi mancasse.
ELISABETTA — Ah, egli è giovane, e finché è minore
dovrà restare sotto la tutela
di Riccardo di Gloucester, che non m’ama
come non ama nessuno di voi.
RIVERS — È stabilito che sia lui il Reggente?
ELISABETTA — Stabilito, se pure non sancito
formalmente; ma certo lo sarà
36
se il re verrà a mancare.
Entrano il DUCA DI BUCKINGHAM
e LORD STANLEY, conte di Derby.
GREY — Ecco Lord Buckingham e il Conte Derby.
BUCKINGHAM —
Buon giorno a vostra grazia.
STANLEY — Dio renda gioia a vostra maestà.
ELISABETTA — La contessa di Richmond, vostra moglie,22
difficilmente vorrà dire “Amen”
a questa vostra amabile preghiera,
mio buon Lord Derby; tuttavia, signore,
malgrado ch’ella sia vostra consorte
e non mi veda troppo di buon occhio,
non pensate ch’io porti a voi rancore
per l’odiosa ed altera sua arroganza.
STANLEY — Non date credito, ve ne scongiuro,
alle calunnie false ed invidiose
dei suoi accusatori;
e se doveste udirla anche accusata
sulla base di voci veritiere,
perdonatele la sua debolezza
che le deriva, com’io son convinto,
da una congenita sua leggerezza,
non già da radicata malvolenza.
ELISABETTA — Vedeste oggi il re, caro Lord Derby?
STANLEY — Veniamo appunto, Buckingham ed io,
dall’aver visitato sua maestà.
ELISABETTA — Che speranze d’un suo miglioramento?
BUCKINGHAM —
Buone, direi, madama:
sua grazia è in buona vena di parlare.
37
ELISABETTA — Che Dio gli dia salute.
Poteste allora conferir con lui?
BUCKINGHAM —
sì, signora; desidera, ci disse,
provocare una riconciliazione
tra il Duca Gloucester23 ed i vostri fratelli
e tra costoro ed il Lord Ciambellano.
ELISABETTA — Volesse Dio… ma ciò non sarà mai.
Ho paura che la felicità
sia giunta al termine per tutti noi.
Entrano RICCARDO, HASTING e DORSEY
RICCARDO — Mi fanno torto, e io non lo sopporto!
Chi è che si lamenta con il re
di me, dicendo che son scontroso
e, guarda un po’, non li amo? Per San Paolo,
devono amare ben poco sua grazia
quelli che vanno a inzuffargli le orecchie
con simili rissose baggianate!
Poiché non son capace di adulare,
di ostentare un amabile contegno,
di sorridere in faccia, di lisciare,
d’ingannare, imbrogliare, civettare
ed inchinare il capo alla francese
con la smorfiosità d’uno scimmiotto,
debbo esser perciò considerato
un astioso nemico?
Un galantuomo non può vivere
senza pensare di far male agi altri,
e senza che codesta sua lealtà
debba essere presa pel malverso
da vellutati, striscianti furbastri?
GREY — A chi allude di noi qui Vostra grazia?
38
RICCARDO — A te, che manchi d’onestà e di grazia.
Quand’è che io t’avrei maltrattato?
Quando t’ho fatto torto?…
(A Rivers)
O a te?…
(A Stanley)
O a te?
O a chiunque altro della vostra cricca?
Peste vi colga! Sua grazia reale
– il cielo ce lo voglia preservare
meglio che non v’augurereste voi –
non può tirare in pace un po’ di fiato
senza che voi l’andiate a infastidire
coi vostri strampalati piagnistei.
ELISABETTA — Gloucester, cognato, avete male inteso:
il re, di sua augusta iniziativa
e non richiesto da alcun postulante,
pensoso forse dell’interno odio
che ben traspare dalle vostre azioni
contro i miei figli, contro i miei fratelli,
contro me stessa, ci convoca a lui
per conoscere meglio le ragioni
di tanta ostilità da parte vostra
e cercar di rimuoverle. Ecco tutto.
RICCARDO — Io non so più che dire:
il mondo è diventato così becero,
che gli uccelletti vanno a far man basa
dove non osano posarsi l’aquile.
Da quando ogni villano
è stato battezzato gentiluomo,
molti che sono veri gentiluomini
39
sono svillaneggiati.
ELISABETTA —
Andiamo, andiamo,
sappiamo bene a chi volete alludere,
cognato Gloucester; non v’è andata giù
l’elevazione mia e di mia gente.
Dio non ci faccia mai aver bisogno
di voi.
RICCARDO —
Dio vuole, intanto, che siam noi
ad avere bisogno ora, di voi.
grazie alle vostre mene,
nostro fratello è condotto in prigione,
io stesso sono in disgrazia del re,
tutta la nobiltà è tenuta a vile
mentre ogni giorno si fan promozioni
per dare titoli di nobiltà
a gente che soltanto l’altro ieri
non valeva nemmeno mezzo nobile.24
ELISABETTA — Io giuro su Colui che m’ha innalzata
dalla serena mia pace di prima
a questa altezza gravida d’affanni
di mai aver pronunziato parola
per cercar d’istigare sua maestà
contro Clarenza; ho anzi perorato
da zelante avvocato la sua causa.
Mi recate un’offesa vergognosa,
signore, coinvolgendomi così
con questi vostri ignobili sospetti.
RICCARDO — Voi potete negare certamente
d’essere stata voi a provocare
la cattura e l’imprigionamento
di Lord Hastings…
40
RIVERS —
Lo può, sì, monsignore…
RICCARDO — Lo può, Lord Rivers! Già, chi non lo sa?
Ella può questo ed altro, signor mio:
può procurare a voi fruttuose cariche
e poi anche negare
d’avervi dato mano ad ottenerle
ed affermare ch’esse sono merito
delle vostre eccellenti qualità.
Che cosa ella non può? Ella può anche…
per Maria Vergine…
RIVERS —
Che cosa può,
per Maria Vergine?
RICCARDO —
Che cosa può?
Ma maritarsi a un re, per Maria Vergine!25
Lei, vedova, a uno scapolo,
ed un bel giovanotto, per di più.
Vostra nonna, ch’io sappia,
non fece nozze altrettanto cospicue.
ELISABETTA — Monsignore di Gloucester,
ho sopportato ormai da troppo tempo
le vostre villanesche reprimende
e i maligni sarcasmi. Adesso basta!
Per il cielo, vorrò informare il re
di tutte queste grossolane offese
che m’è toccato spesso sopportare.
Entra, rimanendo in fondo alla scena,
la vecchia REGINA MARGHERITA
Non che la sposa di un grande monarca,
vorrei essere, in queste condizioni,
un’umile servetta di campagna,
41
derisa, vilipesa come sono…
Mi viene veramente poca gioia
dall’essere regina d’Inghilterra.
MARGHERITA — (A parte)
Che anche quella poca abbia a scemare,
ti supplico, Signore! A me dovuti
sono gli onori tuoi, il fasto, il seggio!
RICCARDO — Ah, minacciate di ridirlo al re?
Ma diteglielo, senza alcuna remora!
Quanto v’ho detto qui,
son pronto a dichiararlo innanzi a lui,
a rischio d’esser mandato alla Torre.
È tempo di parlare: i miei servizi,
tutti dimenticati.
MARGHERITA — (c.s.)
Via, demonio!
Li ricordo fin troppo i tuoi servizi:
ucciso mio marito nella Torre,
e mio figlio Edoardo a Tewksbury.26
RICCARDO — Io, prima che voi foste regina,
e che vostro marito fosse re,
ho fatto sempre il cavallo da soma
dei suoi alti interessi, la ramazza
con la quale far pulizia sul campo
dai suoi fieri avversari, il dispensiere
di compensi ai suoi sostenitori:
ho versato il mio sangue
per dar regale dignità al suo.
MARGHERITA — (c.s.)
Di sangue n’hai versato,
42
ma del suo e del tuo assai più nobile.
RICCARDO — E in tutto questo tempo, voi e Grey,
vostro marito, e voi con loro, Rivers,
parteggiavate per la casa Làncaster.
Ucciso non fu forse a Sant’Albano
vostro marito mentre combatteva
per Margherita?27 E voglio ricordarvi,
se mai vi fosse passato di mente,
quel ch’eravate e quel che siete adesso,
e quel ch’io sono e sono sempre stato.
MARGHERITA — (c.s.)
Un infame assassino, e tale resti!
RICCARDO — Il povero Clarenza
che disertò da suo suocero Warwick28
facendosi spergiuro con se stesso,
Dio gli perdoni…
MARGHERITA — (s.c.)
E ne faccia vendetta!
RICCARDO — … per combattere a fianco di Edoardo,
per tutta ricompensa, sventurato,
è messo in carcere… Volesse Iddio
che avessi anch’io un cuore come Edoardo
di pietra, o che Edoardo avesse un cuore
sì tenero e pietoso come il mio!
Son davvero un fanciullo,
troppo ingenuo per questo basso mondo!
MARGHERITA — (c s.)
Sbrigati allora, per la tua vergogna,
a lasciarlo, demonio, per l’inferno,
43
ché laggiù è il tuo regno!
RIVERS — Mio signore di Gloucester,
in quei giorni di grande confusione
che voi qui rievocate per bollarci
come nemici, noi seguimmo allora
colui che era il re nostro sovrano,
così come ora seguiremmo voi,
se foste il nostro re.
RICCARDO — Se fossi io re? Piuttosto uno straccione
vorrei essere. Lungi dal mio cuore
un simile pensiero!
ELISABETTA — Così poca è la mia gioia, signore,
d’esser regina, quale voi pensate
possa esser quella che godreste voi
se di questo paese foste il re.
MARGHERITA — (c.s.)
Ah, com’è vero! Quanta poca gioia
ha la regina di questo paese!
E son io quella, e d’ogni gioia priva!
Più non resisto a starmene in silenzio!
(Forte, facendosi avanti)
Ascoltate, briganti litigiosi,
che state lì a rissare
per spartirvi il bottino a me rubato:
c’è tra di voi qualcuno
che mi possa guardar senza tremare?
Se come sudditi non v’inchinate
a me, vostra regina, innanzi a me,
da voi deposta tuttavia tremate
come ribelli.
(A Riccardo)
44
Ah, nobile furfante!
Guardami bene in faccia, non voltarti!29
RICCARDO — Matta strega grinzosa,
che ci fai tu davanti alla mia vista?
MARGHERITA — Null’altro che ripeterti a memoria
tutte le tue nefande malefatte.
E lo farò, prima di farti andare.
RICCARDO — Non sei bandita, a pena capitale?
MARGHERITA — Lo sono, ma l’esilio è maggior pena
che la morte per me; perciò la rischio
restando qui dov’è la mia dimora.
D’un marito e d’un figlio
tu mi sei debitore,
(A Elisabetta)
e tu d’un regno;
voi tutti, della vostra sudditanza.
Questo dolore mio è di diritto
il vostro, e sono miei
tutti i piaceri che voi mi usurpate.
RICCARDO — Su di te pesa la maledizione
che il mio nobile padre ti scagliò
quando cingesti le sue fiere tempie
d’una corona di carta; i tuoi scherni
gli provocarono fiumi di lacrime,
e tu, per tergerli, porgesti al Duca
una pezzuola ancora tutta intrisa
dell’innocente sangue del suo Rutland30…
Sul tuo capo son tutte ricadute
le sue maledizioni,
profferite dal suo cuore straziato,
45
e Dio, non noi, ha castigato in te
quel tuo atto di sangue.
ELISABETTA —
Dio è giusto
nel rendere giustizia agli innocenti.
HASTINGS — Ah, trucidare quella creatura
fu l’atto più nefando e più spietato
mai visto o udito al mondo.
RIVERS — A udirlo raccontare ha fatto piangere
anche i tiranni.
DORSET —
E non ci fu nessuno
che non preconizzasse la vendetta
che sarebbe seguita.
BUCKINGHAM —
Northumberland, che si trovava lì,
pianse a vederlo.
MARGHERITA —
Che! Tutti ringhiosi
l’uno con l’altro, pronti ad azzannarvi
prima ch’io comparissi, ed ora tutti
a volger il vostro odio su di me?
Ha avuto tanta udienza in cielo
quella terribile maledizione
di York, da far che la morte d’Enrico
e quella di Edoardo mio diletto,
e il loro regno andato in altre mani,
e l’amaro tormento del mio esilio
non sarebbero che il prezzo pagato
da noi per quel bizzoso marmocchietto?
Possono dunque le maledizioni
squarciar le nubi e penetrare in cielo?
Oh, allora, aprite il varco, grevi nuvole,
46
alle maledizioni mie vibranti:
il vostro ingordo re, se non in guerra,
muoia d’indigestione e di stravizio,
come per assassinio è morto il nostro,
per far lui re; ed Edoardo tuo figlio,
il quale è ora principe di Galles
per il mio Edoardo, faccia anch’egli,
ancora giovane, com’era lui,
morte violenta prima del suo tempo!
(A Elisabetta)
E tu, che usurpi a me che fui regina
il posto di regina,
possa tu sopravvivere in miseria,
alla presente pompa e, come me,
possa ridurti tu ad un rottame;
e viver tanto a lungo
da piangere la morte dei tuoi figli;
e vedere, com’io vedo ora te,
dei tuoi diritti adorna un’altra donna,
come tu sei dei miei; e non morire
prima d’avere visto tramontare
i tuoi giorni felici; e possa tu,
dopo ore infinite di tormento,
morire non più madre, non più moglie
non più regina di questa Inghilterra.
Voi due, Rivers e Dorset e anche tu,
Lord Hastings, eravate lì presenti,
quando mio figlio venne pugnalato.
Io prego Dio che nessuno di voi
possa giungere al fine naturale
di sua vita, ma sia stroncato prima
da un qualsivoglia imprevisto accidente.
RICCARDO — Finiscila con questi tuoi scongiuri,
47
odiosa e raggrinzita fattucchiera!
MARGHERITA — Lasciando fuori te?… Fermati, cane,
ché anche tu m’hai da sentire, e come!
Oh, s’abbia per te solo in serbo il cielo
un funesto flagello, il più terribile
dei tormenti ch’io possa mai augurarti,
e voglia trattenerlo fino al tempo
che siano maturate le tue colpe,
e lo scagli sdegnoso su di te
che sei stato nemico della pace
su questo nostro derelitto mondo.
Ti corroda incessantemente l’anima
il tarlo insonne della tua coscienza;
e, possa tu trattar per traditori,
fin che vivi, gli amici tuoi più cari,
e per amici più cari e fidati
traditori della più bassa risma.
Non chiuda il sonno i tuoi occhi letali
se non per darti sogni tormentosi
che t’atterriscano con un inferno
di orrendi diavoli, schifoso aborto
di malizia, maiale grufolante,
marchiato da rifiuto di natura
e figlio dell’inferno dalla nascita;
tu, vivente calunnia
del grembo di tua madre che t’ha fatto;
tu, schifoso germoglio
dei lombi di tuo padre; strofinaccio
dell’onore, esecrato…
RICCARDO —
Margherita!
MARGHERITA — … Riccardo!
48
RICCARDO —
Eh?
MARGHERITA —
Non ti ho mica chiamato.
RICCARDO — Scusa, credevo che chiamassi me
dandomi tutti quegli amari epiteti.
MARGHERITA — Difatti, ma non chiedevo risposta.
Ti chiedo solo di farmi concludere
la mia maledizione.
RICCARDO —
Io l’ho conclusa,
e finisce così: con “Margherita”.
ELISABETTA — (A Margherita)
Così tutte le tue maledizioni
te le sarai soffiate addosso a te.
MARGHERITA — Ah, parli tu, immagine dipinta
di regina, tu, vano abbellimento31
di quella che fu già la mia fortuna!
Perché spargi il tuo zucchero
sulla gobba di quel tumido ragno
la cui rete mortifera
finirà per avvolgere anche te?
Stolta, stolta! Ti affili da te stessa
il coltello che ti darà la morte!
Giorno verrà che chiamerai aiuto
da me, per aiutarti a maledire
questo gobbo rospaccio velenoso.
HASTINGS — Smettila dunque, falsa profetessa,
con codeste tue folli imprecazioni,
se non vuoi abusare, a tuo discapito,
della pazienza nostra!
MARGHERITA —
Svergognati!
49
Della mia abusato avete tutti!
RIVERS — Sarebbe rendervi un buon servizio
a insegnarvi qual è il dover vostro.
MARGHERITA — Sarebbe rendermi un buon servizio
se ciascuno facesse il suo dovere
con me: cioè se m’insegnaste ad essere
vostra regina e voi esser miei sudditi,
rendendo a me quello che a me è dovuto,
e insegnando a voi stessi quel dovere.
DORSET — Non state a disputar con lei. È pazza.
MARGHERITA — Zitto, mastro marchese! Sei maldestro.
Il fior di conio di questo tuo titolo
ancora non ha corso in Inghilterra.
Ah, se la vostra fresca nobiltà
sapesse giudicare che vuol dire
perderla e ritrovarsi un miserabile!
Chi sta in alto è scrollato dalle raffiche
e, se cade, rovina in mille pezzi.
RICCARDO — Buon consiglio, perbacco!
Fanne tesoro, imparalo, marchese.
DORSET — Riguarda voi, signore, quanto me.
RICCARDO — Oh, certo, anzi di più.
Ma io ci sono nato così in alto:
il nostro nido d’aquile
sta edificato in vetta all’alto cedro,
scherza col vento e si beffa del sole.
MARGHERITA — E muta il sole in ombra, ahimè, ahimè!
Ne sa qualcosa il povero mio figlio,
ormai per sempre all’ombra della morte,
i cui splendenti, luminosi raggi
50
la nera nube della tua ferocia
ha avviluppato nell’eterna tenebra.
Ed il tuo nido d’aquila
è stato edificato in quello nostro.
Tu che lo vedi, Dio, non tollerarlo!
Fu ottenuto col sangue,
e nel sangue dev’essere perduto.
BUCKINGHAM —
Oh, finitela insomma! Per vergogna,
se non per carità.
MARGHERITA —
E proprio voi
mi parlate di carità e vergogna?
Voi che con me vi siete comportati
senza un’ombra di umana carità,
e che senza vergogna avete ucciso
le mie speranze? Carità è per me
l’oltraggio, vivere è la mia vergogna.
Ed in questa vergogna viva in me
sempre la rabbia per il mio soffrire.
BUCKINGHAM —
Basta là, basta! Fatela finita!
MARGHERITA — Nobilissimo Buckingham,
a te io voglio baciare la mano,
in segno di alleanza e d’amicizia;
con l’augurio che scenda su di te
e la tua nobile casa ogni bene;
sui tuoi vestiti non ci sono macchie
del nostro sangue, tu non sei compreso
nel cerchio della mia maledizione.
BUCKINGHAM —
Né io né gli altri: le maledizioni
non vanno mai più lontano
del labbro di colui che le pronuncia.
51
MARGHERITA — Io penso invece ch’esse vanno in cielo
a ridestare dal suo dolce sonno
il silenzio di Dio. Guàrdati, Buckingham,
da quel cagnaccio! Attento:
se ti scodinzola, morde! e se morde,
il morso del suo dente velenoso
ti dà ferita cancerosa e morte.
Con lui non aver mai nulla a che fare;
tienilo solo a bada: su di lui
il peccato, la morte e il nero inferno
hanno stampato il lor sinistro marchio
e i lor ministri sono ai suoi comandi.
RICCARDO — Che vi racconta costei, mio Lord Buckingham?
BUCKINGHAM —
Nulla ch’abbia alcun peso, vostra grazia.
MARGHERITA — Che! Tu disdegni i miei buoni consigli,
ed assecondi il diavolo
contro il quale ti sto mettendo in guardia?
Te ne ricorderai un giorno o l’altro,
quando costui t’avrà spezzato il cuore
per l’ambascia, e dirai: “Qual buon profeta
sei stata, sventurata Margherita!”
Viva, ciascun di voi, in odio a lui,
ed egli a voi, e tutti in odio a Dio!
(Esce)
BUCKINGHAM —
Però mi si drizzavano i capelli
a udire quelle sue maledizioni.
RIVERS — E così a me. Mi chiedo come mai
la si lasci girare in libertà.
RICCARDO — Io la capisco: per la Santa Vergine,
ha dovuto soffrire troppi torti!
52
E mi pento del male che le ho fatto
anch’io, dalla mia parte.
ELISABETTA — Per me, ch’io sappia, non gliene ho mai fatti.
RICCARDO — Ritraete però ogni vantaggio
dai torti ch’ella ha potuto ricevere.
Troppo calore ho speso a far del bene
a chi ora è troppo freddo a riconoscerlo.
Quanto a Clarenza, per la Santa Vergine,
ha ricevuto bene la sua paga!
Sta rinchiuso all’ingrasso,
a ricompensa delle sue fatiche.
E Dio perdoni chi n’è responsabile!
RIVERS — Saggia morale, d’un vero cristiano:
pregare Dio per chi ci ha fatto male.
RICCARDO — È quel che faccio sempre…
(Tra sé)
E faccio bene:
ché a maledir qualcuno ora per questo,
mi sarei maledetto da me stesso.
Entra CATESBY
CATESBY — (A Elisabetta)
Madama, sua maestà vi vuol parlare,
(A Riccardo)
ed anche a vostra grazia e a tutti gli altri.
ELISABETTA — Vengo subito, Catesby.
Volete accompagnarmi, miei signori?
RIVERS — Seguiamo volentieri vostra grazia.
(Escono tutti meno Riccardo)
53
RICCARDO — Io faccio il male, e sono io il primo
a deprecarlo e sbraitar per esso:
carico il peso di tutti i misfatti
da me segretamente consumati
sulle spalle degli altri. Ho manovrato
per gettare Clarenza in gattabuia,
e lo compiango avanti a questo branco
di sempliciotti, Derby, Hastings, Buckingham,
e dico loro che fu la regina
coi suoi parenti ad istigare il re
contro il duca Clarenza mio fratello.
E quelli se la bevono,
e mi spronano a far la mia vendetta
sulle spalle di Rivers, Dorset, Grey;
al che io tiro fuori un gran sospiro,
e, appellandomi alle Scritture,
ricordo loro il divino precetto
che insegna a ripagar con bene il male.
Vesto così la mia nuda perfidia
con vecchi stracci carpiti a casaccio
dai sacri testi; e mostro d’esser pio
quanto più mi comporto da demonio.
Entrano DUE SICARI
Ma basta: sono qui i miei giustizieri.
Allora, bravi, duri e decisi compari,
siete pronti a sbrigare la faccenda?
I° SICARIO — Sì, monsignore, e veniamo da voi
per avere il mandato necessario
a consentirci d’essere introdotti
nel luogo ov’ei si trova.
RICCARDO —
Ottimamente.
54
L’ho appunto qui con me. E appena fatto,
verrete a ripararvi a Crosby Place.32
Però mi raccomando, amici miei,
siate fulminei nell’esecuzione,
ed inflessibili: nessun indugio
ad ascoltar le sue perorazioni;
perché Clarenza è un bravo parlatore,
e per poco che voi gli diate spago,
quello vi muove il cuore alla pietà.
II° SICARIO — Signore, non staremo certo lì
a scambiar quattro chiacchiere. I ciarlieri
son gente poco idonea all’azione.
Andiamo a usar le mani, non la lingua.
Potete star sicuro.
RICCARDO — Gli occhi vostri, difatti, come vedo,
versano macine di pietra; lacrime
piovono sol dagli occhi degli sciocchi.
Mi piacete ragazzi. All’opra, subito.
E fate presto.
I DUE SICARI —
Sì, sì, monsignore.
(escono)
55
SCENA IV
Londra, la Torre.
Entrano CLARENZA e BRAKENBURY
BRAKENBURY —
Oggi vi vedo triste, vostra grazia.
CLARENZA — Ahimè, ho trascorso una brutta nottata,
così piena di spaventosi sogni,
di orribili visioni, che vi dico,
quant’è vero che sono un buon cristiano,
non ne vorrei passare un’altra eguale
nemmeno se dovessi ricavarne
un mondo intero di giorni felici,
sì piena è stata di tetro terrore.
BRAKENBURY —
Che sogno è stato il vostro, monsignore?
Vogliate raccontarmelo, vi prego.
CLARENZA — M’è parso d’essere fuggito a forza
dalla Torre e di essermi imbarcato
per raggiunger per mare la Borgogna;
e con me era mio fratello Gloucester,
che m’invitò a lasciare la cabina
per passeggiar sul ponte della nave:
da lì volgemmo gli occhi all’Inghilterra
e ci trovammo a ricordare insieme
mille atroci episodi capitatici
nella contesa fra York e Lancàster.
Camminavamo in su e in giù a coperta
sulle sconnesse plance, quando a un tratto
m’è sembrato che Gloucester inciampasse
e, cadendo, venisse addosso a me,
56
che mi sforzavo di tenerlo su,
e mi sbalzasse via di soprabordo
negli agitati flutti dell’oceano.
Dio, che pena! Mi parve di annegare.
Che pauroso strepito dell’acque
sentivo negli orecchi, e innanzi agli occhi
e quali orrende immagini di morte!
Mi sembrò di vedere intorno a me
mille orribili resti di naufragio
e uomini a diecine di migliaia
dilaniati da squali; e verghe d’oro,
ed ancore giganti, e perle a mucchi,
pietre rare, gioielli favolosi
sparpagliati sul fondo dell’oceano:
stavano alcuni dentro a teschi umani
incastrati nell’orbite degli occhi
dov’erano una volta le pupille,
quasi a beffa di queste:
gemme lucenti, splendide, occhieggianti
di tra il melmoso fondo dell’abisso,
parevano schernir l’ossa dei morti
sparse all’intorno.
BRAKENBURY —
Ed aveste tal agio,
trovandovi sull’orlo della morte,
di contemplar tutti questi segreti
delle profondità?
CLARENZA —
Così m’è parso.
Più volte mi sforzai di render l’anima,
ma sempre il flutto impediva, maligno,
al respiro di uscire e di esalarsi
nella libera vastità dell’aria
57
ed era come se la trattenesse
soffocata nel mio petto ansimante
ch’era quasi sul punto di scoppiare
nell’anelito d’eruttarla in mare.
BRAKENBURY —
E tutta questa angosciante agonia
non v’ha svegliato?
CLARENZA —
Per nulla. Il mio sogno
si proiettava al di là della vita.
Oh, adesso cominciò per la mia anima
la tempesta: passai, così mi parve,
la palude della malinconia,33
con lo scorbutico traghettatore
che cantano i poeti,
per entrare nel regno della tenebra.
Il primo a salutare la mia anima
appena giunta là, fu il grande Warwick,
il mio suocero illustre, che gridò:
“Qual pena per spergiuro
potrà assegnare all’infido Clarenza
la nera monarchia che regna qui?”
Disse e sparì. Mi venne quindi accanto
un’ombra erratica in sembianza d’angelo
con la chioma lucente insanguinata
e levò alto il grido: “Ecco Clarenza,
il perfido, spergiuro voltafaccia!
Clarenza che m’ha pugnalato a Tewksbury
sul campo. Impadronitevi di lui,
voi Furie, e trascinatelo al tormento!”34
A quel punto m’è parso intorno a me
che una legione di schifosi diavoli
m’accerchiasse e m’urlasse nelle orecchie
sì orrende grida che al loro clamore
58
mi son destato ch’ero tutto un tremito
e per un certo tempo non riuscivo
a creder di non esser più all’inferno
sì violenta era stata l’impressione
lasciatami nell’animo dal sogno.
BRAKENBURY —
Nessuna meraviglia, monsignore,
ch’esso v’abbia così terrorizzato:
sento venirmi anch’io la pelle d’oca
a udirvelo soltanto raccontare.
CLARENZA — Ah, Brakenbury! Tutte queste cose
che ora gridano contro la mia anima
io le ho commesse per amor d’Edoardo,
e guarda come me ne ricompensa.
O Dio, se le contrite mie preghiere
non valgono a placar la tua vendetta
e mi vuoi castigar delle mie colpe,
sfoga su me soltanto la tua ira,
ma risparmia la mia sposa incolpevole
e i miei poveri bimbi.
Mio cortese custode, stammi accanto:
ho il cuore stanco e vorrei riposare.
BRAKENBURY —
Sì, certo, vostra grazia.
Il cielo vi conceda un buon riposo.
(Clarenza si assopisce)
Il dolore fa sovvertire agli uomini
le stagioni ed i tempi del riposo;
fa giorno della notte,
e notte del meriggio. A loro gloria
i principi non hanno che i lor titoli,
lustro esteriore d’interiore affanno;
e spesso per piaceri immaginari
59
soffrono mille triboli:
sicché tra i loro titoli gloriosi
e un nome oscuro non v’è differenza
se non che nell’esterna risonanza.
Entrano i due SICARI
I° SICARIO — Oh, c’è nessuno qui?
BRAKENBURY —
Che vuoi, compare?
E come hai fatto ad arrivar fin qui?
II° SICARIO — Devo parlare al Duca di Clarenza,
e son venuto qui con le mie gambe.
BRAKENBURY —
Brusco, l’amico!
II° SICARIO —
Meglio che noioso,
signore, a starla a fare troppo lunga.
(Al compagno)
Mostragli questo, senza tante chiacchiere.
(Gli dà il foglio col mandato di Riccardo)
BRAKENBURY —
Qui mi si ordina di consegnare
in vostre mani il Duca di Clarenza.
Io non voglio indagare
che cosa possa ciò significare,
ché non mi voglio rendere colpevole
d’essermene immischiato.
Il Duca di Clarenza è là che dorme
e queste son le chiavi.
Andrò intanto dal re ad informarlo
che ho lasciato a voi la mia consegna.
I° SICARIO — Saggia pensata. Fatelo, signore.
(Esce Brakenbury)
60
II° SICARIO — Che dici, lo pugnalo mentre dorme?
I° SICARIO — No, altrimenti poi quando si sveglia
dirà ch’è stata un’azione vigliacca.35
II° SICARIO — Bah, per svegliarsi non si sveglierà
che il giorno del Giudizio.
I° SICARIO — Va bene, ed anche allora ci dirà
che l’abbiam pugnalato che dormiva.
II° SICARIO — “Giudizio…” a pronunciar questa parola,
m’è venuto una specie di rimorso…
I° SICARIO — Che! Hai paura?
II° SICARIO —
Non già di ammazzarlo,
visto che abbiamo a ciò l’ordine espresso,
ma di dannarmi per averlo fatto,
e per questo non c’è ordine espresso
che mi possa servir di copertura.
I° SICARIO — E io che t’ho creduto ben deciso…
II° SICARIO Lo sono, sì… a lasciarlo campare.
I° SICARIO — Quand’è così, torno dal Duca a dirglielo.
II° SICARIO — No, un momento, ti prego;
spero che questo umor compassionevole
mi passi presto: mi dura di solito
il tempo di contare fino a venti.
I° SICARIO — (Dopo un po’ di silenzio in cui s’immagina
che il Secondo Sicario conti da uno a venti)
Come ti senti adesso?
II° SICARIO — Alcuni rimasugli di coscienza
mi son rimasti dentro…
61
I° SICARIO — Ricòrdati che a ordine eseguito
c’è per noi il compenso.
II° SICARIO — Sangue di Cristo, è vero! Muoia, muoia!
M’ero dimenticato del compenso!
I° SICARIO — Dov’è andata la tua coscienza adesso?
II° SICARIO — Oh, nella borsa del Duca di Gloucester.
I° SICARIO — Dimodoché quand’egli l’aprirà
per pagarci il compenso,
la coscienza se ne volerà via?
II° SICARIO — Che se ne vada, non m’importa niente.
Saran certo ben pochi
o nessuno che la vorranno in casa.
I° SICARIO — E se dovesse ritornarti indietro?
II° SICARIO — Di coscienza non voglio più sapere;
fa d’un un uomo un codardo.
Uno non può rubare,
ch’essa non sia là pronta ad accusarti;
uno non può imprecare,
ch’essa non sia là pronta a rimbeccarti;
uno non può giacersi
a letto con la moglie del vicino,
ch’essa non sia lì pronta a denunciarlo.
La coscienza è un compunto spiritello
dal volto sempre rosso di pudore,
che fa il ribelle nel petto dell’uomo
creando all’uomo una massa di ostacoli.
Una volta m’ha fatto addirittura
riportare una borsa piena d’oro
rinvenuta per caso. La coscienza
riduce alla mendicità chi l’ospiti;
62
la caccian tutti da città e villaggi
come una cosa piena di pericoli;
ed ognuno che voglia viver bene
cerca di farne a meno
e di contare solo su se stesso.
I° SICARIO — Perdio, eccola giusto qui al mio fianco
che mi vuol persuader di non ucciderlo,
il duca.
