ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI
Corso di laurea in
Filologia, letteratura e tradizione classica
Oreste e Amleto: variazioni sul mito
Tesi di laurea in
Storia dello Spettacolo nel Mondo Antico
Relatore Prof: Renzo Tosi
Correlatore Prof. Federico Condello
Presentata da: Valentina Mancinelli
Sessione
prima
Anno accademico
2013-2014
INDICE
INTRODUZIONE
1
1. SHAKESPEARE: «SMALL LATINE, LESSE GREEKE»
4
1. 1
Elizabethan English Grammar School
4
1. 2
Traduzioni, letture e reimpiego dei classici
6
1.3
Il greco in Shakespeare
2. ORESTE E AMLETO FRA MITO, TRAGEDIA E LEGGENDA
13
18
2. 1
Oreste nella letteratura greca
18
2. 2
Amleto in Saxo Grammaticus e Belleforest
21
2. 3
The Spanish Tragedy, Ur-Hamlet e Hamlet
25
2. 4
Similarità delle vicende
29
3. PASSI IN PARALLELO
34
3. 1
Il prologo: la guardia e il re
35
3. 2
Il lutto e Niobe
38
3. 3
Clitemestra e Gertrude
45
3. 4
Claudio, Clitemestra e il simbolismo del serpente
50
3. 5
Il matricidio, la coscienza e il senso del male
55
3. 6
Vendetta e adulterio
63
3. 7
Orazio e Pilade
69
3. 8
Ofelia ed Elettra
73
CONCLUSIONI
77
BIBLIOGRAFIA
79
INTRODUZIONE
L’Amleto di Shakespeare rappresenta una delle più alte vette della produzione
drammaturgica di tutti i tempi. La tragedia del principe danese dà conto di una serie di
tematiche esistenziali, morali, politiche e religiose quanto mai attuali. D’altro canto, la
grandezza di un’opera si estrinseca in parte, se non integralmente, nella sua perdurante
contemporaneità. Emblematico, a tal riguardo, il titolo di un famoso volume di Jan Kott,
Shakespeare Our Contemporary. Ma se l’eccezionalità di un’opera si manifesta
nell’universalità delle tematiche trattate, allora non sarà casuale né tantomeno inusuale
ritrovare espresse quelle stesse tematiche in altre opere, senza che per questo si debba
ipotizzare fra di esse un rapporto diretto. Tale pare essere il caso dell’Amleto: vendetta,
colpa e follia sono solo tre fra le più evidenti analogie che si rintracciano ponendolo in
parallelo con un altro capolavoro del teatro occidentale, l’Orestea di Eschilo, scritta oltre
duemila anni prima dalla nascita dello stesso Shakespeare. L’Orestea, nella sua interezza,
tramite il dispiegamento ordinato delle vicende all’interno della trilogia, prende ad oggetto
la saga familiare degli Atridi, portando a compimento la narrazione di un unico tragico
destino, quello di Oreste, figlio di Agamennone.
A prima vista potrebbe apparire quasi inverosimile che il Bardo dell’Avon ignorasse
la trilogia eschilea o, se non questa in particolare, che non conoscesse almeno una qualche
versione della vicenda di Oreste declinata in forma letteraria nel mondo classico greco
(includendo quindi nelle possibili varianti, oltre ai tre tragediografici attici, anche Pindaro e
Omero1). Tante e tali le similarità fra le due storie che il dubbio non può che insinuarsi
furtivo. Sia Oreste che Amleto sono costretti a vendicare la morte di un padre, re, ucciso a
tradimento, di ritorno dalla guerra, da un usurpatore al trono il quale si avvale, per la
preparazione e l’esecuzione del delitto, dell’ausilio della fedifraga moglie del re. Inoltre,
l’orrore del matricidio e la follia, vera o presunta, sono aspetti peculiari e idiosincratici che
caratterizzano entrambe le vicende. Ma un elemento, oltre al finale, le distanzia: il ruolo
della madre nel regicidio. Per Eschilo la colpa ricade su Clitemestra, Egisto è una figura di
secondo piano. In Shakespeare accade il contrario: Claudio ordisce il regicidio e la colpa di
1
L’Orestea di Stesicoro non può aver avuto alcun impatto su Shakespeare, essendo giunta in età moderna
in forma altamente frammentaria.
1
Gertrude è solo nella sua tacita connivenza.
Molto è stato scritto sulle connessioni dell’Amleto con la tragedia antica. È
significativo che l’argomento sia stato trattato meno dagli studiosi shakespeariani che dai
filologi classici. Ponendo come dato incontrovertibile che Shakespeare non conoscesse la
tragedia greca, l’argomento non è stato trattato come forse avrebbe meritato. Al contrario, il
‘complesso di Edipo’ di Amleto è stato analizzato abbondantemente nella letteratura
scientifica moderna, con analisi ispirate sia dai testi di Freud che da quelli di Jung, in
particolare, dalla sua teoria degli archetipi.
I temi dell’assassinio regale, del destino ereditario, delle vendette intergenerazionali,
dell’incesto, dell’adulterio, dei tetri banchetti, della violazione della sacralità permeano le
storie di Esiodo, Pindaro, Omero, e dei tragediografi attici. Per di più, le radici classiche di
Amleto sembrano estendersi oltre il dramma mitico, tramite allusioni ai corrotti imperatori
romani Claudio e Nerone. Amleto ha una tale varietà di elementi e riferimenti classici che
ogni possibile fonte di questo capolavoro elisabettiano non dovrebbe essere esclusa a priori,
ma vagliata e considerata con cautela.
La trattazione più importante e dettagliata del rapporto fra Amleto e Oreste è
rappresentata dallo studio di Gilbert Murray del 1914, Hamlet and Orestes: A Study in
Traditional Types. Murray non solo ha proposto un raffronto con l’Orestea e le due Elettre,
ma ha inserito nel suo studio anche l’Andromaca, l’Ifigenia fra i Tauri e l’Oreste di
Euripide. Ebbe inoltre il merito di collegare per la prima volta lo studio della storia del mito
di Oreste con le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus e le Ambales Saga islandesi. Fu
anche il primo a confrontare il personaggio di Ofelia con quello di Elettra, e quello di
Orazio con Pilade. «There are first the broad similarities of situation between what we may
call the original sagas on both sides; that is the general story of Orestes and Hamlet
respectively. But secondly, there is something much more remarkable; when these sagas
were worked up into tragedies, quite independently and on very different lines, by great
dramatists of Greece and England, not only do most of the old similarities remain, but a
number of new similarities are developed. That is Aeschylus, Euripides, and Shakespeare
are strikingly similar in certain points which do not occur at all in Saxo or Ambales or the
Greek epic». Murray propone l’esempio della follia del protagonista, che è molto simile in
Euripide e Shakespeare, ma del tutto diversa dalla leggenda nordica di Saxo o dalla saga
2
islandese di Ambales.
La domanda che si pone infine è se Shakespeare conoscesse o meno il greco. La
risposta che si dà è un no categorico, ma introduce la possibilità che Shakespeare fosse
potuto venire a conoscenza dei classici tramite le conversazioni con altri colleghi
drammaturghi, meglio istruiti di lui. Il problema fondamentale per lo studio comparato
della drammaturgia attica e di quella shakespeariana è da sempre stato rappresentato da una
sorta di tacito riconoscimento della scarsa cultura letteraria dell’autore elisabettiano. Per
quanto sconcertante possa apparire la raffinatezza, l’allusività, la sensibilità aristocratica e
lo stile di Shakespeare in considerazione delle sue ‘umili’ origini, ancora oggi la quasi
totalità degli studiosi non ha dubbi sulle scarse conoscenze filologiche e letterarie che
questi avesse avuto. Certo, molte sono state anche le teorie sorte circa l’attribuzione delle
opere di Shakespeare: la cosiddetta corrente degli Anti-Stratfordiani ne ha messo in dubbio
la paternità sin dal diciottesimo secolo, ipotizzando nel tempo una mole portentosa di
attribuzioni, passando da Francis Bacon a Christopher Marlowe. Ma la critica più auorevole
continua a rigettare queste ipotesi. A mio avviso, piuttosto che cercare di attribuire ad autori
differenti l’opera shakespeariana, andrebbe riconsiderata l’idea che dello Shakespeare di
Stratford si è creata nei secoli circa la sua scarsa educazione filologica e letteraria.
In questo lavoro, tenterò innanzitutto di rilevare le incongruenze che sussistono fra i
dati storici relativi all’educazione ricevuta da Shakespeare e l’opinione secondo cui le sue
competenze fossero incompatibili con una eventuale fruizione e conoscenza dei classici
greci. Nel tentativo specifico di ricercare affinità fra l’Amleto e la drammaturgia attica verrà
in seguito proposta una comparazione tematica delle vicende, sulla scorta del lavoro già
citato di Murray. In ultimo, verranno prese in considerazione e trattate separatamente delle
singole analogie fra personaggi ed episodi, con relativi riferimenti testuali. Credo infatti che
limitarsi a redigere analisi comparative senza avvalersi delle fonti primarie – sia nell’ipotesi
in cui ciò sia da ricollegare a considerazioni aprioristiche circa l’inesistenza di rapporti
diretti fra l’autore inglese e il teatro attico, sia che invece ci si accontenti di rilevare
paralleli tematici generali fra le vicende per trarre deduzioni di carattere opposto – sia
un’operazione incompleta e di per sé invalidante. Nel mio piccolo, ho cercato di evitare
questa situazione.
3
1. SHAKESPEARE:
«SMALL LATINE, LESSE GREEKE»
Da sempre, stuoli di filologi e studiosi hanno negato a Shakespeare la possibilità di aver
subìto influssi d’alcun genere dalla lettura e conoscenza dei classici greci, basando tale
asserto sulla scarsa o quasi nulla pṕreparazione linguistica che a questi si ascriveva della
lingua greca. Com’è noto, tale giudizio è legato a filo doppio con la testimonianza del
drammaturgo suo contemporaneo, Ben Jonson, il quale, nel ricordo che ne delineò nel
poema presente nella prefazione al Primo Folio delle opere complete di Shakespeare del
1623, To the memory of my beloved, the Author, Mr. William Shakespeare, and what he hath
left us, ne rammenta lo «small Latine and lesse Greeke». Trattandosi di un elogio funebre, è
verosimile che Jonson intendesse allora esaltarne la genialità, piuttosto che proporre un
giudizio critico sulle competenze linguistiche del collega. A Shakespeare riconosceva infatti
l’enorme merito di essere riuscito a raggiungere livelli di espressione lirica d’incomparabile
bellezza, pur non avendo alle spalle una formazione scolastica d’élite, ma avendo
frequentato una semplice Grammar School inglese di epoca elisabettiana2.
Questo capitolo cercherà dunque di fornire delle indicazioni relative all’educazione
ricevuta da Shakespeare nella Grammar School di Stratford, per poi utilizzarle come
strumento interpretativo della famosa frase di Jonson. In ultimo verranno indicati alcuni
passi dell’opera di Shakespeare che vengono generalmente addotti a prova della familiarità
che questi aveva con la lingua greca.
1. 1
Elizabethan English Grammar School
Se si pensasse alle Grammar Schools come a delle odierne scuole elementari e medie, si
rischierebbe di fare un torto enorme alle prime. Nella mastodontica opera in due volumi
William Shakspere’s Small Latine & Lesse Greeke (1944) lo studioso Thomas Whitfield
Baldwin, dopo aver descritto in dettaglio il funzionamento delle Grammar Schools inglesi
di XVI secolo, prestando massima attenzione al trattamento dello studio del latino che in
2
Per quanto riguarda la formazione scolastica di Shakespeare cf. Schoenbaum 1987, pp. 62–63; Ackroyd
2006, p. 53; Wells et al. 2005, pp. xv–xvi.
4
esse avveniva, e portando ad oggetto di indagine la stessa King’s Free Grammar School di
Stratford che, ipoteticamente, Shakespeare avrebbe frequentato da ragazzo, mostra come
tali istituti fornissero all’epoca la miglior preparazione che si potesse ottenere in ambito
umanistico e letterario. Gli studi universitari erano infatti di tipo quasi esclusivamente
‘tecnico’ e ‘professionale’, poco o nulla aggiungevano alle competenze di carattere
‘speculativo’. Queste ultime, acquisite nelle Grammar Schools, erano di gran lunga
superiori a quelle a cui siamo abituati oggi. Il latino, in particolare, aveva un ruolo chiave
nella formazione letteraria degli allievi: oltre allo studio delle opere dei maggiori autori
classici quali Ovidio, Virgilio, Orazio, Seneca e Cicerone, solo per citarne alcuni, si era
anche tenuti a redigere vere e proprie composizioni in lingua. Non bisogna dimenticare che
il latino rappresentava in quel momento la grande lingua colta, non solo tecnica (John
Owen, ad esempio, scrisse i suoi epigrammi in latino), e che tale rimarrà fino alla fine del
Settecento. Nelle scuole inglesi, addirittura in pieno XIX secolo, si sosteneva che la lingua
inglese non fosse adatta ai commenti dei testi classici, i quali dovevano continuare ad essere
redatti in latino.
Nel capitolo finale dell’opera, a conclusione del suo immenso lavoro, Baldwin
scrive (II, pp. 662-663) che Shakespeare «had such knowledge and techniques as grammar
school was calculated to give. We have no direct evidence that he ever attended grammar
school a single day. […] But the inference is an inevitable one, amounting almost to
certainty. […] The internal evidence and such external evidence as survives conspire
together to indicate that Shakespeare pretty certaintly had at Stratford the benefits of the
complete grammar school curriculum». Tale preparazione influenzò inoltre Shakespeare
nell’adozione di un principio basilare per la futura crescita da drammaturgo: il costante
impiego dell’imitatio e dell’aemulatio.
Bisogna dunque ammettere una conoscenza approfondita della lingua latina (a
discapito dello «small latine»). Per quanto riguarda la lingua greca la questione è diversa. A
quei tempi, nelle Grammar Schools, il greco non veniva propriamente insegnato, se non
nelle sue linee essenziali come propedeutiche allo studio del latino, e piuttosto che lo studio
dei ‘classici’, agli studenti veniva sottoposta la lettura del Nuovo Testamento in greco.
Partendo da questo genere di considerazioni non è difficile comprendere per quale
motivo si continui a rigettare l’ipotesi secondo cui Shakespeare conoscesse la letteratura
5
greca. La formazione scolastica del tragediografo inglese gli precludeva probabilmente
l’accesso ai testi in lingua originale e, a meno che non si desideri prestar fede alle ipotesi
Anti-Stratfordiane, secondo cui dietro al piccolo drammaturgo si sarebbe celato un qualche
personaggio di spicco3, fosse un nobile, un altro drammaturgo (Christopher Marlowe in
primis) o, addirittura, un complesso di altri drammaturghi, si è indotti ad avallare tale
opinione. Il testo di James A. K. Thomson, Shakespeare and the Classics (1966), scritto in
un periodo in cui venivano diffusamente messi in luce i riferimenti eruditi presenti nei
drammi di Shakespeare, era inteso proprio a screditare questo genere di ipotesi. Si parlava
allora di ‘disintegrators’, secondo i quali non sarebbe stato possibile assegnare ad un’unica
persona dell’educazione di Shakespeare, un canone talmente pregno di passaggi eruditi4.