II° SICARIO —
E tu non credere a quel diavolo,
chiudilo nella mente e tienlo là:
lui ti si vuole intrufolare dentro
per farti sospirare e niente più.
I° SICARIO — Sono di buona tacca;
con me non riuscirà ad averla vinta.
II° SICARIO — Parli da valentuomo
che rispetta la sua reputazione.
E dunque forza, ci mettiamo all’opera?
I° SICARIO — Tu, con il manico del tuo pugnale,
gli affibbi una gran botta sulla zucca,
poi lo buttiamo dentro quella botte
di malvasia che sta nell’altra stanza.
II° SICARIO — Oh, eccellente trovata!
E ne facciamo una zuppa nel vino.
I° SICARIO — Piano, si sveglia.
II° SICARIO —
Colpiscilo!
I° SICARIO — No, prima ragioniamo un po’ con lui.
CLARENZA — (Svegliandosi, senza accorgersi della
presenza dei sicari)
Custode, dove sei?… Dammi del vino.
63
II° SICARIO — Ne avrete presto più che a sufficienza,
di vino, monsignore.
CLARENZA —
E tu chi sei?
II° SICARIO Un uomo, come voi.
CLARENZA — Ma non regale, come sono io.
I° SICARIO — Né voi siete leale, come noi.36
CLARENZA — Tu hai voce di tuono,
ma nell’aspetto mi sembri modesto.
I° SICARIO — La mia voce è del re,37 l’aspetto è mio.
CLARENZA — Come scuro, funereo parli tu!
I tuoi occhi mi sono minacciosi;
perché sei così pallido?
Chi v’ha mandati? Perché siete qui?
I DUE — Per… per…
CLARENZA —
Assassinarmi?…
I DUE —
Per l’appunto.
CLARENZA — Avete appena il coraggio di dirlo;
non avrete perciò quello di farlo.
In che cosa v’ho offeso, amici miei?
I° SICARIO — Non noi, ma il re avete voi offeso.
CLARENZA — Con lui vedrò di rappacificarmi.
I° SICARIO — Questo mai lo potrete, monsignore.
E perciò preparatevi a morire.
CLARENZA — E ha scelto voi, fra tanti uomini al mondo,
per far assassinare un innocente?
Di che sono accusato? E su che prove?
Quale inchiesta, condotta legalmente,
64
ha messo in mano ad un arcigno giudice
il suo verdetto? Chi ha decretato
amara morte al misero Clarenza?
È procedura del tutto illegale
minacciarmi di pena capitale
prima di sottopormi ad un processo.
Io, per il sangue prezioso di Cristo,
e per la redenzione in cui sperate,
v’ingiungo di lasciare questo luogo
senza alzare su me nemmeno un dito!
L’atto che avete in animo di compiere
vi condurrebbe a dannazione certa.
I° SICARIO — Facciamo quanto ci è stato ordinato.
II° SICARIO — E chi ce l’ha ordinato è il nostro re.
CLARENZA — O erronei vassalli! Il Re dei re
nelle tavole dei Comandamenti
ha scritto. “Non commettere omicidio!”
Violereste il precetto del Signore
per obbedire all’ordine d’un uomo?
Attenti! Ch’egli ha in mano la vendetta
da scagliare sul capo di coloro
che ardiscono violare la Sua legge.
II° SICARIO — E quella Egli ora scaglia su di te,
spergiuro traditore ed assassino.
Tu giurasti, prendendo il sacramento,
di combattere per la casa Lancaster.
I° SICARIO — Ma traditore a Dio,
hai infranto quel sacro giuramento
e infitto la tua lama traditrice
nelle budella del figlio del re…
II° SICARIO — … che giurasti di amare e di difendere.
65
I° SICARIO — Come puoi invocare su di noi
l’inesorabile legge di Dio,
quando tu stesso l’hai sì gravemente
violata?
CLARENZA —
Ahimè, per amore di chi
ho io commesso quell’atto malvagio?
L’ho fatto per Edoardo, mio fratello.
Non può mandarvi a uccidermi per questo,
giacché di quel delitto
è non meno di me lui responsabile.
Se Dio vuol castigare questa colpa,
oh, lo farà, sappiatelo!, in palese;
non togliete dal suo braccio potente
la causa del castigo; a Lui non serve
di agire in modo subdolo e indiretto
per togliere dal mondo chi l’ha offeso.
I° SICARIO — Chi ti fece strumento sanguinario,
allora, quando trafiggesti a morte
quel gagliardo germoglio, il valoroso
giovine principe Plantageneto?
CLARENZA — L’amor per mio fratello,
il diavolo e il rabbioso mio furore.
I° SICARIO — L’amor per tuo fratello,
ora, il nostro dovere e le tue colpe
conducono noi qui per ammazzarti.
CLARENZA — Oh, se davvero amate mio fratello,
non odiatemi; sono suo fratello,
e l’amo molto. Se siete assoldati
per guadagno, tornatevene indietro:
vi manderò da mio fratello Gloucester
che son sicuro vi compenserà
66
per la mia vita, meglio che Edoardo
per l’annuncio di avermi dato morte.
II° SICARIO — In questo v’ingannate:
vostro fratello Gloucester vi detesta.
CLARENZA — Oh, no, mi vuole bene, e mi tien caro.
Andate pur da lui, da parte mia.
I° SICARIO — Per andarci, ci andremo.
CLARENZA —
E ricordategli
che quando il nostro augusto padre York
benedisse col suo braccio glorioso
i suoi tre figli e dal fondo dell’anima
ci comandò di amarci l’un con l’altro,
era ben lungi dall’immaginare
questa nostra divisa fratellanza:
dite a Gloucester di ripensare a questo,
e lo vedrete piangere.
I° SICARIO —
Sì, macine,
come quelle che ha consigliate a noi.
CLARENZA — Oh, non lo calunniate! Egli è gentile.
I° SICARIO — Sì, come la gelata sul raccolto!
Insomma, via, non vi fate illusioni:
è lui che ci ha mandato qui a sopprimervi.
CLARENZA — Non può essere. Ha pianto alla mia sorte,
m’ha stretto fra le braccia
mentre mi ripeteva singhiozzando,
che avrebbe fatto tutto il suo possibile
per ottener la mia liberazione.
I° SICARIO — Ed è quello che fa
ora col mandar noi a liberarvi
67
da questa vostra schiavitù terrena,
per le gioie del cielo.
II° SICARIO — Riconciliatevi perciò con Dio,
perché dovete morire, signore.
CLARENZA — E voi che in fondo all’anima
accogliete un sì sacro sentimento
da consigliarmi a far pace con Dio,
avreste l’anima tanto accecata
da fare guerra a Dio, assassinandomi?
Amici, riflettete:
chi v’ha indotto a commettere quest’atto,
v’odierà poi per averlo commesso.
II° SICARIO — E che dobbiamo fare?
CLARENZA — Commuovervi, cedendo alla pietà,
e salvare così le vostre anime.
I° SICARIO — Commuoverci? È da vili,
da femminucce, no!
CLARENZA — E non aprirsi alla pietà è da bestie,
da selvaggi, da diavoli d’inferno.
Chi di voi due, essendo figlio a un principe
e privato della sua libertà,
com’io adesso, se due assassini
gli venissero avanti come voi,
non li supplicherebbe per avere
salva la vita? Sì, li implorereste,
se vi trovaste nelle mie strettezze.
(Al secondo sicario)
Oh, amico, nel tuo sguardo
mi par di scorgere un po’ di pietà:
se il tuo occhio non è un adulatore
bugiardo, mettiti dalla mia parte
68
e supplica per me:
d’un principe che chiede l’elemosina
quale mendico non avrà pietà?
II° SICARIO — Guardatevi alle spalle, monsignore!
I° SICARIO — (Pugnalandolo)
Toh, questo!… E questo!… E questo!…
E se non bastano, ti annegherò
nella botte di malvasia di là.
(Esce col corpo di Clarenza a spalla)
II° SICARIO — Azione sanguinaria,
e disperatamente consumata.
Come vorrei poter, come Pilato,
lavarmi ambo le mani,
da questo nefandissimo assassinio!
(Rientra il Primo Sicario)
I° SICARIO — Allora? Che significa?
Perché non ti sei mosso a darmi mano?
Perdio, il Duca lo dovrà sapere
da me quale fiaccone tu sei stato!
II° SICARIO — Potesse il Duca sapere da te
che ho salvato la vita a suo fratello!…
Prenditi pure tu tutto il compenso,
e riportagli quello che ti ho detto.
Io son pentito di questo assassinio.
(Esce)
I° SICARIO — Io no. Va’, va’, vigliacco!…
Beh, ora vado a nascondere il corpo
in qualche buco fin che venga il Duca
a dare l’ordine di sepoltura.
69
E una volta intascato il mio compenso,
me la squaglio: perché questa faccenda
si scoprirà, e conviene stare al largo.
(Esce)
70
ATTO SECONDO
SCENA I
Londra, sala nel palazzo reale.
Entrano RE EDOARDO, sofferente, sorretto da HASTINGS; la
regina ELISABETTA, DORSET, RIVERS, BUCKINGHAM, GREY
e altri.
EDOARDO — E così tutto a posto: una giornata
bene impiegata. Ora a voi, miei Pari,
di mantenere stretta questa unione.
a mantenervi in unità e concordia.
Io m’aspetto oramai da un giorno all’altro
un messaggio dal nostro Redentore
che venga a liberarmi da quaggiù;
e salirà tanto più in pace in cielo
l’anima mia, se in pace
avrò lasciato i miei amici in terra.
Rivers e Hastings, datevi la mano;
non nascondete in voi sordi rancori:
giurate di volervi sempre bene.
RIVERS — (Offrendo la destra a Hastings che la stringe)
Giuro che la mia anima
è purgata da odio e da rancore;
ed io suggello con questa mia mano
l’affetto più leale del mio cuore.
HASTINGS — Così possa venirmi tanto bene,
com’io giuro la stessa lealtà.
EDOARDO — Badate a non parlar solo per gioco
71
davanti al vostro re,
che non abbia il Supremo Re dei re
a castigare la vostra finzione
e a fare che ciascuno di voi due
sia la fine dell’altro.
HASTINGS —
Quanto a me,
così m’arrida una benigna sorte
per quanto è schietto l’amore che giuro.
RIVERS — E così arrida a me,
per quanto schietto è il mio cuore con Hastings.
EDOARDO — (Alla regina)
Né siete voi, madama, dispensata
da questo impegno, né voi, figlio Dorset,38
né voi, Buckingham: siete stati tutti
faziosi l’uno contro l’altro. Moglie,
vogliate bene ad Hastings,
porgetegli la mano da baciare,
ma che non sia finzione ciò che fate.
ELISABETTA — (Porgendo la mano ad Hastings)
Ecco, Hastings; e voglia così il cielo
far prosperare me e i miei parenti
com’io vorrò dimenticar per sempre
il nostro odio trascorso.
EDOARDO — Abbracciatelo, Dorset; e voi, Hastings,
vogliate bene a questo lord marchese.
DORSET — Dichiaro per mia parte
che questo patto d’amore reciproco
non sarà mai violato.
HASTINGS —
E così io.
72
(Si abbracciano)
EDOARDO — Ed ora tu, nobilissimo Buckingham,
suggella questo patto di alleanza
abbracciando i parenti di mia moglie,
ed allietatemi di tal concordia.
BUCKINGHAM —
(Alla regina)
Se sarà mai, che Buckingham, signora,
rivolga il proprio odio a vostra grazia,
s’egli non amerà voi ed i vostri
col più sincero e doveroso affetto,
Dio mi punisca facendo rivolgere
su di me l’odio di tutti coloro
da cui più aspetto e specialmente amore;
e quando avrò maggior necessità
d’un amico del quale io sia sicuro,39
questi mi si riveli infido, falso,
traditore e imbottito di perfidia.
Questo invoco da Dio, o mia regina,
se mai dovesse intiepidirsi in me
l’affetto verso voi e i vostri cari.
(L’abbraccia)
EDOARDO — Benefico cordiale, illustre Buckingham,
è questo tuo solenne giuramento
per l’infermo mio cuore. Ora non manca
che l’intervento del fratello nostro
Gloucester, a chiudere felicemente
il cerchio di codesta fausta pace.
Entra RICCARDO40
Ma eccolo che viene, ed in buon punto.
RICCARDO — Buon giorno ai miei sovrani, re e regina,
73
e a tutti voi, nobilissimi Pari,
felice giorno.
EDOARDO —
Felice davvero,
pel modo come noi l’abbiamo speso.
Abbiam compiuto, Gloucester, buone azioni,
riconducendo in pace inimicizie,
in amore reciproco vecchi odii,
fra questi Pari sempre tra di loro
ingiustamente gonfi di rancore.
RICCARDO — Sacrosanta fatica, mio sovrano
ed augusto signore. Quanto a me,
se alcuno in questa nobile congrega,
sulla base di falsa informazione
o d’erroneo suo convincimento,
mi creda suo nemico;
o se io stesso, inconsapevolmente,
o in un momento d’ira, abbia commesso
cosa mal sopportata, io qui con lui
desidero riconciliarmi e stringere
amichevole pace; ché per me
stare in inimicizia con qualcuno
è la morte, è qualcosa che aborrisco;
io bramo vivere in amicizia
con tutti i buoni.
(Alla regina)
Anzitutto da voi,
madama, impetro una pace sincera,
che spero di sapermi guadagnare
coi miei servigi di devoto suddito;
da voi, mio nobile cugino Buckingham,
se mai albergò astio tra noi due;
74
da voi, lord Rivers e da voi lord Grey,
che finora m’avete riguardato,
senza giusta ragione, con cipiglio
e da voi tutti, duchi, conti, nobili
e gentiluomini: proprio da tutti.
Non conosco nessun Inglese vivo
col quale la mia anima sia in urto
più di quanto lo sia con un infante
che sia nato stanotte.
E di tanta umiltà ringrazio Dio.
ELISABETTA — Sia per noi questo giorno, d’ora innanzi,
giorno di festa; e voglia Dio
che tutte le discordie sian composte.
Mio sovrano signore, vostra altezza
voglia, vi supplico, di nuovo accogliere
nelle sue grazie il fratello Clarenza.
RICCARDO — Madama, avrei io qui poc’anzi offerto
un tesoro di buoni sentimenti
per vedermi così da voi schernito
davanti a questa reale presenza?
Chi non lo sa che il nobil duca è morto?
RIVERS — “Chi non lo sa che è morto”…
C’è qualcuno qui dentro che lo sa?
ELISABETTA — O Dio che tutto vedi,
che mondo è questo?
BUCKINGHAM —
Sono anch’io, lord Dorset,
pallido in viso come tutti gli altri?
DORSET — Sì, monsignore; e non c’è tra i presenti
chi non abbia le guance scolorite.41
EDOARDO — Come! Morto Clarenza? Ma quell’ordine
75
era stato da me poi revocato!
RICCARDO — Ma egli è morto, pace alla sua anima,
per il primo dei vostri ordini, e quello
lo recò al carcere un Mercurio alato,42
mentre a recare là la vostra revoca
è stato qualche tardigrado storpio,
giusto in tempo a vederlo seppellire.
Dio non voglia che altri,
di meno nobiltà e lealtà,
e più prossimo a lui non che per sangue
per pensieri di sangue su di lui,
meriti peggio di quanto è toccato
al povero Clarenza, e ciò malgrado
circoli franco da ogni sospetto.
Entra STANLEY, conte di Derby,
va davanti a re e s’inginocchia
STANLEY — Mio sovrano, una grazia,
in nome dei servizi che v’ho reso!
EDOARDO — Taci, ti prego; ho l’anima in gran pena.
STANLEY — Non mi rialzerò
finché l’altezza vostra non m’ascolti.
EDOARDO — Parla, allora, ma subito. Che chiedi?
STANLEY — La grazia, mio sovrano,
della vita di uno dei miei servi
che oggi ha ucciso in rissa un gentiluomo
già al seguito del Duca di Norfolk.
EDOARDO — Ed io dovrei, con questa stessa lingua
che ha condannato a morte mio fratello,
pronunciare la grazia ad uno schiavo?
Quel mio fratello non aveva ucciso;
76
sua colpa era soltanto il suo pensiero,
e il suo castigo è stato nondimeno
una morte crudele.
Chi ha intercesso per lui presso di me?
Chi è venuto, durante la mia collera,
a gettarsi ai miei piedi
e ad esortarmi a più mite consiglio?
Chi a parlarmi d’amore e fratellanza?
Chi a ricordarmi che la pover’anima
aveva disertato il grande Warwick
per venire a combattere al mio fianco?43
Chi a ricordarmi che sul campo, a Tewksbury
quando Oxford m’aveva già abbattuto,
egli solo era accorso in mio aiuto
gridandomi: “Fratello, vivi e regna!”?
Chi a ricordarmi di quell’altra volta,
che, al campo, stesi a terra tutti e due
rischiando di morire assiderati,
egli m’avviluppò nei suoi vestiti,
incurante di esporsi, nudo e fragile,
all’agghiacciante freddo della notte?
Tutto questo una collera bestiale
m’aveva delittuosamente tolto
dalla memoria, e non ci fu tra voi
uno che si degnasse rammentarmelo.
Ma se uno dei vostri carrettieri
o dei vassalli della vostra casa
ha commesso, ubriaco, un omicidio,
e sfigurato la preziosa immagine
del nostro Redentore,
eccovi subito qui inginocchiati
ad implorare: “Grazia, grazia!”, ed io,
se pure ingiustamente, ad accordarla.
77
Ma per quel mio fratello,
nessuno volle spendere parola,
né io, spietato, ne spesi a me stesso
in suo favore, sventurata anima!
I più orgogliosi tra voi hanno avuto
un qualche debito di gratitudine
con lui, mentr’era in vita, ma nessuno
è venuto da me ad impetrare
grazia per la sua vita! Dio Signore,
la Tua giustizia, temo, chiederà
per questo un duro conto a me, a voi,
ai miei parenti, ai vostri… Andiamo Hastings,
sorreggimi fino al mio gabinetto.
Mio povero Clarenza!…
(Escono Re Edoardo sorretto da Hastings,
Elisabetta, Rivers, Dorset e Grey)
RICCARDO — Ecco i frutti dell’impetuosità:
non avete notato qual pallore
nei volti dei colpevoli parenti
della regina, quando hanno sentito
l’annuncio della morte di Clarenza?
Oh, l’han voluta loro quella morte,
continuamente istigandovi il re.
Dio ne farà vendetta.
Andiamo adesso a confortare Edoardo,
signori, con la nostra compagnia.
BUCKINGHAM —
Seguiamo vostra grazia.
(Escono tutti)
78
SCENA II
Londra, altra sala nel palazzo reale.
Entra la vecchia DUCHESSA DI YORK con i due BIMBI,
maschio e femmina, figli di Clarenza.
BIMBO — Nonnina, nostro padre è morto, vero?
DUCHESSA — Ma no, bambino mio.
BIMBA —
Perché allora
stai sempre a piangere, e a batterti il petto,
e a gridare: “Oh, Clarenza,
povero figlio mio?”
BIMBO —
Perché allora
ci guardi e scuoti il capo,
e dici: “Poveri orfanelli miei?”,
se poi dici che nostro padre è vivo?
DUCHESSA — Cari miei nipotini, tutti e due
mi fraintendete: io piango e mi lamento
per la presente malattia del re,
perché non vorrei perderlo; non piango
per vostro padre; è dolore sprecato
piangere per qualcuno che è perduto.
BIMBO — Allora, nonna, con ciò vieni a dire
ch’egli è morto; e di questo ci ha la colpa
il re mio zio. Ma Dio farà vendetta,
ed io non cesserò d’importunarlo
a questo con ardenti mie preghiere.
BIMBA — E così io.
79
DUCHESSA —
Bambini, buoni, zitti:
il re vi vuole certamente bene.
Siete troppo inesperti ed innocenti
perché possiate indovinar chi è stato
causa della morte di vostro padre.
BIMBO — Sì, che possiamo, nonna: il buon zio Gloucester
m’ha lui detto che il re,
a ciò istigato dalla sua regina,
ha macchinato delle false accuse
per farlo imprigionare; e nel dir questo
mio zio piangeva e mi commiserava,
e mi diceva povero bambino,
e m’ha anche baciato sulla guancia.
E poi m’ha detto di pensare a lui
come a mio padre, che m’avrebbe amato
come se fossi stato figlio suo.
DUCHESSA — Ah, che l’Inganno debba mascherarsi
di frodo sotto sì gentile forma,
ed il Vizio più nero travestirsi
in sì virtuosa foggia!
È figlio mio, purtroppo, a mia vergogna,
seppur non ha succhiato dal mio seno
tanta perfidia.
BIMBO —
Pensi allora, nonna,
che lo zio simulasse?
DUCHESSA —
Sì, bambino.
BIMBO — Non lo credo… Ma che clamore è questo?
Entra, gemendo scarmigliata, la regina
ELISABETTA; la seguono RIVERS e
DORSET
80
ELISABETTA — Ah, chi m’impedirà, povera me,
di lamentarmi e piangere e imprecare
alla mia malasorte,
e infliggermi da me tutti i tormenti?…
Voglio allearmi alla disperazione
contro l’anima mia,
e diventar nemica di me stessa!
DUCHESSA — Che significa adesso questa scena
d’incivile scomposta intemperanza?
ELISABETTA — È la scena finale
di un atto44 di mortifera violenza:
Edoardo, il mio signore, il figlio tuo,
il nostro re, è morto!…
Oh, perché i rami seguitano a crescere,
se la radice dell’albero è morta?
Perché non avvizziscono le foglie,
se non ricevon più linfa dal tronco?
Chi vuol vivere, pianga;
chi vuol morire, muoia, e che sia subito,
sì che l’anime nostre a volo d’ala
raggiungano l’anima del re,
e da obbedienti sudditi la seguano
nel nuovo regno dell’eterna notte.
DUCHESSA — Io prendo tanta parte al tuo dolore
per quanti titoli potei vantare
sul tuo nobile sposo.45 Anch’io ho pianto
la morte, come te, d’un degno sposo,
e m’ha tenuto in vita
poterne contemplare nei suoi figli
riflessa la sua immagine vivente.
Ma la maligna sorte ha frantumato
quei due specchi del suo regal sembiante;
81
e non mi resta, ad unico conforto,
che uno specchio di vetro
che mi provoca solo altra tristezza
nel vedervi riflesso il mio squallore.
Tu sei vedova ora, ma sei madre,
e ti rimane il conforto dei figli:
la morte a me ha strappato dalle braccia
il marito, ed ha tolto dalle mani,
queste deboli mani, le mie grucce,
Clarenza ed Edoardo.
Oh, quante più ragioni non ho io
di soverchiar coi miei i tuoi lamenti,
le tue con le mie grida, il tuo dolore
essendo solo la metà del mio!
BIMBO — (A Elisabetta)
Ah, zia, tu non hai pianto per la morte
di nostro padre; e noi come possiamo
unirci alle tue lacrime
con le lacrime nostre di nipoti?
BIMBA — Il nostro smarrimento di orfanelli
è rimasto da te incommiserato,
resti perciò da noi illacrimato
il tuo duolo di vedova.
ELISABETTA — Non chiedo aiuto di lamentazioni;
non sono sterile dal partorire
sospiri e lacrime; tutte le fonti
versino nei miei occhi il loro flusso,
ch’io, dall’umida luna governata,
possa a mia volta versar tante lacrime
da sommergere il mondo… Ah, mio signore,
Edoardo, mio diletto!
82
I DUE BIMBI —
Ah, padre nostro,
nostro amato Clarenza!
DUCHESSA —
Ah, l’uno e l’altro,
il mio Edoardo ed il mio Clarenza!
ELISABETTA — Qual sostegno, all’infuori di Edoardo,
noi avevamo? Ed ora non c’è più.
I DUE BIMBI — Qual sostegno, all’infuori di Clarenza,
noi avevamo? Ed ora non c’è più.
DUCHESSA — Quali sostegni, fuor di loro due,
avevo io? E non ci sono più.
ELISABETTA — Mai vedova soffrì più grave perdita.
I DUE BIMBI — Mai soffrirono due orfanelli
più grave perdita.
DUCHESSA —
Mai soffrì madre
più grave perdita. Io son la madre,
di tutti questi lutti; i lor dolori
sono ripartiti, il mio li abbraccia tutti.
Ella piange un Edoardo, ed io lo stesso;
ma io piango un Clarenza, ed ella no;
Clarenza è pianto da questi bambini,
ed io piango Clarenza insieme a loro,
ma io piango Edoardo, e loro no.
Ahimè, voi riversate tutti insieme
sovra di me, tre volte addolorata,
le lacrime di tutti gli occhi vostri.
Son la nutrice del vostro dolore,
e ve lo nutrirò coi miei lamenti.
DORSET — Coraggio, madre: spiace molto a Dio
chi riceve con tanta malagrazia
83
quello ch’Egli ci manda.
In questo mondo noi chiamiamo ingrato
chi ripaga di malavoglia un debito
che largito gli fu graziosamente
da mano generosa;
tanto più ingrato chi si oppone a Dio
quando Egli chieda la restituzione
del regal prestito che ci ha largito.46
RIVERS — Signora, adesso, da madre amorosa,
pensate al principino vostro figlio.
Fatelo venir qui senz’altro indugio,47
perché sia senza indugio incoronato;
in lui vive il conforto di noi tutti.
Seppellite il dolore disperato
nella tomba dell’Edoardo morto,
e piantate le gioie di domani
sopra il trono dell’Edoardo vivo.
Entrano RICCARDO, BUCKINGHAM,
STANLEY, HASTINGS e RATCLIFF
RICCARDO — Cognata, fate cuore;
abbiam tutti motivo di compiangere
lo spegnersi del nostro fulgido astro,
ma nessuno rimedia ai propri mali
con il piangersi sopra.
(Alla Duchessa)
Oh, madama mia madre, perdonatemi,
non vi avevo notata, vostra grazia!
Umilmente in ginocchio,
v’imploro di volermi benedire.
(S’inginocchia. La Duchessa gli pone una
mano sul capo)
84
DUCHESSA — Che Dio ti benedica, nel tuo cuore
e infonda nel tuo cuore mansuetudine,
umiltà, amore, carità, obbedienza
e fedeltà al dovere.
RICCARDO —
Così sia.
(A parte, rialzandosi)
… e mi dia buona morte a tarda età:
questa è la rituale conclusione
della benedizione d’una madre.
Chi sa perché se l’è dimenticata…
BUCKINGHAM —
Voi, principi, che siete scuri in volto,
e voi, Pari, che avete il cuore in doglio,
e che portate insieme il grave carico
di questo lutto, trovi ora conforto
ciascun di voi nell’affetto dell’altro.
Benché il nostro raccolto
con questo re sia stato consumato,
ora ci resta da far maturare
quello del figlio. L’astioso bubbone
dei vostri cuori traboccanti d’odio
testé inciso, sanato e ricomposto,
deve ora nobilmente esser protetto
e accudito, che non si formi più…
Sarebbe conveniente, a mio giudizio,
che con piccola scorta il giovin principe
sia prelevato subito da Ludlow
e ricondotto a Londra
per esser qui incoronato re.
RIVERS — Perché “con piccola scorta”, Lord Buckingham?
BUCKINGHAM —
Eh, mio signore, perché se son molti
non s’abbia a riaprire la ferita,
85
testé rimarginata, del rancore;
ciò che sarebbe tanto più nefasto
quanto più giovane e ingovernato
è il nostro Stato. Dove ogni cavallo
dispone della briglia a suo talento
e può correre dove più gli aggrada,
occorre prevenire, a mio giudizio,
tanto il male futuro che il presente,
già in atto e manifesto.
RICCARDO — La mia speranza è che il patto di pace
fra tutti noi dal re patrocinato,
sia saldo e fermo in tutti, com’è in me.
RIVERS — E in me, e così credo in tutti noi.
Tuttavia, poiché esso è ancora verde,
sarebbe bene non venisse esposto
al pericolo d’essere violato;
il che potrebbe esser favorito
dalla presenza di una grossa scorta.
Perciò concordo col nobile Buckingham
sull’opportunità di dare al principe,
nel prelevarlo, una piccola scorta.
HASTINGS — Sono d’accordo anch’io.
RICCARDO —
Come volete.
Andiamo allora a designare insieme
chi si dovrà recar subito a Ludlow.
Signora madre, e voi, cara cognata,
non vorreste venire a consigliarci
in questa scelta?
ELISABETTA e
DUCHESSA —
Molto volentieri.
86
(Escono tutti meno Buckingham e
Gloucester)
BUCKINGHAM —
Monsignore, per carità di Dio,
chiunque debba andare incontro al principe,
noi due non s’ha da rimanere a casa.
Perché lungo la strada,
io, come prologo a tutta la faccenda
di cui abbiam parlato ultimamente,
farò in modo di allontanar dal principe
i parenti della regina.
RICCARDO —
O Buckingham!
O tu altro me stesso! O concistoro
dei miei pensieri, oracolo, profeta,
caro cugino! Mi farò guidare
da te per mano, come un fanciullino.
A Ludlow! noi indietro non si resta!
(Escono)
87
SCENA III
Londra, una strada.
Entrano, incontrandosi, DUE CITTADINI, uno quasi correndo.
I° CITTADINO — Buongiorno, vicinante!
Che cos’è che vi chiama in tanta fretta?
II° CITTADINO — Nemmeno io lo so, ve lo confesso.48
Avete udito la grande notizia?
I° CITTADINO — Che il re è morto? Sì.
II° CITTADINO —
Brutta notizia,
per la Vergine Santa! È sempre raro
che segua il meglio.49 Si sta preparando,
ho gran paura, un mondo squinternato.
Entra un TERZO CITTADINO
III° CITTADINO — Che Dio vi mandi salute, vicini!
I° CITTADINO — E mandi a voi un buon giorno, signore.
III° CITTADINO — È vera la notizia della morte
del buon re Edoardo?
II° CITTADINO —
Vera, sì,
purtroppo; e Dio ci aiuti.
III° CITTADINO — Allora, prepariamoci, maestri,
a vivere in un mondo turbolento.
I° CITTADINO — No, non lo credo; per grazia di Dio,
c’è suo figlio a regnare.
III° CITTADINO — Misera quella terra il cui governo
88
si trova nelle mani di un bambino.
II° CITTADINO — Una speranza di governo c’è
comunque in lui: nella minore età
attraverso il Consiglio di reggenza,
e, quando avrà egli stesso maturato
la sua età, governerà da solo,
e governerà bene, senza dubbio.
I° CITTADINO — Così venne a trovarsi il nostro Stato,
quando, in età di nove mesi appena,
fu incoronato re Enrico VI,
a Parigi.50
III° CITTADINO —
Così? No, no, signori,
e lo sa Dio; ché allora questa terra
era famosa per la sua abbondanza
di gravi ed avveduti consiglieri
di politica; e il re teneva al fianco
zii virtuosi a proteggere sua grazia.
I° CITTADINO — Eh, quanto a zii, anche questo ce n’ha,
sia da parte di padre che di madre.
III° CITTADINO — Meglio sarebbe se li avesse tutti
dalla parte del padre,
o che dal padre non ne avesse punto:
perché adesso la gelosia tra loro
a chi più sta più vicino al giovin re
ci toccherà fin troppo da vicino
tutti quanti, se Dio non lo previene.
Ah, che grosso pericolo per questo
è quel Duca di Gloucester!
E che boria e arroganza hanno i parenti
della regina, suoi figli e fratelli!
Se costoro, non che stare al governo,
89
fossero governati, questa terra
da malata che è, ritornerebbe
ad essere in salute come prima.
I° CITTADINO — Via, via, che noi temiamo sempre il peggio!
Tutto sarà per bene.
III° CITTADINO — Quando compaiono nubi di pioggia,
i saggi indossano la palandrana;
quando cadono le più grosse foglie,
l’inverno è là; quando tramonta il sole
chi non s’aspetta il buio della notte?
I temporali fuori di stagione
di solito prometton carestia.
Tutto potrà andar bene; ma se è vero
che Dio ha decretato sia così,
sarà pur più di quanto meritiamo,
o di quanto io possa prevedere.
II° CITTADINO — Però la gente è piena di paura,
in cuor suo; e non c’è quasi persona
con cui si parli, che non si dimostri
tutta preoccupata e impaurita.
III° CITTADINO — Sempre è stato così,
alla vigilia di rivolgimenti.
La gente avverte, per divino istinto,
nell’intimo, il pericolo imminente,
così come vediamo, nel palese,
bollir l’onda del mare
prima d’una burrasca fragorosa.
Ma lasciamo ogni cosa in mano a Dio…
Dove stavate andando?
II° CITTADINO —
In tribunale.
Siamo stati citati avanti ai giudici.
90
III° CITTADINO — E così io. Vi terrò compagnia.
(Escono)
91
SCENA IV
Londra, sala nel palazzo reale.
Entrano l’ARCIVESCOVO DI YORK, il giovane DUCA DI
YORK, la regina ELISABETTA, e la DUCHESSA di YORK.
ARCIVESCOVO —
La scorsa notte, da quanto ho saputo,
ha fatto sosta presso Stony-Stratford;
e questa notte dormirà a Northampton;
saranno qui domani o doman l’altro.
DUCHESSA — Bramo con tutta l’anima
di rivedere il principino Edoardo;
sarà molto cresciuto, come penso,
da quell’ultima volta che l’ho visto.
ELISABETTA — Mi si dice di no; mio figlio qui
pare che l’abbia quasi superato
nella crescita.
YORK —
Sì, mamma, è così,
ma vorrei che non fosse.
DUCHESSA —
E perché mai,
caro nipote mio? È bello crescere.
YORK — Nonna, una sera ch’eravamo a cena,
lo zio Rivers, parlando allo zio Gloucester,
appunto gli diceva come io
crescessi meglio che non mio fratello,
e quello gli rispose:
“Già, l’erbe piccole hanno bellezza;
le grosse erbacce crescono più presto.”
E da allora ho pensato ch’era male
92
per me crescere tanto prestamente,
perché i bei fiori vengono su lenti,
le erbacce crescono in fretta.
DUCHESSA —
Alla faccia!
Però la massima non s’è avverata
in colui che l’ha adattata a te!
Perché quand’era piccolo, tuo zio
era la più striminzita creatura,
così stenta e tardiva nel suo crescere
che se mai quel suo detto fosse vero,
oggi sarebbe un fiore di bellezza.
ARCIVESCOVO —
E tale è senza dubbio, mia signora.
DUCHESSA — Vorrei bene sperarlo anch’io, signore;
ma lasciate alle madri i loro dubbi…
YORK — Ah, se di ciò mi fossi ricordato
in quel momento, gliel’avrei suonata
a sua grazia mio zio una stoccata
sopra il suo crescere, ben più sonora
di quella da lui data sopra il mio!
DUCHESSA — E che gli avresti detto,
piccolo York? Sentiamolo, ti prego.
YORK — Diamine, dicon tutti che mio zio
è cresciuto così rapidamente
che già due ore dopo essere nato,
si sgranocchiava una crosta di pane,
e a me ci sono occorsi ben due anni
prima che mi spuntasse il primo dente.
Penso sarebbe stato questo, nonna,
un frizzo ben mordace, non ti pare?
DUCHESSA — Chi te l’ha raccontato, tesoruccio?
93
YORK — La sua nutrice, nonna.
DUCHESSA —
La nutrice?…
Ma è morta che non eri ancora nato.
YORK — Me l’avrà detta allora qualcun altro.
ELISABETTA — Che bambino terribile!… Va’, va’
malizioso!
DUCHESSA —
Buona signora, no,
non siate sì severa col ragazzo!
ELISABETTA — Le pareti hanno orecchi in questa casa.
Entra un MESSO
ARCIVESCOVO —
Un messaggero. Che notizie porti?
MESSO — Ah, tali, monsignore,
che a riferirle mi fa male al cuore.
ELISABETTA — Il principe sta bene?
MESSO — Lui sì, signora, in ottima salute.
DUCHESSA — E allora, quali son le tue notizie?
MESSO — Lord Rivers e lord Grey spediti a Pomfret,51
e con loro lord Vaughan, in prigione.
DUCHESSA — Per ordine di chi?
MESSO — Per ordine dei due potenti duchi
di Gloucester e di Buckingham, signora.
DUCHESSA — E la ragione?
MESSO —
Vostra grazia, io
v’ho riportato quello che sapevo;
del resto non so nulla.
94
ELISABETTA — Oh, me meschina! Vedo la rovina
della mia casa! La tigre ha ghermito
coi suoi artigli il tenero cerbiatto.
La bieca tirannia comincia ora
ad allungar le mani sopra un trono
innocente e incapace di difendersi;
vedo, come segnata su una mappa,
la nostra fine.
DUCHESSA —
Giorni maledetti,
tormentose continue discordie!
Quanti di voi hanno visto i miei occhi!
Mio marito, per ottenere il trono,
ha perduto la vita; i figli miei,
tante volte innalzati e ricaduti,
sono stati per me lacrime e gioie
nell’alternanza delle lor fortune;
e una volta assestati, vincitori,
si fan tra loro guerra,
da fratello a fratello, sangue a sangue,52
da sé a se stessi!… O insensata discordia,
smetti questa dannata tua violenza,
o ch’io muoia, Signore,
per mai più rivedere questa terra!
ELISABETTA — Vieni, ragazzo mio, vieni con me;
andiamo a rifugiarci al santuario.53
Addio, signora.
DUCHESSA —
Aspetta, vengo anch’io.
ELISABETTA — Perché? Voi non ne avete alcun motivo.
ARCIVESCOVO —
Andateci anche voi, sì, vostra grazia,
e raccogliete là le vostre robe
ed il vostro tesoro.
95
(A Elisabetta)
Per parte mia, graziosa mia signora,
io riconsegnerò in vostre mani
il sigillo di cui sono custode;54
e mi riservi Iddio lo stesso bene
ch’io auspico per voi e per i vostri.
V’accompagno al santuario. Incamminiamoci.
(Escono)
96
ATTO TERZO
SCENA I
Londra, una strada.
Trombe. Entrano il giovane principe EDOARDO, i duchi
RICCARDO DI GLOUCESTER e BUCKINGHAM; poi
CATESBY, il CARDINALE BOURCHIER e altri
BUCKINGHAM —
Benvenuto, bel principe, a Londra,
la vostra capitale.
RICCARDO — Benvenuto tra noi, caro cugino,
signor dei miei pensieri.
La fatica del viaggio v’ha stancato,
e reso triste, vedo.
EDOARDO —
Non il viaggio,
ma le contrarietà del viaggio, zio,
me l’han reso tedioso, e faticoso;
e avrei voluto fossero più zii
ad accogliermi qui.55
RICCARDO —
Mio dolce principe
la candida innocenza dei vostri anni
non s’è ancor tuffata nelle insidie
ingannevoli della società,
né sa ancora distinguere, in un uomo,
altro che l’esteriore sua apparenza,
la quale, Dio lo sa, di rado o mai
s’accorda col colore del suo animo.
Gli zii di cui sentite la mancanza
97
son persone malfide; vostra grazia
prestò sempre un orecchio compiaciuto
alle loro parole zuccherate,
senza mai avvedersi del veleno
ch’essi avevano in cuore.
Dio vi voglia proteggere da loro,
e da falsi parenti come loro.
EDOARDO — Dio mi protegga da parenti falsi…
ma quelli non lo erano. Lo so.
Entra il LORD MAYOR di Londra con
seguito
RICCARDO — Il sindaco di Londra, mio signore,
viene a rendervi omaggio.
LORD MAYOR — Dio salvi vostra grazia,
e vi conceda salute e letizia.
EDOARDO — Grazie, mio buon signore, e grazie a tutti.
In verità, mi sarei aspettato
che mia madre con mio fratello York,
mi fossero venuti ad incontrare
lungo la strada. Vergogna, quell’Hastings,
che poltrone, che non mi torna a dire
s’essi verranno o no!
Entra Lord HASTINGS
BUCKINGHAM —
Eccolo, appunto,
il nostro lord, e tutto trasudato.
EDOARDO — Oh, finalmente!… Verrà nostra madre?
HASTINGS — Sua grazia la regina vostra madre
con il Duca d York vostro fratello
si sono rifugiati nel santuario,
98
per qual ragione, Dio lo sa, non io.
Il giovinetto sarebbe venuto
volentieri con me ad incontrarvi,
ma sua madre l’ha trattenuto a forza.
BUCKINGHAM —
Che maniera! Vergogna!
Un comportarsi subdolo e sgarbato.
Lord Cardinale, vuole vostra grazia
andar dalla regina e persuaderla
che mandi subito il Duca di York
a salutare il regal suo fratello?
E se rifiuta, andate voi, Lord Hastings,
col Cardinale, e strappatelo a forza
dalle gelose braccia della madre.
CARDINALE — Monsignore di Buckingham,
se saprà la mia debole eloquenza
strappare il Duca di York dalla madre,
aspettatelo pure qui fra poco;
ma s’ella si mostrasse irremovibile
all’umili mie suppliche,
non voglia Dio che osiamo profanare
il sacro privilegio del santuario.
Io non mi macchierei d’un tal peccato
per tutto l’oro di questo paese.
BUCKINGHAM —
Questa è, da parte vostra, monsignore,
una caparbia troppo irragionevole,
legata a cerimonie d’altri tempi.
Ponderate la cosa nello spirito
più grossolano della nostra età.
Voi non profanerete il santuario
portando via il duca da quel luogo:
il diritto d’asilo è un beneficio
sempre concesso a chi l’ha meritato
99
con la propria condotta, ed a coloro
che furono solerti a reclamarlo.
Questo principe né l’ha reclamato,
né ha compiuto alcunché di meritevole;
e dunque, a parer mio, non può godere
del diritto. Portando via di là
uno ch’è come se non stesse là,
non violerete nessun privilegio
né alcuna legge scritta.
Finora ho sempre saputo di uomini
con diritto d’asilo in santuario,
mai di bambini con quel beneficio.
CARDINALE — Per una volta tanto, monsignore,
m’arrenderò alla vostra opinione.
Andiamo; Hastings venite con me?
HASTINGS — Eccomi, monsignore.
EDOARDO — Fate al più presto, gentili signori.
(Escono il Cardinale e Hastings)
Zio Gloucester, se verrà nostro fratello,
ditemi, dove dovremo risiedere
finché io non sia stato incoronato?
RICCARDO — Dove più piacerà a vostra altezza;
se posso darvi un consiglio, però,
vostra altezza dovrebbe, un giorno o due,
riposare alla Torre;
poi, dove meglio vi sarà gradito
e sarà ritenuto meglio adatto
alla vostra salute e al vostro svago.
EDOARDO — La torre è il luogo che men d’ogni altro
mi gradisce. È stato Giulio Cesare
100
a costruirla, vero, mio signore?
RICCARDO — Sì, vostra grazia, lui vi dette inizio,
ma da allora, nei secoli seguenti,
l’hanno ricostruita.
EDOARDO —
È dato storico,
o tradizione da secolo a secolo
che l’abbia fatta lui?
RICCARDO —
È dato storico,
mio grazioso signore.56
EDOARDO — Ma diciamo, signore,
che non esista nessun documento:
la verità dovrebbe sempre vivere
dall’uno all’altro secolo
trasmessa ai posteri con la parola
fino al dì della fine generale.
RICCARDO — (A parte)
Così giovani, eppure così saggi,
dicono che non abbian vita lunga…
EDOARDO — Che dite, zio?
RICCARDO —
Dicevo che la fama,
pur senza documentazione scritta,
vive a lungo.
(A parte)
Così, allo stesso modo
del personaggio dell’Iniquità,
quando viene rappresentato il Vizio,
io moralizzo con i doppi sensi.57
101
EDOARDO — Quel Giulio Cesare fu un uomo illustre:
con quel che il suo valore di soldato
arricchì la sua mente, la sua mente
poi ne arricchì il valore;
sicché la morte non può conquistare
questo genere di conquistatori.
Vi voglio dire una cosa, zio Buckingham…
BUCKINGHAM —
Che cosa, vostra grazia?
EDOARDO —
Che se vivo
tanto da diventare un uomo adulto,
voglio riconquistare all’Inghilterra
gli antichi suoi diritti sulla Francia,
o morir da soldato,
così come da re avrò vissuto.
RICCARDO — (A parte)
Annuncia corta estate
una troppo precoce primavera.
Rientrano HASTINGS e il CARDINALE
con il giovane DUCA DI YORK.
BUCKINGHAM —
Oh, ecco il giovane duca di York,
giunge a buon punto!
EDOARDO —
Riccardo di York!
Come sta il nostro caro fratellino?
YORK — Sto bene, mio sovrano riverito:
ora è così che ti debbo chiamare,
è vero?
EDOARDO —
Sì, fratello, a mio rammarico,
non minore del tuo; ché troppo presto
ci ha lasciato colui cui questo titolo
102
avrebbe ben potuto ancor spettare,
e che ha perduto, dopo la sua morte,
molto della regale sua maestà.
RICCARDO — Ebbene, come sta nostro nipote,
il nobilissimo Duca di York?
YORK — Grazie, cortese zio. Oh, monsignore,
mi ricordo che mi diceste un giorno
che le malerbe crescon molto in fretta:
ebbene, il principino mio fratello
è cresciuto assai più di me.
RICCARDO —
È vero.
YORK — Che vuol dire, che egli è una malerba?
RICCARDO — Nipote bello, ma che mi fai dire?
YORK — Capisco: a lui dovete più riguardo.
RICCARDO — Egli mi può comandar da sovrano;
tu puoi su me quel che puole un parente.
YORK — Zio, per favore, dammi quel pugnale.
RICCARDO — Il mio pugnale? Volentieri, caro.
EDOARDO — Che fai, fratello, chiedi l’elemosina?
YORK — Al mio nobile zio,
che son certo non me la negherà;
anche perché non è che una bazzecola,
e a donarla non è che costi molto.
RICCARDO — Doni ben più importanti
son pronto a fare al mio caro nipote.
YORK — Dono più grande? Oh, anche la spada?
RICCARDO — E perché no? Se fosse più leggera,
103
mio gentile nipote.
YORK —
Ah, vedo allora
che vi mostrate solo ben disposto
a separarvi da cose leggere,
ma neghereste doni più pesanti
a un mendicante che ve ne chiedesse.
RICCARDO — (Mostrando la spada)
Questa, per vostra grazia,
è un po’ troppo pesante da portare.
YORK — Le darei ugualmente scarso peso,
anche se fosse ancora più pesante.
RICCARDO — Eppoi, perché vorresti la mia spada,
piccolo?
YORK —
Per potervi dire un grazie,
come quello con cui chiamate me.
RICCARDO — Cioè a dire?
YORK —
“Piccolo”.
EDOARDO — A mio fratello York
piace molto giocar con le parole.
Vostra grazia ha imparato a sopportarlo.
YORK — “Sopportarmi”… portarmi sopra a lui?
Zio, l’avete sentito?
Mio fratello si fa gioco di noi:
io son piccolo come uno scimmiotto,
e voi, secondo lui,
mi dovreste portare sulle spalle!
BUCKINGHAM —
Che spirito sottile, il giovinetto!
Con graziosa accortezza,
104
rivolge su se stesso il proprio scherno,
per mitigar quello fatto allo zio.
Davvero straordinario!
Così giovane eppur così sagace!
RICCARDO — (A Edoardo)
Mio signore, vogliamo proseguire?
Io e il mio bravo cugino Lord Buckingham
ora andremo a pregare vostra madre
di venire alla Torre ad incontrarvi
e darvi il benvenuto.
YORK —
Che! alla Torre?
State andando alla Torre, mio signore?
EDOARDO — Così ha deciso il mio Lord Protettore.
YORK — Io là non ci potrò dormir tranquillo.
EDOARDO — Perché, di che dovresti aver paura?
YORK — Eh, dello spettro dello zio Clarenza,
chi sa come adirato!
È proprio là che è stato assassinato,
me l’ha detto la nonna.
EDOARDO — Gli zii morti a me non fan paura.
RICCARDO — Nemmeno vivi, spero?
EDOARDO — Dei vivi spero non aver cagione
d’aver paura. Ma andiamo, signori:
pensando a loro, con un peso al cuore,
io m’avvio alla Torre.
(Fanfara. Escono Edoardo, York, e tutti gli
altri tranne Riccardo, Buckingham e
Catesby)
105
BUCKINGHAM —
Non credete, signore,
che quel pettegolino dello York
sia stato dalla sua subdola madre
istigato a insultarvi ed a schernirvi,
come ha fatto, in maniera sì offensiva?
RICCARDO — Ah, sì, senza alcun dubbio.
Oh, un bambino pestifero: sagace,
temerario, precoce, intelligente,
tutto sua madre, dalla testa ai piedi.
BUCKINGHAM —
Beh, lasciamoli andare… Senti, Catesby:
tu ci hai fatto solenne giuramento
sia di tradurre in atto i nostri piani,
sia di serbare un geloso segreto
su ciò di cui t’abbiamo messo a parte.
Adesso ne conosci le ragioni
che t’abbiam detto nel venire qui.
Che ne pensi? Sarà facile o no
guadagnare Lord Hastings all’idea
di porre noi questo nobil duca
sul trono di quest’isola famosa?
CATESBY — Quello è talmente affezionato al principe,
per l’amor che portava al di lui padre,
che sarà impossibile convincerlo
a far cosa che sia contro di lui.
BUCKINGHAM —
E Stanley? Che ne pensi, ci starà?
CATESBY — Farà in tutto e per tutto come Hastings.
BUCKINGHAM —
Bene, allora non c’è altro da dire:
va’ tu, mio bravo Catesby, da Hastings,
e vedi, un po’ alla larga, di sondarlo
su come prenderebbe il nostro piano;
invitalo alla Torre per domani
106
al Consiglio che sarà lì adunato
per parlare dell’incoronazione.
Se lo trovassi appena disponibile,
farai del tutto per incoraggiarlo,
e gli esporrai tutti i nostri argomenti;
se invece si mostrasse irremovibile,
gelido, riluttante, mal disposto,
fa’ lo stesso anche tu: piantalo lì,
e vieni a riferirci il suo pensiero.
Domani noi terremo due Consigli,
divisi uno dall’altro,
ed in ciascuno tu avrai gran parte.
RICCARDO — Salutalo, lord Williams, da mia parte,
Catesby, e digli, che la vecchia cricca
dei suoi nemici più pericolosi
avrà domani, al castello di Pomfret,
il suo salasso. E di’ a monsignore
che a festeggiar questa lieta novella
dia un bacio di più a Madama Shore.58
BUCKINGHAM —
Vedi, buon Catesby, di sbrigar bene
questa faccenda.
CATESBY —
Va bene, signori,
con tutta la mia buona volontà.
RICCARDO — Allora ci farai sapere, Catesby,
prima che andiamo a letto?
CATESBY —
Sì, signore.
RICCARDO — A Crosby Place. Ci raggiungerai là.
(Esce Catesby)
BUCKINGHAM —
Che fare, monsignore, se Lord Hastings
107
mostrasse di non esser disponibile
ai nostri piani?
RICCARDO —
Tagliargli la testa;
e poi vedremo. E quando sarò re,
per te reclama la contea di Hereford
con tutti i beni mobili
già posseduti dal re mio fratello.
BUCKINGHAM —
Non mancherò, graziosa maestà,
di reclamar da voi questa promessa.
RICCARDO — E la vedrete mantenuta in pieno,
da parte mia, col massimo piacere.
Venite, andiamo a cena un po’ per tempo
affinché poi possiamo digerire
le nostre trame più comodamente.
(Escono)
108
SCENA II
Davanti alla casa di Lord Hastings
Entra un MESSO e bussa alla porta
MESSO — Signore! Monsignore!
HASTINGS — (Da dentro)
Chi è alla porta?
MESSO — Da parte di Lord Stanley.
Entra HASTINGS, aprendo la porta
HASTINGS —
Che ore sono?
MESSO — Sul tocco delle quattro.
HASTINGS —
Ma Lord Stanley
non riesce dormire in queste notti
di tedio, eh?
MESSO —
Pare di no, signore,
da quel che manda a dirvi per mio mezzo.
Prima di tutto invia il suo saluto
a vostra signoria.
HASTINGS —
Bene. E poi?
MESSO — Poi fa sapere a vostra signoria
che stanotte ha sognato
un cinghiale che gli strappava l’elmo.59
Vi fa sapere inoltre
che oggi si terranno due Consigli
separati, e che in uno può decidersi
qualcosa che potrà far male a voi,
109
come nell’altro a lui.
Perciò mi manda da voi per sapere
se vostra signoria non sia disposta
ad inforcare subito un cavallo,
e al galoppo volare, insieme a lui,
a spron battuto verso settentrione,
per schivare un pericolo,
ch’egli sente in cuor suo come imminente.
HASTINGS — Compare, va’, torna dal tuo padrone
e digli che per sé non tema nulla
dai due Consigli; in uno sarò io
insieme con suo onore,
nell’altro c’è il mio buon amico Catesby,
e nulla vi può essere deciso
che ci tocchi, ch’io non ne sia avvertito.
Digli che i suoi timori
sono campati in aria ed infondati.
E quanto ai sogni, son meravigliato
ch’egli sia tanto ingenuo da credere
agli scherzi degli incubi notturni.
Fuggire dal cinghiale
senz’essere inseguiti dalla bestia,
è come aizzare questa ad inseguirti,
mentr’essa non aveva alcuna voglia
di cacciar preda. Va’, di’ al tuo padrone
di levarsi e venire qui da me;
insieme poi ce n’andremo alla Torre,
dove il cinghiale, com’egli vedrà,
ci tratterà nel modo più cortese.
MESSO — Vado, signore. Gli dirò così.
(Esce)
110
Rientra CATESBY
CATESBY — Mille buongiorno al mio degno signore.
HASTINGS — Buongiorno, Catesby. Diggià in faccende?
Ebbene, che notizie, che notizie
su questo nostro traballante Stato?
CATESBY — Avete detto bene, monsignore:
è veramente un mondo traballante,
e che non starà mai ben ritto in piedi
finché Riccardo non avrà sul capo
la ghirlanda del regno.
HASTINGS —
La ghirlanda?…
Forse intendevi dire la corona?
CATESBY — Appunto, mio signore.
HASTINGS — Mi farò scoronare dalle spalle
questa mia, di corona,60
avanti di veder sì mal piazzata
la corona del regno.
Pensi davvero ch’egli miri a tanto?
CATESBY — Oh, sì, per la mia vita. E spera, pure,
di trovarvi tra i primi di sua parte
a fargliela ottenere; e a tal proposito
vi manda questo gradevole annuncio:
oggi i vostri nemici,
i parenti della regina, a Pomfret,
saran decapitati.
HASTINGS — Non mi coprirò certo di gramaglie
per tale annuncio, perché quella gente
m’è stata sempre ostile.
Ma ch’io dia voce a sostener Riccardo
111
per escluder gli eredi del mio re
dalla legittima lor successione,
Dio sa che questo non lo farò mai,
a costo della vita.
CATESBY — Iddio conservi vostra signoria
in questi nobili proponimenti.
HASTINGS — Ma vorrò ancor pur ridere di cuore,
a un annetto da qui, di tutti quelli
che m’hanno messo in odio al mio signore,
se vivrò tanto da poter assistere
alla loro rovina. Intanto, Catesby,
prima che il tempo m’abbia fatto vecchio
d’altre due settimane, faccio conto
di far fare bagaglio61 a qualcun altro
che a tutt’oggi nemmeno se l’aspetta.
CATESBY — Brutta cosa, grazioso mio signore,
morire quando non si è preparati
e non ce lo si aspetta.
HASTINGS —
Oh, sì, mostruoso!
E così è di Rivers, Vaughan, Grey:
e sarà d’altri, come tu ed io,
che si ritengono ora al sicuro,
perché, come tu sai, noi siamo cari
al cuore di Riccardo e Lord Buckingham.
CATESBY — Di voi fanno gran conto questi principi.
(A parte)
Sì, quello di vedere la sua testa
infissa in cima al Ponte.62
HASTINGS — Lo so. E me lo son ben meritato.
Entra Lord STANLEY
112
Oh, venite, venite!… Ma, mio uomo,
dov’è il vostro spiedo da cinghiale?
Voi avete paura del cinghiale,
e andate in giro così disarmato?
STANLEY — Buon giorno, mio signore;
buongiorno, Catesby. Scherzate pure,
ma a me questi Consigli separati
non vanno a genio, per la Santa Croce!
HASTINGS — Amico, la mia vita mi sta a cuore
quanto la vostra a voi.
E, v’assicuro, dacché sono al mondo,
mai m’è stata preziosa come adesso.
Se non sapessi d’essere al sicuro,
credete voi che me n’andrei in giro
glorioso e trionfante come faccio?
STANLEY — Quei signori che son rinchiusi a Pomfret
erano ben sereni ed esultanti
allorché cavalcarono da Londra,
e pensavano d’essere al sicuro.
E infatti non avevano motivo
di diffidare; eppure, ecco, vedete,
come in sì poco tempo
per loro il cielo s’è rannuvolato.
Questa improvvisa pugnalata d’odio
m’insospettisce molto; voglia Dio
che il mio timore si dimostri vano.
Ci avviamo alla Torre? È giorno fatto.
HASTINGS — Andiamo, andiamo, eccomi con voi.
Sapete, monsignore:
oggi quei lords dei quali parlavate
saran decapitati.
113
STANLEY — Per la loro lealtà alla corona,
essi avrebbero invece più diritto
di conservar la testa sulle spalle
che non abbiano di portare in testa
i lor cappelli quelli che li accusano.63
Ma andiamo, monsignore, incamminiamoci.
Entra un MESSO DEL TRIBUNALE64
HASTINGS — Andate pure avanti. Vi raggiungo.
Voglio parlare con questo brav’uomo.
(Escono Stanley e Catesby)
Felice d’incontrarti, caro amico.
Come ti va la vita?
MESSO — Tanto meglio dacché vossignoria
si degna domandarmelo.
HASTINGS — Ti dirò, amico, che anche per me
va meglio che non quando t’incontrai
l’ultima volta qui; ero condotto
in quel momento in carcere alla Torre
per ordine del re, su istigazione
dei famigliari della sua regina;
ma ora quegli stessi miei nemici
– te lo dico, ma tienilo per te –
son messi a morte, e la mia condizione
è migliore di quanto fosse prima.
MESSO — Che Dio ve la conservi, vostro onore,
per vostra gioia e bene.
HASTINGS —
Grazie, amico.
Toh, prendi, e bevici alla mia salute.
(Gli getta una borsa)
114
MESSO — Ringrazio vostro onore.
(Esce)
Entra UN PRETE
PRETE — Quale felice incontro, monsignore!
Son lieto di vedervi, vostro onore!
HASTINGS — Grazie di cuore, buon padre Giovanni.
Padre, vi sono ancora debitore
dell’ultimo servizio religioso.
Passate sabato, e vi salderò.
(Gli bisbiglia qualcosa all’orecchio)
PRETE — Agli ordini di vostra signoria.
(Esce)
Entra BUCKINGHAM
BUCKINGHAM —
E che! Voi a colloquio con un prete,
lord Ciambellano? I vostri amici a Pomfret,
quelli, sì, n’han bisogno. Vostro onore
non ha davvero di che confessarsi.
HASTINGS — Eh, certo, no davvero.
Però quegli uomini di cui parlate
mi son venuti in mente
nell’incontrar testé questo sant’uomo.
Andavate alla Torre?
BUCKINGHAM —
Sì, signore.
Ma non potrò trattenermici a lungo.
Me ne tornerò via prima di voi.
HASTINGS — Già, mi sembra probabile,
dato ch’io debbo rimanerci a pranzo.
115
BUCKINGHAM —
(A parte)
E non lo sai, ma ci resti anche a cena!
(Forte)
Allora andiamo?
HASTINGS —
Andiamo, v’accompagno.
(Escono)
116
SCENA III
Il castello di Pomfret
Entra sir Richard RATCLIFF con alabardieri che conducono al
patibolo RIVERS, VAUGHAN e GREY.
RIVERS — Sir Richard Ratcliff, ch’io ti dica questo:
oggi vedrai un suddito
andare a morte per la sua lealtà,
il suo dovere e la sua obbedienza.
GREY — Iddio protegga il principe
dalla vostra masnada. Siete tutti
un maledetto branco di vampiri.
VAUGHAN — Voi, vivi, piangerete amaramente
per tutto questo.
RATCLIFF —
Sciocchezze! Sbrighiamoci:
le vostre vite son già oltre il limite.
RIVERS — O Pomfret, Pomfret, cruenta prigione!
Nefasto augurio per nobili pari!
Qui, dentro il condannevole recinto
delle tue mura, il Secondo Riccardo
fu pugnalato a morte;
ed a maggiore infamia dell’orribile
tua realtà, noi diamo a te da bere
nostro sangue innocente.
GREY — Su di noi cala la maledizione
di Margherita, quand’ella inveì
contro Hastings e contro voi e me
per esser stati senza muover dito
117
quando Riccardo pugnalò suo figlio.
RIVERS — Ma maledisse allora anche Riccardo,
e maledisse Buckingham,
e maledisse Hastings. Dio Signore,
ricòrdati anche di prestare orecchio
alle preghiere sue contro costoro,
come ora alle sue contro di noi;
e quanto a mia sorella
e ai suoi regali figlioli, Dio santo,
possa Tu restar pago, in lor favore,
di questo nostro sangue a te fedele,
che, lo sai, ci vien tolto ingiustamente.
RATCLIFF — Affrettatevi: l’ora della morte
per voi è già spirata.
RIVERS —
Andiamo Grey,
Vaughan, andiamo. Abbracciamoci qui.
Addio, addio! A rincontrarci in cielo!65
(Si abbracciano ed escono tutti)
118
SCENA IV
La Torre di Londra
Intorno a un tavolo siedono BUCKINGHAM, STANLEY, il
VESCOVO DI ELY, HASTINGS, RATCLIFF, LOVELL e altri.
HASTINGS — Dunque nobili pari,
siamo qui riuniti per decidere
sulla data dell’incoronazione.
Parlate, in nome di Dio: a che giorno
la grande cerimonia?
BUCKINGHAM —
È tutto pronto?
STANLEY — Tutto; rimane da fissar la data.
ELY — Che sia domani, allora, il fausto giorno.
BUCKINGHAM —
C’è qualcuno che sa qual è il pensiero
del Duca Lord Protettore al riguardo?
Chi di voi qui è più vicino al duca?
ELY — Vostra grazia, pensiamo, più degli altri,
ne dovrebbe conoscere il pensiero.
BUCKINGHAM —
HASTINGS —
Conoscere, ci conosciamo bene
in faccia, sì, l’un l’altro; quanto al cuore,
lui non sa più del mio che io del vostro,
o voi del mio, signore.
Ma per affetto voi gli siete, Hastings,
più vicino.
Lo so, mi vuol molto bene,
sua grazia e gli son grato;
ma in merito ai suoi intendimenti
119
a riguardo dell’incoronazione
non l’ho sondato, né m’ha fatto parte
dei suoi propositi sull’argomento.
Ma voi potete, onorevoli pari,
fissare il giorno, ed io darò il mio voto
anche a nome del Duca, che, presumo,
benevolmente lo confermerà.
Entra RICCARDO
ELY — Eccolo, il Duca: arriva giusto in punto.
RICCARDO — Nobili pari e nobili cugini,
buongiorno a tutti! Ho dormito un po’ troppo,
ma spero tuttavia che la mia assenza
non sia stata cagione per bloccare
decisioni importanti del Consiglio
che richiedessero la mia presenza.
BUCKINGHAM —
Se voi non foste entrato al tempo giusto,
monsignore, Lord Hastings era pronto
a recitare qui la vostra parte:66
intendo dire dare il vostro voto
per quando incoronare il nuovo re.
RICCARDO — Nessun altro all’infuori di Lord Hastings
potrebbe ardire più: sua signoria
mi conosce e mi vuol molto bene.
Monsignore di Ely,
l’ultima volta che passai per Holborn67
ho ammirato delle stupende fragole
in quel vostro giardino;
vorrei pregarvi di mandar qualcuno
a cogliermene un po’.
ELY —
Con gran piacere,
120
signore, diamine, manderò subito.
(Esce)
RICCARDO — Cugino Buckingham, una parola.
(Lo trae in disparte)
Catesby è stato a sondare Lord Hastings
sulla nostra faccenda: il nobiluomo
è sì cocciutamente infervorato
che è disposto a rimetterci la testa
prima d’indursi a dirsi favorevole
a che il figlio del “suo signore e re”
– com’ei s’esprime reverentemente –
perda il diritto al trono d’Inghilterra.
BUCKINGHAM —
Uscite un attimo, vi vengo dietro.
(Escono Riccardo e Buckingham)
STANLEY — Ancora non abbiamo stabilito
allora questa data trionfale.
Domani, a mio giudizio, è troppo presto,
perché io stesso non mi trovo pronto
come sarei, se venisse protratta.
Rientra il VESCOVO DI ELY
ELY — Dov’è il duca di Gloucester?
Ho già mandato per quelle mie fragole.
HASTINGS — Sua grazia ha oggi un’aria allegra e affabile;
deve avere qualcosa per la testa
o altro assai piacevole per lui,
quando dice buongiorno in quell’umore.