1. 2
Traduzioni, letture e reimpiego dei classici
È chiaro che la questione avrebbe assunto toni differenti se fossero esistite traduzioni
inglesi delle opere dei grandi autori classici greci. Ma in epoca elisabettiana,
sfortunatamente, ne esistevano pochissime. Restringendo il campo di interesse al solo
dramma attico, non ne esisteva alcuna, ad eccezione di una Jocasta di George Gascoigne e
Francis Kinwelmersh, edita nel 1566. Era questa a sua volta basata sulla traduzione italiana
di Lodovico Dolce delle Fenicie euripidee. Risulta dunque evidente che, in assenza di testi
in traduzione e di competenze linguistiche specifiche, la conoscenza del dramma attico era
preclusa ai più, ivi incluso Shakespeare. Scrisse a tale riguardo George K. Hunter (1978, p.
3
4
Il film ‘Anonymous’ di Roland Emmerich, del 2011, è solo l’espressione più ‘popolare’ di questo genere
di mistificazioni storiche. Il problema, a mio avviso, non sarebbe sorto se non si fosse preteso, sin
dall’inizio, di sminuire le competenze linguistiche, letterarie, filologiche, storiche di Shakespeare, con
l’intento di magnificarne la naturale genialità. Per uno sguardo generale sulla ‘questione shakespeariana’
cf. Shapiro 2010 e Gibson 2005.
Circa la questione della paternità delle opere di Shakespeare e l’attuale temperie critica cf. Kathman 2003,
p. 621: «antiStratfordism has remained a fringe belief system»; Schoenbaum 1991, p. 450; Paster 1999, p.
38: «To ask me about the authorship question [...] is like asking a palaeontologist to debate a creationist’s
account of the fossil record.»; Nelson 2004, pp. 149–51: "I do not know of a single professor of the
1,300-member Shakespeare Association of America who questions the identity of Shakespeare [...]
antagonism to the authorship debate from within the profession is so great that it would be as difficult for
a professed Oxfordian to be hired in the first place, much less gain tenure […]»; Carroll 2004, pp. 278–9:
«I have never met anyone in an academic position like mine, in the Establishment, who entertained the
slightest doubt as to Shakespeare’s authorship of the general body of plays attributed to him.»; Pendleton
1994, p. 21: «Shakespeareans sometimes take the position that to even engage the Oxfordian hypothesis is
to give it a countenance it does not warrant.»; Sutherland & Watts 2000, p. 7: «There is, it should be
noted, no academic Shakespearian of any standing who goes along with the Oxfordian theory.»; Gibson
2005, p. 30: «[...] most of the great Shakespearean scholars are to be found in the Stratfordian camp.»
6
179) che «the Greek drama (except for Euripides in some of his aspects) was necessarily
inaccessible to the Elizabethans». D’altronde, erano marginali anche eventuali mediazioni
derivanti da fonti secondarie quali potevano essere gli autori latini. Fra questi, Seneca per la
tragedia era il medium più importante, avendo rappresentato per tutto il Rinascimento «the
most available and prestigious ancient tragedian5». Polonio, nell’Amleto stesso, indica
Seneca e Plauto quali primi modelli rispettivamente per la tragedia e la commedia6.
La fase iniziale del teatro elisabettiano tradisce segni inequivocabili della presenza
senecana. La prova esterna è fornita dal famoso attacco di Thomas Nashe del 1589 ad un
drammaturgo popolare di cui denigra i metodi come caratteristici di coloro che
busy themselves with the endeavours of art, that could scarcely Latinize their neck-verse if
they should have need; yet English Seneca read by candle-light yields many good
sentences, as “Blood is a beggar” and so forth; and if you entreat him fair in a frosty
morning he will afford you whole Hamlets, I should say handfuls, of tragical speeches. But
O grief! Tempus edax rerum. What’s that will last always? The sea exhaled by drops will in
continuance be dry, and Seneca, let blood line by line and page by page, at length must
needs die to our stage; which makes his famished followers [...] to intermeddle with Italian
translations. Wherein how poorly they have plodded [...] let all indifferent gentlemen that
have travelled in that tongue discern by their twopenny pamphlets.
Thomas Nashe, 15897
Scritte all’ombra del principato neroniano, le tragedie di Seneca sono caratterizzate da una
continua preoccupazione per il verificarsi di crimini orribili e abusi tirannici del potere. I
suoi protagonisti sono spinti a uccidere da passioni dissennate come la rabbia, la lussuria, la
gelosia, la brama di vendetta; la maggior parte di loro, a differenza della maggior parte
degli eroi di Shakespeare, sono consapevolmente ingiusti, ma guidati da istinti che
sembrano umanamente incontrollabili (fantasmi, Furie e divinità) e sono spesso maledetti
dalle conseguenze di mali radicati nel loro passato; così, nonostante gli sforzi e la loro
5
6
7
Martindale 1990, p. 30.
Amleto, 2.2.366: «Seneca cannot be too heavy, nor Plautus too light.»
Nashe 1958, pp. 311-315. La famosa battuta di Nashe viene interpretata come indicazione del fatto che i
drammaturghi elisabettiani avevano familiarità con le traduzioni contemporanee delle opere (Brower
1971, p. 148). Ma esistono anche interpretazioni alternative. Si veda, ad esempio, Hunter 1978, pp.
193-194.
7
caparbietà, sembrano più le vittime che gli agenti responsabili del proprio destino. Un’altra
caratteristica tipica è il loro irresistibile spirito di affermazione del sé; possono
esemplificare la nozione stoica di un’identità personale indistruttibile (come l’Ercole sul
monte Eta), ma più spesso si tratta di una distorsione perversa di questo ideale (come nel
Tieste e nella Medea). Gli eroi e le eroine tragiche di Seneca vedono i loro crimini come
possibilità di espressione e imposizione del sé e svolgono questa individualità appassionata
tramite monologhi e soliloqui lunghi e retoricamente molto elaborati.
George Steiner (1961, pp. 20-21) scrive che i drammaturghi elisabettiani –
infrangendo le unità aristoteliche di tempo e spazio, fecendo a meno dei Cori e combinando
intrecci tragici a intrecci comici senza discriminazione 8 – si liberarono da ogni precetto
redazionale di ascendenza neoclassica. Per fare ciò, si avvalsero di ogni strumento utile,
senza rifiutare alcun elemento tratto dalla pratica e dall’esperienza: «saccheggiarono
Seneca» e da lui presero la retorica, i fantasmi, gli aforismi morali, e il gusto dell’orrido e
della vendetta sanguinosa; ma non le convenzioni austere e artificiose del teatro
neoclassico. Shakespeare, secondo Steiner, oppose cioè allo spirito della tragedia greca una
diversa concezione della forma tragica e una diversa tipologia di esecuzione, più consona ai
tempi.
A mio avviso però, la tragedia shakespeariana è molto più simile a quella greca che
a quella latina9. Per quanto numerosi possano essere i ‘furti’ a Seneca, la somiglianza con la
tragedia attica è ben superiore, perché concettuale. Simon Goldhill (1986), guardando alle
tragedie greche non come ad opere isolate, a testi autonomi, ma come a parti di un discorso
sociale più ampio che comprende la ritualità, la politica, la definizione dei ruoli sociali e
civili (cittadino, marito, moglie, figlia, ecc.), sostiene che il teatro ha un posto centrale nella
concettualizzazione ed enunciazione dell’ideologia civica di Atene. La tragedia non si
8
9
Su quest’ultimo punto è utile, a mio avviso, fare una precisazione. Benché molti studiosi, nell’intento di
evidenziare le differenze fra il teatro greco classico e quello elisabettiano, facciano sovente richiamo alla
mancanza di elementi propriamente ‘comici’ nel primo a differenza del secondo, io non credo che ciò sia
del tutto vero. Nella tragedia attica vi sono numerosi episodi a carattere umoristico, utilizzati con intenti
assolutamente seri. Solo per citare un caso, nel Filottete di Sofocle, l’improvvisa riapparizione di Ulisse
(v. 974) è un chiaro esempio di umorismo in scena. La vera differenza non risiede nell’assenza o nella
presenza di elementi comici all’interno dei drammi – d’altra parte, non è pur vero che le tetralogie attiche
terminavano con un dramma satiresco? -, ma nello spazio, motivato dai diversi periodi storici, dedicato ad
alcuni determinati aspetti. Kitto (1956, p. 225) scrive: «The essential difference between the Greek and
the Elizabethan drama may be expressed in the formula Concentration, not Extension».
Sul legame fra la drammaturgia shakespeariana e quella greca, cf. Barkan in De Grazia – Wells 2001, pp.
31-47; Martindale 1990, pp. 29-44.
8
limita a convalidare le norme della comunità, non è un monito moralistico contro le
trasgressione; la tragedia è di per sé un discorso trasgressivo che chiama deliberatamente in
causa tutte le istituzioni sociali, ivi inclusa quella della tragedia. Da qui il crescente
interesse nei drammi di V secolo riguardo alle convenzioni teatrali: l’esame critico è
inerente alla forma stessa della tragedia, e non nasce, come a volte si pretende di dire, con
Euripide. Nell’epoca dell’ἐκκλησία democratica e della ῥητορική sofistica, la ‘teoria del
linguaggio’ rappresenta un problema politico e ideologico; e una preoccupazione ricorrente
della tragedia è quello di dimostrare il potere, l’ambiguità, l’artificiosità o la
convenzionalità del linguaggio come sistema di segni. Tutto questo si ritrova in maniera
quasi identica nel teatro di Shakespeare, non solo nei drammi storici (in cui questi elementi
sono talmente evidenti che parlarne risulta scontato), ma anche nelle tragedie e nelle
commedie. Nell’Amleto in particolare, l’ambiguità del linguaggio diventa strumento
drammaturgico di estrema rilevanza.
I drammaturghi attici hanno sondato, con le loro opere, il valore di verità di un
mezzo caratterizzato da possibilità di manipolazione, capacità d’inganno e tavolta,
inadeguatezza rispetto all’ampia gamma di significati: quasi nessuna frase in una tragedia
può essere presa unicamente nel suo primo e più superficiale significato. Ogni parola pare
circondata da tensioni e ambiguità e deve essere interpretata senza pregiudizi ideologici e
personali basati su chi la propone e dai valori che questi incarna. Il dominio della tragedia è
in ciò che si colloca oltre il controllo o, al più, che ne è ancora fuori: da qui l’esplorazione
della violenza della sessualità, della follia, dell’illusione e dell’irrazionale, il lato oscuro
dell’intelletto – magia, maledizioni, passioni – e il linguaggio dell’ambiguità, delle
contraddizioni, e dell’incontro degli opposti. Ma anche questo è Shakespeare e, nella
fattispecie, Amleto.
Riporto dunque una lunga citazione di Nemi D’Agostino (1994, pp. 34-5), che
descrive bene il senso di quanto ho cercato fin qui di esporre. «Ho avuto per le mani una
ristampa diplomatica, in un carattere goticheggiante difficilissimo a decifrarsi, delle
cosidette tragedie di Seneca, stampata a Londra nel 1581. Era così famosa nell’ambiente dei
teatri, che il maligno Thomas Nashe insinuava che i suoi colleghi, compulsandola a lume di
candela, ne ricavavano “molti Amleti”. È un’opera nota agli anglisti. Una vernice di
stoicismo è spalmata su degli “oratori” che sembrano ispirati all’orrore che sarà stata la vita
9
a Roma sotto Nerone. T.S. Eliot li definì dei “freaks”, degli esempi bizzarri di dramma non
teatrale. Nell’ulteriore adattamento dei traduttori elisabettiani, il pesante latino di Seneca
diventa un curioso linguaggio tra medievale e manieristico. Ma più perdevo gli occhi su
quella mostruosità epocale, più mi rendevo conto che quel libro somigliava al Socrate
descritto dal suo innamorato Alcibiade nel Simposio: un goffo Sileno di legno, che si apre e
rivela dentro di sé le immagini degli dei. Difatti, si tratta di una vera scelta, doppiamente
adattata, della grande tragedia greca. Eschilo è riscritto nell’Agamennone, Sofocle
rappresentato dall’Edipo, dall’Ercole Eteo (dalle stupende Trachinie) e dal Tieste; il resto,
tranne l’Ottavia (che avrà pure insegnato qualcosa a chi cominciava a scrivere drammi
storici) è calcato su Euripide: Ercole furente, Medea, Fedra, Fenicie e Troiane. Una
crestomazia che ben riflette la diversa fortuna di quegli antichi nelle epoche di mezzo:
parecchio Euripide, poco Sofocle e quasi niente Eschilo. Come fanno anche le traduzioni
più brutte e ritoccate, quei rifacimenti elisabettiani riuscivano a dare una qualche lontana
idea degli originali. La tragedia greca era lì, agonizzante con solo qualche segno di vita, ma
abbastanza per dare a un genio l’idea del suo antico splendore. Shakespeare compulsò
certamente a lume di candela, difatti toni e modi dell’Agamennone si ritrovano nel
Macbeth, una delle più «greche» e originali delle sue tragedie. Shakespeare aveva
pochissimo greco, ma quel romano di Cordoba, pessimo scrittore di allucinanti e allucinate
tragedie, ebbe il grande merito di accostare Shakespeare ai Greci».
Prescindendo da analogie concettuali, si continua a ritenere pressocché impossibile che
Shakespeare avesse letto i testi dei classici greci in lingua originale e che di conseguenza
non avesse con questi alcuna confidenza – Thomson (1966, p. 238.) icasticamente scrive
«Greek is out of the question». Diversamente, come già detto, non si nega a quella latina
(Ovidio, oltre che Seneca, in particolar modo10) un importante ruolo per la genesi dei testi
shakespeariani. L’importanza che hanno rivestito le letture nella produzione del
drammaturgo inglese non è più da tempo oggetto di dibattito. Con il termine ‘lettura’,
naturalmente, non si fa riferimento ad una generica e superficiale consultazione, ma ad una
ben più ampia varietà di interazioni11. Ad eccezione di qualche strenuo ‘negazionista’, la
maggior parte degli studiosi concorda oggi nel ritenere Shakespeare un avido lettore, che
10 Cf. Miola 1992.
11 Cf. Miola 2000, p. 168: «The term ‘reading,’ of course, covers a wide variety of interactions».
10
attingeva manibus plenis ai testi altrui per la creazione e redazione delle proprie opere.
Scrive Robert Miola (2000, p. 2.): «Shakespeare created much of his art from his reading»,
dove con ‘reading’ si intendono sia i testi dei suoi contemporanei che quelli di scrittori più
antichi. Per quanto riguarda la letteratura greca ci si limita sostanzialmente ad evidenziare
coincidenze e parallelismi tipologici, negando un vero e proprio influsso derivante dalla
lettura attiva dei testi. Su queste basi teoriche sono da leggere anche i lavori di Adrian Poole
(1987)12, Humphrey D. F. Kitto (1956) e Gilbert Murray (1914), che hanno cercato di
evidenziare tendenze simili fra la drammaturgia greca e quella shakespeariana senza
presupporne rapporti diretti.