Credo che non ci sia persona al mondo
meno di lui capace di celare
amore e odio, perché dal suo viso
121
traspare subito quello che ha dentro.
STANLEY — E che cosa scorgete nel suo viso
che possa esser stampato nel suo animo
dalla vivacità che mostra oggi?
HASTINGS — Eh, che non c’è nessuno dei presenti
col quale sia crucciato;
ché, se fosse, gli si vedrebbe in faccia.
STANLEY — Io prego Dio che non lo sia con me.
Rientrano RICCARDO e BUCKINGHAM
RICCARDO — Vi prego tutti che qui siete, ditemi:
che pensate che debban meritare
coloro che, con trame diaboliche
di dannata stregoneria complottano
la mia morte, e che hanno affatturato
con infernali pratiche il mio corpo?68
HASTINGS — L’affetto che io porto a vostra grazia
mio signore, mi fa per primo ardito,
davanti a questa nobile assemblea,
a scagliare la mia fiera condanna
sui colpevoli, quali che essi siano:
io dico, monsignore,
ch’essi son meritevoli di morte.
RICCARDO — E siano testimoni gli occhi vostri
del loro maleficio: ecco, guardate,
se non è vero che m’hanno stregato.
(Si denuda il braccio stroppio)
Osservate il mio braccio: disseccato,
come uno sterpo da un colpo di fulmine.
E a marchiarmi così, come vedete,
con i loro infernali sortilegi,
122
sono state la moglie di Edoardo,
quella mostruosa strega, consociata
con quella gran puttana della Shore.
HASTINGS — Se sono state loro, monsignore…
RICCARDO — Ah, “se”, mi dici, eh? Tu, protettore
di questa maledetta prostituta!69
Traditore tu sei! Via la sua testa!
Per San Paolo, io non andrò a pranzare
se prima non l’avrò vista mozzata!
Lovell e Ratcliff, provvedete voi
che sia fatto. Di tutti gli altri qui,
chi mi vuol bene si alzi e mi segua.
(Tutti si alzano ed escono con lui, meno
Lovell, Ratcliff e Hastings)
HASTINGS — O Dio, pietà, pietà per l’Inghilterra;
non averne per me che, troppo stolto,
avrei potuto impedir tutto questo.
Stanley l’aveva ben visto nel sogno
il cinghiale che gli stracciava l’elmo,
e io lo presi a scherno
per questo e fui sdegnoso di fuggire;
tre volte il mio cavallo oggi è inciampato,
è diventato ombroso e s’è impennato
a vedere la Torre,
come fosse d’istinto riluttante
di portarmi al macello….
Oh, adesso sì, ho bisogno di quel prete
che m’ha parlato!… Adesso, sì, mi pento
d’aver detto a quel messo di giustizia,
con aria ingiustamente trionfale,
che i miei nemici a Pomfret
123
stavan per esser tutti messi a morte,
ed io vivevo libero e sicuro
in grazia ed in favore. Oh, Margherita!
Margherita! La tua maledizione
è questa che s’abbatte ora sul capo
di Hastings sventurato!
RATCLIFF —
Andiamo, andiamo,
presto; che il Duca vuole andare a pranzo.70
Fate una breve contrizione, e via;
è ansioso di veder la vostra testa.
HASTINGS — Oh, caduco favore dei mortali
che ricerchiamo con maggior fervore
di quanto non mettiamo a ricercare
il favore di Dio!
Chi sulle vuote, aeree fondamenta71
dei tuoi sguardi benigni e compiacenti
fonda le sue speranze
somiglia a quel briaco marinaio
salito in cima all’albero maestro,
che ad ogni ondeggiamento della nave
corre il rischio di capitombolare
nelle fatali gole dell’abisso.
LOVELL — Lamentarsi non serve. Via, sbrighiamoci.
HASTINGS — Sanguinario Riccardo!
Sventurata Inghilterra, io ti predico
i giorni più terribili e sinistri
ch’abbia mai visto un’era di sciagure!
Avanti, su, conducetemi al ceppo.
E poi gli porterete la mia testa.
Ma molti che sorridono di me
morte tra breve troveranno anch’essi.
124
(Escono)
125
SCENA V
Sugli spalti della Torre di Londra
Entrano RICCARDO e BUCKINGHAM in armature vecchie e
sfasciate, e con aspetto squallido e sinistro72
RICCARDO — Forza, cugino! Ti senti capace
di tremare, cambiare di colore,
ansare a fiato mozzo ad ogni frase,
poi riprender da capo,
ed interromperti come stordito
ed impazzito quasi di spavento?
BUCKINGHAM —
Poh, mi sento di fare a perfezione
il più bravo e provetto attore tragico:
parlar sbirciando dietro alle mie spalle,
spiarmi in giro, aver la tremarella,
trasalire al cadere d’un fuscello,
con aria fortemente sospettosa;
ho al mio servizio, pronti a secondare
ogni momento i miei infingimenti,
sguardi spettrali e sorrisi forzati.
Ma Catesby è andato?
RICCARDO — È andato, sì; ed eccolo che torna,
e ci conduce il sindaco di Londra.
Entra CATESBY con il LORD MAYOR di
Londra
BUCKINGHAM —
Omaggi, signor Sindaco…
RICCARDO — Attenti, voi, là, al ponte levatoio!
(Rullo di tamburo, lontano)
126
BUCKINGHAM —
Odi, un tamburo…
RICCARDO —
Catesby,
va’ a dare una guardata dalle mura!
(Esce Catesby)
BUCKINGHAM —
Signor Sindaco, vi abbiam qui chiamato
per la ragione che…
RICCARDO —
Guàrdati indietro!
Difenditi, arrivano i nemici!
BUCKINGHAM —
Iddio Signore e la nostra innocenza
sian la nostra difesa e protezione!73
Entrano LOVELL e RATCLIFF con la testa
di Hastings
RICCARDO — Tranquillo, sono amici: Ratcliff, Lovell…
LOVELL — Signore, ecco la testa
di quel pericoloso traditore:
l’ignobile ed insospettato Hastings.
RICCARDO — A quest’uomo ho voluto tanto bene
che non riesco a frenarmi dal piangere…
Lo tenevo per l’essere più innocuo
che respirasse sopra questa terra:
di lui avevo fatto il mio diario
sul quale la mia anima annotava
i più segreti ed intimi pensieri.
Ha ricoperto sì bene il suo vizio
con un lucente orpello di virtù
e con un tocco sì ben levigato,
che, a parte quel notorio suo commercio…
sì, voglio dire la sconcia sua tresca
con la moglie di Shore… era vissuto
127
immune da ogni macchia di sospetto.
BUCKINGHAM —
Bene, bene, costui fu il traditore
il più insidioso, il meglio camuffato
che fosse mai vissuto sulla terra.
Avreste immaginato, o mai creduto
– non fosse che noi, vivi per miracolo,
lo potessimo ora raccontare –
che codesto scaltrito traditore
avesse complottato, qui, oggi stesso,
proprio nella seduta del Consiglio,
di assassinare me,
ed il mio nobile Duca di Gloucester?
LORD MAYOR — Oh, davvero?
RICCARDO —
Che! Vi meravigliate?
Ci prendete per Turchi o miscredenti,
a ordinar di proceder così in fretta,
a spregio d’ogni legal procedura,
a giustiziare un simil traditore,
se a tanto non ci avessero costretto
l’estrema urgenza delle circostanze,
voglio dire la pace d’Inghilterra,
e la nostra salvezza personale?
LORD MAYOR — Bene ve ne provenga. La sua morte,
se così è, costui l’ha meritata,
e bene han fatto le signorie vostre
a scoraggiar con questo ammonimento
da simili attentati i traditori.
Da uno come lui, in verità,
non m’aspettavo più nulla di buono,
dacché si mise con Madama Shore…74
BUCKINGHAM —
Era nostra intenzione, in verità,
128
di non procedere all’esecuzione
se non dopo che vostra signoria
fosse presente alla sua fine;
nostro malgrado, ha tutto anticipato,
l’affettuosissima sollecitudine
di questi nostri amici. Perché noi
avremmo ben voluto, monsignore,
che sentiste parlare il traditore
e confessare, in tutta compunzione,
i modi e i fini dei suoi tradimenti,
sì da poterne poi rendere contro
pubblicamente alla cittadinanza;
che può giudicar male il nostro agire
su di lui e compiangerne la morte.
LORD MAYOR — Ma, caro monsignore,
le parole di vostra grazia bastano
per me; esse hanno lo stesso valore,
che avessi io stesso tutto visto e udito.
Non temete, miei nobili signori:
mi farò io stesso buon interprete
presso i nostri devoti cittadini
della legalità del vostro agire
in una circostanza come questa.
RICCARDO — Ed è a tal fine che abbiamo richiesto
qui la presenza di vossignoria:
a prevenire maligne censure
dalla parte della cittadinanza.
BUCKINGHAM —
E voi, se pure giunto un po’ in ritardo
su quelle ch’eran le nostre intenzioni,
potrete tuttavia sempre attestare
quali vi è stato detto ch’esse fossero.
E con ciò, Sindaco, vi salutiamo.
129
(Esce il Lord Mayor)
RICCARDO — Seguilo, seguilo, cugino Buckingham.
Egli va difilato alla Guildhall.75
E là, quando vedrai giunto il momento,
cerca d’insinuare avanti a tutti
che i figli d’Edoardo son bastardi;
di’ loro apertamente come Edoardo
abbia mandato a morte un cittadino,
solo per aver detto, il disgraziato,
che avrebbe fatto ereditar dal figlio
la “corona”, intendendo con tal nome
la sua casa, così denominata
per l’insegna che ha sulla facciata
e che ha disegnata una corona.
Insisti sull’odiosa sua lascivia,
di’ loro la sua foja animalesca,
che nell’estrosità delle sue voglie
si spingeva financo alle lor serve,
alle lor figlie ed alle loro mogli,
ovunque, insomma, il suo occhio smanioso
e l’istinto selvaggio del suo cuore
bramassero predare, senza freni.76
Anzi, se lo ritieni necessario,
ti puoi spingere anche tanto in là
da parlar della stessa mia persona
e rivelare che quando mia madre
rimase incinta del Duca di York,
l’insaziabile mio fratello Edoardo,
mio padre si trovava a guerreggiare
in Francia; e calcolando il tempo esatto
di quella gravidanza di sua moglie,
scoprì che il figlio non era suo seme;
ciò che apparve, del resto, chiaramente
130
dalle di lui fattezze, in nulla simili
alle fattezze del Duca mio padre.
Bada però di toccar questo tasto
con discrezione, e molto alla lontana,
perché, lo sai, mia madre è ancora viva.
BUCKINGHAM —
Non dubitate: mi farò oratore
in questo, come se fosse per me
l’aureo onorario della mia arringa.
E con ciò, mio signore, vado. Addio.
RICCARDO — Se tutto girerà per il suo verso,
menateli al castello di Baynard;77
mi troverete in buona compagnia
di reverendi padri e dotti vescovi.
BUCKINGHAM —
Bene. Aspettate tra le tre e le quattro
notizie dalla Guildhall.
RICCARDO — (A Lovell)
Corri dal dottor Shaw;
(A Ratcliff)
e tu da frate Penker;78 dite a entrambi
che vengano a raggiungermi fra un’ora
al castello di Baynard.
(Escono Lovell e Ratcliff)
Io vado intanto a intendermi in segreto
per sottrarre i marmocchi di Clarenza
alla vista di tutti,
e ad ordinare che nessun estraneo,
chiunque sia ed a qualunque ora,
abbia contatto alcuno con i principi.79
(Esce entrando nella Torre)
131
SCENA VI
Londra, una strada.
Entra uno SCRIVANO
SCRIVANO — Questo è l’atto d’accusa di Lord Hastings,
scritto con bella mano
e con bella calligrafia curiale;
ne sarà data pubblica lettura
oggi stesso, alla chiesa di San Paolo.
Notate come è ben concatenato
lo svolgersi dei fatti: per copiarlo,
da quando Catesby me l’ha mandato
ieri sera, ci ho messo undici ore;
lo stesso tempo ci sarà voluto
certamente a stilar l’originale;
eppure meno di cinque ore fa,
Hastings viveva, immune da sospetti,
non inquisito, in piena libertà.
Quanta onestà nel mondo d’oggi, eh?!
Ma chi è così cretino
da non scorgere un trucco sì evidente!
E tuttavia chi ha tanto coraggio
da affermare di essersene accorto?
Il mondo è perfido e andrà in malora,
se un’azionaccia turpe come questa
dev’esser vista solo col pensiero!
(Esce)
132
SCENA VII
Londra, il castello di Baynard.
Entrano RICCARDO e BUCKINGHAM, incontrandosi
RICCARDO — Dunque, dunque, che han detto i cittadini?
BUCKINGHAM —
Mah! Per la santa Madre del Signore,
tutti morti: nemmeno una parola.
RICCARDO — E della bastardìa
dei figli di Edoardo hai fatto cenno?
BUCKINGHAM —
Oh, sì, e anche della sua promessa
di sposar lady Lucy,80
e di quell’altra fatta per procura
in Francia;81 delle sue voglie insaziabili;
delle sue violenze sulle mogli
e le figlie dei nostri cittadini;
del suo tiranneggiare per quisquilie;
della sua stessa origine bastarda,
dato che quand’è stato concepito
vostro padre era a guerreggiare in Francia,
e le fattezze sue non hanno nulla
che possa farlo assomigliare al Duca.
Ho alluso quindi ai vostri lineamenti,
esatta copia di quelli paterni,
per forma esterna e per nobiltà d’animo.
Ho decantato le vostre vittorie
sugli Scozzesi,82 il vostro portamento,
rigido in guerra, giudizioso in pace,
la vostra generosità e virtù,
e graziosa umiltà: nulla ho lasciato,
133
nel mio discorso, nulla ho sorvolato
che potesse giovare al vostro scopo;
e quando la mia arringa è giunta al termine,
ho rivolto un appello
a tutti quelli ai quali stava a cuore
il bene del paese e li ho invitati
a gridare con me: “Viva Riccardo,
legittimo sovrano d’Inghilterra!”
RICCARDO — E l’hanno fatto?
BUCKINGHAM —
No, che Dio m’assista!
Non han fiatato: muti come statue,
o meglio come pietre che respirano,
si guardavano fissi, l’un con l’altro,
pallidi come morti. Ed a vederli,
io li ho sgridati, ed ho chiesto al Lord Mayor
il perché di quel lor sordo silenzio.
La sua risposta fu che quella gente
non era avvezza a sentirsi arringare
da nessun altro che dallo scabino.83
Questi, allora, da me sollecitato
a ripetere loro il mio discorso
si mise a bofonchiare: “Il Duca dice…
il Duca ha detto…”, senza aggiunger nulla
di propria personale autorità.
Finito ch’ebbe, alcuni del mio seguito
che si trovavano in fondo alla sala,
lanciarono i lor berretti in aria
e una diecina di voci han gridato:
“Dio salvi Re Riccardo!”
Al che, io stesso, facendo tesoro
di quei pochi consensi, ho lor gridato:
“Vi ringrazio, gentili cittadini;
134
questa unanime vostra acclamazione
e questo vostro grido di esultanza
dimostrano la vostra assennatezza
e la vostra affezione per Riccardo”.
E lì ho troncato e son venuto via.
RICCARDO — Diavolo! Tutti ciocchi senza lingua?
Tutti senza parlare!
Allora il Sindaco e i suoi consiglieri
verranno o no?
BUCKINGHAM —
Sono già tutti qui.
Ma ostentate una certa riluttanza
nel dare loro udienza; non lo fate
se non in seguito a molte insistenze;
e, ricordate, fatevi trovare
con nelle mani un libro di preghiere,
in mezzo a quei due uomini di chiesa;84
perch’io imbastirò, su quella base,
un discanto canonico.85
Cercate di non ceder troppo presto
alle richieste che noi vi faremo;
fate la parte della verginella
che dice sempre “no” per dire “sì”.
RICCARDO — Bene, vado, e se tu
reciterai sì bene la tua parte
nel perorar la loro richiesta
com’io la mia nel risponderti “no”,
il successo è senz’altro assicurato.
(Colpi alla porta)
BUCKINGHAM —
È il sindaco. Salite, andate su.86
(Esce Riccardo)
135
Entra il LORD MAYOR di Londra con i
consiglieri
Benvenuto, signore.
Son qui a fare anticamera; ma il Duca
penso che non gradisca dare udienza.
Entra CATESBY, scendendo dal soppalco
Catesby, allora che cosa risponde
alla mia istanza il vostro signor Duca?
CATESBY — Il mio signore prega vostra grazia
di tornare domani o doman l’altro.
È dentro con due reverendi padri
per le meditazioni spirituali
e non desidera venir distolto
da quel sacro esercizio dello spirito
da qualsivoglia mondana richiesta.
BUCKINGHAM —
Buon Catesby, ritorna da sua grazia,
digli ch’io sono qui
col Sindaco di Londra e i consiglieri87
per conferire con sua signoria
su cose di grandissima importanza
che riguardano il bene generale.
CATESBY — Vado subito a dirglielo, signore.
(Esce Catesby)
BUCKINGHAM —
Ah, ah, Lord Mayor, questo nostro Duca
non è certo un Edoardo!
Non se ne sta sdraiato a trastullarsi
su un letto di lascivia, ma in ginocchio
a meditare; non sta sollazzandosi
in compagnia d’un paio di baldracche,
ma se ne sta raccolto, a meditare,
136
fra due reverendissimi prelati;
non dorme, ad ingrassare il pigro corpo,
ma vigila in preghiera, a far più ricca
la vigile sua anima.
Sarebbe la fortuna d’Inghilterra
se un principe virtuoso come lui
volesse assumer sulla sua persona
il sovrano potere; ma ho paura
che non sapremo convincerlo a tanto.
LORD MAYOR — Diamine! Dio non voglia che rifiuti!
BUCKINGHAM —
Ho paura di sì.
Rientra CATESBY
Ma ecco Catesby
che torna. Ebbene che dice sua grazia?
CATESBY — Sua grazia si domanda con stupore
a quale scopo abbiate radunato
e qui condotto un così folto stuolo
di cittadini senza che sua grazia
ne fosse stato affatto prevenuto.
Questo gli fa temere, monsignore,
che le vostre intenzioni a suo riguardo,
non sian delle migliori.
BUCKINGHAM —
Mi dispiace che il mio degno cugino
possa mai sospettare ch’io non nutra
delle buone intenzioni a suo riguardo.
Sa il cielo se veniamo qui da lui
animati dal più sincero affetto.
Torna di nuovo da sua grazia, e diglielo.
(Esce Catesby)
137
Eh, quando questa specie di sant’uomini
così devotamente religiosi
si trovano il rosario tra le mani,
è certo ben difficile distoglierli,
sì dolce ed esclusivo è il rapimento
nella fervida lor contemplazione.
Nel soppalco compare RICCARDO in mezzo
a due prelati; a fianco CATESBY.
LORD MAYOR — Ecco lassù sua grazia, fra due vescovi.
Vedete?
BUCKINGHAM —
Due pilastri di virtù
a sostegno di un principe cristiano,
per tenerlo lontano e preservato
dal peccato di vanità; e, vedete,
in mano tiene un libro di preghiere…
gli autentici ornamenti
dai quali riconoscere un sant’uomo.
Plantageneto illustre,
graziosissimo principe,
degnati porgere un orecchio amico
alle richieste nostre,
e perdonaci d’essere venuti
a interrompere le tue devozioni
ed il tuo cristianissimo fervore.
RICCARDO — Non dovete scusarvi, mio signore,
son io, piuttosto a chiedere perdono,
ché, assorto nel servizio del Signore,
ho protratto l’attesa a questi amici.
Ma, a parte questo, qual è il desiderio
di vostra grazia?
BUCKINGHAM —
Lo stesso, e non altro,
138
spero, quale anche piaccia a Dio lassù,
e a tutti gli uomini buoni ed onesti
di quest’isola priva di governo.88
RICCARDO — Non vorrei aver fatto qualche errore
che possa essere apparso offensivo
alla cittadinanza, e voi veniate
a rinfacciarmi la mia ignoranza.
BUCKINGHAM —
Difatti, mio signore: e a quell’errore
speriamo che, su nostra preghiera,
piaccia alla grazia vostra riparare.
RICCARDO — Perché vivrei, se no, in cristiana terra?
BUCKINGHAM —
Sappiate allora qual è il vostro errore:
la persistente vostra riluttanza
ad occupare l’altissimo seggio,
l’augusto trono, lo scettrato ufficio
che è stato dei vostri avi;
la vostra abdicazione al vostro rango
e ad un diritto ch’è vostro per nascita,
alla gloriosa vostra discendenza
dalla casa reale; e tutto questo
a favore d’un ceppo secco e marcio;
mentre nella blandizie
della vostra assopita iniziativa,
che noi qui, per il bene del paese,
siamo appunto venuti a ridestare,
questa nobile isola è privata
dei naturali membri del suo corpo,
il volto deturpato dalle stigmate
dell’infamia, il regal ceppo innestato
a ignobili virgulti e quasi spinto
violentemente nel vorace gorgo
139
del più profondo e tenebroso oblio.
Per riparare a ciò, noi, di gran cuore,
siam qui a sollecitare vostra grazia
di assumer su di sé tutto il gravame
e il governo di questa vostra terra,
non già in veste di mero protettore,
o di amministratore, o di vicario,
o d’umile massaro, a lavorare
per il conto e per il vantaggio altrui,
ma in virtù del diritto di natali,
che vi deriva per generazioni,
da sangue a sangue, vostro in assoluto.
Perciò, in accordo con i cittadini,
vostri devoti ed ossequienti amici,
e per loro pressante incitamento,
io vengo a supplicare vostra grazia
di non negarsi a questa causa giusta.
RICCARDO — Non so dire se sia più consentaneo
al mio rango o alla vostra condizione
ch’io m’allontani senza dir parola,
o vi rivolga un severo rimprovero.
Se scegliessi di non darvi risposta,
voi potreste pensare giustamente
che l’ambizione, rendendomi muto
ed impedendomi di replicare,
cedesse ad accollarsi l’aureo giogo
della sovranità che, bontà vostra,89
qui mi volete imporre… D’altra parte,
biasimarvi per questa vostra supplica,
così condita di fedele affetto,
sarebbe rendere male per bene
a degli amici. E questo non lo voglio.
Ad evitare dunque il primo rischio,
140
ed a scansare, parlando, il secondo,
eccovi la decisa mia risposta.
Il vostro affetto merita senz’altro
il mio ringraziamento;
ma i miei meriti son troppo scarsi
per fare ch’io m’induca ad aderire
alla vostra ambiziosa petizione.
Primo: quand’anche fossero rimossi
tutti gli impedimenti e tutta piana
fosse la strada verso la corona,
siccome maturato mio possesso
e diritto spettantemi per nascita,
è sì grande la mia povertà d’animo,
e tanti e tanto gravi i miei difetti,
che della mia grandezza farei schermo
per occultarmi alla sovranità
– come un vascello inetto ad affrontare
il mare grosso – anziché agognare
a rimaner nascosto e soffocato
soltanto dai vapori della gloria.
Ma, grazia e Dio, di me non c’è bisogno;
ché se vi fosse, avrei bisogno io stesso
di troppe cose, poi, per aiutarvi.
La regal pianta del defunto re
ha lasciato al paese un regal frutto
che, portato che sia a maturazione
dal furtivo trascorrere del tempo,
si mostrerà certamente ben degno
della maestà del trono, ed il suo regno
ci renderà certamente felici.
Io lascio dunque volentieri a lui
quel che volete consegnare a me,
vale a dire il diritto alla corona
141
e le sorti della sua buona stella
che Dio non voglia io debba strappargli.
BUCKINGHAM —
Tutto ciò testimonia, monsignore,
quale coscienza alberga in vostra grazia;
ma, in fede mia, codesti vostri scrupoli,
a ben vagliar tutte le circostanze,
son senza consistenza e trascurabili.
Voi affermate che il principe Edoardo
è bene il figlio di vostro fratello;
noi diciamo lo stesso,
però non della moglie di Edoardo;
ché prima ei si promise a Lady Lucy,90
(vostra madre è vivente testimone
della promessa); e poi si fidanzò
per procura con Bona di Savoia,
la cognata del re di Francia. In seguito,
dopo ch’ebbe scartate queste due,
una misera donna postulante,
con il corpo sfiancato dalle doglie
di molti parti, una bellezza sfatta,
una vedova nelle ristrettezze,
al meriggio dei suoi giorni migliori,
fece preda dei suoi sguardi lascivi
e lo sedusse al punto da ridurlo
ad un vituperevole degrado
e ad una vergognosa bigamia.91
Da costei, nel suo talamo illegittimo
egli ebbe questo Edoardo,92
che noi per cortesia chiamiamo principe.
Altre e più amare recriminazioni
potrei fare, non fosse pel rispetto
che sento per certuni ancora in vita
e che impone ritegno alla mia lingua.
142
Vogliate, dunque, amabile signore,
accogliere con animo benigno
addosso alla regal vostra persona
quest’offerta di dignità regale:
se non proprio per rendere con essa
felici noi ed il paese tutto,
per trarre il vostro nobile lignaggio
fuor da un’età corrotta ed abusata
e riportarlo sul retto cammino
della legittima sua discendenza.
LORD MAYOR — Accettatelo, amabile signore,
ve lo implorano i vostri cittadini.
BUCKINGHAM —
Non rifiutatevi, possente principe,
a questa nostra profferta d’amore.
RICCARDO — Ahimè, perché volete caricarmi
di questo peso? Io non son tagliato
per il rango e la dignità di re.
Vi scongiuro, non la prendete a male,
ma non posso né voglio accontentarvi.
BUCKINGHAM —
Se rifiutate perché affetto e zelo
v’ispirano ripugna a spodestare
quel bimbo, figlio di vostro fratello
– ché conosciamo bene la bontà
del vostro cuore, e la gentile, amabile,
quasi femminea vostra tenerezza
verso i vostri parenti, e, in verità,
verso gente d’ogni altra condizione –,
è bene che sappiate, signor Duca,
che, consentiate o no alla nostra istanza,
mai quel figliolo del fratello vostro
regnerà da sovrano su di noi;
143
perché noi pianteremo su quel trono
un altro qual che sia, ad ignominia
ed a rovina della vostra casa.
E in tale decisione vi lasciamo.
Andiamo, cittadini, andiamo via!
Per le piaghe di Cristo, io sono stufo
di stare qui più oltre a supplicare!
(Buckingham, il Lord Mayor e tutti gli altri
si avviano per uscire)
RICCARDO — Non imprecate, signore di Buckingham!
CATESBY — Richiamateli indietro, dolce principe,
e consentite alla loro richiesta.
Se gliela respingeste, monsignore,
se ne dorrebbe tutta la nazione.
RICCARDO — Volete dunque sospingermi a forza
entro un mare d’affanni?… Richiamateli.
Non son fatto di sasso,
io, dopo tutto; sono ben sensibile
a queste vostre garbate insistenze,
se pur contrarie ai miei sentimenti
ed alla mia più intima coscienza.
Rientrano BUCKINGHAM e gli altri
Cugino Buckingham, e voi, signori,
uomini saggi e gravi,
poiché vi vedo sì deliberati
a impormi sulla schiena questa sorte,
perch’io, volente o no, ne porti il carico,
mi devo rassegnare a sostenerlo.
Ma se da questa vostra imposizione
dovesse uscir la nera maldicenza
e la rampogna dalla grinta amara,
144
il fatto d’esserci stato costretto
m’assolva da ogni macchia o traccia impura
ch’abbia per avventura a derivarne.
Dio sa – e voi ne siete testimoni
con l’occasione – quanto io sia lontano
dal nutrire un siffatto desiderio.
LORD MAYOR — Dio benedica sempre vostra grazia;
ne siamo testimoni, e lo diremo.
RICCARDO — E direte la pura verità.
BUCKINGHAM —
Dunque con questo titolo regale
io vi saluto qui: “Viva Riccardo,
degno re d’Inghilterra!”
TUTTI —
BUCKINGHAM —
Così sia!
Domani allora vi compiacerete
di farvi incoronare?
RICCARDO — Domani o quando gradirete voi,
dal momento che voi così volete.
BUCKINGHAM —
Domani allora vi faremo scorta
all’incoronazione, vostra grazia;
e così, con il cuore in esultanza,
da voi ci congediamo.
RICCARDO — E noi torniamo al nostro sacro offizio.
Addio, cugino. Addio, gentili amici.
(Escono tutti)
145
ATTO QUARTO
SCENA I
Londra, davanti alla Torre.
Entrano, da una parte, la REGINA ELISABETTA, la DUCHESSA
DI YORK, il MARCHESE DI DORSET; dall’altra ANNA,
duchessa di Gloucester, con la figlioletta di Clarenza.
DUCHESSA —
Oh, guarda chi incontriamo:
la nipotina mia Plantageneta,93
condotta per la mano
dalla gentile zia Anna di Gloucester!94
Scommetterei che sta andando alla Torre,
spinta dal suo sincero cuoricino,
a recare il saluto al dolce principe.
Bene incontrata, figlia!
ANNA — Conceda Dio felice e lieto giorno
a entrambe vostre grazie.
ELISABETTA —
E così a voi,
cara cognata. Dove ve ne andate?
ANNA — Non più in là della Torre e, come immagino,
con lo stesso affettuoso vostro intento:
a salutare i due giovani principi.
ELISABETTA — Grazie, mia cara. Allora entriamo insieme.
Entra BRAKENBURY
Ecco il luogotenente della Torre,
e a buon punto: signor Luogotenente,
146
di grazia, come stanno i miei figlioli,
il principe con il fratello York?
BRAKENBURY —
Benissimo, signora; ma purtroppo
non posso consentirvi di vederli.
Il re m’ha dato una consegna ferrea.
ELISABETTA — Come sarebbe “il re”… c’è forse un re?
BRAKENBURY —
Volevo intendere il Lord Protettore.
ELISABETTA — Ah, lui! Che Dio lo scarti da quel titolo!
E che! Vuol forse porre uno steccato
fra l’amore dei miei figlioli e me?
Io son la loro madre:
chi mi può impedire di vederli?
DUCHESSA — Ed io sono la madre del lor padre:
voglio vederli.
ANNA —
Io son la loro zia,
per legge, la lor madre per affetto;
e dunque conducetemi da loro.
Rispondo io per voi: e a mio rischio
vi dispenso dalla vostra consegna.
BRAKENBURY —
No, signora; non posso liberarmene
così; vi son tenuto a giuramento.
E pertanto vi chiedo di scusarmi.
(Esce)
Entra STANLEY, conte di Derby
STANLEY — Ch’io vi rincontri appena di qui a un’ora,
dame, e saluterò la grazia vostra,
(Indicando la Duchessa di York)
madre ed ammiratrice reverenda
di due belle regine.
147
(Ad Anna)
Voi, signora,
dovete venir subito a Westminster
per essere colà incoronata
regina di Riccardo.
ELISABETTA —
Ahimè, che sento!
Slacciatemi, strappatemi i legacci,
che il mio povero cuore abbia più spazio
per pulsare, perché sta soffocando!
Ah, ch’io svengo ad un tal ferale annuncio!
ANNA — Dispettosa notizia! Amaro annuncio!
DORSET — Madre, coraggio, state di buon animo:
come sta vostra grazia?
ELISABETTA —
Oh, fuggi, Dorset!
Mettiti in salvo! Non star lì a guardarmi!
I due mastini, Morte e Distruzione,
ti son già alle calcagna.
Il nome di tua madre è malo auspicio
per i figli. Se vuoi scampar la vita,
figlio mio, va’, passa il mare, va’ da Richmond,
a vivere al riparo dall’inferno.95
Presto, fuggi da questo scannatoio
se non vuoi far che il numero dei morti
s’accresca del tuo nome,
e se non vuoi veder morire me,
la vittima della maledizione
di Margherita, né più madre ormai,
né moglie, né regina d’Inghilterra.
STANLEY — Saggio consiglio e premuroso il vostro,
148
signora. Dorset, via, sfruttate subito
il vantaggio del tempo, andate via,
non v’attardate in indugi imprudenti.
Manderò una lettera a mio figlio96
perché vi venga incontro sulla strada
e vi dia ogni appoggio.
DUCHESSA — Oh, mefitico vento di sciagura!
Grembo mio maledetto,
culla di morte! Hai portato al mondo
un basilisco, che con il suo sguardo
uccide chi gli càpita sott’occhio.
STANLEY — (Ad Anna)
Signora, andiamo, venite con me.
Son qui stato spedito di gran fretta.
ANNA — Verrò con voi, ma assai di malavoglia.
E Dio volesse che quel cerchio d’oro
che cingerà fra poco la mia fronte
fosse acciaio rovente
da bruciarmi il cervello; ch’io sia unta
con veleno mortale, da morire
prima che gli uomini possan gridare:
“Dio salvi la regina”.