Una visione differente mostrano in proposito Louise Schleiner (1990) ed Emris
Jones (1997). Entrambi notano che all’epoca erano disponibili svariate traduzioni e
commentari in latino di alcuni drammi attici. L’edizione Basel del 1555 di Eschilo riportava
la traduzione in latino di Jean de Saint-Ravy (Sanravius) di Montpellier che, per quanto
inaccurata, era ampiamente diffusa nel sedicesimo secolo. Ancora più diffuse erano poi le
traduzioni in latino di Euripide. Nel 1567, a Ginevra, venne perfino pubblicata un’antologia
di traduzioni di opere scelte dei tre tragediografi attici, redatte da filologi di notevole
spessore quali Erasmo, Buchanan e Camerarius il Vecchio. L’edizione era a cura di Henri
Estienne, e l’opera si intitolava Tragoediae selectae Aeschyli, Sophoclis, Euripidis. Cum
duplici interpretatione Latina, una ad verbum, altera carmine. Del 1527 era invece la prima
traduzione in latino di Alessandro Pazzi de’ Medici dell’Elettra di Sofocle a cui fece
seguito nel 1556 quella di Coriolano Martirano. Tali traduzioni, secondo gli studiosi sopra
citati, sarebbero state delle fonti a cui Shakespeare avrebbe potuto attingere senza
problematiche relative ad eventuali carenze linguistiche. Secondo la Schleiner, Shakespeare
sarebbe stato agevolato nel reperimento di tali testi dalla collaborazione, nel biennio
1598-99, con Ben Jonson che fu, assieme a lui, drammaturgo per quell’anno nella
compagnia dei ‘Chamberlain’s Men’. Jonson infatti possedeva una biblioteca personale
estremamente ben fornita13 e benché i dati relativi ad essa siano oggi solo parziali, essendo i
cataloghi andati in gran parte distrutti a causa di un incendio nel 1623, si hanno ancora delle
12 Adrian Poole evidenzia il vasto range di ruoli e significati che può assumere la tragedia in tempi e luoghi
differenti, e offre una interpretazione della tragedia greca attraverso un parallelo con quella
shakespeariana. «Greek and Shakespearean tragedy [. . .] affirms with savage jubilation that man’s state is
diverse, fluid, and unfounded» (p. 2). Poole propone quindi una lettura del Re Lear in parallelo all’Edipo
a Colono e alle Baccanti, di Amleto in parallelo all’Edipo re e del Macbeth in parallelo all’Orestea.
13 Evans 1987.
11
attestazioni che rivelano quali fossero alcuni dei testi in suo possesso. Fra questi, appaiono
menzionati un’antologia bilingue greco-latino del 1614 – pubblicata dall’editore Pierre de
la Roviere e che conteneva una serie di opere fra cui dei drammi di Euripide e la versione di
Saint-Ravy dell’Orestea – un’edizione del 1581 delle tragedie di Euripide in latino, e
almeno quattro opere solo in greco, fra cui uno Scholia in septem Euripidis Tragoedias
(Venezia, 1534). Queste ultime attesterebbero la capacità da parte di Jonson di consultare i
testi direttamente in lingua originale. Seppure non si è in grado di determinare quali
specifiche opere in latino possedesse Jonson all’epoca dei ‘Chamberlain’s Men’, è tuttavia
plausibile che non ne fosse del tutto sprovvisto e che, ad esempio, potesse avere la
traduzione del Sanravius dell’Orestea. Poiché il prestito di libri fra drammaturghi e studiosi
era abitudine ampiamente praticata al tempo, Shakespeare avrebbe potuto avvalersene
durante l’anno di collaborazione con Jonson che risulta di pochissimo anteriore, se non
addirittura contemporanea, alla stesura dell’Amleto.
In merito a quest’ultimo, Louise Schleiner continua suggerendo che Shakespeare
avesse potuto assistere nel 1599 alla rappresentazione di due drammi dell’‘Admiral
Company’, intitolati Agamemnon ed Orestes’ Furies (o Orestes Furious)14, non pervenuti
fino ai giorni nostri, di Thomas Dekker e Henry Chettle, e che ne avesse tratto ispirazione
per la produzione del suo Amleto, notando le affinità fra la storia di Oreste e la leggenda del
principe danese. I titoli delle opere dell’‘Admiral’ ricalcano la divisione in due parti
dell’Orestea del Sanravius e, plausibilmente, ne indicano la ripresa della trama. Thomas
Dekker d’altra parte, vantando la sua conoscenza del greco, ridicolizzava e biasimava i suoi
contemporanei che si limitavano a leggere i testi greci in traduzione:
O you booksellers (that are factors to the liberal sciences) over whose stalls this drones do
daily fly humming, let Homer, Hesiod, Euripides and some other mad-Greeks with a band of
the Latins lie like musket shot in their way when these Goths and Getes set upon you in
your paper fortifications. It is the only cannon upon whose mouth they dare not venture;
none but the English will take their parts.
Thomas Dekker, 160315
14 I drammi risultano in un elenco nel diario dell’impresario teatrale inglese Philip Henslowe.
15 Dekker 1968, pp. 29-30.
12
Scrive in conclusione la Schleiner che «[...] it is quite plausible that Shakespeare saw the
1599 Agamemnon and Orestes’ Furies, in all probability a redaction of the two-play
Oresteia current among readers of Latin; he might even have become interested enough to
look through scenes or passages of the Choephori (which was complete in the Latin text of
the supposed Agememnon) and of Euripides’s Orestes. While writing Hamlet, he would
have wanted to learn how other authors besides Caxton had told of Orestes: he must have
recalled Caxton’s intermingling of the Pyrrhus and Orestes father-revenge stories, important
to Hamlet in the Pyrrhus material of the First Player scene, and perhaps Caxton’s statement
that writers left different versions of these events16».
1. 3
Il greco in Shakespeare
Nel già citato lavoro di Thomson (1966), con riferimento a due episodi del Tito Andronico
(1.1.135-39; 1.1.384-87), l’autore dichiara un’origine non autentica dell’opera, poiché
entrambi i passi in questione rivelerebbero la conoscenza, da parte dell’autore, sia
dell’Ecuba euripidea che dell’Aiace sofocleo. Le Metamorfosi di Ovidio infatti non
giustificherebbero il riferimento nel Tito alla tenda di Polimestore in cui avvenne
l’accecamento di lui da parte della regina troiana (dato presente, invece, nella tragedia di
Euripide, ai vv. 57-58), né il trattamento di Ulisse «as a chivalrous foe 17». Diversamente,
Charles e Michelle Martindale (1990), accennano alla prima questione come ad uno
«slender peg» (p. 44), un esile appiglio. Thomson cita anche altri passi di altre opere per
suggerire la lettura in greco di Luciano e Omero.
Degno di nota è il dibattito circa l’autenticità dei sonetti 153 e 154. I due trattano lo stesso
argomento: Cupido si addormenta nei pressi di un laghetto e viene scoperto da un gruppo di
vergini devote alla casta Diana che gli rubano il brando di fuoco che provoca amore,
andandolo a raffreddare in uno stagno vicino.
16 Schleiner 1990, pp. 44-45. L’opera di Caxton a cui si fa riferimento è la traduzione quattrocentesca del
romanzo cavalleresco francese di Raoul Lefevre, Recuyell of the Historyes of Troye, o Troy book, che
sarebbe stata la fonte per la composizione del resoconto della morte di Priamo per mano di Pirro descritta
nell’Amleto.
17 Thomson 1966, pp. 57-58.
13
The little love-god lying once asleep,
Laid by his side his heart-inflaming brand,
Whilst many nymphs, that vowed chaste life to keep,
Came tripping by; but in her maiden hand
The fairest votary took up that fire
Which many legions of true hearts had warmed;
And so the general of hot desire
Was, sleeping, by a virgin hand disarmed.
This brand she quenched in a cool well by,
Which from Love’s fire took heat perpetual,
Growing a bath and healthful remedy,
For men diseased; but I, my mistress’ thrall,
Came there for cure, and this by that I prove:
Love’s fire heats water, water cools not love.
Son. 15418
Quasi all’unanimità i filologi ammettono per questi come fonte originaria un epigramma
greco di Mariano, autore dei V-VI secolo d.C, presente nell’Antologia Palatina. Un rapido
confronto del sonetto 154 con l’epigramma in questione, non può che rivelare le evidenti
affinità:
τᾷδ᾽ ὑπὸ τὰς πλατάνους ἁπαλῷ τετρυμένος ὕπνῳ
εὗδεν Ἔρως, Νύμφαις λαμπάδα παρθέμενος.
νύμφαι δ᾽ ἀλλήλῃσι,
τί μέλλομεν; αἴθε δὲ τούτῳ
σβέσσαμεν,
εἶπον, ‘ ὁμοῦ πῦρ κραδίης μερόπων.’
λαμπὰς δ᾽ ὡς ἔφλεξε καὶ ὕδατα, θερμὸν ἐκεῖθεν
νύμφαι Ἐρωτιάδες λουτροχοεῦσιν ὕδωρ.
AP IX, 627
Le analogie sono così lampanti che, se si ammette l’autenticità dei due sonetti, bisogna di
conseguenza ammetterne la discendenza diretta dal greco o, come propone Hutton (1914),
18 L’edizione usata è quella a cura di Katherine Duncan-Jones, del 1997, per la «Arden Shakespeare».
14
l’esistenza di una qualche fonte a noi ancora ignota. Nel primo caso però vi è il problema
dell’assenza di traduzioni: le uniche disponibili in latino erano del 1556 e del 1603, ma la
prima non può essere stata usata per incongruenze testuali mentre la seconda presenta
inconciliabilità di carattere cronologico19. L’autore dunque avrebbe dovuto leggere i testi
necessariamente in lingua greca.
Un altro aspetto della questione è costituito dai neologismi ellenizzanti presenti nelle opere
shakespeariane e dall’uso di nomi greci per i personaggi dei drammi. Il caso più noto, per
quanto riguarda il lessico, è quello del termine academe, che appare per la prima volta nella
letteratura inglese in Pene d’Amor Perdute (1.1.12-14):
Our court shall be a little academe,
Still and contemplative in living art
Per quanto riguarda i nomi grecizzanti invece, si fa spesso riferimento a quelli di Laerte ed
Ofelia, personaggi dell’Amleto. William Jones (1960, pp. 9-10.) scrive che l’adozione del
nome Laerte segnala il tema centrale della vicenda dell’Amleto, ovvero il rapporto
padre-figlio: «careful check of Hamlet and the Odyssey reveals even more valid reasons for
the use of the name Laertes. At the beginning of Hamlet, the prince sits brooding over the
wedding feast. At the beginning of the Odyssey, Telemachus sits brooding among the
wooers to his mother. To both sons comes news of a supernatural visitation: Hamlet hears
of the Ghost, Telemachus hears from Athena cum Mentor. Both supernatural agents demand
that the sons take action to restore their fathers to their rightful positions, one to the crown
of Ithaca, the other to eternal rest. And in both Hamlet and the Odyssey it is the sons’
responses to these supernatural demands that bring about the remaining action». Così,
anche il nome di Ofelia, dal greco ὀφείλω, non sarebbe una scelta casuale.
Volendo trarre delle conslusioni da quanto qui velocemente passato in rassegna, mancano
forse delle prove sufficienti a dimostrare che Shakespeare conoscesse talmente bene il
greco da poter approcciare i drammi attici direttamente in lingua originale ma, d’altro
canto, neppure ve ne sono a sostegno del contrario. La letteratura latina rappresentava la
19 La datazione dei sonetto si aggira tra gli anni 1592-1598.
15
principale fonte d’ispirazione per gli scrittori del Rinascimento, ma circolavano numerose
traduzioni latine dei classici greci: l’ipotesi secondo cui si potesse usufruire di quelle, in
mancanza di competenze linguistiche appropriate in greco, non è da rigettare a priori.
Pare tuttavia evidente l’impossibilità di valutare a quali livelli fosse il «lesse
Greeke» di cui scrive Jonson. Tale argomento risulta ancor più vero se si considera che
neppure per il «Latine» sembrerebbe possibile accogliere passivamente la determinazione
di «small» che ne viene data. Certo è che Shakespeare non sarebbe stato il primo a veder
sminuite le proprie conoscenze a seguito della circolazione di uno stringato e ambiguo
aforisma decontestualizzato e poi passato a sintetizzarne il ‘sapere’: il caso di Petrarca,
«sine litteris virum bonum», come lo definirono i veneziani Leonardo Dandolo, Tommaso
Talenti, Zaccaria Contarini e il reggiano Guido di Bagnolo, potrebbe a tal proposito far
riflettere. Piuttosto dunque che ricercare affinità di carattere meramente linguistico fra
drammaturgia shakespeariana e letteratura greca, allo stato dell’arte, credo sia più
opportuno ricercare, almeno in prima istanza, affinità tipologiche, tematiche e concettuali.
D’altronde, le fonti generalmente accettate per l’Amleto giustificano, se non completamente
almeno in larga misura, le convergenze con i drammi attici, essendone esse stesse portatrici,
senza implicare la necessità d’interazioni dirette fra Shakespeare e i Greci.
In ultimo, credo che sapere se Shakespeare avesse letto o meno i suoi autori latini
preferiti in originale o in traduzione e domandarsi se e quanto conoscesse il greco conti
molto meno rispetto al capire cosa abbia effettivamente incontrato nelle sue letture e di
come poi ne abbia fatto uso. In aggiunta a una buona selezione di traduzioni, non bisogna
dimenticare che Shakespeare ebbe accesso al mondo antico anche attraverso compendi,
raccolte, antologie, dizionari, enciclopedie e manuali che organizzavano quello che ogni
persona colta dell’epoca avrebbe dovuto conoscere dei Greci e dei Romani: «the classical
presence was ubiquitous20». E altrettanto importante, come quello che Shakespeare lesse sul
mondo antico, fu quello che vide e sentì su di esso nella città in cui visse e lavorò come
drammaturgo, Londra.
Nel capitolo seguente passerò in rassegna le tragedie attiche relative al mito degli Atridi e la
tragedia di Amleto, segnando per entrambi i relativi antecedenti storici. L’analisi delle
similarità fra le vicende assumerà carattere principalmente ‘ontologico’, in modo tale da
20 Miola 1983, p. 9.
16
evidenziare caratteristiche simili a livello di plot.
17
2. ORESTE E AMLETO
FRA MITO, TRAGEDIA E LEGGENDA
Prima di entrare nello specifico tramite una comparazione testuale delle opere, propongo
uno sguardo d’insieme alle variazioni narrative a cui sono state sottposte le vicende di
Oreste e Amleto nel tempo, in modo tale da rilevare quali fossero le similarità sussistenti fra
le storie dei due personaggi, prima che Shakespeare ponesse mano alla composizione del
suo dramma.
2. 1
Oreste nella letteratura greca
La figura di Oreste riveste un ruolo paradigmatico nella drammaturgia attica di V secolo.