ELISABETTA — Va’, va’, povera anima,
non invidio davvero la tua gloria.
Ma non t’auguro male,
a nutrire con questo la mia collera.97
ANNA — Non m’invidii, lo so; e so il perché.
Quando colui ch’è ora mio marito
venne da me, che seguivo in gramaglie
il feretro d’Enrico,
e s’era appena lavato le mani
149
del sangue di quell’angelo
di mio marito e di quel caro santo
ch’io seguivo piangendo in quel momento,
quando, dico, levai gli occhi a Riccardo,
questo augurio gli feci: “Maledetto
sii tu – dissi – d’aver fatto di me,
così giovane, una sì vecchia vedova;
e se ti sposerai, non abbandoni
il dolore il tuo letto, e sia tua moglie
– se mai vi sarà donna tanto folle
da maritarsi ad uno come te –
resa più misera dalla tua vita
di quanto misera hai reso me
con la morte del mio sposo adorato!”
Dio mio, Signore! Ed ecco, in un momento,
prima che m’accingessi a reiterargli
la mia maledizione, stoltamente
il mio cuore di donna fu impigliato
nella dolcezza delle sue parole
e divenne esso stesso, all’improvviso,
l’oggetto della mia maledizione;
che da allora ha tenuto gli occhi miei
senza riposo, perché nel suo letto
non ho ancora, nemmeno per un’ora,
goduto l’aurea rugiada del sonno,
destata come sono di continuo
dai suoi sogni paurosi.
Egli mi odia, inoltre, per mio padre,
Warwick,98 e son sicura
che si sbarazzerà di me al più presto.
ELISABETTA — Addio, povero cuore.
Ho pietà delle tue tribolazioni.
150
ANNA — Non quanta n’abbia io di quelle vostre.
DORSET — Addio, tu che con l’anima in gramaglie
ti prepari a ricevere la gloria.
ANNA — Addio, povera anima,
che dalla gloria invece ti congedi.
DUCHESSA — Tu, Dorset, va’ da Richmond,
e ti sia guida la buona fortuna;
tu, Anna, da Riccardo,
e ti siano custodi angeli buoni;
tu, Elisabetta, vattene al santuario,
e ti accompagnino santi pensieri.
Io vado là dove pace e riposo
si giacciono con me: nella mia tomba.
Ho vissuto ottant’anni di sventure
ed ogni ora di gioia m’è costata
sette giorni di pianto.
ELISABETTA — Aspettate: volgiamo ancora insieme
uno sguardo alla Torre… O pietre antiche,
pietà di quei due teneri fanciulli
che l’umana perfidia ha rinserrato
dentro le vostre mura, rude culla
per quelle piccole dolci creature,
rozza nutrice, squallida, decrepita,
cupa e tetra compagna ai loro giochi!
Pietre, trattate bene i miei bambini!
Questo è l’addio del mio pazzo dolore.
(Escono)
151
SCENA II
Londra, la sala del trono al palazzo reale.
Trombe.99 Entrano RICCARDO, in pompa magna, con in testa la
corona; BUCKINGHAM, CATESBY, RATCLIFF, LOVELL, un
PAGGIO e altri del seguito.
RICCARDO — Fatemi largo. Cugino di Buckingham!
BUCKINGHAM —
Mio grazioso sovrano…
RICCARDO —
La tua mano.
(Buckingham gli dà la destra e lo
accompagna al trono)
(Squillo di tromba)
(I due restano a parlare da soli)
A questa altezza siede re Riccardo
per tuo consiglio e con il tuo ausilio.
Ma dovremo portarle, queste glorie,
per un giorno, o saranno per durare
nel tempo, e noi potremo rallegrarcene?
BUCKINGHAM —
Vivano sempre, e durino perenni!
RICCARDO — Ah, Buckingham, mi faccio ora con te
pietra di paragone, per saggiare
se tu sei veramente d’oro schietto.
Il giovinetto Edoardo è ancora vivo…
Tu capisci che cosa voglio dire.
BUCKINGHAM —
Continuate, amato mio signore.
RICCARDO — Diamine, Buckingham, intendo dire
che vorrei esser re.
152
BUCKINGHAM —
Ma voi lo siete,
mio tre volte degnissimo sovrano!
RICCARDO — Ah, sì? È così… ma Edoardo è vivo.
BUCKINGHAM —
Vero, nobile principe.
RICCARDO — Amara conclusione, questa tua,
che Edoardo sia vivo…
“Vero, nobile principe”… Cugino,
un tempo tu non eri così ottuso.
Debbo essere chiaro?
Li voglio morti, questi due bastardi!
E che sia fatto subito!
Che dici adesso? Rispondi e sii breve.
BUCKINGHAM —
Vostra grazia può fare ciò che vuole.
RICCARDO — Va’, va’, mi pare che sei tutto ghiaccio!
La parentela ti si è congelata.
Di’, sei d’accordo che devon morire?
BUCKINGHAM —
Datemi un po’ di respiro, una pausa,
mio buon signore, avanti che su ciò
possa parlare positivamente.
Vi darò subito una risposta.
(Esce)
CATESBY — (Agli altri nobili)
Il re è in preda all’ira;
guardate come si morde le labbra.
RICCARDO — Voglio avere a che fare, d’ora innanzi
solo con imbecilli teste dure
o con giovanottelli senza scrupoli:
non mi piacciono quelli che mi scrutano
come volessero leggermi dentro.
153
Si fa guardingo l’ambizioso Buckingham…
(Al Paggio, a parte)
Ragazzo!
PAGGIO —
Mio signore?
RICCARDO — Conosci tu qualcuno
che l’oro corruttore possa indurre
a una segreta faccenda di morte?
PAGGIO — Conosco un gentiluomo
scontento perché i suoi modesti mezzi
non s’accordano colle sue pretese:
l’oro per lui sarebbe un argomento
più convincente di venti avvocati,
senza dubbio capace di tentarlo
a compiere qualunque malefatta.
RICCARDO — Come si chiama?
PAGGIO —
Tyrrell, mio signore.
RICCARDO — Mi pare di conoscerlo:
vallo a chiamare, e mandalo da me.
(Esce il paggio)
Quel Buckingham che rumina pensieri
e fa il furbo con me,
non sarà più da oggi il confidente
dei miei pensieri. Con me ha retto il passo
per tanto tempo, senza mai stancarsi,
ed ora, ecco, si ferma a prender fiato…
Ebbene, così ho detto e così sia!
Entra STANLEY
Ebbene allora, Lord Stanley, che nuove?
STANLEY — Sappiate, dunque, amato mio signore,
154
che il marchese di Dorset, come ho udito,
se n’è fuggito a raggiungere Richmond,
dove questi si trova.
RICCARDO — Catesby, senti: spargimi la voce
che mia moglie è malata, molto grave;
io darò l’ordine a chi dico io
che sia tenuta strettamente al chiuso.
Rintracciami un qualche nobiluomo
di mezza tacca, oscuro, squattrinato,
al quale potrei dar subito in moglie
la figliola del Duca di Clarenza.100
Quanto al maschio, è un autentico cretino,
e non mi mette il minimo pensiero.
Ma non star lì a guardarmi a bocca aperta!
Sveglia!… Ripeto: va’, spargi la voce
in giro che la mia regina, Anna,
è malata, in pericolo di vita.
Datti daffare, ché mi preme assai
soffocare sul nascere speranze,
che se vengono poi alimentate,
potrebbero riuscirmi perniciose.
(Esce Catesby)
È necessario ch’io mi prenda in moglie
la figlia di Edoardo, mio fratello;
altrimenti il mio regno poggerà
sopra un fragile vetro…
Uccidere i fratelli, e poi sposarla…
È via di malsicura riuscita,
ma sono ormai tanto avanti nel sangue,
che un delitto ne chiama dietro un altro.
Ormai negli occhi miei non ha più stanza
la pietà lacrimosa.
155
Entra TYRRELL
Sei tu, Tyrrell?
TYRRELL — Son io: Giacomo Tyrrell,
obbedientissimo suddito vostro.
RICCARDO — “Obbedientissimo”… Lo sei davvero?
TYRRELL — Vostra Grazia può mettermi alla prova.
RICCARDO — Avresti tu tanto fegato in corpo
da uccidermi un amico?
TYRRELL —
A vostro grado;
meglio però sarebbe due nemici.
RICCARDO — Bene, allora ci sei: son due nemici
quelli di cui vorrei che t’occupassi,
che non dànno più tregua alla mia pace,
disturbatori dei miei dolci sonni,
Tyrrell; intendo dire i due bastardi
che si trovan rinchiusi nella Torre.
TYRRELL — Apritemi la strada per raggiungerli,
e vi libererò dal loro incubo.
RICCARDO — Tu mi canti una musica dolcissima.
Tyrrell, ascolta, fatti più vicino;
Va’ là con questo: è il mio lasciapassare.101
Alzati102 e dammi orecchio.
(Tyrrell si alza e Riccardo gli sussurra
qualcosa all’orecchio)
Null’altro.103 Dimmi solo: “È stato fatto”,
e io ti vorrò bene in sempiterno,
e ti ricoprirò di benefici.
TYRRELL — Sbrigherò la faccenda in poco tempo.
156
(Esce)
Rientra BUCKINGHAM
BUCKINGHAM —
Mio signore, ho considerato a fondo
la richiesta su cui m’avete dianzi
voluto scandagliare.
RICCARDO
Ah, non importa,
lasciamola pur lì. Dorset, piuttosto:
ha preso il largo, è fuggito da Richmond.
BUCKINGHAM —
L’ho saputo, signore.
RICCARDO —
Stanley, Richmond
è figlio di tua moglie… Stacci attento…
BUCKINGHAM —
Monsignore, mi par giunto il momento
di reclamarvi quella concessione
che m’è dovuta per una promessa
sulla quale impegnaste il vostro onore:
intendo, sire, la contea di Hereford
coi beni mobili da voi promessimi.
RICCARDO — (Senza badargli, e sempre rivolto a Stanley)
… tieni d’occhio tua moglie,
se dovesse mandar messaggi a Richmond,
me ne risponderai tu di persona.
BUCKINGHAM —
Che dice vostra altezza
riguardo a questa mia giusta richiesta?
RICCARDO — (Sempre senza badargli, rivolto a Stanley)
Enrico Sesto, a quanto mi ricordo,
profetizzò che Richmond
sarebbe stato re, quand’egli, Richmond,
era ancora un monello impertinente….
Sarebbe stato re… Forse… chissà…
157
BUCKINGHAM —
Signore…
RICCARDO — (c.s.)
Come mai quel preveggente
non seppe presagire al tempo stesso,
me presente, che io l’avrei ucciso?
BUCKINGHAM —
La promessa della contea, signore…
RICCARDO — Richmond!… Recentemente fui ad Exeter,
ed il suo sindaco cortesemente
mi volle far vedere quel castello
e lo indicò col nome di Rougemont;104
ad udire il qual nome ebbi un sussulto,
perché un bardo d’Irlanda un certo giorno
mi predisse che non sarei vissuto
per molto tempo ancora,
dopo che avessi visto Rougemont.
BUCKINGHAM —
RICCARDO —
BUCKINGHAM —
Signore…
Buckingham, che ore sono?
… ardisco ricordare a vostra grazia
la promessa…
RICCARDO —
BUCKINGHAM —
Sì, sì, ma che ore sono.
Stanno quasi per battere le dieci.
RICCARDO — Bene, lasciale battere.
BUCKINGHAM —
Perché “lasciale battere”, signore?
RICCARDO — Perché come l’automa d’una pendola
tu sei lì che continui a battere
tra il postulare come un accattone
e il mio almanaccare per mio conto.
Oggi non sono in vena di regali!
158
BUCKINGHAM —
Compiacetevi almeno
di dire sì o no alla mia richiesta.
RICCARDO — Non sono in vena. Non seccarmi più!
(Esce seguìto da tutti, meno Buckingham)
BUCKINGHAM —
Ah, così lui compensa i miei servigi?
Con quel fare sprezzante ed offensivo?
Per questo, dunque, l’avrei fatto re?…
Ahimè, pensiamo a quel ch’è capitato
ad Hastings, ed andiamo a rifugiarci
a Brecon,105 finché resta sulle spalle
questa mia testa ormai pericolante!
(Esce)
159
SCENA III
Altra stanza del palazzo
Entra TYRRELL
TYRRELL — La più cruenta impresa, la più infame,
il più spietato, il più empio massacro
che il mondo abbia mai visto, è consumato!
Perfino quei cagnacci sanguinari
di Dighton e Farrest, due spietati,
cinici ed incalliti delinquenti,
che col denaro avevo subornato
a questa barbara carneficina
lacrimavano come due mocciosi,
sopraffatti da tenera pietà,
a raccontarmi tanta efferatezza.
“Oh – mi fa Dighton – quelle due creature
dormivano… così”. “Così, così –
fa Forrest – abbracciati l’uno all’altro
con quelle loro braccine innocenti,
color dell’alabastro….
Le loro labbra, quattro rose rosse
su di un unico stelo, e si baciavano
nel bel rigoglio della loro estate.
Sul lor guanciale un libro di preghiere,
che per un attimo – prosegue Forrest –
stava quasi per farmi mutar d’animo…
Ma oh, il diavolo!…” E così dicendo,
s’interruppe, lo scellerato. E Dighton:
“Abbiamo soffocato nella morte
il più dolce prodotto, il più perfetto
160
che la Natura abbia mai modellato
dal primo giorno della Creazione!”
E con questo, senza più altro dire
si sono allontanati,
con la coscienza rosa dal rimorso;
e così io li ho lasciati,
per venire a recarne la notizia
a questo re sanguinario… Ma eccolo.
Entra RICCARDO
Salute al mio signore.
RICCARDO —
Caro Tyrrell!
Qual felice notizia tu mi porti?
TYRRELL — Se l’aver fatto quanto m’ordinaste
vi può fare felice, ebbene siatelo,
perché è fatto.
RICCARDO —
Ma li vedesti morti?
TYRRELL — Sì, signore.
RICCARDO —
E sepolti?
TYRRELL —
Ad interrarli
provvide il cappellano della Torre;
come ed in quale luogo, non lo so.106
RICCARDO — Passa da me subito dopo cena.107
Voglio sapere nei particolari
come son morti. Pensa, nel frattempo,
al modo come posso compensarti,
e conta di ottenere quel che chiedi.
Va’ ora.
TYRRELL —
Prendo umilmente congedo.
161
(Esce)
RICCARDO — Il maschio di Clarenza l’ho rinchiuso
sotto stretta custodia; la sua femmina
l’ho sposata a un oscuro gentiluomo;
i due figli di Edoardo ora riposano
nel gran grembo d’Abramo; Anna, mia moglie,
ha detto buona notte a questo mondo.
Adesso, poiché sono a conoscenza
che il bretone Richmònd ha messo l’occhio
su Elisabetta, la giovane figlia
di mio fratello Edoardo,108 e con quel nodo
mira spavaldamente alla corona,
vado da lei fare la mia parte
di prosperoso ed allegro aspirante.
Entra RATCLIFF, di corsa
RATCLIFF — Mio signore…
RICCARDO —
Che irrompi a questo modo?
Buone o male notizie?
RATCLIFF — Male, signore: Morton è fuggito
a raggiungere Richmond, e Buckingham,
spalleggiato dai validi gallesi,
è in campo, e va ingrossando le sue forze.
RICCARDO — Ely con Richmond m’intriga di più
che Buckingham con tutte le sue forze
racimolate in tutta fretta e furia.
Non ci perdiamo in chiacchiere:
ho imparato che il trepido commento
è servo inerte al torpido indugiare;
e l’indugiare porta all’impotenza
ed a muoversi a passo di lumaca.
162
Sia dunque la bruciante speditezza
ala al mio volo, Mercurio di Giove,
e araldo per un re.
Vammi d’urgenza ad arruolare uomini.
Il mio scudo di guerra è questo avviso:
essere più fulminei possibile,
quando in campo ci sono traditori.
(Escono)
163
SCENA IV
Londra, davanti al palazzo reale.
Entra la vecchia REGINA MARGHERITA
MARGHERITA — Ecco che adesso la loro fortuna
comincia a rinfrollirsi ed a disfarsi
nelle putride fauci della morte.
Son rimasta nascosta
accortamente entro questi paraggi,
per assistere al dissolvimento
di quelli che son stati i miei nemici.
Ho assistito ad un prologo feroce.
Ora tornerò in Francia,
sperando che lo svolgersi del dramma,
non sia meno crudele, fosco e tragico.
Entrano la DUCHESSA DI YORK
e la REGINA ELISABETTA
Chi viene?… Sventurata Margherita,
ritirati di nuovo!
(Si fa da parte)
ELISABETTA — Ah, miei poveri principi!
Mie tenere creature!
Miei fiorellini non ancor sbocciati!
Mie dolcezze in germoglio!
Se ancora le vostre anime gentili
aleggiano nell’aria, non fissate
dal giudizio di Dio in lor dimora,
fluttuate con le vostre ali d’aria
intorno a me, ascoltate il lamento
164
di questa vostra disperata madre!
MARGHERITA — (A parte)
Sì, aleggiatele intorno,
per dirle che, giustizia per giustizia,
giustizia è anche quella
che ha offuscato in decrepita notte
il bel mattino della vostra infanzia.
DUCHESSA — Tante sventure m’han rotto e infiochito
la voce; e la mia lingua,
esausta dal dolore, è inerte e muta….
Edoardo Plantageneto, ahimè,
perché sei morto? Perché t’hanno ucciso?
MARGHERITA — (c.s.)
Plantageneto per Plantageneto:
Edoardo paga un debito di morte
per un altro Edoardo.
DUCHESSA — Come hai potuto, Dio Onnipotente,
involarti da sì teneri agnelli,
per sbalestrarli nel ventre del lupo?
Dormivi forse, tu,
quando si consumava quello scempio?
MARGHERITA — (c.s.)
Come quando morì il mio santo Enrico
ed il mio dolce figlio.109
DUCHESSA — Vita morta ch’io sono, vista cieca,
povero spettro mortale vivente,
spettacolo di lutto, onta del mondo,
diritto della tomba
dalla vita usurpato, breve sunto
e testimonio di giorni dolenti,
(Si siede per terra)110
165
ch’io racqueti la mia inquietudine
sul leal suolo inglese, slealmente
ubriacato con sangue innocente.
ELISABETTA — Ah, potessi tu, terra,
apprestarmi qui subito una tomba,
come m’appresti un seggio di tristezza!
Potessi là nasconder le mie ossa,
senza doverle riposare qui!
(Si siede anch’essa per terra)
Chi ha cagione di lutto più di me!
MARGHERITA — (Uscendo e facendosi avanti)
Se più antico dolore
è più degno di venerazione,
riconoscete al mio il beneficio
della priorità, e alle mie pene
il primo posto nell’indignazione.
E se il dolore ammette compagnia,
rifate il conto delle vostre pene
e poi paragonatele alle mie:
io avevo un Edoardo
fino a quando un Riccardo non l’ha ucciso;
io avevo un marito,
fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;
(A Elisabetta)
tu avevi un Edoardo,
fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;
tu avevi un Riccardo
fino a quando Riccardo non l’ha ucciso.
DUCHESSA — Avevo anch’io un Riccardo;
e tu me l’hai ucciso; avevo un Rutland,
anche, e tu hai concorso a farlo uccidere.
166
MARGHERITA — Tu avevi un Clarenza,
e Riccardo l’ha ucciso.
Tu, dal canile della tua matrice,
hai partorito un segugio infernale
che dà caccia mortale a tutti noi.
Tu, quel cane che prima d’aver occhi
ebbe denti per azzannare a morte
teneri agnelli e berne il dolce sangue;
quel turpe insulto all’opera di Dio;
quel supremo tiranno della terra
che regna in mezzo ad occhi tumefatti
d’anime in pianto, tu l’hai sguinzagliato
dal tuo grembo perché ci desse caccia
fino alla tomba tutti. Dio Signore,
retto, giusto ed esatto dispensiere,
oh, come ti ringrazia Margherita
che codesto carnivoro cagnaccio
si sia dato a sbranare anche la prole
partorita dal ventre di sua madre
e faccia sì che s’accompagni a noi
sopra uno stesso banco di lamenti!
DUCHESSA — Non esultare delle mie sventure,
moglie d’Enrico; Dio m’è testimone
di quanto ho lagrimato per le tue.
MARGHERITA — Compatiscimi, ho fame di vendetta,
ed ora me ne sazio a contemplarla
messa in atto. Il tuo Edoardo è morto,
che uccise il mio Edoardo; l’altro Edoardo,
morto per ripagare il mio Edoardo;
il giovinetto York è solo un peso
aggiunto alla bilancia
a compensare il più alto valore
167
da me perduto. Il tuo Clarenza è morto,
che uccise il mio Edoardo, pugnalandolo;
e tutti che di quel folle spettacolo
furono spettatori: Vaughan, Grey,
Rivers e quell’adultero di Hastings,111
tutti precocemente soffocati
nelle lor tombe. Ancor vivo è Riccardo,
tenebroso sensale dell’inferno,
risparmiato per fare incetta d’anime
e spedirle laggiù; ma la sua fine
seguirà molto presto, lacrimosa
e illacrimata. Si squarci la terra,
vada a fuoco l’inferno, urlino i diavoli,
preghino i santi affinché quel demonio
sia trascinato via di qui al più presto!
Annulla, Dio, ti prego, quanto prima
il buono di sua vita,112
perch’io possa esclamare, ancora viva,
“È morto quel cagnaccio!”
ELISABETTA — Ohimè, tu ben me lo preconizzasti
che sarebbe venuto per me il giorno
in cui t’avrei chiamata a unirti a me
nel maledire insieme questo ragno,
questo immondo cagnaccio tumefatto,
questo gibboso, ributtante rospo!
MARGHERITA — Io ti chiamai allora vuota immagine
della grandezza mia; misera ombra,
io ti chiamai, regina dipinta,
brutta copia di quel ch’io ero stata;
prologo lusinghiero
d’uno spettacolo terrificante;
issata in alto per cader più in basso;
168
madre da burla di due bei bambini;
rutilante vessillo, destinato
a bersaglio d’ogni esiziale colpo;
simulacro regale, fiato, bolla;
regina da burletta, destinata
solo a riempitivo della scena.
Dov’è più tuo marito?
Dove i fratelli tuoi, i tuoi due figli?
Che ti rimane più di cui gioire?
Chi più s’inchina supplice ai tuoi piedi
esclamando: “Dio salvi la regina”?
Dove son più gli inchini adulatori
dei Pari; dove son le moltitudini
che s’accalcavano a farti seguito?
Ripensa a tutto questo
e poi rifletti a quel che sei ridotta:
da una moglie felice
a una vedova affranta dal dolore;
da una madre beata d’esser madre
ad una che ne maledice il nome;
da una adusa a ricevere suppliche
ad una che ora supplica umilmente;
da regina ad autentico relitto,
coronato di triboli e d’affanni;
da una che di me si fece scherno
ad una ch’è schernita ora da me;
da una ch’era temuta da tutti
ed ora vive temendo uno solo;
da una adusa a comandare a tutti,
ad una da nessuno più obbedita.
Così ha virato il corso la Giustizia
e t’ha ridotto a una misera spoglia
preda del tempo, senza più con te
169
che il ricordo di quello che sei stata,
per tuo maggior tormento,
ora che sei ridotta a quel che sei.
Usurpasti il mio posto,
ed è giusto che usurpi ora una parte
della mia afflizione;
ed è giusto che il tuo collo orgoglioso
ora sopporti per metà con me
il mio pesante giogo, mentre io
ne ritiro da sotto il capo stanco
per lasciarne sul tuo l’intero peso.
Addio, moglie di York,
e regina di triste malasorte!
Sorriderò, una volta giunta in Francia,
a ripensare alle sventure inglesi.
ELISABETTA — Ah, tu, maestra di maledizioni,
rimani un poco e dimmi come fare,
ti prego, a maledire i miei nemici.
MARGHERITA — Imponiti di rinunciare al sonno
la notte, e al cibo il giorno;
confronta la felicità tua morta
col tuo dolore vivo;
pensa ai tuoi bimbi come a due creature
più tenere di quello che son state,
e a chi li uccise come a un assassino
più nefando di quanto egli già sia:
col pensare migliore la tua perdita,
tanto peggiore penserai l’ autore.
Tutto questo rimuginando in mente,
avrai imparato come maledire.
ELISABETTA — Ma le parole mie son molli e fievoli;
rendimele più forti con le tue.
170
MARGHERITA — Saranno sufficienti le tue pene
a renderle taglienti e penetranti.
(Esce)
DUCHESSA — Perché poi la sventura
dev’esser così piena di parole?
ELISABETTA — Avvocati ventosi degli affanni
dei lor clienti, ariosi legatari
di gioie non iscritte in testamenti,
ansimanti oratori di miserie,
le parole: lasciatele sfogare;
anche se ciò che vanno perorando
non serve ad altro, può servire almeno
ad alleviare il cuore.
DUCHESSA —
Se è così,
non tener dunque la lingua legata;
vieni con me, e insieme soffochiamo
col soffio di amarissime parole
quello stramaledetto figlio mio
che ha soffocato i dolci tuoi bambini.
(Tromba all’interno)
È lui. Non lesinargli le invettive.
Entrano RE RICCARDO, CATESBY, altri,
marciando, con vessilli e tamburi. Le due
donne gli si fanno incontro.
RICCARDO — Chi intercetta la strada alla mia marcia?
DUCHESSA — Chi, sciagurato? Oh, guardami: colei
che avrebbe ben potuto intercettarti,
strozzandoti nel suo dannato grembo,
dal consumare tutti gli assassinii
171
di cui ti sei macchiato!
ELISABETTA — Credi tu forse di poter nascondere
con la corona d’oro quella fronte
su cui, se la giustizia fosse giusta,
dovrebb’essere impresso l’assassinio
di chi quella corona possedeva
da sovrano, e la morte scellerata
dei miei figli e fratelli?
DUCHESSA —
Rospo Rospo!
Dov’è Giorgio Clarenza, tuo fratello?
Dove sono i suoi figli? Su, rispondi!
ELISABETTA — E dove sono Rivers, Vaughan, Grey?
DUCHESSA — Ed il nobile Hastings!… Dov’è Hastings?
RICCARDO — Squillate, trombe! Rullate tamburi,
sì che i cieli non abbiano ad udire
queste ciarliere femmine
urlare insulti all’Unto del Signore!
Suonate, ho detto. Avanti, che aspettate?
(Squilli di tromba e rullìo di tamburi)
Ora voi state calme,
e mi trattate come si conviene,
o annegherò le vostre imprecazioni
sotto più sordi clamori di guerra.
DUCHESSA — Sei tu mio figlio?
RICCARDO —
Che domanda, madre!
E ne ringrazio Dio, mio padre e voi.
DUCHESSA — Allora devi ascoltar con pazienza
ciò che ti dice qui la mia impazienza.
172
RICCARDO — Signora, ho tratto da voi questo vizio:
che non sopporto accento di rimprovero.
DUCHESSA — Oh, lasciami parlare.
RICCARDO — Parlate pure, ma io non vi ascolto.
DUCHESSA — Dirò parole miti e misurate.
RICCARDO — E brevi, buona madre, perché ho fretta.
DUCHESSA — Hai proprio tanta fretta?…
Io t’ho aspettato Dio sa quanto tempo,
in tormento ed angoscia.
RICCARDO —
Ed alla fine,
non son venuto a recarvi conforto?
DUCHESSA — No, per la Croce Santa, e lo sai bene!
Tu sei venuto al mondo
per far di questo mondo il mio inferno.
Grave e dura per me fu la tua nascita;
iraconda e proterva la tua infanzia;
terribili, selvaggi, furibondi
i tuoi anni di scuola; scapestrata
la prima giovinezza: insidiosa,
scaltrita, sanguinaria, burbanzesca;
più tranquilla, ma solo in apparenza,
perché ammantata d’odio sorridente
e perciò stesso ancora più nefasta,
la tua età matura.
Puoi menzionare un’ora di sollievo
che m’abbia dato la tua compagnia?
RICCARDO — Nessuna, no, salvo quell’ora d’Humphrey,
che vi chiamò a rompere il digiuno
senza la mia presenza.113
173
Ma se son così in odio agli occhi vostri,
fatemi proseguire la mia marcia
senza attardarmi qui ad irritarvi.
Tamburi!
DUCHESSA —
Aspetta, no, fammi finire!
RICCARDO — Parlate troppo amaro.
DUCHESSA —
Una parola…
l’ultima. Non ce ne diremo più.
RICCARDO — E sia, parlate.
DUCHESSA —
O sarai tu a morire
per giusto e santo decreto di Dio
prima di ritornare vittorioso
da questa spedizione; o sarò io,
carica d’anni e di tribolazioni,
a non poter veder più la tua faccia.
Voglio perciò che tu ti porti dietro
la più pesante mia maledizione,
sì ch’essa possa il dì della battaglia
gravarti addosso più dell’armatura.
Le mie preghiere scenderanno in campo
a combattere a fianco ai tuoi nemici,
e l’anime dei piccoli d’Edoardo
aliteranno là, a sussurrare
promesse di successo e di vittoria
ai tuoi nemici. Sanguinario sei,
e sanguinosa sarà la tua fine.
L’infamia che ti fu ministra in vita
ti sarà pur compagna nella morte.
(Esce)
174
ELISABETTA — Ed io, per ben più valide ragioni,
se pur con meno forza e veemenza,
dico “Amen” alla sua maledizione.
(Fa per andarsene, ma Riccardo la ferma)
RICCARDO — Fermatevi, signora,
debbo parlarvi.
ELISABETTA —
Parlarmi di che?
Non ho più figli di sangue reale
che tu possa scannare; e le mie figlie,
Riccardo, si faran monache oranti,
non regine piangenti;
non mirare perciò alle lor vite.114
RICCARDO — Voi avete una figlia, Elisabetta,
virtuosa e bella, regale e graziosa.
ELISABETTA — E deve ella morir per questo? Ah no,
lasciatemela vivere, Riccardo;
ed io corromperò i suoi costumi,
imbratterò la sua verde bellezza,
getterò su me stessa la calunnia
d’aver tradito il letto di Edoardo,
la coprirò col velo dell’infamia;
e dirò in giro, purché possa vivere
in salvo dal cruento tuo pugnale,
che essa non è figlia di Edoardo.
RICCARDO — Non fare tale offesa ai suoi natali:
è principessa di sangue reale.
ELISABETTA — Ed io dirò, per salvarle la vita,
che non lo è.
175
RICCARDO —
Ma sono i suoi natali
la miglior garanzia della sua vita.
ELISABETTA — Sì, quella stessa per cui sono morti
i suoi fratelli.
RICCARDO —
Quelli ebbero avverse
alla lor nascita infauste stelle.
ELISABETTA — No, ebbero avverse alle lor vite
infami parentele.
RICCARDO — Il volere del fato è ineluttabile.
ELISABETTA — Sì, quando a fare il volere del fato
è il ripudio della divina grazia.
A ben più degna morte
erano destinati i miei bambini,
se la Grazia t’avesse benedetto
con l’elargire a te più degna vita.
RICCARDO — Parli come se fossi stato io
a uccidere i nipoti.
Sì, nipoti!115
ELISABETTA —
E dallo zio di tutto rapinati:
regno, famiglia, libertà e vita.
Di chiunque sia stata quella mano
che ha trafitto quei cuori di fanciulli,
fu la tua mente a guidarla in segreto;
ché senza dubbio il pugnale omicida
si fece prima la punta ed il filo
sopra la pietra dura del tuo cuore
per essere affondato nelle viscere
dei miei due agnellini.116
Se la continua morsa del dolore
176
non ne ammansisse il selvaggio furore,
questa mia lingua non saprebbe fare
ora al tuo orecchio il nome dei miei figli
senza ch’io ancorassi le mie unghie
al cavo dei tuoi occhi,
e, simile ad un barco alla deriva
rimasto senza vele né cordame
in questa squallida baia di morte,
andassi a fracassarmi disperata
incontro alla scogliera del tuo petto.
RICCARDO — Signora, possa io aver successo
in quest’impresa e nel rischioso esito
di questa sanguinosa spedizione,
com’è vero ch’è mia buona intenzione
ora di far del bene a voi e ai vostri
più del male che v’ho fatto in passato.
ELISABETTA — Quale bene può esistere,
coperto sotto la faccia del cielo,
che, una volta scoperto,
si possa rivelare per me un bene?
RICCARDO — L’elevazione della vostra prole,
nobile dama.
ELISABETTA —
Sì, sopra un patibolo,
per perdervi la testa!