Appare per la prima volta nella letteratura all’interno dell’Iliade (IX, 142), ma è
nell’Odissea che iniziano a esserne meglio delineati i tratti: Oreste diviene una figura
‘esemplare’. Nestore lo indica a Telemaco come esempio di comportamento da seguire in
qualità di giovane figlio di re, ingiustamente spodestato:
αὐτὰρ ἐπὴν δὴ ταῦτα τελευτήσῃς τε καὶ ἕρξῃς,
φράζεσθαι δὴ ἔπειτα κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν,
ὅππως κε μνηστῆρας ἐνὶ μεγάροισι τεοῖσι
κτείνῃς ἠὲ δόλῳ ἢ ἀμφαδόν· οὐδέ τί σε χρὴ
νηπιάας ὀχέειν, ἐπεὶ οὐκέτι τηλίκος ἐσσί.
ἦ οὐκ ἀΐεις οἷον κλέος ἔλλαβε δῖος Ὀρέστης
πάντας ἐπ’ ἀνθρώπους, ἐπεὶ ἔκτανε πατροφονῆα,
Αἴγισθον δολόμητιν, ὅ οἱ πατέρα κλυτὸν ἔκτα;
καὶ σύ, φίλος, μάλα γάρ σ’ ὁρόω καλόν τε μέγαν τε,
ἄλκιμος ἔσσ’, ἵνα τίς σε καὶ ὀψιγόνων ἐῢ εἴπῃ.
(Od. I, 293-302)
Questo non è l’unico riferimento, le menzioni sono numerose 21. D’altra parte le analogie fra
21 In totale sono cinque le attestazioni di Oreste all’interno dell’Odissea (I, 30, 40, 298; III, 306; IV, 546; XI,
18
la casa degli Atridi e quella di Ulisse sono di per loro molteplici 22: sia Egisto che i Proci
tentano d’impossessarsi della casa del re insidiando la donna di lui, mentre questi è via per
la guerra; il re, di rientro in patria, è costretto a fronteggiare degli usurpatori violenti; infine,
entrambi, Telemaco e Oreste, vengono ingiustamenti privati del loro legittimo diritto di
successione al trono. Quello che qui può interessare maggiormente è il fatto che,
nell’Odissea, venga fatta menzione dell’uccisione di Egisto, ma che non si parli della morte
di Clitemestra per mano del figlio. Di questo episodio si trova per la prima volta
indicazione in Esiodo23, per poi passare a Stesicoro, e, da questi, plausibilmente, a Pindaro e
a Eschilo. Non è chiaro se la Pitica XI sia anteriore o successiva alla trilogia eschilea; con
molta probabilità le opere hanno una datazione assai vicina.
Eschilo presentò la sua trilogia alle Grandi Dionisie del 458. Essa era composta
dalle tre tragedie Agamennone, Coefore ed Eumenidi e dal dramma satiresco Proteo, andato
perduto. La storia si dipana, tramite la convenzionale scansione tripartita, lungo un periodo
non inferiore ai dieci anni, narrando le vicende cardine della casa degli Atridi dal ritorno in
patria di Agamennone, dopo dieci anni d’assedio alla rocca di Troia, fino alla definitiva
assoluzione di Oreste dalla colpa di matricidio. L’argomento cardine diviene, come spesso
accade in Eschilo, il conflitto fra volontà e destino, libero arbitrio e divinità, e il motore
della vicenda è rappresentato dal tema della vendetta e della colpa ereditaria. Più che mera
narrazione di eventi, il mito in scena è mezzo di sublimazione del reale, strumento
educativo (nell’accezione etimologica del termine) e di conseguenza catartico. La
complessità della trilogia non è da rintracciare nell’evolversi della trama e neppure nella
rappresentazione psicologica dei personaggi. La forza del dramma eschileo risiede nella
trama intricata di cause ed effetti, commenti e giudizi, spiegazioni e rimandi che permeano
la scena.
La storia, nelle sue linee essenziali, è oltremodo semplice: nella prima tragedia,
Agamennone, dopo essere stato accolto trinfalmente dal popolo di Argo 24 per il ritorno da
Troia, viene ucciso assieme alla principessa troiana Cassandra, suo ‘bottino di guerra’, dalla
461).
22 Per uno studio sulla presenza della vicenda degli Atridi all’interno dell’Odissea, cf. D’Arms-Hulley
(1946).
23 Hes., fr. 23a (M-W), 27-29.
24 Conviene ricordare che nella mitologia arcaica Agamennone era re di Sparta, non di Argo. Lo
spostamento ad Argo della vicenda rappresenta un tipico espediente eschileo che intende attualizzare il
mito nell’Atene dei suoi giorni.
19
moglie di lui, Clitemestra, e da Egisto, suo cugino, divenuto amante della donna. I due,
dopo il regicidio, si pongono al comando della città. Nel dramma successivo, le Coefore, ha
propriamente inizio la vicenda di Oreste: costui torna ad Argo dopo un esilio forzato durato
circa dieci anni, accompagnato dall’amico Pilade; ricongiuntosi alla sorella Elettra, su
imposizione di Apollo vendica la morte del padre, uccidendo sia Egisto che Clitemestra. Il
matricidio però lo macchia di una colpa tremenda e il dramma si conclude con la fuga di
Oreste che vede approssimarsi contro di lui le Erinni della madre. Nell’ultima tragedia,
Oreste, ancora perseguitato dalle Erinni, dopo essersi assicurato la protezione di Apollo a
Delfi, si reca ad Atene dove viene istituita un’asseblea di cittadini, per volere di Atena, che
dovranno deliberare sulla sua sorte25. I voti degli uomini si rivelano equamente distribuiti
fra assoluzione e condanna e solo il voto aggiuntivo di Atena riesce a sancire la fine delle
pene di Oreste. Le Erinni, pacificate infine con la città, si trasformano in divinità benigne,
le Eumenidi appunto, a cui viene attribuito un culto ad Atene.
Sofocle nell’Elettra26 riprende sostanzialmente la trama delle Coefore: Oreste che
vendica la morte del padre uccidendone gli assassini. La differenza principale rispetto alla
narrazione eschilea risiede nel ruolo di spicco che viene ad assumere la figura di Elettra, la
quale non si ricongiunge al fratello se non nel finale dell’opera e che mostra un carattere
ben più forte rispetto a quello della versione precedente. Tratta in inganno anche lei come i
due regnanti dalla falsa notizia, propalata ad arte, della morte di Oreste, disperata, decide di
vendicarsi da sé. Quando Oreste, in realtà vivo e giunto in città assieme a Pilade e al
Pedagogo, le svela l’inganno, Elettra lascia al fratello l’esecuzione della vendetta.
Euripide narra le vicende della casa di Agamennone in due tragedie: l’Oreste e
l’Elettra27. Entrambi i drammi stravolgono le narrazioni precedenti, pur mantenendo integro
il motivo della vendetta come motore primo della vicenda, aggiungendo elementi
drammaturgici estranei sia ad Eschilo che a Sofocle. Nell’Elettra, Oreste torna in patria
dopo un esilio decennale in Focide, dove era stato inviato dal vecchio aio di Agamennone,
per proteggerlo dagli assassini del re, e trova la sorella, sposa di un umile ma virtuoso
25 Nelle Eumenidi appare chiaro come le unità aristoteliche di tempo e spazio fossero in realtà una mera
semplificazione e generalizzazione delle convenzioni drammaturgiche; l’aver assegnato per troppo tempo
un carattere perentorio alle categorie di cui parla Aristotele ha rappresentato a lungo un ulteriore ostacolo
allo studio comparato del teatro greco e di quello elisabettiano.
26 La datazione è incerta. Probabilmente ascrivibile al 418 a.C..
27 Anche delle tragedie di Euripide la datazione è incerta. Per quanto riguarda l’Elettra, è all’incirca
contemporanea dell’omonima sofoclea, forse del 417 a.C..
20
contandino, che vive in campagna. Inizialmente in incognito, viene riconosciuto dal
vecchio aio e, con Elettra, progetta il duplice omicidio. Prima si procede a quello di Egisto,
assassinato mentre compie un sacrificio, e poi a quello della madre, mandata a chiamare da
Elettra con l’inganno, facendole credere di aver partorito. Subito dopo il matricidio i due
giovani sono presi dal rimorso ma l’intervento ex machina dei Dioscuri chiarisce loro che la
vendetta era imposizione di Apollo e che per questo era ineludibile, e spiega inoltre
l’evolversi successivo degli eventi. Il dramma si conclude con la partenza dei fratelli da
Argo, costretti nuovamente a separarsi, questa volta però, per sempre.
Nell’Oreste la trama si complica incredibilmente. Il matricidio è avvenuto. Oreste,
reso folle dalle Erinni della madre, attende con Elettra l’esito del giudizio del popolo di
Argo nei loro confronti riguardo all’accusa di matricidio e regicidio: se colpevoli saranno
meritevoli di morte. L’aiuto che sperano di ottenere da Menelao, fratello di Agamennone, si
rivela fallace e vengono condannati dal popolo sobillato da Tindaro, padre di Clitemestra,
alla pena capitale. Viene tuttavia loro concessa la possibilità di darsi la morte per propria
mano. Con l’aiuto di Pilade tramano per avere salva la vita: uccidono Elena, moglie di
Menelao e sorella di Clitemestra, e prendono in ostaggio Ermione, la figlia dei primi due.
Proprio quando hanno in scacco gli Argivi e stanno per dare alle fiamme la reggia della
città, Apollo appare come deus ex machina e dà loro una serie di istruzioni il cui effetto è
quello di cancellare tutto ciò che è accaduto, inclusa la morte di Elena: ingiunge infine ad
Oreste di sposare Ermione e di recarsi ad Atene per il giudizio definitivo.
Lo scarto più evidente nella trattazione del mito da parte dei tre tragediografi attici
risiede nella diversità relativa allo spessore psicologico dei personaggi e alla complessità
della trama, più ampi in Sofocle e, soprattutto, Euripide rispetto ad Eschilo. Ma la struttura
portante della trilogia originaria, vendetta-matricidio-persecuzione-assoluzione, continua a
rappresentare la cornice entro cui si muovono anche i due più giovani drammaturghi.
2. 2
Amleto in Saxo Grammaticus e Belleforest
Prima che Shakespeare portasse in scena la figura di Amleto, imprimendola per sempre
nell’immaginario collettivo come icona del ‘dubbio’ e della ‘vendetta’, questa aveva già da
tempo fatto la sua comparsa non solo nei teatri inglesi di XVI secolo, ma anche in altre
21
tipologie di opere letterarie. Benché ci sia accordo nel ritenere che non l’abbia usata come
fonte principale per la redazione della propria opera, la leggenda del principe danese, così
come viene trattata da Shakespeare, viene generalmente ricondotta alla storia narrata nei
libri III e IV delle Historiae Danicae di Saxo Grammaticus, scritte alla fine del XII secolo,
e pubblicate la prima volta in volume nel 1514 con il titolo di Danorum Regum heroumque
Historiae. Shakespeare adottò probabilmente la versione della leggenda narrata da François
de Belleforest, pubblicata nella raccolta di racconti cavallereschi intitolata Histoires
Tragiques nel 1570 (e seguita da molte edizioni successive). Non sembra esistano
traduzioni inglesi della storia di Amleto anteriori al 1608.
La narrazione di Saxo prendeva avvio ricordando come il padre di Amleto,
Horvendil, dopo aver sconfitto il re di Norvegia in duello, venisse assassinato dal fratello
Fengo, che aveva preso poi in moglie la vedova di lui, Gerutha. A differenza della tragedia
di Shakespeare, lo zio di Amleto non fa mistero del suo omicidio, giustificandolo con i
maltrattamenti del re alla moglie. In realtà il suo scopo era unicamente quello di prendersi
regno e moglie del fratello. Amleto intende vendicare l’assassinio, ma per evitare che
qualcuno sospetti dei suoi piani, si finge pazzo, inizia a comportarsi come uno sciocco e a
parlare in modo sibillino. Proprio i suoi discorsi, che sono una miscela di sagacia e follia
insieme, rendono Fengo inquieto e sospettoso tanto che, temendo l’inganno, si propone di
testare la veridicità dell’instabilità mentale del nipote. Vengono allora messi in atto tre
tentativi di smascherare Amleto ma tutti e tre falliscono. In primo luogo si cerca di
sorprenderlo in atteggiamenti intimi con una ragazza che fa da esca, parandoglisi sul
cammino in una boscaglia. Ma Amleto, intuendo il tranello, si allea con la ragazza e ne
ottiene il silenzio e i suoi favori. Successivamente, un amico di Fengo suggerisce di mettere
nella stessa stanza Amleto e sua madre, e spiare cosa lui le dica: ma anche in questo caso
Amleto scopre l’inganno e uccide la spia, ne smembra il corpo e lo dà come mangime ai
maiali e quando torna dalla madre l’accusa amaramente di aver dimenticato il suo primo
marito e di averne sposato il fratello. A questo punto, anche senza prove della sanità
mentale del nipote, Fengo invia Amleto in Gran Bretagna assieme a due servitori che
recano una lettera segreta al re inglese in cui gli si richiede la morte del giovane.
Quest’ultimo intercetta la missiva, sostituisce il nome dei suoi compagni al suo e aggiunge
l’invito al re di concedergli in sposa la figlia. Dopo l’esilio in Gran Bretagna, Amleto torna
22
in Danimarca e trova in corso le sue esequie. Riuscito ad entrare nel palazzo, uccide Fengo
nel suo letto, ottenendo così la vendetta attesa da tempo per l’assassinio del padre. Incerto
della reazione del popolo, esce con coraggio dal palazzo a fare un discorso
auto-apologetico28:
[1] Me tam iustae vindictae ministrum, tam piae ultionis aemulum, patricio suscipite
spiritu, debito prosequimini cultu, benigno refovete contuitu. [2] Ego patriae probrum dilui,
matris ignominiam exstinxi, tyrannidem repuli, parricidam oppressi, insidiosam patrui
manum mutuis insidiis elusi, cuius, si superesset, in dies scelera percrebrescerent. [3]
Dolebam et patris et patriae iniuriam; illum exstinxi, vobis atrociter et supra quam viros
decuerat imperantem. [4] Recognoscite beneficium, veneramini ingenium meum, regnum, si
merui, date; habetis tanti auctorem muneris, paternae potestatis heredem non degenerem,
non parricidam, sed legitimum regni successorem et pium noxae parricidalis ultorem. [5]
Debetis mihi recuperatum libertatis beneficium, exclusum afflictantis imperium, ademptum
oppressoris iugum, excussum parricidae dominium, calcatum tyrannidis sceptrum. [6] Ego
servitute vos exui, indui libertate, restitui culmen, gloriam reparavi, tyrannum sustuli,
carnificem triumphavi. [7] Praemium penes vos est; ipsi meritum nostis, a vestra merces
virtute requiritur.
Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, 4.1.7
Amleto viene eletto re e ne vengono narrate altre avventure prima che questi trovi la morte
in battaglia.
Le somiglianze con la tragedia di Shakespeare sono molteplici: la storia del
fratricidio, l’usurpazione e l’incesto; la finta pazzia e il fine uso del linguaggio come
strategie di una lenta vendetta. I tre episodi-nucleo vengono sviluppati e rimaneggiati da
Shakespeare, soprattutto la parte relativa ad Amleto e la ragazza subisce molte revisioni.
L’anonima ragazza della narrazione di Saxo diventa infatti Ofelia, colei che Amleto ama
eppure maltratta. L’amico del re che fa da spia nel secondo tentativo di smascherare Amleto
28 Anche nell’Oreste di Euripide il protagonista si difende di persona davanti al popolo, usando quasi gli
stessi argomenti. Eur. Or. 932-42: «ἔλεξε δ᾽: ὦ γῆν Ἰνάχου κεκτημένοι, / πάλαι Πελασγοί, Δαναΐδαι
δεύτερον, / ὑμῖν ἀμύνων οὐδὲν ἧσσον ἢ πατρὶ / ἔκτεινα μητέρ᾽. εἰ γὰρ ἀρσένων φόνος / ἔσται γυναιξὶν
ὅσιος, οὐ φθάνοιτ᾽ ἔτ᾽ ἂν / θνῄσκοντες, ἢ γυναιξὶ δουλεύειν χρεών: / τοὐναντίον δὲ δράσετ᾽ ἢ δρᾶσαι
χρεών. / νῦν μὲν γὰρ ἡ προδοῦσα λέκτρ᾽ ἐμοῦ πατρὸς / τέθνηκεν: εἰ δὲ δὴ κατακτενεῖτ᾽ ἐμέ, / ὁ νόμος
ἀνεῖται, κοὐ φθάνοι θνῄσκων τις ἄν: / ὡς τῆς γε τόλμης οὐ σπάνις γενήσεται.»
23
diventa in Shakespeare Polonio, ciambellano di corte e padre di Ofelia, trafitto dal principe
mentre era nascosto dietro a una tenda nella camera di Gertrude. E i due sventurati
accompagnatori del principe in Inghilterra sono in Shakespeare Rosencrantz e Guilderstern.
Un altro particolare è che la storia di Saxo ha luogo nello Jutland, così come quella di
Shakespeare al castello di Elsinore, che altro non è che Helsingør, città danese, dove nel
Cinquecento era stato costruito il castello presso cui le navi mercantili (molte inglesi) si
fermavano a pagare il dazio di ingresso nel Baltico. Quel castello era certamente noto nella
Londra di Shakespeare.
La differenza sostanziale è che con Shakespeare, Amleto diventa il moderno eroe
del dubbio e dell’incertezza. Vuole e non vuole vendicarsi. Più intelligente e sensibile di
altri, egli è corroso e paralizzato dal suo stesso vortice di pensieri. Finge la pazzia, ma poi si
fa misteriosamente irretire dalla sua finzione. L’Amleto di Saxo sa invece unire la forza
brutale e la decisione all’astuzia e al calcolo paziente. La sua lentezza è tutta studiata, ed
egli attua la sua vendetta senza esitare, punto per punto, fino a diventare re. Quella di
Shakespeare è una tragedia: Amleto non diventa re; lui e tutti i suoi rivali muoiono. Per
Saxo la storia della Danimarca è la storia dei suoi re legittimi. L’acclamazione finale da
parte del popolo sancisce questa legittimità anche per il suo Amleto.
Nella sua traduzione e commento al testo di Saxo, William Hansen (1983) indica
che l’autore medievale mescolò elementi della tradizione orale scandinava ad elementi
letterari e a deliberate eco storiche. Secondo Hansen, Saxo si avvalse dell’opera di Valerio
Massimo per plasmare il suo dettato, sulla scorta della narrazione di questi della vicenda del
romano Lucio Giunio Bruto, anch’egli fintosi pazzo per vendicare la morte del padre,
assassinato da Tarquinio il Superbo. Ma la leggenda di Amleto trova riprese anche
nell’Edda in prosa29, in un brano del poeta Snæbjörn databile al 980 circa, e nell’Ambales
Saga islandese30. Per quanto riguarda la prima, Gilbert Murray (1914) evidenzia che nel
29 La cosiddetta Edda in prosa è un manuale di versificazione destinato agli scaldi e scritto da Snorri
Sturluson attorno al 1220-1230. Essa rappresenta un commento in prosa, sotto forma di racconti dialogati,
a numerose strofe di poemi facenti parte della cosiddetta Edda poetica, di argomento sia mitico sia eroico.
L’autore attinge al patrimonio antico germanico e lo commenta in quanto materia che i poeti a lui
contemporanei, gli scaldi, dovevono conoscere. Il testo venne intitolato da Snorri stesso Edda. Per quanto
riguarda la genesi dei carmi le conoscenze attuali sono approssimative. Attraverso l’analisi della lingua i
filologi hanno ipotizzato che essi siano stati composti tra il IX e il XII sec.
30 Nella sua forma attuale la Saga è una produzione moderna, appartenente al XVI o forse all’inizio del
XVII secolo. Il valore del testo dipende principalmente dalla possibilità che, soprattutto nei capitoli
iniziali, si possano rintracciare elementi appartenenti alla leggenda di Amleto precedente alla versione di
24
carme in questione viene messa in luce l’abilità di Amlóði di creare enigmi.
Ad ogni modo, come già anticipato, oggi si ritiene che Shakespeare non abbia letto
le Historiae di Saxo, ma la versione della leggenda che ne diede Belleforest nelle Histoires
Tragiques. L’autore francese si discosta in due punti dalla versione di Saxo: introduce la
relazione anteriore all’assassinio del padre di Amleto fra Gerutha e Fengo e ispessisce il
ruolo di lei nel piano di vendetta di Amleto sull’usurpatore. Quest’ultimo elemento non è
presente in Shakespeare.
2. 3
The Spanish Tragedy, Ur-Hamlet e Hamlet
I precedenti scenici della tragedia di Amleto sono di più difficile identificazione31.
Certamente la Spanish Tragedy di Thomas Kyd mostra caratteristiche simili alla tragedia di
Amleto, anche se, per certi versi, a parti inverse: vi è qui la vendetta di un padre per la
morte del figlio. L’opera venne pubblicata nel 1592, dopo essere stata scritta e messa in
scena fra il 1586 e il 1587, e introduce alcuni elementi che saranno portanti anche nella
tragedia di Shakespeare: il fantasma del morto che chiede vendetta, una rappresentazione
nella rappresentazione e la seconda vendetta, quella che nell’Amleto sarà di Laerte nei
confronti del padre Polonio. Oltre alla Spanish Tragedy, si attribuisce a Kyd anche
l’originario precedente scenico dell’Amleto, il cosiddetto Ur-Hamlet, anteriore alla Spanish
Tragedy, che avrebbe trattato la vicenda di Amleto così come descritta nella tradizione
scandinava, introducendo gli elementi innovativi che Kyd userà poi anche per la Spanish
Tragedy.
L’esistenza di questo testo, l’identità del suo autore, e il suo ruolo come fonte
shakespeariana rimangono importanti interrogativi per quanto riguarda lo studio delle fonti
dell’opera32. Allo Ur-Hamlet allude probabilmente Thomas Nashe nella sua introduzione al
Saxo. Che la maggior parte della Saga è tratta dalla storia danese, ristrutturata sotto l’influenza di racconti
popolari, dei romanzi arturiani, e delle storie di Tamerlano, non si può dubitare. Il nome Ambales,
evidentemente evoluto da Amblethus, una variante tardiva di Amlethus, e punta con molta probabilità a
qualche sorta di epitome di Saxo.
31 Per uno studio completo e dettagliato delle fonti shakespeariane per l’Amleto cf. Aasand and Clary 2010 e
Muir 1978.
32 Cf. Jack 1905.
25
testo del Menaphon di Greene del 1589. I pochi riferimenti che Nashe fa al riguardo
suggeriscono che Thomas Kyd avrebbe scritto un dramma intitolato Hamlet, inseribile nel
solco della tradizione senecana: «English Seneca read by candle-light yields many good
sentences, as ‘Blood is a beggar’, and so forth; and if you entreat him fair in frosty
morning, he will afford you whole Hamlets 33». Sia la questione circa l’esistenza di uno
Ur-Hamlet che l’identificazione di Kyd come autore potenziale dell’opera dominano ancora
gli studi critici in merito alle fonti del dramma di Shakespeare.
Ma quali sono allora le innovazioni shakespeariane relative alla trattazione della
vicenda? The Revenge of Hamlet Prince [of] Denmark as it was lately acted by the Lord
Chamberlain his men fu registrata allo Stationer’s register nel luglio del 1602. Una
versione non autorizzata dell’opera ‘by William Shake-speare’, con svariate inesattezze,
edita nel 1603 (il cosiddetto primo in-quarto), suggerisce che in quell’anno l’opera fosse
stata rappresentata già da un po’ di tempo. All’interno dell’opera stessa, il riferimento alla
grande popolarità delle compagnie che mettevano a recitare dei giovani ragazzi al posto di
attori adulti (2.2.313-33) è sempre stato interpretato come un esplicito rimando di
Shakespeare alla ‘guerra dei teatri’ di Londra avvenuta attorno al 1601 e al successo della
redivive ‘children’s companies’34. La ‘guerra dei teatri’, fu vissuta da Shakespeare in prima
persona come attore-drammaturgo di una compagnia stabile, negli anni in cui questa, di cui
il poeta era socio e azionista, recitava al Globe, mentre i fanciulli si esibivano al teatro dei
‘Frati Neri’ (Blackfriars). Questi attori giovanissimi erano reclutati in gran parte fra i
cantori della cappella reale (Children of the Chapel). Il passo in questione non si trova
nell’in quarto del 1604, ‘the good quarto’, generalmente ritenuto la versione ufficiale
dell’opera (ristampata con poche varianti nello stesso formato, nel 1611 e nel 1622). Infine,
una terza versione della tragedia è quella pubblicata nell’in-folio delle opere compete di
Shakespeare del 1623. Quest’ultimo è più breve del secondo in-quarto ma aggiunge circa
ottanta versi che non si trovavano in quell’in-quarto. L’esistenza di tre versioni differenti fra
loro per episodi ed estensione mostra chiaramente che la tragedia non è stata redatta nella
sua forma definitiva sin dal principio ma che, come ogni grande opera, è stata rimaneggiata
dall’autore più e più volte.
33 Greene (1996), p. 86.
34 Cf. Chambers (1923), pp. I, 379-82; II, 19-21, 41-3.
26
Le principali innovazioni rispetto alle vicende narrate da Saxo e Belleforest sono
dunque:
1. l’assassinio segreto del re;
2. il fantasma che rivela ad Amleto l’omicidio ed esige vendetta;
3. l’introduzione dei personaggi di Laerte e del giovane Fortebraccio;
4. l’ampliamento e l’elevazione del ruolo di Ofelia;
5. l’inserimento della compagnia di teatranti e la scena della rappresentazione;
6. la morte di Amleto successiva all’uccisione dell’usurpatore.
Fra questi, sicuramente la presenza del fantasma e la rappresentazione nella
rappresentazione erano già presenti in Kyd. Così come anche lo spostamento della vicenda
da un’ambientazione pre-Cristiana, nella narrazione di Belleforest, a un elegante e raffinato
ambiente ‘moderno’.
Nell’Amleto di Shakespeare vi sono tre trame distinte: la principale è quella della
vendetta, mentre le sottotrame riguardano la storia tra Amleto e Ofelia, e la guerra
incombente con la Norvegia. Di seguito vengono esposti gli eventi principali della ‘revenge
tragedy’. Il fantasma del padre di Amleto appare a Orazio, Marcello e Bernardo. Orazio
chiede all’apparizione di parlare (1.1.127), ma questa rifiuta acconsentendo in un
successivo incontro a parlare in privato con Amleto. Durante il dialogo il fantasma gli rivela
di essere suo padre e con le parole «So art thou to revenge, when thou shalt hear» (1.5.7) ha
inzio la tragedia vera e propria. Il re morto dice ad Amleto di essere stato avvelenato dal
fratello Claudio, mentre dormiva nel suo giardino, e chiede di essere vendicato «Revenge
his foul and most unnatural murder» (1.5.25). Per accertare la colpevolezza di Claudio,
Amleto decide di far rivivere l’assassinio del padre tramite una rappresentazione teatrale
nel castello, The Murder of Gonzago. «The play’s the thing / Wherein I’ll catch the
conscience of the king» (2.2.606-07): Claudio mostra segni di stizza e irrequietezza e
dimostra in tal modo la sua colpa. Amleto è allora sicuro dell’assassinio (3.2.284). Gli si
presenta l’opportunità di uccidere Claudio solo, nella sua stanza, ma decide di non
intervenire perché in quel momento Claudio sta pregando: ucciderlo in preghiera non
sarebbe stata davvero una vendetta perché l’ucciso sarebbe poi andato in paradiso. Durante
27
una dura conversazione con la madre nella camera di lei, Amleto uccide Polonio, nascosto
dietro a una tenda, scambiandolo per Claudio (3.4.22). Il fantasma del padre appare di
nuovo, recriminando al figlio di non aver ancora ucciso Claudio e aggiungendo di essere
tornato «to whet thy almost blunted purpose» (3.4.111). Amleto però viene esiliato da
Claudio in Inghilterra per l’omicidio di Polonio (4.3.46), e manda con lui Rosencrantz e
Guildenstern a spiare le azioni del nipote, pianificandone l’uccisione sul suolo inglese.
Amleto però riesce a tornare sano e salvo in Danimarca, grazie a dei pirati che avevano
catturato la sua barca e che lo avevano rilasciato con la promessa di una ricompensa futura
e avverte Orazio, con una lettera, del suo rientro (4.6.11). Anche Claudio viene a sapere del
ritorno di Amleto e cospira con Laerte, figlio di Polonio, per l’uccisione di Amleto: durante
un duello per vendicare la morte del padre, Laerte avrebbe usato una spada dalla punta
avvelenata e Claudio avrebbe avuto una bevanda avvelenata da usare all’occasione
(4.7.126-161). Il duello viene vinto da Amleto che infine pugnala Claudio (5.2.311) e lo
costringe a bere il vino avvelenato (316), ma muore anch’egli a causa di una ferita ricevuta
durante lo scontro con Laerte (348), non prima però di aver scambiato con questi parole di
perdono.
La vicenda di Ofelia è strettamente legata a quella della vendetta. All’inizio della
tragedia sia Laerte, suo fratello, in procinto di partire per Parigi, che Polonio, suo padre,
mettono in guardia la ragazza dai sentimenti di Amleto. Dopo la rivelazione del fantasma,
Amleto appare nella camera di Ofelia, pallido e spettinato, tanto che lei ne è spaventata e
corre a raccontare al padre dell’incontro, ma Polonio crede che sia stato il rifiuto di Ofelia
ad aver spinto il giovane sull’orlo della pazzia e riferisce lo strano comportamento di
Amleto a Claudio, presentando una vecchia lettera d’amore del giovane a Ofelia. Sotto la
spinta di Claudio, Polonio invia la figlia a scoprire elementi nuovi sulle condizioni di
Amleto, ma questi, quando lei lo saluta, la aggredisce verbalmente. Questi comportamenti
scostanti, uniti all’uccisione del padre, fanno impazzire completamente Ofelia che poco
dopo si toglie la vita. Rientrato dall’Inghilterra, Amleto, in compagnia di Orazio, incontra il
corteo funebre di Ofelia e viene sopraffatto dal dolore, dichiarando infine il suo profondo
amore nei confronti della ragazza (5.1.270-72).