RICCARDO —
No, all’altezza
di dignità regale e di fortuna,
ai fastigi imperiali della gloria
su questa terra.
ELISABETTA —
Con questo tuo dire
177
tu vuoi sol lusingare il mio dolore.
Ma quale stato, quale dignità,
quale onore, puoi trasferire tu
ad uno dei miei figli?
RICCARDO — Tutto ciò che posseggo… sì, me stesso
e tutto io mi sento di donare
ad uno dei tuoi figli
sì che tu possa in tal modo annegare
nel Lete del tuo animo adirato117
la triste rimembranza delle offese
che supponi che io t’abbia arrecato.
ELISABETTA — Di’ presto, allora, avanti;
che codesto tuo sprazzo di bontà
non abbia a durar meno
dell’attimo che impieghi a dargli voce.
RICCARDO — Ebbene sappi ch’io amo tua figlia
con tutta l’anima.
ELISABETTA —
E con tutta l’anima
la madre di mia figlia è pronta a crederlo.
RICCARDO — Che vuoi dire?
ELISABETTA —
Che tu ami mia figlia
con tutta l’anima, come hai amato
con tutta l’anima i suoi fratelli,
ed io con tutta l’anima
ti ringrazio.
RICCARDO —
Non affrettarti troppo
a prender per traverso le parole;
intendo dire questo:
amo con tutta l’anima tua figlia
178
Elisabetta, e intendo far di lei
la regina del regno d’Inghilterra.
ELISABETTA — Bene, e chi intendi che sarà il suo re?
RICCARDO — Lo stesso che l’avrà fatta regina.
Chi altri dovrebbe essere?
ELISABETTA —
Che! Tu?
RICCARDO — Precisamente. Perché, che ne pensi?
ELISABETTA — E in che modo vorresti corteggiarla?
RICCARDO — È quello che vorrei saper da te
come da quella che meglio di tutti
conosce il suo carattere.
ELISABETTA —
Da me?…
RICCARDO — Da te, signora, sì, con tutto il cuore.
ELISABETTA — Mandale allora, per lo stesso uomo
che le ha trucidato i due fratelli
una coppia di cuori insanguinati
con sopra incisi i nomi “Edoardo” e “York”.
E poiché forse lei scoppierà in lagrime,
mandale un fazzoletto – come quello
che mandò a suo padre Margherita
tutto intriso del sangue del suo Rutland –
e dille che è lo stesso fazzoletto
che è servito per asciugare il sangue
sul capo del suo dolce fratellino,
e invitala a servirsene anche lei
per tergersi le lacrime dal viso.
Se tutti questi stimoli amorosi
non riusciranno a farla innamorare,
falle avere un bel resoconto scritto
179
di tutte le tue meritorie gesta:
narrale, per esempio, come hai fatto
a sbarazzarti di suo zio Clarenza,
di suo zio Rivers… sì, e a liquidare
per amor suo la cara zia Anna.
RICCARDO — Ti fai gioco di me, signora; questa
non è la via per conquistar tua figlia.
ELISABETTA — Un’altra non ce n’è; salvo che tu
non possa reincarnarti in altra forma,
sì da non essere più quel Riccardo
autore di quel cumulo di crimini.
RICCARDO — Diciamo che l’ho fatto, tutto questo,
per amore di lei.
ELISABETTA —
Peggio che mai!
Ché allora non potrebbe altro che odiarti
per aver tu sprecato tanto sangue
per comprarti il suo cuore.
RICCARDO —
Insomma, senti:
quello che è fatto è fatto, e capo ha.
Talvolta gli uomini maldestramente
compiono cose delle quali, in seguito,
hanno agio di pentirsi e ravvedersi.
Se ho sottratto il regno ai tuoi figlioli,
lo renderò, come ammenda, a tua figlia;
se ho depredato i frutti del tuo grembo,
genererò in compenso, da tua figlia,
per dare vita alla tua discendenza,
creature del tuo sangue.
Nonna è nome, per peso d’affezione,
non inferiore al titolo adorante
180
di madre; e saran come figli tuoi,
solo un grado più giù, ma stesso sangue,
stessa tempra del vostro,
tutti usciti da un unico travaglio,
eccettuata la notte di doglie
ch’ella dovrà soffrire a partorirli,
e che tu stessa soffristi per lei.
Se i figli tuoi sono stati il tormento
della tua giovinezza, quelli miei
saranno il gaudio della tua vecchiaia.
Se la tua perdita non è che un figlio
votato ad esser re, per quella perdita
una tua figlia si farà regina.
Non posso offrirti la riparazione
che pure avrei voluto; accetta dunque
i benefici che può offrirti questa.
Tuo figlio Dorset che, col cuore in pena,
calca con passo inquieto estranio suolo,
potrà, per questa fausta nostra unione,
tornare in patria ed anche ricoprirvi
cariche alte e di grande prestigio.
Il re che chiama col nome di moglie
la tua leggiadra figlia,
chiamerà con il nome di fratello
il tuo Dorsét; e tu sarai pur sempre
la madre d’un sovrano d’Inghilterra,
e ti saranno tutte restaurate,
da questa doppia ondata di letizia,
le rovine dei giorni procellosi.
Oh, ci sorridono giorni felici.
Le lacrime versate
ti torneran mutate in vive perle,
e il loro prestito ti frutterà
181
un interesse di felicità
dieci volte maggiore al loro pregio.
Va’, dunque, madre mia, va’ da tua figlia,
e fa’ più ardite con la tua esperienza
le ritrosie della sua scarsa età;
preparale il verginale orecchio
ad ascoltar parole innamorate,
accendi nel suo cuore di fanciulla
l’ambiziosa scintilla
della dorata maestà regale;
rendi la principessa consapevole
della dolcezza delle silenziose
ore di gioia tra marito e moglie.
E quando questo braccio
avrà dato il castigo che si merita
al piccolo ribelle testadura
Buckingham, tornerò;
e cinto di ghirlande trionfali
io guiderò tua figlia Elisabetta
al talamo di un conquistatore,
le farò dono delle mie conquiste,
e sarà lei la sola vincitrice
di questa guerra, il Cesare di Cesare.
ELISABETTA — Come pensi sia meglio presentargliela?
Col dirle che il fratello di suo padre
aspira a diventare suo marito?
O dovrò dir suo zio?
Oppure l’uomo che le ha trucidato
i fratelli e gli zii? Sotto qual titolo
dovrò parlarle d’amore per te,
per fare in modo che Dio, e la legge,
e la mia dignità, ed il suo amore
ti facciano apparire bene accetto
182
ai suoi giovani anni?
RICCARDO — Dille la pace che con questa unione
potrà godere la bella Inghilterra.
ELISABETTA — Una pace che ella pagherà
al prezzo di una guerra permanente.
RICCARDO — Dille che il re, che può ordinare, supplica.
ELISABETTA — Per ottener da lei
cosa che a lei proibisce il Re dei re.
RICCARDO — Dille ch’ella sarà una regina
alta e potente.
ELISABETTA —
Per versare lacrime,
come sua madre, sopra questo titolo.
RICCARDO — Dille che l’amo d’un amore eterno.
ELISABETTA — Ma quanto durerà quel tuo “eterno”?
RICCARDO — Dolcemente costante
sino al fine della sua bella vita.
ELISABETTA — Ma quanto a lungo “bella”
potrà durare la sua dolce vita?
RICCARDO — Quanto a lungo vorran farla durare
il volere del cielo e la natura.
ELISABETTA — Quanto a lungo sarà di gradimento
all’inferno e a Riccardo.
RICCARDO — Dille ch’io, suo sovrano,
son suo umile suddito.
ELISABETTA —
Ma lei,
tua suddita, di tal sovranità
ha repugnanza.
183
RICCARDO —
Dille insomma
con le parole più belle e eloquenti
l’amore mio per lei.
ELISABETTA —
L’amore onesto
non ha bisogno di belle parole
per dichiararsi più efficacemente.
RICCARDO — Diglielo allora con parole semplici.
ELISABETTA — Semplice e disonesto
non s’accordano a fare un bel discorso.
RICCARDO — Son troppo pronte e troppo terra-terra
le tue ragioni.
ELISABETTA —
Ahimè, le mie “ragioni”
sono fin troppo sprofondate in terra,
e morte, povere le mie creature!118
RICCARDO — Non arpeggiare sulla stessa corda,
signora, queste son cose passate.
ELISABETTA — Seguiterò a toccar la stessa corda,
fino a farmi spezzar quella del cuore.
RICCARDO — Ma io ti giuro sopra il mio San Giorgio,
sulla mia Giarrettiera,119
la mia corona…
ELISABETTA —
Bestemmiato il primo,
macchiata di disdoro la seconda,
usurpata la terza…
RICCARDO —
… giuro…
ELISABETTA —
No!
Giurare tu non puoi su questi tre!
184
Il tuo San Giorgio, da te profanato,
ha perduto la sua sacralità;
la Giarrettiera, insozzata, ha impegnato
tutta la sua virtù cavalleresca;
la corona, usurpata,
ha infamato il regale suo fulgore.
Se per esser creduto vuoi giurare
su qualche cosa, giura su qualcosa
che tu non hai offeso.
RICCARDO — Sul mondo, allora…
ELISABETTA —
Il mondo
è pieno degli infami tuoi delitti.
RICCARDO — Allora sulla morte di mio padre.
ELISABETTA — Con la tua vita l’hai disonorata.
RICCARDO — Allora, su me stesso…
ELISABETTA —
Quel te stesso
s’è svilito finora da se stesso.
RICCARDO — Bene, allora su Dio!
ELISABETTA —
Ohibò! A Lui
tu hai recato le offese più gravi.
Se tu avessi temuto di violare
un giuramento fatto nel Suo nome,
non avresti spezzato, come hai fatto,
la concordia raggiunta in questo regno
dai buoni uffici del re mio marito,
né sarebbero morti i miei fratelli.
Se tu avessi temuto
di venir meno a un voto fatto a Lui,
quell’imperial metallo
185
onde si cinge adesso la tua testa,
avrebbe ornato le tenere tempie
di mio figlio e sarebbero ancor vivi
e respiranti i due piccoli principi
– ahi troppo dolci compagni di letto
per giacersi abbracciati nella polvere! –
che il giuramento a Dio da te spezzato
ha dato in pasto ai vermi.
Allora, su che cosa puoi giurare?
RICCARDO — Sull’avvenire.
ELISABETTA —
L’hai discreditato
col tuo passato, per il quale io stessa
dovrò tergermi ancora molte lacrime.
I figli ai quali hai trucidato i padri,
giovani e privi ormai di quel sostegno,
vivono sol per piangerli in vecchiaia;
i padri ai quali hai trucidato i figli,
vivono, sterili piante invecchiate,
sol per piangerli nella lor vecchiaia.
Non giurare sul tempo che verrà:
l’hai male usato già prima d’usarlo
per il mal uso fatto del trascorso.
RICCARDO — Potessi avere in pugno la vittoria
contro l’armi nemiche,
nell’impresa rischiosa cui m’appresto,
com’è vero che ho l’animo disposto
a prosperar nel mio ravvedimento!
Mi maledico da me. Dio, fortuna,
interditemi ogni futura gioia!
Giorno, più non largirmi la tua luce,
né il tuo riposo, notte! E voi, pianeti
186
che presiedete alla buona fortuna,
siate avversi ai miei piani in quest’impresa,
se non è vero che con cuore pieno
di pura e immacolata devozione
io adoro tua figlia Elisabetta!
In lei siede la mia felicità
non meno che la tua: senza di lei,
per me, per te, per lei, per il paese
e per molte altre anime cristiane
sarà tristezza, consunzione, morte.
E tutto ciò non si potrà evitare
se non con questo. Perciò, cara madre
– così debbo chiamarti – sii con lei
una buona avvocata in mio favore,
e descrivimi a lei come sarò,
non come sono stato fino ad oggi;
non parlare dei meriti passati
ma dei futuri miei; insisti, insomma,
sulla necessità di queste nozze
e sulla situazione del momento,
non farti prender dal risentimento
davanti a sì fulgenti prospettive.
ELISABETTA — Mi lascerò tentare dal demonio
fino a tal punto?
RICCARDO —
Sì, se quel demonio
ti tenta a fin di bene.
ELISABETTA — Dovrò dimenticar dunque me stessa?
RICCARDO — Sì, se il ricordo te ne porta danno.
ELISABETTA — Hai ucciso i miei figli.
RICCARDO —
Ma sepolti
187
io li farò nel grembo di tua figlia,
e in quel nido di aromi profumato
a tuo grande conforto,
essi potran riprodurre se stessi.
ELISABETTA — Dovrò io dunque andare da mia figlia
e persuaderla alla tua volontà?
RICCARDO — A diventare una madre felice.
ELISABETTA — Ci andrò. Scrivimi presto,
e ti farò sapere il suo pensiero.
RICCARDO — Portale intanto, a pegno del mio amore,
questo bacio.
(La bacia)
Va’ dunque. Arrivederci.
(Esce Elisabetta)
S’è arresa. Femmina vuota e volubile!…
Entra RATCLIFF
Che notizie?
RATCLIFF —
Sovrano potentissimo,
al largo della costa, ad occidente,
ha messo l’ancora una grossa flotta.
Sulla spiaggia s’accalca una gran folla
di nostri, disarmati, malsicuri,
e, a quanto sembra, non molto decisi
a battersi e respingere il nemico.
Si pensa che sia Richmond l’ammiraglio
di quella flotta; e sono lì alla fonda
in attesa che arrivino da terra,
da Buckingham, gli aiuti per sbarcare.
188
RICCARDO — Corra alcuno di voi, di buona gamba,
dal Duca di Norfolk… tu stesso, Ratcliff…
o Catesby… dov’è?
CATESBY —
Qui, monsignore.
RICCARDO — Catesby, vola tu dal Duca.
CATESBY —
Subito,
più celere che posso, monsignore.
RICCARDO — Vieni qui, Ratcliff, senti: corri a Salisbury.
Quando sei lì…
(A Catesby)
E tu che fai, che aspetti,
furfante pappamolla? Va’ dal Duca!
CATESBY — Se non mi dite quel che devo dirgli,
vostra grazia…
RICCARDO —
Oh, è vero, caro Catesby!
Digli che arruoli a tamburo battente
il più grande e robusto nerbo d’uomini
che riesce a raccogliere, e poi subito
mi venga incontro a Salisbury.
CATESBY —
Vado.
(Esce)
RATCLIFF — Che devo fare a Salisbury io,
vostra grazia?
RICCARDO —
Perché, che ci vuoi fare,
prima che arrivi là io?
RATCLIFF —
Non lo so.
189
Vostra altezza m’ha detto poco fa
di precederla là.
RICCARDO —
Ho cambiato idea.
Entra STANLEY
Stanley, quali notizie?
STANLEY — Nessuna tanto buona, mio signore,
che possiate ascoltare con piacere;
nessuna, tuttavia, tanto cattiva
da non potersi proprio riferire.
RICCARDO — Ehilà, un indovinello!…
Né buone, né cattive… C’è bisogno
però che tu ci giri tanto intorno,
quando puoi dire in modo più diretto
quello che devi? Insomma, che notizie?
STANLEY — Richmond è sul mare.
RICCARDO —
Che ci affondi,
e il mare si richiuda su di lui!
Che ci fa là, quel vile rinnegato?
STANLEY — Non so, ma posso ben indovinarlo,
mio possente sovrano.
RICCARDO —
E che indovini?
STANLEY — Istigato da Dorset, Morton, Buckingham,
egli dirige sopra l’Inghilterra
per reclamarvi il trono.
RICCARDO —
E perché mai?
È forse vuoto il trono?
La spada non ha mano che l’impugni?
Il re è morto? L’impero è vacante?
190
Quale erede di York è ancora vivo,
all’infuori di me?
E chi ha diritto al trono d’Inghilterra
se non l’erede dell’augusto York?
E allora, che ci fa costui sul mare,
me lo sai dire?
STANLEY —
Non so dirvi altro,
mio signore, che quello che v’ho detto.
RICCARDO — Sicché tu, all’infuori di pensare
ch’egli venga per essere tuo re,
non sai indovinare altro motivo
perché venga il Gallese.
Ho paura che tu stai meditando
di voltare gabbana,
e volare da lui.
STANLEY —
No, mio sovrano;
non pensate così male di me.
RICCARDO — Allora dove sono le tue truppe
per ricacciarlo indietro? Dove sono
i tuoi fittavoli e i tuoi seguaci?
Non saranno per caso sulla spiaggia
a ponente a proteggere lo sbarco
di quei ribelli?
STANLEY —
No, mio buon signore,
i miei uomini sono tutti al nord.
RICCARDO — Tiepidi amici! Che ci fanno al nord,
se il re ha bisogno di loro a ponente?
STANLEY — Non ne hanno ricevuto nessun ordine,
mio possente sovrano.
191
Piaccia a vostra maestà di congedarmi,
ed io andrò a raccogliere i miei uomini,
e vi raggiungerò con essi, vostra grazia,
dove e quando vorrà vostra maestà.
RICCARDO — Eh, già, tu ti vorresti allontanare
per unirti con Richmond. Non mi fido.
STANLEY — Sovrano potentissimo,
non ci può essere alcun motivo
che voi siate portato a dubitare
della mia amicizia. Traditore
non sono stato mai, né mai sarò.
RICCARDO — E allora va’, e raduna i tuoi uomini;
ma lascia qui con me tuo figlio Giorgio.
E bada a tener salda la tua fede,
o si farà precaria la saldezza
della sua testa.
STANLEY —
Vogliate trattarlo
così com’io saprò provare a voi
tutta la mia lealtà.
(Esce)
Entra un PRIMO MESSO
I° MESSO — Mio grazioso sovrano, nel Devonshire,
come m’hanno informato degli amici,
Sir Edward Courtney con suo fratello,
il tracotante vescovo di Exeter,
sono in armi, e con loro un grande numero
di lor confederati.
Entra un SECONDO MESSO
II° MESSO —
Mio sovrano,
192
nel Kent i Guilford sono ora in armi,
e d’ora in ora convengono a gara
molti e molti altri a fianco dei ribelli,
ingrossando vieppiù le loro file.
Entra un TERZO MESSO
III° MESSO — Sire, l’esercito del grande Buckingham…
RICCARDO — Al diavolo, uccellacci di sventura!
che! venite a cantar solo di morte?
(Lo percuote)
Toh, prendi questo tu,
finché non porti migliori notizie!
III° MESSO — Ma la notizia per cui son venuto
da vostra maestà, sire, era questa:
che improvvisi diluvi e inondazioni
hanno tutto disperso e sparpagliato
l’esercito di Buckingham,
e che lui se ne va solo e ramingo,
dove diretto, nessuno lo sa.
RICCARDO — Scusami, allora. Prendi questa borsa,
per sollevarti dalle mie percosse.
E dimmi: qualche amico preveggente
ha proclamato una buona mercede
a chi catturerà quel traditore?
III° MESSO — La promessa, signore, fu bandita
per pubblico proclama.
Entra un QUARTO MESSO
IV° MESSO — Corre voce, maestà,
che il marchese di Dorset e lord Lovell
siano in armi nella contea di York;
ma reco a vostra altezza questo annuncio
193
che la conforterà: la flotta bretone
dispersa in mare dalla gran tempesta;
Richmond, al largo della costa Dorset,
ha fatto andare a terra una scialuppa
a chiedere alla gente ch’era a riva
se fossero dalla sua parte o no;
e quelli gli han risposto ch’eran là
mandati da lord Buckingham
appunto per proteggere il suo sbarco.
Ma Richmond, non fidandosi di loro,
ha levato le vele e nuovamente
ha fatto rotta verso la Bretagna.
RICCARDO — In marcia, in marcia; giacché siamo in armi,
se non per affrontar nemici esterni,
almeno per schiacciar questi ribelli
di casa nostra. Avanti!
Entra CATESBY
CATESBY — Mio sovrano, lord Buckingham è preso;
questo è quanto di meglio posso dirvi.
Ma il Conte Richmond è sbarcato a Milford
con un potente esercito:
è una notizia meno confortante,
ve la dovevo dare tuttavia.
RICCARDO — Avanti, avanti, in marcia sopra Salisbury!
Mentre qui discutiamo, una battaglia
che vale un regno potrebb’esser vinta
oppure persa! S’occupi qualcuno
di far tradurre Buckingham a Salisbury
prigione; gli altri in marcia insieme a me!
(Tromba. Escono tutti)
194
SCENA V
Londra, in casa di Lord Stanley.
Entrano STANLEY e don120 Cristoforo URSWICK
STANLEY —
Don Cristoforo, dirai questo a Richmond,
da parte mia: che Giorgio, il mio figliolo,
è tenuto all’ingrasso nel porcile
di quel temibilissimo cinghiale;121
se a lui mi rivoltassi apertamente,122
la testa di mio figlio salterebbe;
che la paura di ciò mi trattiene
dal fargli avere subito il mio aiuto.
Parti, e salutami il tuo signore.
Informalo altresì che la regina
ha consentito molto di buon cuore
ch’egli sposi sua figlia Elisabetta.
Ma, dimmi, dov’è ora acquartierato
il nobilissimo Richmond?
URSWICK —
A Pembroke,
o forse anche ad Hardforest, nel Galles.123
STANLEY — Chi c’è con lui, di nobili?
URSWICK — Sir Walter Herbert, famoso soldato,
Sir Gibert Talbot e sir William Stanley,
Oxford, il temutissimo lord Pembroke,
e poi Sir James Blunt e Rice ap Thomas,124
con tutto un seguito di valorosi
e molti altri di nome e gran valore.
Puntano con gli eserciti su Londra,
salvo che non si trovino impegnati
195
a dar battaglia prima.
STANLEY —
Bene, va’,
affrettati a tornar dal suo signore.
Io gli bacio la mano. Questa lettera
gli chiarirà le mie intenzioni. Addio.
(Escono)
196
ATTO QUINTO
SCENA I
Salisbury, una piazza.
Entra lo SCERIFFO con alabardieri, che scortano
BUCKINGHAM al supplizio
BUCKINGHAM —
Non mi vuole ascoltare re Riccardo?
SCERIFFO — No, signore; dovete rassegnarvi.
BUCKINGHAM —
O William Hastings, o figli d’Edoardo,
o Grey, o Rivers, o santo re Enrico
e il tuo diletto figlio Edoardo, o Vaughan,
e tutti voi che perdeste la vita,
per occulta e nefanda iniquità,
se le vostre anime crucciate e inquiete
vedon di tra le nuvole quest’ora,
fatevi scherno della mia rovina,
non foss’altro che per vostra vendetta!
Oggi è il giorno dei Morti, amico, è vero?
SCERIFFO — Sì.
BUCKINGHAM —
Ecco, allora, ci siamo: il dì dei Morti
è il giorno del Giudizio del mio corpo;
è il giorno ch’io, vivente re Edoardo,
m’augurai che segnasse la mia fine
se mai avessi tradito i suoi figli
ed i parenti della sua regina;
è il giorno ch’io m’augurai di morire
vittima della falsa lealtà
197
dell’amico di cui più mi fidassi.
Questo giorno dei Morti, proprio questo,
è, per la spaurita anima mia,
il termine assegnato ai miei delitti.
Quell’altissimo Iddio che tutto vede,
e col quale ho creduto di scherzare,
ecco che ora ritorce sul mio capo
le mie false ed ipocrite preghiere,
e mi dà seriamente
quello ch’io spesso Gli ho chiesto per burla.
Così Egli alle spade degli infami
ordina di ritorcere la punta
contro il petto di quelli che le impugnano;
così cade pesante sul mio collo
l’amara profezia di Margherita:
“Quand’egli – mi predisse quella volta –
t’avrà spezzato il cuore dal dolore,
tu ti ricorderai di Margherita,
che te l’ha profetato!”… Andiamo, guardie,
conducetemi al ceppo dell’infamia.
Al male tocca il male,
all’ignominia tocca l’ignominia.
(Esce con gli alabardieri)
198
SCENA II
Il campo presso Tamworth125
Entrano RICHMOND, OXFORD, BLOUNT, HERBERT,
e soldati, con tamburi e vessilli
RICHMOND — Commilitoni, amici fedelissimi
oppressi sotto il giogo del tiranno:
fin qui ci siamo spinti molto avanti
nelle viscere stesse del paese,
senza incontrare ostacoli di sorta;
e qui ricevo da mio padre Stanley,126
un messaggio con valida promessa
di sostegno e d’incoraggiamento.
Lo scellerato, sanguinario verro
usurpatore, che ha messo in rovina
i vostri campi opimi di raccolti
e le vigne ubertose, ora trangugia
come brodaglia il vostro sangue caldo
e fa dei vostri petti dilaniati
il suo trogolo. Questo immondo verro
ora si trova al centro di quest’isola,
come m’informano, davanti a Leicester,127
a un giorno appena di marcia da qui.
Miei prodi amici, nel nome di Dio,
avanti, con fiduciosa baldanza,
a raccoglier le messe d’una pace
che duri eterna, attraverso la prova
di questa cruda e sanguinosa guerra.
Di mille spade è fatta la coscienza
di ciascuno di quanti siamo qui
199
contro questo colpevole assassino.
HERBERT — E passeranno a noi, sono sicuro,
tutti che sono adesso suoi alleati.
BLOUNT — Altro alleato non gli resta infatti
se non che chi lo è solo per paura
e che nell’ora estrema del bisogno
gli volterà le spalle.
RICHMOND — Tutto a nostro vantaggio; e allora, in marcia!
Speranza che procede da virtù
rapida vola con ali di rondine;
d’un re fa un dio, e d’un umile un re.
(Escono)
200
SCENA III
Il campo di Boswort
Entrano RE RICCARDO, in armi, il DUCA DI NORFOLK,
il CONTE DI SURREY e altri
RICCARDO — La nostra tenda piantatela qui,
qui, sul campo di Bosworth…
Monsignore di Surrey,
perché avete quell’aria così grave?
SURREY — Ho il cuore cento volte più leggero
della mia aria, sire.
RICCARDO — Dov’è Norfolk?
NORFOLK —
Sono qui, vostra grazia.
RICCARDO — Norfolk, domani ci sarà da dare
gran botte, eh, non è vero?
NORFOLK — Darne, e pigliarne, amato mio signore.
RICCARDO — Che aspettate ad issare la mia tenda?
Questa notte voglio dormire qui…
Domani chissà dove… Ma che importa…
(La tenda è rizzata su un lato della scena)
Chi ha potuto contare
il numero di questi traditori?
NORFOLK — Un sei o settemila, non di più.
RICCARDO — Il nostro esercito è tre volte tanto,
e in più di tanto c’è il nome d’un re,
un bastione che manca a quelli là.
201
Su la tenda!… Venite, gentiluomini,
andiamo a fare una ricognizione,
e studiare i vantaggi del terreno.
Fate venire con voi alcuni esperti
che sappian darci una stima sicura.
Badate a tener l’ordine nel campo
e a non sciupare il tempo, ché domani,
signori, ci sarà un bel daffare.
(Escono)
Entrano, dall’altra parte del campo,
RICHMOND, sir William BRANDON,
OXFORD, DORSET e altri, tra i quali
James BLOUNT; soldati si mettono a
montare la tenda di Richmond.
RICHMOND — Un sole affaticato ci ha mostrato
un dorato tramonto,
e con la scia del suo fulgido carro
tutta luce, promette per domani
una gloriosa giornata. Voi, Brandon,
del mio stendardo sarete l’alfiere.
Portatemi da scrivere,
penna ed inchiostro sotto la mia tenda;
voglio tracciare il piano di battaglia
e la pianta del nostro schieramento,
assegnare ai diversi comandanti
i rispettivi compiti in dettaglio
e ripartir le scarse nostre forze
in giusta proporzione per ciascuno.
Voi, Oxford, William Brandon, Walter Herbert,
mi resterete a fianco; il Conte Pembroke
terrà la testa del suo reggimento…128
Sir James Blount, mio bravo generale,
202
portategli per me la buona notte,
e per le due di domani mattina
ditegli di venire alla mia tenda.
Devo pregarvi ancora d’un favore:
sapete dirmi dove sta accampato
il Conte Stanley con il suo esercito?
BLOUNT — Se ho ben riconosciuto i suoi vessilli
– e son certo di sì – il suo reggimento
è accampato ad un mezzo miglio a sud
del poderoso esercito del re.
RICHMOND — S’è possibile, senza rischiar troppo,
mio caro Blount, trovate voi un mezzo
per parlargli e per dargli da mia parte
questo messaggio: è di somma importanza.
BLOUNT — A costo della vita, mio signore,
lo farò. Dio vi conceda questa notte
un tranquillo riposo.
RICHMOND — Buona notte, buon capitano Blount.129
(Esce Blount)
Signori, ci dobbiamo consultare
per quanto c’è da fare per domani;
nella mia tenda, però, ché qui fuori
l’aria è cruda e pungente.
(Con Richmond si ritirano nella sua tenda
Brandon, Oxford e Herbert. Gli altri si
allontanano)
Entrano RE RICCARDO, RATCLIFF,
NORFOLK e CATESBY
RICCARDO — Catesby, che ora è?
203
CATESBY — Le nove, monsignore: ora di cena.
RICCARDO — Non cenerò stasera.
Portami carta e inchiostro nella tenda.
M’hanno allentato la celata all’elmo?
È pronta nella tenda l’armatura?
CATESBY — Sì, mio sovrano, tutto pronto e in ordine.
RICCARDO — Sarà bene, Norfolk, che tu t’affretti
al tuo posto; fa’ attenta vigilanza;
scegliti sentinelle ben fidate.
NORFOLK — Bene, vado, signore.
RICCARDO — E domattina, nobile signore,
àlzati con l’allodola.
NORFOLK —
Va bene;
potete star tranquillo, monsignore.
(Esce)
RICCARDO — Catesby…
CATESBY —
Sì, signore?
RICCARDO — Manda un messo di corsa da Lord Stanley,
a dir che venga qui con i suoi uomini;
ma presto, prima del levar del sole,
se non vuol far piombar suo figlio Giorgio
nell’antro buio della notte eterna.
(Esce Catesby)
(A Ratcliff)
Prendi una coppa, versami del vino.
E procurami un lume per la notte.
Per lo scontro campale di domani
204
fammi trovar sellato il bianco Surrey.
Bada che le mie lance sian robuste
e non troppo pesanti a maneggiare…
Ratcliff!
RATCLIFF —
Sì, mio signore?
RICCARDO — Hai visto il malinconico Northumberland?
RATCLIFF — L’ho visto mentre, col conte di Surrey,
verso l’ora che vanno a letto i polli,
rassegnava le schiere, una per una,
e andava incoraggiando i suoi soldati.
RICCARDO — Bene, mi fa piacere…
Quella coppa di vino, per favore.
Non mi sento l’alacrità di spirito
e la gaiezza d’animo mia solita.
(Beve, poi porge la coppa vuota a Ratcliff)
Posala là. Son pronti inchiostro e carta?
RATCLIFF — Son qui pronti, signore.
RICCARDO —
Di’ alla scolta
di fare buona guardia alla mia tenda.
Lasciami adesso. Intorno a mezzanotte
vieni di nuovo qui ad aiutarmi
a indossar l’armatura.
Va’ pure adesso; lasciami, t’ho detto.
(Esce Ratcliff. Riccardo si ritira nella tenda)
Entra STANLEY, e s’affaccia alla tenda di
Richmond, che sta all’interno attorniato dai
suoi ufficiali
STANLEY — La Fortuna benigna e la Vittoria
si posino propizie sul tuo elmo!
205
RICHMOND — E s’accompagni con la tua persona
ogni conforto che la buia notte
possa offrire, mio nobile patrigno!
Dimmi, che fa la nostra buona madre?
STANLEY — Ella t’invia attraverso di me
la sua benedizione, e prega sempre
per il bene di Richmond. Ma ti basti
di sapere di ciò, veniamo a noi.
L’ora notturna scorre via furtiva
e già si va sfaldando dall’oriente
la tenebra squamosa. Eccoti quanto,
in breve, poiché l’ora ce lo ingiunge:
appena giorno, schiera le tue forze
e affida la tua sorte all’arbitraggio
dei colpi d’uno scontro vita o morte.
Io, per quanto potrò – né posso tutto
ciò che vorrei – guadagnerò del tempo
per aiutarti nel modo migliore
in questo incerto scontro;
ma non mi posso spinger troppo in là
da mostrare che son dalla tua parte,
perché se ciò divenisse palese,
mio figlio Giorgio, tuo giovin fratello,
sarebbe certamente messo a morte
sotto gli occhi del padre. E dunque addio.
L’ora pericolosa e il poco tempo
troncano le effusioni dell’affetto
e l’ampio scambio di dolci parole
su cui sarebbe gradito indugiare
a parenti sì a lungo separati.
Dio ci conceda miglior agio in seguito
per tutti questi amorevoli riti.