L’ultima ‘sotto-trama’ è quella della guerra con la Norvegia. Il padre di Amleto
aveva sconfitto in duello il re norvegese Fortebraccio. Il figlio di questi, per rivendicare il
28
possesso dei territori sottratigli dal padre di Amleto, organizza una spedizione contro la
Danimarca. Pochi sono i riferimenti all’interno del dramma a riguardo della spedizione e
dell’arrivo del giovane Fortebraccio. Ma nella scena finale del dramma, Amleto morente,
divenuto principe di Danimarca dopo la morte di Claudio, decreta che suo erede regale sarà
il giovane principe Fortebraccio e chiede a Orazio di informare il nuovo re di tutti gli eventi
che hanno portato alla sua tragica fine:
HAMLET
But I do prophesy th’election lights
On Fortinbras; he has my dying voice.
So tell him, with th’occurrents more and less
Which have solicited - the rest is silence.
Amleto, 5.2.334-37
2. 4
Similarità delle vicende
Confrontando le versioni del mito greco con le leggende nordiche, Gilbert Murray, nel suo
intervento del 1914 alla British Academy, tenuto nell’ambito dell’annuale convegno
intitolato ‘Shakespeare Lecture’, evidenziò una serie di caratteristiche specifiche e peculiari
che accomunano i due gruppi.
1. Il padre del protagonista viene ucciso da un parente che poi sposa la regina e usurpa
il trono; da qui, l’eroe, spinto da comandi soprannaturali, porta a compimento la
vendetta.
2. È sempre presente una sorta di timore e riluttanza riguardo all’assassinio della
madre.
3.
L’eroe è offuscato dalla ‘follia’.
4. Per alcuni aspetti, sia Oreste che Amleto hanno delle personalità particolari,
soprattutto in rispetto al loro essere dei grandi personaggi tragici. L’Amleto di
29
Shakespeare viene descritto come un ‘pazzo trasfigurato’. In particolare, entrambi
gli eroi presentano talvolta un aspetto esteriore disordinato o trasandato. Entrambi
gli eroi hanno anche un atteggiamento morboso nei confronti delle donne: nelle
leggende nordiche questo appare tramite l’uso di un linguaggio offensivo e volgare
dell’eroe nei confronti delle donne e nei loro riguardi, nella tradizione greca invece
compaiono giudizi denigratori quali quello di Oreste nell’omonima tragedia
euripidea (v. 1590): «οὐκ ἂν κάμοιμι τὰς κακὰς κτείνων ἀεί.»
5. Di minore importanza sono le coincidenze per cui
a. entrambi gli eroi erano lontani da casa quando inizia il dramma principale,
b. entrambi sono in pericolo perché ci sono persone che attentano alla loro vita,
c. entrambi hanno «a good deal with the dead».
6. Infine, ci sono molti punti di somiglianza tra i personaggi collegati a ciascuno di
questi eroi:
a. I padri sono simili per molti aspetti.
b. In alcune caratteristiche personali stringenti le madri dei due eroi sono simili, e,
almeno in Saxo, le stesse caratteristiche appaiono nella donna di Amleto.
c. Ogni eroe ha un amico e confidente fidato.
d. In ogni gruppo di leggende ci sono una giovane donna e un uomo molto
vecchio, le cui caratteristiche e la cui relazione reciproca presentano aspetti
peculiari.
Tali analogie e coincidenze non possono semplicemente essere ritenute casuali e lasciate
nell’ombra. Meritano di essere analizzate e, in qualche modo, giustificate. Nella ricerca di
una spiegazione per la ricca matrice di connessioni tra le figure di Oreste e Amleto, Murray
è ostacolato dall’opinione secondo cui la Grammar School di Stratford non sarebbe stata in
grado di fornire a Shakespeare una preparazione adeguata alla consultazione delle fonti
primarie in greco. Scartando in partenza ogni possibile connessione tra l’Oreste dei drammi
attici e l’Amleto di Shakespeare, viene rigettata dunque anche l’ipotesi per cui la conquista
romana dell’Inghilterra o i mercenari scandinavi alla corte di Bisanzio avrebbero potuto
30
fornire un ponte per la trasmissione dei testi. Secondo Murray non esisteva infatti alcun
collegamento diretto tra le saghe nordiche e i drammi greci, ed è portato a concludere, data
la mancanza di prove storiche, che «the ultimate similarities between Euripides and
Shakespeare are simply due to the natural working, by playwrights of special genius, of the
dramatic possibilities latent in that original seed». Riteneva però che l’elemento comune
nelle storie di Oreste e Amleto fosse la storia rituale di quello che chiama ‘Golden-Bough
Kings’35, che è alla base anche delle rappresentazioni tradizionali dei Mummers le quali, pur
profondamente degradate e volgarizzate, non sono del tutto scomparse nei paesi del Nord
Europa.
Quando si prova ad analizzare un mitologema, bisognerebbe tralasciare l’approccio
meramente testuale e letterario, evitando ogni sorta di enfasi relativa a epoca, autore, testo,
in modo tale da poter pervenire a una prospettiva culturale più ampia, in grado di usare i
metodi d’indagine della mitologia comparata – supportata dall’antropologia culturale – per
rintracciare ed esaminare aspetti universali o specifici di una cultura, riguardo a una
determinata tematica. La mitologia, in quanto fenomeno culturale, può essere definita come
un sistema organizzato di credenze magico-religiose che assieme a delle norme di
comportamento etico, pratiche rituali, istituzioni sociali e artefatti associati a essi,
costituisce la sfera della spiritualità umana, a cui normalmente si dà il nome di religione.
Ogni sistema di credenze magico-religiose ha lo scopo di creare un modello del mondo
inteso a soddisfare le esigenze specificamente umane di conoscenza e comprensione
generalizzata della realtà e di ricerca di senso dell’esistenza. A quest’ultima si è sempre
tentato di sopperire tramite la creazione di complessi religiosi in cui narrazioni mitiche
costituivano dei modelli esplicativi e interpretativi dei principi che governano l’uomo e
l’universo. E il linguaggio attraverso cui i miti realizzano le loro funzioni di
schematizzazione e spiegazione del mondo è composto da segni e immagini a carattere
prettamente simbolico.
Murray, da parte sua, evidenzia la somiglianza tra Gaia, Rhea, Giocasta e
Clitemestra nel mondo greco da un lato e Amba, Gerutha e Gertrude nelle leggende
35 Il riferimento è a Fraser, The Golden Bough: A Study in Comparative Religion, pubblicato per la prima
volta nel 1890 e poi gradualmente ampliato fino all’edizione definitiva del 1915. Fraser propose un
approccio innovativo agli studi religiosi, analizzandoli come fenomeni culturali piuttosto che in
prospettiva teologica. La sua influenza sul pensiero e la letteratura europea fu sostanziale.
31
nordiche dall’altro. La stessa similarità esiste fra i vecchi re e i giovani vendicatori
all’interno dei vari racconti. L’origine di queste somiglianze è senza dubbio l’antica
concezione religiosa, comune almeno alla maggior parte dei popoli indoeuropei, secondo
cui l’Inverno uccide l’Estate, o il Nuovo Anno uccide il Vecchio, ed è a sua volta ucciso dal
suo successore.
Nella vicenda narrata da Saxo, Murray ravvisa una analogia fra Horvandillus, padre
di Amleto e l’antico dio teutonico Aurvendill, la cui moglie, Gròa, viene identificata con la
‘Terra Verde’. Aurvendill, secondo la leggenda, aveva ucciso il suo nemico Collerus, re
vichingo e fu poi a sua volta ucciso dal fratello e vendicato dal figlio 36. Questi collegamenti
sembrano implicare, secondo Murray, «a great unconscious solidarity and continuity,
lasting from age to age, among all the children of the Poets, both the Makers and the
Callers-forth, both the artists and the audiences. In artistic creation, as in all the rest of life,
the traditional element is far larger, the purely inventive element far smaller, than the
unsopihisticated man supposes».
Una analogia simile a quella fra Horvandillus e Aurvendill può essere rintracciata
nella vicenda di Agamennone37. La sua è una morte particolare: viene ucciso mentre è
inviluppato in una rete gettatagli sopra il capo, con un piede ancora nella vasca da bagno e
l’altro per terra, in una stanza annessa al palazzo ma che non fa parte dello stesso. Muore
cioè né vestito né svestito, né in acqua né sulla terraferma, né nel suo palazzo né fuori: una
situazione che ricorda la morte dell’eroe della mitologia gallese Lleu Llaw Gyffes, per
mano della moglie infedele Blodeuwedd e dell’amante di lei Gronw Pebr, narrata nel
Mabinogion.
Tutte queste vicende rappresenterebbero il mito del re sacro che muore a mezza
estate, della dea che lo tradisce, del successore che prende il suo posto e del figlio che ne
vendica l’uccisione.
Jan Kott (1967), influenzato dall’Antropologia Strutturale di Levi Strauss, propone
una personale analisi in parallelo del mito greco e del mito nordico. Molte delle sue
conclusioni appaiono troppo fantasiose per poter essere prese seriamente in considerazione,
ma su di un punto presenta un’acuta osservazione, che potrebbe essere aggiunta ai paralleli
36 Cf. Dumézil 2001, pp. 193-98.
37 Per una interpretazione della nascita della saga degli Atridi, cf. Untersteiner 1972, pp. 176-77.
32
proposti da Murray e motivare la divergenza fra i due miti. Kott si sofferma infatti su due
triadi di morti, Agamennone-Egisto-Clitemestra versus Amleto padre-Gertrude-Claudio. A
suo dire, la differenza relativa alla morte della madre nelle due variazioni (matricidio vs.
suicidio-omicidio) non rappresenterebbe un particolare problema interpretativo38 e che la
differenza paradigmatica risiede nella diversa sequenza di morti e nel loro corrispettivo
afferire a una trama del tipo della ‘revenge tragedy’ o a una di spessore etico-religioso. In
entrambi i casi, la morte fondamentale è posta in coda alla triade: se il tema prevalente è
quello della vendetta, l’ultimo assassinio sarà quello dell’usurpatore, nel caso del tema
etico-religioso è invece il matricidio a essere l’ultimo. L’aver separato questa triade dal
resto delle morti presenti nelle rispettive vicende pone l’accento su quanto effettivamente
può essere probabilmente ascritto al proto-mito originario. La figura di Oreste infatti, nella
saga atridica, è un’aggiunta posteriore39 e la stessa cosa si può pensare di Amleto per la saga
nordica.
Tutte queste analogie fra le due serie di saghe fanno supporre l’esistenza di un
mitologema originario in grado di giustificarne la presenza. Eppure, fra la tragedia di
Shakespeare e i drammi attici le convergenze sono più nitide e non si limitano
esclusivamente alla trama o a determinate caratteristiche dei protagonisti. Le analogie sono
testuali, oltre che tematiche. E questo, a mio avviso, rinsalda il legame esistente fra i due.
Nel capitolo seguente saranno dunque trattati alcuni aspetti testuali delle narrazioni per
verificare se, oltre alle affinità relative alla storia, si possano inferire rapporti più stringenti
fra Shakespeare e la drammaturgia attica.
38 In realtà, la divergenza è ampiamente significativa: dal matricidio greco si dipanano tutta una serie di
conseguenze etiche e religiose che non avrebbero modo di estrinsecarsi senza che tale questione venisse
sollevata.
39 Cf. Untersteiner 1972, p. 338.
33
3. PASSI IN PARALLELO40
Si è visto che nella caratterizzazione di Amleto e Oreste vi sono similarità interessanti.
Anche se il secondo non riveste lo stesso ruolo predominante all’interno della trilogia
eschilea come il principe danese nell’Amleto (nell’Agamennone Oreste non appare
nemmeno), a discapito dello «small latine and lesse greeke», i due personaggi sembrano
essere stati concepiti in maniera tanto simile che non ci si può esimere dal sospettare che
Shakespeare avesse in mente Oreste mentre raappresentava Amleto. Tale opinione è
rafforzata dal fatto che le antiche versioni della vicenda di Amleto non evidenziavano
somiglianze così nette, nel dileneamento dei caratteri, con i drami attici. Le differenze fra
Oreste e Amleto sono senza dubbio molte ma paiono irrilevanti rispetto alla mole di
affinità.
Entrambi si confrontano con lo stesso problema e assolvono allo stesso dovere:
ottenere vendetta per l’assassinio del padre. Oreste è spinto dall’oracolo di Apollo, Amleto
dal fantasma del padre. L’obbiettivo principale della vendetta di Oreste è rappresentato
dalla madre. La situazione dell’adulterio è la medesima: come Egisto ha sedotto
Clitemestra, così Claudio ha sedotto Gertrude. Nell’Amleto l’obbiettivo principale è
Claudio, e il fantasma del padre chiede esplicitamente ad Amleto di non avventare la
propria ira contro la madre. Tuttavia è lei a presentarsi costantemente nel flusso dei pensieri
del giovane, molto più spesso di Claudio, e Amleto scaglia icasticamente parole che sono
come «daggers to her» benché, nei fatti, abbia deciso di non farne uso. Un ulteriore aspetto
di divergenza è che nella tragedia di Shakespeare la situazione dell’incesto diventa una vera
e propria ossessione.
Risulterà interessante notare che gli atti dell’Amleto in cui sono maggiormente
presenti analogie con i drammi attici sono il primo e l’ultimo: come in una cornice, la
‘revenge tragedy’ (che nei restanti tre atti si protrae lungamente a causa dei dubbi di
Amleto) sembra incastonata nel riferimento alla vicenda di Oreste. A riprova di ciò, sia il
primo che il quinto atto iniziano con una scena che richiama ineluttabilmente alla mente
l’Orestea: la guardia nel primo atto si ricollega all’inizio dell’Agamennone mentre la scena
40 Le edizioni usate per le citazioni dai testi originali sono quella di Storr (1914), per l’Elettra di Sofocle,
Murray (1913) per l’Oreste e Smyth (1926) per l’Orestea. Per l’Amleto, l’edizione usata è quella di Philip
Edwards 2003.
34
nel Cimitero si riccolega all’apertura delle Coefore. In questo capitolo verranno quindi
confrontati in parallelo episodi, temi e personaggi, in modo tale da verificare direttamente,
tramite le fonti primarie, le diversità e le analogie.
3. 1
Il prologo: la guardia e il re
Come già anticipato, quel che colpisce in prima battuta dalla lettura in parallelo
dell’Orestea e dell’Amleto è l’apertura di entrambi sulla scena di un turno di guardia.
Nell’Agamennone, seduto sul tetto della reggia degli Atridi 41, una guardia attende il segnale
che annunci la caduta di Troia. Nell’Amleto, del re morto, appare inaspettato il suo
fantasma. In entrambi i casi le guardie sono sollevate nel momento in cui termina il proprio
turno, sia che si tratti di una fine momentanea (Shakespeare), sia che si tratti di un termine
definitivo (Eschilo). Quando appaiono i fuochi che in staffetta si propagano da lontano per
annunciare la caduta di Troia, così come predisposto da Clitemestra, le parole della guardia
in Eschilo risuonano, perlomeno inizialmente, colme di gioia:
Φύλαξ
νῦν δ᾽ εὐτυχὴς γένοιτ᾽ ἀπαλλαγὴ πόνων
εὐαγγέλου φανέντος ὀρφναίου πυρός.
ὦ χαῖρε λαμπτὴρ νυκτός, ἡμερήσιον
φάος πιφαύσκων καὶ χορῶν κατάστασιν
πολλῶν ἐν Ἄργει, τῆσδε συμφορᾶς χάριν.
Aeschl. Ag. 20-24
Similmente, all’inizio dell’Amleto, quando Bernardo arriva a dare il cambio a Francisco,
questi lo ringrazia con parole che paiono quasi sproporzionate rispetto alla situazione:
FRANCISCO For this relief much thanks, ’tis bitter cold
And I am sick at heart.
Amleto, 1.1.7-8
L’analogia più evidente è nell’impiego dei termini ‘ἀπαλλαγή’ e ‘relief’, l’uno la
41 Il termine utilizzato da Eschilo è ἄγκαθεν.
35
traduzione dell’altro, ma anche nella condizione di profondo disagio che avvertono
entrambi durante la guardia. L’uno è avvinto dal ‘φόβος’, l’altro è ‘sick at heart’. Ciò che
aumenta la sofferenza è l’assenza di accadimenti che caratterizza le rispettive notti: «Not a
mouse stirring», recita Francisco, mentre in Eschilo è la conta delle stelle a essere
indicativa della noia.
Il successivo punto di contatto fra le scene è l’avvistamento del re. L’apparizione del
fantasma, nel dramma di Shakespeare, getta sin dall’inizio una luce tetra sulla vicenda,
scurendone i toni e avvicinandola al tipo di tragedia in voga nel teatro elisabettiano, quella
plasmata sulla drammaturgia senecana, lugubre e truce. Ma più che il buio, la presenza del
re morto in scena stampa su di essa sin dai primi versi il marchio della ‘vendetta’ che,
assieme al ‘dolore’, permea l’intera vicenda. Così paradigmatico è anche l’avvio della
tragedia nell’Agamennone: la patina di ansia, paura e mistero trapela dalle parole del
πρόσωπον προτατικόν della guardia e da quelle successive del Coro degli anziani, ed è
tipicamente figlia del dettato eschileo.
Solitamente si fa discendere l’adozione della figura del fantasma in Amleto dal
teatro senecano: le due tragedie che portano in scena un’ombra sono il Tieste e
l’Agamennone. È interessante notare come, anche in tal caso, si stagli un legame forte con
la saga atridica. Nel Tieste è l’ombra di Tantalo a introdurre la vicenda, mentre
nell’Agamennone, ad anticipare gli eventi luttuosi che seguiranno, è l’ombra di Tieste. In
quest’ultima tragedia, Seneca ascrive all’ombra sentimenti profondamente umani,
soprattutto un forte odio, anche da morto, che la porta a fuggire la luce non meno che le
tenebre, vagando inquieto in cerca di vendetta. Sicuramente l’influenza di Seneca ha
giocato un ruolo importante sia per Shakespeare che per l’autore del supposto Ur-Hamlet, e
ugualmente per la Spanish Tragedy di Kyd. Il parallelo con l’ombra di Tieste nell’Amleto è
evidente, facendo riferimento all’atteggiamento menzionato del rifuggire la luce. Lo
testimoniano le parole di Orazio che riferisce ad Amleto l’incontro con il fantasma del re
avvenuto nella notte:
HORATIO
But even then the morning cock crew loud,
And at the sound it shrunk in haste away
And vanished from our sight.
Amleto, 1.2.217-219
36
Lo confermano anche le parole del fantasma nella successiva apparizione, quella del
giuramento:
GHOST
The glow-worm shows the matin to be near,
And gins to pale his uneffectual fire.
Adieu, adieu, adieu. Remember me.
Amleto, 1.5.89-91
Come in Seneca, lo spirito non riesce a trovare requie nel suo dolore; ciò che lo muove e lo
tormenta non è un odio generico, ma il desiderio che 1’assassinio non resti invendicato e il
timore che «the royal bed of Denmark be / A couch for luxury and damned incest.»
(1.5.82-3): di qui l’ingiunzione ripetuta a giurare e 1’esortazione di Amleto, dopo avergli
assicurato la vendetta, a riposare e deporre le proprie pene: «Rest, rest, perturbed spirit.»
(1.5.18342).
Dunque è dai testi senecani che discende la predilezione nel teatro
rinascimentale per questo genere di prologo-apparizione. Già nella Spanish Tragedy viene
adottato questo modello, portando a recitare il prologo 1’ombra di Andrea, nobile spagnolo;
ugualmente fece Marlowe nell’Ebreo di Malta, che mise a recitare il prologo addirittura
l’ombra di Machiavelli. Shakespeare dal canto suo innova l’elemento drammaturgico
inserendo l’apparizione dell’ombra all’interno dell’azione drammatica, sia nel prologo,
dove rimane silente, che nelle scene successive.
Ad ogni modo, influenze senecane a parte, il riferimento anche in questo caso torna
alla famiglia di Oreste. Quanto poi al turno di guardia, l’assonanza con l’Agamennone
eschileo appare forte. Se congiunta alla presenza del re, sia nel caso in cui torni a casa dalla
guerra ignaro ancora del futuro destino di morte, sia nel caso in cui l’assassinio sia già
avvenuto, l’affinità della scena diviene ancora più evidente. È quasi banale evidenziare
quanto l’incipit di un dramma sia evocativo e al contempo propedeutico al prosieguo di
tutta la vicenda. Le supposte fonti shakespeariane non iniziano con una scena simile e
neppure fra i vari drammi attici si incontrano prologhi del medesimo tipo43.
42 Cf. la scena in Kyd, Spanish Tragedy, 1.5
43 Probabilmente influenzato dall’interpretazione freudiana della vicenda di Amleto, Jean Cocteau fa
iniziare la sua personale trattazione della vicenda edipica, nella Machine Infernale (1934), proprio con un
turno di guardia, esattamente come avviene nell’Amleto.
37
3. 2
Il lutto e Niobe
Il topos del lutto smisurato e ingiustificato appare evidenziato in maniera preponderante
nell’Elettra di Sofocle. Di questa, come detto, esistevano almeno due traduzioni in latino
nel XVI secolo. Confrontando i passi del tragediografo greco con quelli di Shakespeare,
soprattutto nella seconda scena del primo atto, appaiono chiaramente evidenziati i
medesimi punti.
GERTRUDE
Thou know’st ’tis common, all that lives must die,
Passing through nature to eternity.
HAMLET
Ay madam, it is common.
If it be,
GERTRUDE
Why seems it so particular with thee?
Amleto, 1.2.68-75
Siamo ancora nel primo atto, Amleto fa la sua prima comparsa in scena. È silenzioso e
scuro in volto: la perdita del padre, di cui ancora non sospetta la morte violenta e innaturale,
e il repentino nuovo connubio della madre con il fratello del defunto marito, lo hanno fatto
sprofondare in un abisso di dolore e risentimento. Nel passo appena citato, la madre gli
rammenta che la morte fa parte del ciclo naturale delle cose, per chiunque, e che di
conseguenza non vi è nulla che distingua la sua sventura da quella di altri esseri umani. Ma
per Amleto non vi è alcuna consolazione in un simile approccio agli eventi e non può
impedirsi di addolorarsi a dismisura.
Nell’Elettra sofoclea avviene uno scambio di battute simile a quello appena
proposto fra Amleto e la madre: questa volta però è il Coro delle donne di Argo, e non la
madre, ad ammonire la figlia di Agamennone in merito all’inutilità di un lutto così
marcatamente sentito. Anche il Coro greco ricorda alla protagonista del dramma che quello
relativo alla perdita di un padre è un evento naturale, comune a tutti gli uomini e non
dunque riservato a lei sola e che un lamento eccessivamente protratto e sostenuto non giova
a nessuno.
Χορός
ἀλλ᾽ οὔτοι τόν γ᾽ ἐξ Ἀΐδα
38
παγκοίνου λίμνας πατέρ᾽ ἀνστάσεις οὔτε γόοισιν οὔτ᾽ εὐχαῖς.
ἀλλ᾽ ἀπὸ τῶν μετρίων ἐπ᾽ ἀμήχανον
ἄλγος ἀεὶ στενάχουσα διόλλυσαι,
ἐν οἷς ἀνάλυσίς ἐστιν οὐδεμία κακῶν.
τί μοι τῶν δυσφόρων ἐφίει;
[…]
οὔτοι σοὶ μούνᾳ, τέκνον,
ἄχος ἐφάνη βροτῶν,
πρὸς ὅ τι σὺ τῶν ἔνδον εἶ περισσά,
οἷς ὁμόθεν εἶ καὶ γονᾷ ξύναιμος,
οἵα Χρυσόθεμις ζώει καὶ Ἰφιάνασσα,
Soph. El. 137-143, 154-163
L’Elettra che descrive Sofocle è una donna in preda al θυμός, combattiva e forte quasi come
Antigone e come quest’ultima intende prestare fede alla sua interiore legge morale. Le
parole del Coro non sono sprezzanti, ma razionali e quasi commosse, come quelle di
Gertrude. Nell’Amleto tale parte è affidata alla madre perché, a differenza del mito greco, in
lei non vi è odio nei confronti del figlio. In Sofocle, Clitemestra non avrebbe potuto
pronunciare parole tanto piane. Il ruolo predominante di Clitemestra nell’omicidio del re
viene assunto da Claudio, non da Gertrude, nel dramma di Shakespeare. In questo primo
riferimento al lutto, si ha piuttosto un monito contro la smisuratezza insensata e la
mancanza di un giusto equilibrio, aspetti, questi ultimi, fondamentali nella tragedia greca.
È interessante notare che sia in Shakespeare che in Sofocle a questo punto del
dramma viene fatto riferimento a Niobe, nella sua veste simbolica d’immagine del dolore. Il
rapporto che si instaura con la figura mitica all’interno dei due drammi è però antitetico. In
Shakespeare, Niobe viene ironicamente associata alla figura della madre che, a pochi mesi
dalla morte del marito, convola a nuove nozze con il di lui fratello. Nel suo primo
soliloquio Amleto dice:
HAMLET
A little month, or ere those shoes were old
With which she followed my poor father’s body
Like Niobe, all tears, why she, even she -
39
O God, a beast that wants discourse of reason
Would have mourned longer […]
Amleto, 1.2.47-51
Sofocle, al contrario, propone un parallelo più propriamente tragico, in cui non è presente
alcuna ironia. Paragona le lacrime senza fine di Niobe a quelle di Elettra:
ἰὼ παντλάμων Νιόβα, σὲ δ᾽ ἔγωγε νέμω θεόν,
ἅτ᾽ ἐν τάφῳ πετραίῳ
αἰεὶ δακρύεις.
Soph. El. 150-52
In entrambi i passi ciò che viene evidenziato di Niobe è la sua umanità, non la sua
discendenza divina, tramite cui diventa simbolo di estremo dolore. Nonostante le parole di
Elettra che dichiara di venerarla come una dea, in realtà il rimando è alla sfera delle
passioni umane. La coincidenza potrebbe essere certo casuale, ma è significativa sotto un
ulteriore punto di vista. Niobe era figlia di Tantalo e della Pleiade Dione 44. Le origini di
Tantalo sono assai discusse: suo padre, secondo alcuni, era Zeus. Niobe ebbe in sposo
Anfione, un altro figlio di Zeus e re di Tebe. Ricca e potente, chiese al suo popolo di essere
venerata al posto della dea Latona, e che venissero predisposti sacrifici nel tempio in suo
onore, piuttosto che alla dea. Riteneva infatti di essere più venerabile di Latona per aver
messo al mondo quattordici figli45, sette maschi sette femmine, al contrario dei due soli
della dea. Per vendicare tale insulto, i figli di quest’ultima, Apollo e Artemide, uccisero la
progenie di Niobe, davanti agli occhi della madre che, testimone del massacro, rimase muta
di fronte a un orrore e a un dolore tanto grandi. Continuò a piangere per i figli anche dopo
essere stata tramutata in una statua da Zeus in persona 46. Il riferimento a Niobe in entrambe
le tragedie in oggetto si giustifica proprio tramite il simbolismo del dolore infinito che la
donna del mito è venuta ad assumere.
44 Plut. Vitae 33; Pherec. in Sch. Eur. Or. 11; Hyg. Fab. 83; Paus. III 22 4.
45 Secondo Omero i figli di Niobe erano dodici; secondo Esiodo (a quanto risulta da vari scoliasti) erano
venti; secondo Erdoto quattro; secondo Saffo diciotto. Ma secondo la versione seguita da Euripide e
Apollodoro, essi erano quattordici.
46 Hyg. Fab. 9 e 10; Apollod. III 5 6; Il. XXIV 612 e sgg.; Ov. Met. VI 146-312; Paus. V 16 3, VIII 2 5 e I
21 5.
40
D’altra parte, la presenza di Niobe nel primo monologo di Amleto riporta alla mente
anche la figura di suo padre, Tantalo. Costui era talmente benvoluto dagli dèi da essere
ammesso ai banchetti di nettare e ambrosia sull’Olimpo. Secondo alcune versioni del mito
tentò di rubare il cibo degli dèi, per distribuirlo ai suoi amici mortali. Ma la sua colpa più
grande, la causa della maledizione che porterà sofferenze alle generazioni future e condurrà
in ultima analisi al matricidio di Oreste, fu il tentativo d’ingannare gli dèi servendo loro, a
un banchetto, la carne del figlio Pelope47. Per questo reato fu punito con la distruzione del
suo regno e dopo la morte, condannato a non vedere mai saziate la sua fame e la sua sete 48.
Pelope fu in seguito resuscitato dagli dèi (totalmente integro tranne che per la spalla
sinistra, costituita d’avorio, resasi necessaria perché Demetra, ancora assorta nel dolore per
la perdita di Persefone, non accortasi di ciò che aveva nel piatto, aveva mangiato la spalla
originale), ma, come suo padre, anche su di lui incombeva una maledizione. Dopo aver
richiesto l’assistenza dell’auriga Mirtilo per conquistare la mano di Ippodamia, figlia di
Enomao, ed essere riuscito nell’impresa49, quando Mirtilo mostrò troppo interesse per la
donna, Pelope lo scaraventò da una rupe50. Mentre precipitava giù, l’auriga maledisse
Pelope, scagliando una maledizione che ricadde pesantemente sui figli di Pelope, Atreo e
Tieste. Quest’ultimo, in età adulta, commise adulterio con la moglie di Atreo, Erope, e rubò
di soppiatto il vello d’oro che avrebbe decretato l’assegnazione del regno di Micene a uno
dei due fratelli51. L’inganno di Tieste era stato però smascherato, grazie alla predilezione di
Zeus nei confronti di Atreo, e aveva portato all’esilio del primo e all’ascesa al potere del
secondo52. Scoperta poi l’infedeltà della moglie, Atreo aveva richiamato Tieste a Micene
con il pretesto di riconciliarsi e, a un ennesimo macabro banchetto, aveva servito al fratello
le carni dei figli di lui, e dopo che Tieste ne ebbe mangiato con appetito, fece portare dai
servi le teste sanguinanti dei bambini, i loro piedi e le loro mani, adagiati su un piatto. A
quel punto Tieste lanciò anche lui, a sua volta, una maledizione sulla stirpe di Atreo53.