Ancora addio. Sii prode e vittorioso.
206
RICHMOND — Riaccompagnatelo al suo reggimento.
Io cercherò di riposare un poco,
nonostante l’assillo dei pensieri,
perché domani non mi pesi addosso
un plumbeo sonno, quando avrei bisogno
di librarmi con ali di vittoria.
Di nuovo, degni amici e cavalieri,
la buona notte a tutti.
(Escono tutti. Richmond, rimasto solo,
s’inginocchia)
O Tu, di cui mi sento capitano,
volgi un occhio benigno alle mie forze,
metti nel loro pugno
i contundenti ferri di tua ira,
che s’abbattano gravi e poderosi
sugli elmi del nemico usurpatore;
fa’ delle nostre persone i ministri
del tuo castigo, sì che, vittoriosi,
possiamo innalzar lodi alla tua gloria.
A Te affido la vigile mia anima,
prima che il sonno abbassi sui miei occhi
le sue cortine. Oh, difendimi sempre!
(Si alza, si corica e si addormenta)
Appare lo SPETTRO DEL PRINCIPE
EDOARDO, figlio di Enrico VI, nello spazio
tra la tenda di Riccardo e quella di
Richmond
SPETTRO — (Rivolto a Riccardo)
Possa il mio peso opprimere domani
grave come un macigno la tua anima:
Pensa a come mi pugnalasti a Tewsbury
207
nel fiore della prima giovinezza.
Perciò dispera e muori.
(Rivolto a Richmond)
Richmond, sta’ di buon animo,
ché l’anime dei principi scannati
combattono per te. Chi ti conforta,
Richmond, è la prole di Re Enrico.
Entra lo SPETTRO DI ENRICO VI
SPETTRO — (Rivolto a Riccardo)
Quando ero mortale,
tu apristi sul mio corpo consacrato
mortali bocche con il tuo pugnale.
Pensa alla Torre e a me. Dispera e muori.
Questo ti ordina il Sesto Enrico.
(Rivolto a Richmond)
Sii tu, virtuoso e santo, il vincitore.
Enrico re, che ti vaticinò
che re saresti diventato un giorno,130
ti viene in sogno a infonderti coraggio.
Vivi e prospera, Richmond.
Entra lo SPETTRO DI CLARENZA
SPETTRO — (Rivolto a Riccardo)
Ch’io possa con il peso d’un macigno
seder sulla tua anima domani…
io, che fui immerso a morte,
povero me, in nauseabondo vino,
tradito a morte dalla tua perfidia…
Domani, alla battaglia, pensa a me,
e la tua spada cada senza taglio
dovunque colpirai. Dispera e muori.
(Rivolto a Richmond)
208
Tu, progenie della Casa di Làncaster,
gli offesi eredi di quella di York
pregano in tuo favore: angeli buoni
proteggan le tue forze. Vivi e prospera.
Entrano gli SPETTRI DI RIVERS, GREY e
VAUGHAN
SPETTRO DI (A Riccardo)
RIVERS — Su te pesi domani la mia anima,
io, Rivers, che fui messo a morte a Pomfret.
Gloucester, dispera e muori.
SPETTRO DI (A Riccardo)
GREY — Pensa a Grey, e disperi la tua anima.
SPETTRO DI Pensa a Vaughan, e possa la tua lancia
VAUGHAN — caderti dalle mani per il tremito
delle tue colpe. Muori disperato.
TUTTI INSIEME (A Richmond)
GLI SPETTRI — Svegliati, e pensa che le iniquità
da Riccardo commesse su di noi
son tutte a gravar sul suo petto
e lo conducono alla sconfitta.
Svegliati e vinci, Richmond.
Entra lo SPETTRO DI HASTINGS
SPETTRO — (Rivolto a Riccardo)
Svegliati, sanguinario criminale,
nel risveglio del reo,
ed in una battaglia sanguinosa
finisci oggi i tuoi giorni. È Lord Hastings
che ti ricorda a lui. Dispera e muori.
(Rivolto a Richmond)
Quieta, serena anima,
209
svegliati, svegliati: impugna l’armi,
combatti e vinci per la buona causa
della tua Inghilterra!
Entrano gli SPETTRI DEI DUE PRINCIPI
FANCIULLI
I DUE (Rivolti a Riccardo)
SPETTRI — Sogna i tuoi due nipoti
che nella Torre hai fatto soffocare;
ti gravi il peso di questo delitto
come piombo, domani, sopra al petto,
Riccardo, sì da poterti piegare
alla rovina, all’infamia, alla morte.
Disperazione e morte
t’impongon l’anime dei tuoi nipoti.
(Rivolti a Richmond)
Dormi, Richmond, riposa pure in pace,
e svegliati in letizia: angeli buoni
ti guardino dai morsi del cinghiale.
Vivi e metti alla vita
una felice progenie di re.
Ti esortano a fiorire e prosperare
gli sventurati figli di Edoardo.
Entra lo SPETTRO DI ANNA
SPETTRO — Riccardo, sono io, Anna, tua moglie,
sventurata, che mai poté dormire
un’ora sola tranquilla con te,
e vengo a riempire d’inquietudini
il tuo sonno. Domani alla battaglia,
pensa a me, e ti caschi giù la spada
che non uccide più. Dispera e muori.
(Rivolta a Richmond)
210
Tu, anima serena, dormi e sogna
il tuo successo e una lieta vittoria:
questo pregando chiede a Dio colei
che fu la moglie del tuo avversario.
Entra lo SPETTRO DI BUCKINGHAM
SPETTRO — (Rivolto a Riccardo)
Io sono stato il primo ad aiutarti
ad ottenere la corona; l’ultimo
a cader sotto la tua tirannia.
Oh, pensa a Buckingham, domani, e muori
terrorizzato dalla tua nequizia!
Sogna, sogna di azioni sanguinarie
sogna di morte; e con il fiato mozzo,
dispera, e disperando rendi il fiato.
(Rivolto a Richmond)
Caddi nella speranza
di poterti prestare il mio aiuto,
ma tu fa’ cuore e non perderti d’animo;
Dio e gli angeli buoni
combattono con Richmond; e Riccardo
cada dal vertice della sua boria.
(Gli spettri svaniscono. Riccardo si scuote
dal sonno con un sussulto e balza in piedi)
RICCARDO — Datemi un altro cavallo!… Fasciatemi
le ferite!… Gesù, abbi pietà!…
Calma, Riccardo, è stato solo un sogno….
Ah, vil coscienza, come mi tormenti!…
(Guardando fuori dall’apertura delle tenda)
Luci azzurrognole: è l’ora morta
della mezzanotte… Sento un sudor gelido
per tutto il corpo e tremo di paura….
211
Di che cosa ho paura? Di me stesso?
Non c’è nessuno qui oltre di me.
Perciò di chi ho paura?…
Riccardo ama Riccardo, io son io.
C’è forse un assassino qui?… No… Sì,
son io!… Fuggire, allora?… Ma da chi?
Da me stesso? Perché dovrei fuggire?
Per non fare vendetta su me stesso?
Ne avrei grande ragione…
Io su me stesso?… Ahimè, amo me stesso!
Perché? Forse per qualche buona azione
fatta da me a me stesso… Oh, no, ahimè,
io lo odio, se mai, questo me stesso
per i crimini odiosi che ho commesso.
Sono uno scellerato… eppure no,
io mento a me stesso, non lo sono…
Stolto, non parlar male di te stesso!
Stolto, non incensar troppo te stesso!
La mia coscienza in bocca ha mille lingue
e ciascuna ha una storia da narrare,
e ogni storia mi bolla da furfante.
E spergiuro. Spergiuro oltre ogni limite.
Assassino; crudele oltre ogni limite.
Tutti i peccati miei,
perpetrati da me oltre ogni limite
s’affollano alla sbarra
e gridano: “Colpevole, colpevole!”
Mi resta solo la disperazione.
Non c’è chi m’ami al mondo,
e se muoio, nessuna anima viva
avrà pietà di me.
Perché, del resto, ne dovrebbe avere,
se sono io stesso a non trovare mai
212
in fondo all’anima alcuna pietà
verso me stesso? M’è parso nel sogno
come se tutte l’anime
di coloro che ho assassinato
fossero convenute alla mia tenda
e ognuno minacciasse per domani
vendetta sulla testa di Riccardo.
Entra RATCLIFF
RATCLIFF — Monsignore…
RICCARDO — (Sussultando)
Chi è là?
RATCLIFF —
Ratcliff, signore.
Il gallo del villaggio qui da presso
ha salutato l’alba già due volte.
I vostri amici son già tutti in piedi,
e si stanno affibbiando le armature.
RICCARDO — Ratcliff, ho fatto un sogno spaventoso.
Che pensi, i nostri amici
si manterranno tutti a me fedeli?
RATCLIFF — Ma senza dubbio, sire.
RICCARDO — Oh, Ratcliff! Ho paura! Sì, ho paura!
RATCLIFF — Ma no, mio buon signore!
Delle ombre non s’ha da aver paura.
RICCARDO — Per l’Apostolo Paolo, questa notte
nel cuore di Riccardo han suscitato
delle ombre più paura che non possa
la realtà di diecimila uomini
di tutto punto armati e comandati
da quello zero più zero di Richmond.
213
Non è ancor l’alba. Su, vieni con me:
voglio andare a origliar da tenda a tenda
per accertarmi che non c’è nessuno
che si prepari a disertar da me.
(Escono)
Entrano, da RICHMOND che sta seduto
sotto la sua tenda, i NOBILI suoi alleati
TUTTI — Buongiorno, Richmond.
RICHMOND —
Vogliate scusarmi,
nobili Pari e alacri gentiluomini,
se avete qui sorpreso un gran pigrone.
I° NOBILE — Come avete dormito, monsignore?
RICHMOND — Dacché siete partiti ieri sera
ho avuto, amici, il sonno più piacevole
e ho fatto i sogni più propiziatorii
ch’abbian mai visitato mente d’uomo.
M’è parso come se nella mia tenda
venissero a vicenda tutte l’anime
di quelli assassinati da Riccardo
e mi gridassero tutte: “Vittoria!”.
Ho l’animo giulivo ed esultante,
credetemi, per tal splendido sogno.
I° NOBILE — Sono quasi le quattro, monsignore.
RICHMOND — È tempo d’indosssare le armature
e di emanare gli ordini.
(Esce dalla tenda)
LA SUA ORAZIONE AI SOLDATI
214
Amati compatrioti,
l’ora che urge ed il tempo tiranno,
non mi permettono di dirvi più
di quanto v’ho già detto.
Tuttavia ricordatevi di questo:
Dio dal cielo e la nostra buona causa
combattono con noi. Innanzi a noi
si levano come alti baluardi
le preghiere dei santi in paradiso
e delle anime offese.
Tranne solo Riccardo, tutti quelli
che ci accingiamo oggi ad affrontare
vorrebbero veder vincere noi
piuttosto che quel loro condottiero.
Giacché, nobili amici, chi è l’uomo
ch’essi seguono in armi?
Nient’altro che un tiranno sanguinario,
un omicida cresciuto nel sangue
e nel sangue insediatosi sul trono;
uno che ha messo in atto ogni mala arte
per procacciarsi quello che possiede,
e poi ha massacrato un dopo l’altro
tutti coloro che gli han dato mano
a procurarselo: una pietra ignobile,
falsa, resa preziosa dal castone
rutilante del trono d’Inghilterra,
nel quale s’è insediato con l’inganno;
uno che sempre fu nemico a Dio,
e Dio, perciò, nella sua gran giustizia,
vi darà appoggio come suoi soldati,
se combattete contro il suo nemico.
Se adesso voi sudate
a lottare ed abbattere il tiranno,
215
ucciso lui, poi dormirete in pace;
se adesso combattete
contro i nemici della vostra patria,
il futuro benessere di questa
ripagherà ad usura il vostro sforzo;
se vi battete per le vostre spose,
le vostre spose accoglieranno liete
i lor mariti vincitori a casa;
se salverete da spada nemica
i figli vostri, i figli dei figli
ve ne daranno giusta ricompensa
nella vostra vecchiaia.
Avanti dunque, nel nome di Dio,
e di tutti i diritti a noi spettanti,
bandiere al vento e spade sguainate!
In quanto a me, sarà degno tributo
a questa mia pericolosa impresa
questo mio corpo, gelido cadavere
sopra la fredda faccia della terra.
Ma se m’arriderà la buona sorte,
dei vantaggi di questa audace impresa
avrà parte anche l’ultimo di voi.
Squillate, trombe, rullate tamburi,
ardimentosamente e lietamente.
Dio e San Giorgio! Richmond e vittoria!
(Escono Richmond e tutti del suo seguito)
Rientrano RICCARDO e RATCLIFF con
soldati
RICCARDO — Che diceva Northumberland di Richmond?
RATCLIFF — Che non fu mai istruito nelle armi.
RICCARDO — Diceva il vero. E Surrey?
216
RATCLIFF — Ho inteso che diceva, sorridendo:
“Tanto meglio per noi”.
RICCARDO —
Giusto, è così.
(Un orologio batte)
Conta i rintocchi… Dammi un almanacco.
(Ratcliff gli dà qualcosa che Riccardo
consulta rapidamente)
Chi ha visto oggi il sole?
RATCLIFF —
Io no, signore.
RICCARDO — Allora stamattina questo sole
non vuol degnarsi di farsi vedere,
perché secondo quanto è scritto qui,
avrebbe già dovuto sfolgorare
a oriente già da un’ora. Per qualcuno
questa sarà una giornata nera…
Ratcliff!
RATCLIFF —
Sì, monsignore?
RICCARDO — Il sole oggi non si fa vedere.
Il cielo è in broncio con il nostro esercito.
Queste lacrime di rugiada, Ratcliff,
non le vorrei vedere, qui per terra.
Non splende oggi?… Che mi può importare
più di quanto possa importare a Richmond?
Lo stesso cielo accigliato con me
guarda anche lui con occhio cupo e triste.
Entra NORFOLK
NORFOLK — All’armi, mio sovrano! All’armi! All’armi!
Il nemico è già in campo, e che baldanza!
217
RICCARDO — Avanti, su, alla svelta,
mettete la gualdrappa al mio cavallo.
Qualcuno corra subito da Stanley
e gli dica di avvicinarsi a noi.
I miei li guido io nella pianura.
L’ordine di battaglia sarà questo:
l’avanguardia, composta d’egual numero
di cavalieri e di fanti appiedati,
andrà a disporsi lungo tutto il fronte
in prima linea, con gli arcieri al centro.
Norfolk e Surrey saranno al comando
di questa fanteria-cavalleria.
Così schierati, seguiremo noi
a far massa col grosso dell’esercito,
la cui forza sarà bene appoggiata
dall’un corno e dall’altro,
da truppe scelte di cavalleria.
Questo è il mio piano, e San Giorgio ci aiuti!
Che dici tu, Norfòlk?
NORFOLK —
Ottimo piano,
mio pugnace signore.
(Gli dà un foglio)
Questo scritto
era stamane dentro la mia tenda.
RICCARDO — (Leggendo)
“Giannetto di Norfolk, non fare il dritto, ché
il tuo padron Riccardo è bell’e fritto”131
Una sciocca trovata del nemico.
Signori, ai posti di combattimento!
E nessuno si lasci sgomentare
218
da pettegoli sogni: la coscienza
è parola ch’è in uso presso i vili,
da loro primamente escogitata
per trattenere a freno gli animosi.
Nostra coscienza sian le nostre braccia,
nostra legge le spade che impugniamo.
In marcia, tutti bravamente uniti!
Avanziamo nel folto della mischia.
Se non in cielo, entreremo all’inferno
tutti tenendoci stretti per mano.
LA SUA ORAZIONE AI SOLDATI
Che cosa vi dirò,
in aggiunta a quanto v’ho già detto?
Vi esorto solamente a ricordarvi
con chi avete a che fare: un’accozzaglia
di vagabondi, gente di galera,
di furfanti, la schiuma di Bretagna,
di vili contadini parassiti,
che la lor terra, sovrappopolata,
vomita disperati alla ventura,
mandandoli a sicura distruzione.
Voi dormite tranquilli i vostri sonni,
e questi vengon nelle vostre case
a turbarvi il riposo.
Voi possedete terre e in casa vostra
il godimento di splendide spose,
e costoro vorrebbero venire
a spogliarvi di quelle
e stuprarvi le altre. E chi li guida?
Un abbietto figuro, mantenuto
219
per tanti anni in Bretagna sulle spese
di mio fratello, un vero smidollato,
che non ha mai sofferto in vita sua
più freddo delle proprie soprascarpe
fra la neve. Ma ributtiamo a mare
a frustate quest’orda di sbandati,
questi arroganti straccioni di Francia,
questi affamati squallidi straccioni,
gente stanca di viver come vive,
che, se non fosse stato pel miraggio
di questa loro scellerata impresa,
si sarebbero andati ad impiccare
per assoluta mancanza di mezzi.
Se è scritto che dobbiamo essere vinti,
che a sconfiggerci siano almeno uomini,
e non questi bastardi di Bretagna,
che i nostri padri già hanno battuto,
pestato, tartassato in casa loro,
lasciandoli nel libro della storia
eredi di vergogna. E questi ceffi
si dovranno goder le nostre terre?
Dovran giacersi con le nostre mogli?
Dovranno violentar le nostre figlie?
(Tamburi all’esterno)
Eccoli, udite, sono i lor tamburi.
Nobili d’Inghilterra, alla battaglia!
Arcieri, pronti a tendere i vostri archi!
Cavalieri, spronate a tutto sangue
i vostri belli e nobili corsieri,
e in mezzo al loro sangue cavalcate!
E voi, lancieri, spaurite il cielo
con gli spezzoni delle vostre lance!
220
Entra un MESSO
Stanley che fa? Mena qui le sue truppe?
MESSO — Ricusa di spostarsi, mio signore.
RICCARDO — Beh, giù la testa di suo figlio Giorgio!
NORFOLK — Il nemico, signore, è già avanzato
di qua dalla palude;
sarà meglio che del figlio di Stanley,
ci occupiamo finita la battaglia.
Adesso non c’è tempo.
RICCARDO — Sento pulsarmi in petto mille cuori!
Avanti gli stendardi, sotto, sotto!
Il nostro antico grido di battaglia
“Bel San Giorgio” infonda a tutti noi
il furore del suoi draghi infuocati!
Addosso! La vittoria è sui nostri elmi!
(Escono)
221
SCENA IV
Un’altra parte del campo.
Allarmi. Scorrerie di soldati. Entra NORFOLK con soldati,
combattendo. Gli viene incontro di corsa CATESBY
CATESBY — Correte, aiuto, signor di Norfolk!
Il re compie prodigi sovrumani
di valore, incurante d’ogni rischio.
Gli hanno ucciso il cavallo,
e lui, a piedi, seguita a combattere;
e nell’ansia di battersi con Richmond
si caccia nelle fauci della morte.
Soccorretelo, nobile signore,
o la giornata per noi è perduta.
(Escono Norfolk e soldati)
Entra RE RICCARDO
RICCARDO — Un cavallo! Un cavallo!
Il mio regno per un cavallo!
CATESBY —
Sire,
ritiratevi! Cerco io un cavallo
per vostra altezza.
RICCARDO —
Schiavo!
Ho messo la mia vita come posta
per un colpo di dadi, e starò al gioco.132
Credo ci siano sei Richmond sul campo;
cinque ne ho fatti fuori, quello no!
Un cavallo! Un cavallo!
Il mio regno per un cavallo!
222
(Escono tutti)
223
SCENA V
Un’altra parte del campo.
Allarme.
Entrano RE RICCARDO e RICHMOND, battendosi alla spada.
RICCARDO cade ed è ucciso.
RICHMOND esce, e il corpo di RICCARDO è portato via.
Fanfara.
Rientra RICHMOND con STANLEY, che reca la corona, signori e
soldati.
RICHMOND — Sia lode a Dio e alle armi vostre, amici!
Avete vinto. La giornata è nostra.
Il cane sanguinario è stato ucciso.
STANLEY — Bene ti sei condotto, prode Richmond.
Ecco a te la corona, così a lungo
usurpata. L’ho tratta via io stesso
dalla sua fronte esanime
per cingerne la tua regal persona.
Portala, godine e falla onorata.
RICHMOND — Gran Dio, di’ “così sia” a tutto questo.
Ma ditemi, il giovin Giorgio Stanley
è vivo?
STANLEY —
Vivo, sire, ed al sicuro
a Leicester, dove, se voi lo gradite,
potremo pel momento ritirarci.
RICHMOND — Quali uomini di nome
sono caduti da entrambe la parti?
STANLEY — Giovanni di Norfolk, lord Walter Ferrer,
224
sir Robert Brakenbury e William Brandon.
RICHMOND — Date ai lor corpi quella sepoltura
degna dei lor natali.
Proclamate un indulto ai disertori
che vogliano tornar nei nostri ranghi;
e poi, così come abbiam deciso
a sacro giuramento innanzi a Dio,
faremo ritornare in buona pace
la rosa rossa con la rosa bianca.
Sorridi, cielo, a questa bella unione,
dopo aver tanto a lungo riguardato
con cipiglio la loro ostilità.
E chi sarà quel bieco traditore
che, ciò vedendo, non dirà “Amèn”?
Per troppo tempo è stata a matteggiare
l’Inghilterra ed a sfigurar se stessa,
il fratello versando ciecamente
il sangue del fratello;
il padre massacrando pazzamente
il proprio figlio, ed il figlio costretto
a farsi macellaio di suo padre.
Tutto questo ha diviso York e Làncaster
in un’acerba, cruda divisione.
Oh, adesso Richmond ed Elisabetta,
successori legittimi
di quelle due reali dinastie,
per fausto ordine di Dio Signore,
si ricongiungano, e i loro eredi,
Dio Signore, se tale è il tuo volere,
arricchiscano il tempo che verrà
con una pace dal volto disteso,
con ridente liberalità,
e giorni lieti di prosperità.
225
Grazioso Dio Signore, spunta il ferro
nelle mani di tutti i traditori
che vorrebbero riportarci indietro
a quei giorni cruenti ed a far piangere
in mezzo a fiumi di sangue fraterno
l’infelice Inghilterra. In mezzo a noi
fa’ che non viva chi, col tradimento,
mediti di trafiggere la pace
di questa bella terra.
Le ferite fraterne ora son chiuse,
torna di nuovo a vivere la pace.
Fa’ Tu, Signore Iddio, che viva a lungo.
FINE
226
NOTE
1– Questa didascalia è arbitraria del traduttore. I testi non ne portano
nessuna. Il lettore – o il regista – può dunque immaginare il luogo a suo
talento; che può essere anche un interno della corte.
2– “By this sun of York”: alcuni testi hanno “son”, “figlio”, invece
dell’omofono “sun”, “sole”, che leggerebbe pertanto: “ad opera di questo
figlio di York ” riferito a Re Edoardo IV; “figlio” di York e fratello di
Riccardo è infatti questo Edoardo, che ha tolto il trono a un Lancaster,
Enrico VI. È verosimile che il drammaturgo abbia inteso sfruttare
l’omofonia dei due termini per uno di quei giochi di parole assai graditi al
pubblico elisabettiano; ma la lezione “sun” e la più probabile, anche perché
il sole era l’emblema gentilizio degli York (cfr. in “Enrico VI - Parte terza”,
il dialogo dei due fratelli Edoardo e Riccardo York alla prima scena del II
atto).
3– “... sent before my time”, cioè partorito in parto prematuro.
4– Il nome del Duca di Clarenza, fratello di Riccardo, è “George”.
5– Jean Shore, la favorita di Edoardo IV, nata Elisabetta Lambert e sposata
al mercante William Shore. Sulle avventurose vicende della vita di questa
donna scriverà una tragedia nel ’700 (“Jane Shore”, 1714) Nicholas Rowe,
poeta e drammaturgo e primo sistematore, ordinatore e commentatore
dell’opera di Shakespeare.
6– La regina è la già nominata Lady Grey, al secolo Elisabetta Woodville,
vedova di John Grey, gentiluomo morto combattendo contro Edoardo IV
dalla parte dei Lancaster. Edoardo l’aveva sposata a 25 anni, rompendo la
promessa del suo matrimonio con la sorella della regina di Francia, Bona di
Savoia. (Questa avrà una parte nell’“Enrico VI - Terza parte”). Il “nobile
dama” di Riccardo è naturalmente sarcastico.
7– Il testo ha un bisticcio omofonico tra “nought” e “naught”. Brakenbury
ha detto: “Non ho nulla a che fare con...” (“Have nought to do”); Riccardo
ha finto di capire “Ho da trescare (“naught”) con...”.
8– “I will deliver you or lie for you”: la frase si può anche intendere: “Io ti
libererò o mentirò per te”, per il doppio significato di “lie” che vale
“giacersi”, “porsi”, ma anche “mentire”. Ed è verosimile che Shakespeare
abbia volutamente attribuito a Riccardo questo gioco di doppi sensi, per
sottolinearne la perversità.
9– La notazione è storicamente vera. Edoardo IV, salito al trono in età di 20
anni, succedendo a suo padre Enrico VI nel 1461, “appena si vide
227
NOTE
possessore del trono, abbandonossi senza ritegno alla sua inclinazione per le
donne, piacere che mancare non gli poteva, stante l’età, la posizione e le
grazie della persona. Era il principe ricevuto nell’intimità da parecchi
abitanti di Londra; vi trovava indulgenza per tutte le sue tendenze e grandi
facilità per soddisfare i suoi capricci. Codesta frequentazione lo abituò
insensibilmente a non arrestarsi dinanzi a verun ostacolo per soddisfare le
sue brame: tutto doveva cedere alla sua volontà” (L. Galibert & C. Pellé,
“Storia d’Inghilterra”, trad. A. F. Falconetti, Venezia, Antonelli edit., 1845).
10– “But yet I run before my horse to market”: letteralm.: “Ma io sto
correndo al mercato davanti al mio cavallo”.
11– Si tratta, per la storia, di Edoardo principe di Galles, figlio di Enrico VI
– il predecessore, per altra linea, di Edoardo IV al trono d’Inghilterra –
ucciso nel 1471 nella battaglia di Tewksbury, combattuta da Edoardo IV
contro le forze di Margherita d’Angiò, vedova di Enrico VI e quindi madre
di questo Edoardo; il quale aveva sposato questa Anna Nevill, la più
giovane figlia di Riccardo Warwick, la quale nel corso del dramma diverrà
la moglie di Riccardo III. Quest’ultimo confesserà più sotto di aver ucciso
lui Edoardo.
12– Cittadina sul Tamigi, presso Staines, a circa 20 miglia a sud-ovest di
Londra, già sede di una grande abbazia di benedettini. Il testo ha: “...
trasportato dalla chiesa di San Paolo” (“... taken from Paul’s”) che si è
tralasciato di tradurre. C’è da chiedersi però perché un sì lungo tragitto, a
piedi, con un corteo di poche persone, per andare ad inumare la salma di un
re. Ma Shakespeare non si pone il problema: a lui interessa, ai fini del
dramma, il tempo e il luogo per la lunga e decisiva scena dell’incontro di
Anna con Riccardo.
13– Naturalmente Riccardo mente: è stato lui a uccidere deliberatamente il
marito di Anna, Edoardo, che era suo nipote perché figlio del fratello re
Edoardo V, dal quale avrebbe dovuto ereditare il trono. Riccardo l’ha ucciso
nel corso della battaglia di Tewksbury, come egli stesso confesserà in
seguito.
14– Per capire questa risposta da Anna, bisogna intendere che ella abbia
inteso che Riccardo le abbia detto: “Sarà così (che io mi giaccia insieme con
te) finché io continuerò a mentire (cioè non sarà più così al momento in cui
dirò la verità)” (“So will it, madam, till I lie with you”). È il solito quibble
basato sul doppio senso di “lie”, che vale “mentire” e “giacersi” (in senso
228
NOTE
sessuale).
15– Basilisco, il mitico mostro, a forma di drago, i cui occhi fiammeggianti
avevano il potere di uccidere ogni creatura vivente, eccetto il gallo. È
citazione ricorrente in Shakespeare.
16– Il conte Rutland, ultimo figlio giovinetto del Duca di York, e dunque
fratello di Riccardo e di Edoardo marito di Anna, nella battaglia di
Wakefield, combattuta tra le truppe del Duca e quelle della regina
Margherita moglie di Enrico VI, fu preso dai seguaci di questa e assassinato
per mano di Lord Clifford, uno dei capi delle forze dei Lancaster. L’episodio
è rappresentato nella terza scena del I atto della terza parte dell’“Enrico VI”.
17– “... to him that has most cause to be a mourner”: cioè lui stesso,
Riccardo, che ha riconosciuto essere l’autore della morte di Re Enrico VI.
18– Crosby Place è la residenza del Duca di Gloucester. Sarà anche la
dimora di Tomaso Moro sotto Enrico VIII.
19– Località del Surrey, Inghilterra, già sede di un famoso monastero di
benedettini fondato nel 666 d. C., ora distrutto.
20– “... to Whitefriars”: “Frati Bianchi” si chiamavano in Inghilterra i
Carmelitani, per il loro saio bianco. Di quale località si tratti qui, non è
chiaro. In Inghilterra, all’epoca del dramma, c’erano una quarantina di
monasteri di carmelitani.
21– “My dukedom to a beggarly denier”: letteralm.: “Il mio ducato contro
una monetina da elemosina”.
22– La contessa di Richmond, come dirà più sotto Elisabetta, è la moglie di
Lord Stanley. “Vostra moglie” non è nel testo.
23– Si legga, qui come altrove, “Glo-ster”.
24– “... to enoble those that scarce some two days since were worth a
noble”: bisticcio tra “enoble”, “nobilitare”, “dare titoli di nobiltà” e “noble”,
moneta di scarso valore (circa 6 scellini), corrente in Inghilterra fino al
1461.
25– “What marry may she? Marry with a king”: nel testo inglese c’è un
gioco di doppi sensi sulla parola “marry”, interiezione esclamativa , che sta
per: “Per la Vergine Maria” (contrazione di “by Virgin Mary”), e per il verbo
“maritarsi”. Riccardo l’ha usato nel primo senso quando ha detto: “She may
– ay, marry, may she...”, e nel secondo quando, rispondendo a Rivers, ha
detto: “What marrry may she? Marry with a king!”.
26– Leggasi, per la metrica, “Tiù-sbury”.
229
NOTE
27– Margherita, andata in moglie a Enrico VI nel 1445, era la seconda figlia
di Renato d’Angiò, che allora portava il titolo di re di Sicilia, Napoli e
Gerusalemme. Enrico l’aveva sposata per procura inviando in Francia il
marchese di Suffolk. Il matrimonio fece scandalo, perché la principessa non
portò nulla in dote, suo padre essendo re solo di nome, perché di fatto non
aveva il possesso dei domini di cui aveva il titolo; l’Angiò era in mano
inglese, a Napoli c’erano gli Aragonesi, a Gerusalemme c’era il Sultano. Lo
sdegno dei cortigiani, capeggiati dal Lord Protettore Duca Humphrey
Gloucester, è nella prima scena dell’atto I dell’“Enrico VI - Seconda parte”.
Margherita si dimostrò tuttavia regina di grande carattere e abilità politica.
Gli storici francesi Léon Galibert e Clément Pellé (“Storia d’Inghilterra”,
vol. I, Venezia 1845) la descrivono come una donna “giovane, ardente,
piena d’energia, d’intelligenza, di ambizione”. Era ella stessa al comando
delle truppe dei Lancaster nella battaglia di Sant’Albano contro i rivoltosi di
York e Warwick: “La regina d’Inghilterra trovavasi allora nelle province
settentrionali del regno, in mezzo a popolazioni guerriere, gelose delle
iniziative che le province meridionali nelle contee della famiglia regia...
Margherita colle sue truppe portossi a marce forzate sopra Londra; mossa
ardita che non intimorì Riccardo (Riccardo di York, padre di Riccardo III,
n.d.t.), perché credette solo di aver a che fare con alquanti partigiani (della
regina, n.d.t.); infatti venne loro incontro con cinquemila uomini soltanto”.
Qui, nella vicenda del dramma, siamo nel 1483, Margherita è già vecchia.
28– Warwick (conte Riccardo Nevill) era alla testa delle forze regie nella
battaglia di Sant’Albano. Giorgio di Clarenza aveva sposato una delle sue
figlie; l’altra era Anna, vedova di Edoardo principe di Galles (figlio di
Enrico VI), protagonista della scena precedente.
29– “Guardami bene in faccia” non è nel testo, che ha semplicemente: “Do
not turn away”, “Non voltarti da un’altra parte”; ma il “guardami in faccia”
è implicito: Margherita ha sfidato tutti poc’anzi a guardarla in faccia senza
tremare.
30– Come si è visto (v. sopra la nota 16), il giovanissimo conte Rutland,
ultimo figlio del Duca di York, nella battaglia di Wakefield tra le truppe del
Duca e quelle regie condotte personalmente dalla regina Margherita, fu
catturato dai seguaci di questa e pugnalato a morte da Lord Clifford, uno dei
capi delle forze dei Lancaster.
31– “... vain flourish of my fortune”: per “flourish” nel significato di
230
NOTE
“abbellimento” in Shakespeare, v. anche in “Fatiche d’amore perdute”, II,
1, 14: “... needs not to be painted flourish of your praise”, “... non ha
bisogno degli abbellimenti / del vostro elogio”.
32– V. sopra la nota 18.
33– “... the melancholy flood”: è il tratto di fiume infernale – per alcuni
l’Acheronte, per altri lo Stige, per altri ancora il Flegetonte – che Dante, con
Stazio, chiama “palude”, attraverso il quale Caronte (“Il nocchier della
livida palude”, Inferno, III, 98) traghetta le anime dannate.
34– La verità storica cui si riferisce questo passo è piuttosto diversa. Non fu
il Duca di Clarenza a tradire Warwick, ma questi ad abbandonare
puntigliosamente la causa degli York, e a schierarsi coi Lancaster. Clarenza,
come s’è visto (v. sopra la nota 28), aveva sposato la figlia maggiore di
Warwick, Isabella. Egli era, con il suocero, alla testa delle forze degli York.
Enrico VI è un Lancaster, perché discende per li rami da Giovanni di Gaunt,
duca di Lancaster. Al figlio di lui, Edoardo, Warwick dà in sposa la sua
seconda figlia, Anna; e da allora si schiera con i Lancaster. Giorgio
Clarenza è uno York, perché discende per li rami da Edmondo di Langley,
duca di York, fratello di Giovanni di Gaunt. Quando Warwick cambia
fazione, Clarenza entra segretamente in contatto con Edoardo e s’impegna
con lui ad abbandonare la fazione di Warwick.
Quanto all’ombra erratica in sembianza d’angelo” (“... a shadow like an
angel”), è verosimilmente quella di Rutland. Anche qui, come s’è visto, per
la verità storica chi ha pugnalato il piccolo Rutland (uno York) a Tewksbury
è stato Lord Clifford.
35– Sempre, per spezzare la pesante atmosfera dei momenti più drammatici
e strappare un sorriso al pubblico, Shakespeare mette in bocca ai personaggi
minori, o solo occasionali, un tratto di comicità. Qui è palese il melenso
“nonsense” del pugnalato a morte che si sveglia e si mette a dare del
vigliacco al suo assassino
36– “Nor you as we are, loyal.”: “loyal” sta verosimilmente per “leale
suddito del re”; il sicario sembra essere convinto che Clarenza è in carcere e
condannato a morte per alto tradimento.
37– Cioè: “Io ti parlo in nome del re, da cui ho ricevuto mandato.”
38– Il marchese di Dorset è figlio di primo letto della regina Elisabetta,
quindi figliastro di Edoardo; il titolo di marchese conferitogli da questo è
uno degli “onori d’accatto” ottenuti dai parenti della regina, e contro i quali
231
NOTE
s’è scagliato prima Riccardo.
39– Il testo ha ridondante perifrasi: “When I have most need to employ a
friend, / And most assured that he is a friend”: Quando avrò maggior
necessità di servirmi di un amico e più sia sicuro della sua amicizia...”.
40– I testi danno qui l’entrata di Riccardo in compagnia di sir Richard
Ratcliff; ma questo personaggio in questa scena non parla, e il Lodovici,
uomo di teatro tra tutti i traduttori italiani di Shakespeare, opportunamente
lo ignora. Noi lo seguiamo.
41– “... and no man in the presence / But his red colour hat forsook his
cheeks”, letteralm.: “... e non c’è nessuno dei presenti a cui il colorito rosso
(l’incarnato) non abbia abbandonato le guance”.
42– Cioè giunse al carnefice velocemente: Mercurio è l’alato messaggero
degli dèi dell’Olimpo, simbolo di celerità e destrezza.
43– Per questo episodio, v. sopra la nota 34.
44– “... an act of tragic violence”: “atto” è qui nel senso squisitamente
teatrale: Elisabetta prosegue il traslato introdotto dalla Duchessa che ha
parlato di “scena”. Shakespeare non perde mai di vista il suo mestiere.
45– La duchessa è la madre di Re Edoardo.
46– Cioè la vita. Lo stesso concetto in “Enrico IV - Seconda parte”, I, 1, 1819: “O Lord that lends me life...” È il concetto cristiano – ripreso dalla
dottrina di Epitetto – che la vita umana sia un prestito da restituire al
Creatore.
47– Il giovane figlio di Elisabetta, Principe di Galles ed erede al trono, si
trova a Ludlow, come si vedrà più sotto. Ludlow, nello Shrapshire, era stata,
fino al 1700, la residenza dei principi di Galles (questo era, ed è tuttora, il
titolo dei principi reali eredi al trono), nonché la sede del consiglio dei
feudatari delle marche gallesi. Il nome deriva verosimilmente, da Lud, il
mitico re celto; e “Lud” era chiamata anticamente Londra (cfr. “Cimbelino”,
III, 1, 29-32: “The famed Cassibelan... made Lud’ s town with rejoicing
fires bright...).
48– In realtà, il cittadino sa bene dov’è diretto: in Tribunale, come dice
dopo; non sa perché vi è stato citato dal giudice.
49– “Seldom comes the better”: alcuni intendono: “Raramente ne arrivano
di migliori (riferito a notizie); altri: “Raramente segue uno migliore (riferito
a re). Secondo questo traduttore, la frase è più generica, sul tipo
dell’italiano: “Il peggio non è morto mai”.
232
NOTE
50– Per la verità storica, Enrico VI Lancaster, figlio di Enrico V – il
vincitore dei Francesi ad Azincourt – alla morte del padre (a Vincennes, 31
agosto 1422) era stato proclamato re a 9 mesi d’età, ma fu incoronato a
Parigi nel 1431, dopo 9 anni di reggenza.
51– Il castello di Pomfret (o Pontefreat) nello Yorkshire, lo stesso dove è
stato rinchiuso nel 1399 Riccardo III da Enrico IV Lancaster, e da questo
fatto assassinare per mano di sir Robert.
52– “Bool to blood”: questa espressione, che ricorre sovente in Shakespeare
è verosimilmente un’eco della biblica massima: “Il sangue di colui che
spanderà il sangue dell’uomo, sarà dall’uomo sparso” (“Genesi”, IX, 6).
Cfr. in “Re Giovanni”, II, 1, 329: “Blood has brought blood”).
53– “... we will to sanctuary”: “sanctuary” era detta la chiesa o altro luogo
sacro dove, secondo la legge medioevale, vigeva il diritto di asilo, onde
ciascuno vi si poteva rifugiare per sottrarsi alla persecuzione da parte dei
potenti o semplicemente dalla giustizia. Elisabetta teme imminente su di lei
la mano di Riccardo. Il sacrario in cui si ritira Elisabetta con il suo secondo
figlio maschio Riccardino e le cinque figlie femmine è la cappella del
monastero di Westminster.
54– “... the seal I keep”: l’Arcivescovo di York era il Lord custode del
sigillo privato della corona (“the seal”), ossia lo stampo metallico usato per
l’autenticazione dei documenti emessi dal sovrano o in nome di esso da
funzionari delegati; egli cumulava cioè la carica di arcivescovo con quella
di Lord Cancelliere. Ancor oggi all’arcivescovo di York, al pari del sindaco
di Londra, spetta di diritto il titolo di “lord”.
55– “I want more uncles here to welcome me”: il giovane principe è
informato che i suoi zii lord Rivers, e lord Grey, fratelli di sua madre, sono
stato mandati in prigione a Pomfret.
56– In verità, è solo leggenda: non vi sono documenti storici a prova che la
Torre di Londra fossa stata iniziata a costruire dai Romani; si sa invece che
la sua costruzione fu iniziata da Guglielmo II, duca di Normandia, nel sec.
XI d. C.
57– “Thus, like the formal Vice, Iniquity, / I moralize two meanings in one
word”: l’accenno è alle rappresentazioni dei “Morality Plays”, dove
compariva, in funzione di uno dei “vizi umani”, il personaggio dell’Iniquità.
Il doppio senso con quale Riccardo, sull’esempio di quel personaggio,
moralizza, è quello della “vita lunga” della fama, alla quale egli associa la
233
NOTE
fama del giovane Edoardo, che sarà tutt’altro che lunga, perché s’appresta a
sopprimerlo.
58– V. sopra la nota 5. Qui Riccardo insinua soltanto che la Shore, la
favorita del re Edoardo VI, trescasse con Hastings. Più sotto (III, 4) inveirà
contro la donna, chiamandola “puttana” e accusandola di stregoneria.
59– Il cinghiale era lo stemma araldico di Riccardo Gloucester.
60– “I’ll have this crown of mine cut from my shoulders”: gioco di parole:
“crown” è nell’inglese antico sinonimo di “testa” (“the top part of the
skull”, “la parte superiore del cranio”).
61– “I’ll send some packing”: per l’altro mondo, si capisce.
62– “... his head upon the Bridge”: le teste dei giustiziati per alto
tradimento, mozzate dalla mannaia del carnefice, venivano issate, infisse su
aste di legno, sul Ponte di Londra.
63– Tenere il cappello in testa nelle cerimonie ufficiali era segno di dignità,
riservato ai nobili. Il popolo doveva scappellarsi. Dire di uno che non era
degno di tenere il cappello in testa era come dirgli di essere di bassa
estrazione.
64– Questo personaggio è indicato nell’in-folio come “Pursuivant”: così si
chiamavano i commessi della Corte di giustizia incaricati di notificare gli
atti della stessa. Si capisce, dal dialogo, che è lo stesso che aveva notificato
ad Hastings l’ordine del re di imprigionarlo. Nei testi è anche nominato
Hastings, come il suo nobile interlocutore. Ma il nome, ai fini
dell’economia del dramma, è inefficiente; e noi, col Lodovici, lo saltiamo,
anche perché il personaggio non compare più.
65– Anthony Rivers ci lascerà, per averla scritta in prigione in attesa di
essere giustiziato, una composizione poetica sul tema dell’alterna vicenda
delle umane sorti, opera che è storicamente considerata come la più
importante testimonianza sul colpo di Stato perpetrato da Riccardo York,
per diventare re Riccardo III.
66– Shakespeare, quasi per deformazione professionale, ogni tanto fa usare
ai suoi personaggi un linguaggio teatrale. Prima ha fatto parlare le due
donne di scena e di atto; qui è il Duca di Buckingham che dice a Riccardo:
“Had not come upon your cue... Hastings had pronounced your part.” “To
come upon one’s cue” si dice dell’attore che entra a tempo giusto in scena, o
pronuncia a tempo giusto la sua battuta, avendo come segnale d’entrata
l’ultima parola (“cue”, la “coda”) che il copione fa dire all’altro attore. (Cfr.
234
NOTE
in “Sogno d’una notte di mezza estate”, V, 1, 186: “... ‘deceiving me’ is
Thisbie’ s cue: she is not to enter”).
67– Località nel sobborgo londinese di Camden.
68– Questa battuta di Riccardo è la svolta del dramma. Da qui in poi esso è
la rappresentazione della orrenda mostruosità morale del protagonista, della
quale il corteggiamento ad Anna nel macabro ambiente di una esequia
funebre è stato solo il prologo. Il Lodovici, uomo di teatro e traduttore di
Shakespeare per il teatro, citando le cronache dell’Holinshed (Raphael
Holinshed, “Chronicles of England, Scotland and Ireland”, London, 1577),
premette a questo discorso di Riccardo ai nobili, una “Nota per l’attore” che
deve sostenere la parte di Riccardo, avvertendolo del repentino mutamento
di umore da mostrare al rientro in scena con Buckingham: da “affabile e
gioviale”, come l’ha definito prima Hastings, a “ truce, stravolto e
minaccioso”.
Gli storici Galibert e Pellé (op. cit., I, pag. 41) così raccontano l’episodio:
“Dopo alcuni istanti di assenza, rientrò tutto smarrito, gridando: “Milordi, si
attenta alla mia vita! Si cospira contro di me!”. “Coloro che si sono resi
colpevoli di un tal delitto – disse Lord Hastings – siano puniti come
traditori!”. E Gloucester: “Ebbene, milordi, sapete chi sono i traditori?
Elisabetta, vedova di Edoardo, Giovanna Shore, di lui amante, che vogliono
con sortilegi attentare alla mia vita: vedete che giàmmi si dissecca il
braccio?” E Gloucester si snudò il braccio, e l’immagrimento di quell’arto
atterrì il Consiglio. Il Protettore strumentalizza all’adempimento dei suoi
disegni una sua infermità naturale”.
69– V. sopra la nota 58.
70– “Per una sadica ironia – osserva Vittorio Gabrieli nelle note alla sua
traduzione del dramma (Garzanti, 1988) – Riccardo fissa il calendario delle
sue mostruose stragi in relazione alle pause naturali della giornata e alle ore
dei suoi pasti. Vuol vedere la testa mozzata di Hastings prima d’andare a
pranzo e chiede a Tyrrel un resoconto dettagliato dell’assassinio dei nipoti
dopo cena, prima di coricarsi”.
71– “Who builds his hope in air of your goor looks”: qui “air” è
evidentemente usata nel suo senso di “spazio vuoto”, “unsubstantial” come
contrario di “solido”, “concreto”, “substantial”.
72– Il Lodovici così annota questa scena: “Anche questa (come
l’improvviso mutamento d’umore ostentato la scena precedente, N.d.t.) è
235
NOTE
tutta una commedia. Gloucester e Buckingham, ora che s’è sparsa la notizia
dell’assassinio di Hastings, vogliono far credere di essere stati sorpresi da
un attacco proditorio condotto contro di loro dallo stesso Hastings”.
73– Si capisce che i due fanno la scena davanti al Sindaco di Londra, perché
sanno bene chi arriva.
74– L’Alexander, al cui testo generalmente m’attengo, attribuisce questa
frase al Lord Mayor; altri – seguendo l’“Arden Shakespeare” –
l’attribuiscono a Buckingham.
75– Il Palazzo di città, il Municipio.
76– La lascivia di Edoardo era in realtà proverbiale tra il popolo. (V. sopra la
nota 9).
77– Era uno dei più antichi fortilizi della Londra normanna, costruito da
Guglielmo il Conquistatore.
78– Sull’identità di questi personaggi, trascrivo dalle note del Lodovici
(op.cit.): “John Shaw, fratello del Lord Mayor di Londra, dottore in
teologia, tenne poi nella chiesa di San Paolo un sermone sulla lussuria del
defunto re Edoardo e sulla condizione di bastardi dei due figli... Frate
Penker: predicatore illustre, padre provinciale dei frati Agostiniani”.
79– Si capisce che i principi – i due figli di Clarenza – sono stati fatti trarre
alla Torre da Riccardo. Da esperto drammaturgo, Shakespeare ci ha
risparmiato la scena, lasciandola immaginare da ciascuno a suo talento.
80– Lady Elisabeth Lucy, dei conti di Suffolk, andata poi sposa al visconte
Lisle.
81– “Ma intanto che questo matrimonio (di Edoardo con Elisabetta
Woodville, vedova di John Grey) si celebrava misteriosamente a Grafton
Vourt, Warwick, per incarico dello stesso re Edoardo, negoziava in Francia
un legame con Bona di Savoia, sorella della regina; e tutte le convenzioni
erano già concluse, allorché il conte riseppe della determinazione di
Edoardo” (Galibert & Pellé, op. cit. I, pag. 406).
82– Riccardo aveva comandato vittoriosamente la spedizione contro gli
Scozzesi, nemici tradizionali degli York (1482).
83– “... were not used to be spoken to but the Recorder”: “Recorder” si
chiama oggi in Inghilterra il magistrato monocratico equivalente press’a
poco a quello ch’era il nostro pretore. Al tempo di Shakespeare, era così
denominata la persona, esperta di discipline giuridiche, nominata dal
sindaco e dagli assessori comunali (“Aldermen”) per registrare o tenere a
mente le procedure giudiziarie da suggerire che fossero da applicarsi nei
236
NOTE
casi singoli; la sua testimonianza orale faceva testo. La figura medioevale
dello scabino è quella che più gli si avvicina.
84– “È sempre stato l’accorgimento più astuto del tiranno simulare la
devozione religiosa” (John Milton, “The Complete Works”, vol VI, pag.
381, Yale University Press, 1962).
85– “For on that ground I’ll build a holy descant”: l’immagine è tratta dalla
polifonia medioevale nella quale il “discanto” era la voce più acuta della
composizione musicale, che cantava, sulla base musicale, la parte più alta.
Buckingham vuol dire che fingerà di unirsi come prima voce alle richieste
dei cittadini portate dal Lord Mayor.
86– “Go, go, up to the leads”: “lead” è qualsiasi luogo da cui si domina una
vista, un gruppo di gente; in questo caso è il soppalco della scena (“the
upper”) che dovrebbe raffigurare la galleria/loggia del palazzo, sulla quale
si farà vedere Riccardo in mezzo a due prelati.
87– “... the aldermen”: erano quelli che sono oggi gli assessori del comune,
i più stretti collaboratori del sindaco (prima li ha chiamati “brethren”,
“confratelli”).
88– Il linguaggio di Riccardo e Buckingham è volutamente fiorito e
artificioso, come dev’essere un linguaggio ipocrita.
89– “... which fondly you would here impose on me”: “fondly” è qui inteso
nel senso che la parola aveva nell’antico inglese di “affectionately”,
“tenderly”, “lovingly”; il senso peggiorativo di “foolisly”, “stoltamente”,
“insensatamente”, con il quale l’hanno inteso molti curatori, è venuto alla
parola successivamente. E del resto, a fil di logica, Riccardo, per quanto
voglia fingere, non potrebbe trattare da insensati quelli che vengono a
offrigli una cosa che egli vuole gli venga offerta.
90– V. sopra la nota 80.
91– Gli storici Galibert & Pellé (op. cit.) narrano così l’incontro di Edoardo
con questa Elisabetta. “In una partita di caccia ch’ebbe luogo nel
Northamptonshire, a Grafton, ebbe (Edoardo) occasione di vedere Elisabetta
Woodville, vedova di John Grey, gentiluomo addetto alle parti di Lancaster,
stato ucciso nella seconda battaglia di Sant’Albano, e al quale erano stati
confiscati i beni. Appena fu Edoardo entrato nella residenza di Elisabetta,
essa dama gli si gettò alle ginocchia per supplicarlo di restituire ai suoi figli
i beni del padre. Colpito Edoardo dalla bellezza della giovane vedova e
dall’incanto del suo conversare, accordò tutto quello che gli si domandava,
237
NOTE
sperando che a vicenda egli non avrebbe che a domandare per ottenere. Ma
Lady Grey fu incrollabile; e malgrado l’affetto reale che per Edoardo
sentiva, seppe resistere all’abbagliante prestigio che circondava un re di
venticinque anni. Edoardo, vinto da sì nobile resistenza, ma sempre preso,
profferì la mano e la persona a colei che gli aveva ispirato sì viva passione.
E il matrimonio si compì.”.
92– Per Buckingham il letto in cui nasce è “illegittimo” (“unlawful”) solo
per comodità dialettica, perché in realtà Edoardo nasce in virtù di
matrimonio.
93– Si tratta, storicamente, della piccola Margaret, contessa di Salisbury,
nata nel 1473, e quindi in età di 10 anni al momento del dramma; la madre è
Isabella Nevill, sorella maggiore di Anna, figlie entrambe del famoso conte
Riccardo di Warwick detto il “Creatore di re” (“Kingmaker”).
94– Si capisce qui che il matrimonio con Riccardo di Gloucester è già
avvenuto; non però l’incoronazione di Anna a regina, che avverrà nel cuore
del dramma.
95– “... go, cross the seas and live with Richmond, from the reach oh hell”:
questo Richmond, per la storia, è Enrico, conte di Richmond, ultimo
rappresentante della casa Lancaster, nipote, per parte di padre, di Caterina di
Francia, presso la quale si trova rifugiato dopo la disfatta definitiva subita
dai Lancaster nella battaglia di Tewksbury. Su di lui i partigiani della “rosa
rossa” (la rosa dei Lancaster) fermarono l’attenzione per rimetterlo sul trono
e liberarsi dalla tirannia di Riccardo III. Ma la congiura fallì. Richmond
riprenderà poi le armi contro Riccardo e sarà quello che lo ucciderà nella
battaglia di Bosworth, diventando re col nome di Edoardo VII.
96– Richmond non era figlio ma figliastro di Lord Stanley. Sembra chiaro
che le parole di Stanley: “You shall have letters from me to my son in your
behalf” non può intendersi, come leggono molti: “Porterete con voi lettere
da me a mio figlio...”; non si capisce come possa Dorset, recando egli stesso
un messaggio a Richmond, fargli sapere di venirgli incontro per la strada,
una volta sbarcato in Francia. A Calais non c’era posta pneumatica!
97– “To feed my humour, wish thyself no harm.”: cioè: “Non voglio uccidere
in me l’equilibrio dei sensi, impazzire, abbandonandomi alla collera e
all’invidia contro di te”. È un improvviso sprazzo di filosofia greca.
Secondo Ippocrate, nel corpo umano sono presenti quattro liquidi
(“humours”): il sangue, sede della passionalità; la bile, sede della collera; la
238
NOTE
flemma, sede del sentimento omonimo, e l’atrabile, sede della malinconia.
Secondo che nell’uomo predomini l’uno o l’altro di questi “umori” si rompe
l’equilibrio del suo essere. Elisabetta dice che se dovesse mettersi ad
augurare male ad Anna, nutrirebbe uno dei suoi umori, la bile, a danno di
altri e finirebbe con lo squilibrare il suo temperamento. Al tempo in cui
Shakespeare scriveva il “Riccardo III” (il lavoro figura depositato allo
“Stationer’ s Register” nel 1597), il suo amico Ben Jonson scriveva la sua
commedia “Ciascuno col suo umore” (“Every Man in His Humour”),
rappresentata nel 1598; è probabile che questo accenno di Elisabetta agli
“humours” ne sia un’eco.
98– Riccardo York odia il padre di Anna, Warwick (Sir Richard Nevill,
conte di Warwick, detto il “Creatore di re”, “The Kingmaker”, v. sopra la
nota 93) perché questi, nel dare in sposa la figlia Anna al principe Edoardo,
figlio di Enrico IV e di Margherita, aveva avuto in animo di rimettere sul
trono d’Inghilterra la casa Lancaster.
99– La didascalia che figura in tutti i testi è: “The trumpets sound a sennet”:
il “sennet” è uno dei tre segnali musicali presenti nel teatro di Shakespeare,
gli altri due sono il “flourish” e l’“alarm” (o “alarum”). Il “sennet” dei tre è
il più solenne: annuncia solitamente l’entrata in scena in gran pompa di
personaggi regali. Consiste, secondo la ricostruzione congetturata (non
v’erano registratori di suoni all’epoca), in una serie di squilli di tromba o di
corno, o degli uni e degli altri insieme. È anche usato per salutare l’entrata
in scena di cortei, processioni, tornei, ecc. La sua durata pare non dovesse
essere meno di due interi minuti. È detto anche “Fanfara”.
Il “flourish” è invece un semplice squillo di tromba, usato per circostanze
analoghe, ma meno solenni o pompose.
L’“alarm” è normalmente un rullo di tamburo, usato per annunciare una
battaglia in corso, l’ingresso di un esercito in marcia, un funerale. Può
accompagnarsi con gli altri due segnali.
Quali forme musicali avessero questi segnali è, naturalmente, ignoto.
100– All’epoca, tra le famiglie nobili si promettevano in sposa, e talvolta si
maritavano anche, bambine non ancora puberi.
101– Il testo ha un generico: “Go by this token”, dove “token” è qualunque
cosa che possa darsi come pegno, campione, segno di riconoscimento, ecc.
Alcuni intendono “con questo anello”. Il fatto è che ciò che Riccardo
consegna a Tyrrell non si sa: è una di quelle cose che Shakespeare lascia
239
NOTE
alla fantasia del regista o di chi legge.
102– “Rise and lend thine ear”: è da intendere che Riccardo sia sempre
seduto in trono, e Tyrrell si sia inginocchiato ai suoi piedi.
103– Quel che Riccardo sussurra all’orecchio di Tyrrell ce lo farà sapere il
racconto di questi nella scena seguente: Riccardo gli dice come deve
uccidere i bimbi: soffocandoli. Con quale dinamica, però, non si sa. “We
smothered”– dirà l’altro sicario Dighton; ed è lo stesso verbo che si ritrova
nell’“Otello” nella didascalia della scena finale: “Smothers her”; dove, in
verità, non fu mai pacifico tra i critici se si tratti di soffocamento mediante
strozzamento, o mediante la pressione di un cuscino sulla bocca. Nel film di
Laurence Olivier, Riccardo, a questo punto, per mostrare a Tyrrell come
procedere, afferra un cuscino e glielo tiene pressato sulla bocca. Ma anche
qui, regista e lettore immaginino a loro agio e talento.
104– Castello normanno sull’altura che sovrasta la città di Exeter, nel
Devonshire.
105– Brecon, nella Contea del Galles, nella valle dell’Usk, feudo della
famiglia Buckingham, con un famoso castello medioevale.
106– “I lor cadaveri, ancora caldi, furono portati a pié della scala, dove
furono sepolti in una fossa all’uopo scavata. Tale è il racconto che fecero gli
assassini alcuni anni dopo; ed alcune ossa trovate nel sito indicato durante il
regno di Carlo I non permettono di dubitare della loro veridicità” (G.
Galibert & C.Pellé, op. cit., I, pag. 415).
107– V. sopra la nota 70.
108– Edoardo IV, oltre ai due figli maschi, che Riccardo ha fatto trucidare
alla Torre, aveva avuto da Elisabetta cinque femmine. La prima, Elisabetta,
di cui qui si parla, andrà sposa a Richmond, venuto al trono come Enrico
VII.
109– “When holy Harry died, and my sweet son.”: sottinteso “Dio
dormiva”. Enrico VI e Edoardo, principe di Galles, erano rispettivamente
marito e figlio di Margherita d’Angiò.
110– Il rito di sedere per terra a raccontare a se stessi e agli altri le proprie
sventure è frequente nei personaggi shakespeariani (cfr. in “Re Giovanni”,
III, 1, 73): “Here I and sorrows sit, here is my throne...”:
COSTANZA — (Si siede per terra)
“E qui sediamo io e il mio dolore,
“qui è il mio trono....”
240
NOTE
111– V. sopra la nota 58.
112– “Cancel his bond of life”: “bond” è ogni documento legale con cui un
governo o altra autorità si obbliga a pagare al cittadino creditore alla
scadenza. Qui sta sta per il “buono” (nel senso di “buono del Tesoro”) che
Dio rilascia agli uomini al momento della loro nascita, e annulla al
momento della loro morte, secondo la dottrina di Epitteto (v. sopra la nota
46).
113– Nessuno, che non sia un Inglese “verace”, riuscirebbe a capire il senso
di questa battuta di Riccardo; e anche tra gli Inglesi veraci credo siano pochi
quelli che sanno che “l’ora di Humphrey” (“Humphrey hour”) è l’ora di
colazione. L’espressione, secondo il Praz (“Riccardo III”, Sansoni, Firenze,
1943-47) è derivata forse con allusione al “Good Duke Humphrey”, come
veniva chiamato dal popolo il Duca Humphrey di Gloucester, figlio minore
di Enrico IV, e, alla morte di suo fratello Enrico V (1422), Lord protettore
del minore figlio di quello, Enrico VI. Nella cattedrale di San Paolo a
Londra, dove si credeva fosse sepolto (a torto, perché la sua tomba si trova
nell’Abbazia di Sant’Albano), si chiamò “Duke Humphrey Walk” la navata
in cui si raccoglievano i mendicanti, e poiché è dei mendicanti saltare il
pasto, l’espressione “pranzare con il Duca Humprey” passò a significare
“saltare il pasto”, “digiunare”. Sicché il senso della battuta di Riccardo alla
madre che gli ha chiesto di citargli una sola ora in cui ella abbia avuto
conforto dalla sua compagnia, è: “L’unica ora in cui sei stata confortata, è
stata quell’ora in cui io non c’ero, tu avevi appetito e hai fatto colazione
senza aspettare la mia compagnia”.
114– In verità, Brigida, una delle quattro femmine avute da Elisabetta col
primo marito – e perciò non “di sangue reale” come Elisabetta e i due
maschi fatti trucidare da Riccardo – si fece monaca; le altre tre, Cecilia,
Anna e Caterina andarono tutte spose a nobili inglesi; così Elisabetta.
115– Nel testo inglese Elisabetta non risponde “Sì, nipoti”, anche se dice:
“Cousins indeed!”, rispondendo a Riccardo, che aveva detto : “You speak as
if that I had slain my cousins”; il testo inglese gioca sull’omofonia di
“cousin”, “cugino”, “nipote”, “parente in generale”, e “cozen”, “ingannare”,
“defraudare”. Sicché è come se l’attrice risponda: “Sì, ingannati!”. È uno di
quei bisticci di parole con i quali Shakespeare, con un abile tocco di
comicità, che è impossibile rendere in altra lingua, fa sorridere lo spettatore
nei momenti più drammatici.
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NOTE
116– Come si è visto, le cose non sono andate come dice Elisabetta. Tyrrell,
nel suo monologo all’inizio della scena 3a, non parla di pugnali e di sangue;
i due piccoli principi furono soffocati, come racconteranno i due sicari
alcuni anni dopo (C. Galibert & C, Pellé, op. cit. I, pag. 415); ma Elisabetta
non sa ancora in che modo sono stati uccisi i suoi figli.
117– Il Lete, il fiume infernale della mitologia classica che scorreva nei
Campi Elisi e le cui acque, che le anime morte dovevano bere, avevano il
potere di cancellare dalla mente il ricordo del passato.
118– “Your reasons are too shallow and too quick”: “quick” detto di parole
è “pronto” nel senso di “vivace”, “infiammato ma superficiale”; detto di
persone è “vivo”, “animato da vita”, opposto a “dead”(cfr. in “Amleto”, V,
1, 122: “’Tis for the dead, not for the quick...”); e in tal senso lo intende
Elisabetta, associando le “ragioni” ai suoi due figlioletti uccisi.
119– L’ordine della “Giarrettiera”, istituito nel 1344, era ed è la massima e
più prestigiosa onorificenza cavalleresca inglese; essa veniva conferita in
solenne cerimonia dal re in persona.
120– Cristoforo Urwick è un prete e ai preti gli Inglesi dànno del “Sir” che,
in quel caso, corrisponde al nostro “don”.
121– V. sopra la nota 59.
122– S’intende: se passassi dalla parte di Richmond; del quale – come
abbiamo visto – Stanley è patrigno.
123– Località imprecisata, che alcuni indicano – come noi qui – con
Hardforest, altri semplicemente con Harford; l’Alexander ha un “Hardford
West in Wales”, che non esiste egualmente sulle mappe dell’epoca.
124– “Rice ap Thomas”: “ap” è la particella patronimica dei nomi nobiliari
gallesi, come “mac” degli scozzesi e il “de” degli italiani; ma il traduttore
non se l’è sentita di tradurre qui “Riso de Tomaso”!
125– Centro dello Staffordshire, alla confluenza dei fiumi Tame e Anker,
distante circa 20 km. da Birmingham, 150 da Londra.
126– V. sopra la nota 96.
127– Si legga “lai-ster”, per la metrica.
128– “ The Earl Pembroke keeps his regiment”: è inutile notare che
all’epoca del dramma non esisteva un’unità militare chiamate “reggimento”.
129– “... good captain Blount”: “captain” e “general” nel linguaggio
shakespeariano sono la stessa cosa.
130– Il vaticinio di Enrico VI a Richmond è nella terza parte dell’“Enrico
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NOTE
VI”, VI, 6, 70-78.
131– “Jockey of Norfolk, be no so bold/ For Dickon thy master is bought
and sold”: il messaggio reca in sottinteso l’annuncio del tradimento di Lord
Stanley, passato con le sue truppe dalla parte del figliastro Richmond. Per la
storia, fu l’apporto delle truppe di Stanley che decise la battaglia (1485) di
Tamworth a favore di Richmond, determinando con essa la fine della
dinastia degli York, e l’avvento di quella dei Tudor.
132– “... and I will stand the hazard of the die”: letteralm.: “... e starò al
rischio del dado”; “starò al gioco” è costrutto preso in prestito dal Lodovici
(op.cit.).
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