Ulteriori dettagli della vicenda narrano di come Tieste, su consiglio dell’oracolo di
Delfi, ingravidò la figlia Pelopia in modo da poter generare un figlio che avrebbe potuto
47 Hyg. Fab. 83; Ov. Met. VI 406.
48 Diod. IV 74; Plat. Crat. 28; Luc. 77 17; Od. XI 582-92; Ov. Met. IV 456; Pind. O. I 60; Apollod.7 Epit. II;
Hyg. Fab. 82.
49 Pind. O. I 87; Luc. 83 19; Diod. IV 73; Apollod.7 Epit. II.
50 Strab. Hist. X 1 7; Soph. El. 508 e sgg.; Apollod.7 , Epit. II; Paus. VIII 14 7.
51 Apollod.7, Epit. II 11; Sch. Eur. Or. 812; Sch. Il. II 106.
52 Apollod.7, Epit. II 12; Sch. Il. II 106; Eur. Or. 1001; Ov. Ars 327 e sgg.; Sch. Eur. Or. 812.
53 Hyg., Fab.e 86 e 97; Eur. Hel. 392; Il. II 131e sgg.
41
vendicarsi di Atreo54. Questi era appunto Egisto che sedusse Clitemestra durante la
decennale guerra di Troia, aiutando la donna nell’omicidio del marito Agamennone al suo
ritorno in patria, e che a sua volta venne ucciso da Oreste. Nell’Odissea (I 35 e sgg. e III
263-75), Zeus ricorda il tradimento di Egisto e di come questi avesse ignorato il consiglio
di Ermete di non uccidere Agamennone, perché il figlio di lui, Oreste, si sarebbe poi
vendicato. Nell’Orestea (Ag. 1220-1391, 1521 e sgg. ed Eum. 631-35) è Egisto a colpire
per primo Agamennone con una spada a doppio taglio, dopo essere stato imbrigliato da una
rete gettatagli addosso da Clitemestra la quale lo colpisce definitivamente, decapitandolo
con la doppia scure, per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia55.
La composizione di queste maledizioni e crimini ereditari rende la casa di Atreo la
più tragica di tutte (assieme a quella dei Labdacidi) nella mitologia greca. Ingannare gli dèi
e chiedere di essere adorato al loro posto sono crimini che pongono le basi per una catena di
omicidi, vendette, adulterii, incesti e cannibalismo.
Agamennone è il figlio maggiore di Atreo e nei drammi post-omerici sembra
aggravare la maledizione di famiglia sacrificando la figlia Ifigenia ad Artemide, per
consentire ai Greci di salpare verso Troia a muoverle guerra. Il sacrificio era in realtà
necessario sulla base di un oracolo che avvertiva i Greci dell’ira di Artemide nei loro
confronti. Nell’Ifigenia fra i Tauri di Euripide, Ifigenia viene salvata all’ultimo minuto
dalla sostituzione di lei, sull’ara, con un cervo. La ragazza è condotta fra i Tauri dove
continua a vivere e diviene sacerdotessa della dea. Le cose finiscono meno bene per
Ifigenia nella versione di Sofocle, in cui lei viene condotta nel campo greco in Aulide con la
promessa del padre di farle sposare Achille. Anche se Achille stesso è abbastanza disposto a
consumare il matrimonio – in una versione, si offre di difenderla da coloro che chiedono il
suo sacrificio – la ragazza, in coscienza, accetta docilmente il suo destino.
In questo assoggettamento al proprio destino Ifigenia è molto simile a Ofelia.
Entrambe sono innocenti nobili promesse spose a dei principi guerrieri, pedine di scambio
per i piani dei padri le quali finiscono vittime dei giochi politici di corte. I fratelli di
entrambe, Oreste e Laerte, cercano vendetta contro gli assassini dei genitori. Laerte, che
utilizza un inganno, muore nel tentativo di effettuare la propria vendetta, mentre Oreste
impazzisce a causa dalle Furie.
54 Apollod.7, Epit. II 13-14; Hyg., Fab. 87 e 88; Serv. A. II 262.
55 Soph. El. 99; Aeschl. Ag. 1372 e sgg. e 1535.
42
Se il riferimento a Niobe in Shakespeare può essere stato semplicemente dettato dal
valore simbolico che questa era venuta ad assumere, soprattutto in età medievale, a seguito
della lettura delle Metamorfosi di Ovidio (6.146-312) in cui viene narrata la vicenda del
tramutamento in pietra, ciò non toglie che anche in questo caso, come in quello del prologo
con fantasma, nuovamente vi sia una allusione, voluta o meno, alla saga atridica.
Tornando al topos del lutto, il richiamo alla mancanza di misura nella gestione di questo
che avevano indicato il Coro nell’Elettra sofoclea e Gertrude nell’Amleto shakespeariano,
viene ora esacerbato e assume i toni di una vera e propria condanna. Come già anticipato, le
parti in gioco in questo caso sono quelle di Clitemestra e Claudio. Nel dramma inglese le
parole di Claudio fanno riferimento alla non eticità di un comportamento tanto sconsiderato
quale è quello che sta tenendo Amleto.
CLAUDIUS
In filial obligation for some term
To do obsequious sorrow; but to persever
In obstinate condolement is a course
Of impious stubbornness, ’tis unmanly grief,
It shows a will most incorrect to heaven,
A heart unfortified, a mind impatient,
An understanding simple and unschooled.
For what we know must be, and is a s common
As any the most vulgar thing to sense,
Why should we in our peevish opposition
Take it to heart? Fie, ’tis a fault to heaven,
A fault against the dead, a fault to nature,
To reason most absurd, whose common theme
Is death of fathers, and who still hath cried,
From the first corse till he that died today,
’ This must be so.’
Amleto, 1.2.91-106
Il nuovo re di Danimarca parla di colpa contro gli dèi, di empietà e dissennatezza. Le sue
parole non sono piene di comprensione come quelle di Gertrude, ma rivelano un forte astio
43
e un vivo sentimento di stizza. Nell’Elettra non è Clitemestra in prima persona a
pronunciare le parole di sdegno per il dolore incontenibile della figlia, ma Elettra stessa
riferisce al Coro le lamentele della madre.
Ἠλέκτρα
ἐγὼ δ᾽ ὁρῶσ᾽ ἡ δύσμορος κατὰ στέγας
κλαίω, τέτηκα, κἀπικωκύω πατρὸς
τὴν δυστάλαιναν δαῖτ᾽ ἐπωνομασμένην
αὐτὴ πρὸς αὑτήν. οὐδὲ γὰρ κλαῦσαι πάρα
τοσόνδ᾽ ὅσον μοι θυμὸς ἡδονὴν φέρει.
αὕτη γὰρ ἡ λόγοισι γενναία γυνὴ αὕτη γὰρ ἡ λόγοισι γενναία γυνὴ
φωνοῦσα τοιάδ᾽ ἐξονειδίζει κακά:
ὦ δύσθεον μίσημα, σοὶ μόνῃ πατὴρ
τέθνηκεν; ἄλλος δ᾽ οὔτις ἐν πένθει βροτῶν;
κακῶς ὄλοιο, μηδέ σ᾽ ἐκ γόων ποτὲ
τῶν νῦν ἀπαλλάξειαν οἱ κάτω θεοί.
Soph. El. 282-92
Come nel discorso di Claudio anche qui le parole di Clitemestra bruciano di risentimento e
sono intese a mortificare il comportamento del figlio (in questo caso, della figlia) che si
strugge di dolore per la morte del padre. In entrambi i casi il riferimento è agli dèi e alla
mancanza di rispetto nei confronti della religione. Claudio parla di «impious stubbornness»
mentre Clitemestra si riferisce alla figlia come a un «δύσθεον μίσημα». L’atteggiamento di
Claudio e Clitemestra rispetto a quello tenuto dal Coro e da Gertrude in precedenza, in
merito al medesimo argomento, è profondamente diverso. La comprensione ha ceduto il
posto all’incomprensione e il giudizio etico con sfumature religiose relativo al
comportamento luttuoso ne è un simbolo evidente.
Da tali analogie sembrerebbe inoltre possibile inferire un parallelo leggermente
diverso da quello proposto normalmente fra Claudio ed Egisto e Gertrude e Clitemestra:
pare infatti più evidente la similarità che passa fra Claudio e Clitemestra piuttosto che
quella fra quest’ultima e la madre di Amleto, quanto meno in relazione all’astio nei
confronti del giovane. D’altronde il personaggio di Egisto, all’interno dei drammi attici,
vede ridotta all’osso la propria importanza rispetto a quanto invece accadeva nei poemi
44
omerici. Il ruolo di assassino è ormai pienamente interpretato dalla madre che assomma in
sé i caratteri di vindice (originariamente appartenenti a Egisto, in quanto figlio di Tieste), di
usurpatrice al trono e di fedifraga. La vendetta di Clitemestra non è più quella di Egisto: lei
uccide il marito per vendicare la morte di Ifigenia, e tale sarà il movente per l’azione dei
figli. Nell’Amleto, invece, è l’invidia di Claudio a spingere al patricidio, lui ne è colpevole,
non Gertrude, che partecipa senza avere in realtà alcun reale movente.
Un ulteriore motivo di analogia è il fatto che qui come nell’Amleto il lamento si
protrae in solitudine, mentre gli altri sono fuori a festeggiare.
3. 3
Clitemestra e Gertrude
Prima di andare a considerare ulteriori motivi di analogia fra Claudio e Clitemestra, si
possono identificare quelli che legano le due madri. Clitemestra, come già detto, si è
sostituita all’Egisto dei poemi omerici nella rappresentazione del personaggio che incarna il
male da vendicare. Eppure ancora un aspetto accomuna le due donne: l’essere entrambe
fedifraghe. Egisto e Claudio sono, rispettivamente, cugino e fratello dei defunti mariti. Il
carattere incestuoso dell’adulterio di Gertrude viene fortemente stigmatizzato da Amleto,
differentemente da quanto accade invece nella vicenda di Oreste. Nel terzo atto del dramma
shakespeariano, quando Amleto si reca nella stanza della madre per parlarle e finisce per
uccidere Polonio nascosto dietro a una tenda, il giovane esprime un forte rammarico per il
comportamento della madre, irrispettoso nei confronti di un marito oltremodo degno.
HAMLET
No by the rood, not so.
You are the queen, your husband’s brother’s wife,
And, would it were not so, you are my mother.
Amleto, 3.4.14-16
Disapprova a tal punto la mancanza di fedeltà che addirittura è spinto a rinnegare la propria
madre. Un atteggiamento simile è tenuto da Oreste nell’omonima tragedia di Euripide,
quando questi dialoga con Tindaro, padre di Clitemestra, adirato con il nipote per la
vendetta sanguinosa perpetrata ai danni della figlia.
45
Ὀρέστης
ἡ σὴ δὲ θυγάτηρ — μητέρ᾽ αἰδοῦμαι λέγειν —
ἰδίοισιν ὑμεναίοισι κοὐχὶ σώφροσιν
ἐς ἀνδρὸς ᾔει λέκτρ᾽: ἐμαυτόν, ἢν λέγω
κακῶς ἐκείνην, ἐξερῶ: λέξω δ᾽ ὅμως.
Eur. Or. 557-60
Qui è l’αἰδώς56 a essere chiamato direttamente in causa. Nel tentativo di giustificare il
matricidio, Oreste fa appello a un concetto simile alla fides latina: se anche si è macchiato
di un crimine talmente grande da dover subire un processo per valutare se potrà o meno
essere assolto, accusa d’infedeltà la madre e difende il suo operato additandolo come
necessario a preservare la Grecia da eventuali future mancanze di lealtà delle altre donne. Il
padre, agli occhi di Elettra e Oreste, era un uomo andato via dalla patria per combattare
contro dei nemici. Così anche nell’Amleto il padre è visto come incarnazione del
condottiero, salvatore e protettore della patria, onorabile al contrario del fratello.
Nell’Elettra di Sofocle, viene esplicitata la tracotanza di Clitemestra, l’aver osato
tenere un atteggiamento inconciliabile con i dettami divini. La scena è simile:
Ἠλέκτρα
ἴδω δὲ τούτων τὴν τελευταίαν ὕβριν,
τὸν αὐτοέντην ἡμὶν ἐν κοίτῃ πατρὸς
ξὺν τῇ ταλαίνῃ μητρί, μητέρ᾽ εἰ χρεὼν
ταύτην προσαυδᾶν τῷδε συγκοιμωμένην:
Soph. El. 271-274
In tutti e tre i passi i giovani lamentano il fatto di dover chiamare madre una donna che per
gli atteggiamenti fedifraghi tenuti nei confronti del proprio legittimo marito, non lo
meriterebbero. Nell’Amleto (soprattutto nel Primo In-Quarto) la regina non è accusata
esplicitamente dell’omicidio del marito. Questo scarto rispetto ai drammi attici ne implica
anche il differente atteggiamento tenuto dai figli. Nelle tragedie greche la colpa di
Clitemestra è duplice al contrario di quanto avviene in Shakespeare. Nel Primo In-Quarto,
si fa esplicito riferimento all’innocenza della donna nell’omicidio:
56 Sull’importanza del concetto di αἰδώς, cf. Dodds (1951).
46
QUEEN
But, as I have a soul, I swear by heaven
I never knew of this most horrid murder.
Amleto (Primo In-Quarto), 2520.1
In Eschilo, il riferimento alla vergogna che si prova nel chiamare madre una donna indegna
di tale nome, non è ugualmente esplicito, ma l’indicazione della condanna a un
atteggiamento non consono a una moglie greca è evidente all’interno delle Coefore. Anzi,
tale passo è estremamente simile a un altro dell’Amleto, in cui la generalizzazione delle
conseguenze nefaste a cui conduce un comportamento lussurioso è messo in bocca ad
Amleto. Naturalmente nelle Coefore un simile commento generale è affidato al Coro, e non
alle parole di un singolo personaggio della tragedia:
Χορός ἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀνδρὸς φρόνημα τίς λέγοι
καὶ γυναικῶν φρεσὶν τλαμόνων καὶ
παντόλμους ἔρωτας
ἄταισι συννόμους βροτῶν;
ξυζύγους δ᾽ ὁμαυλίας
θηλυκρατὴς ἀπέρωτος ἔρως παρανικᾷ
κνωδάλων τε καὶ βροτῶν.
Aeschl. Ch. 594-601
La sferzante condanna della ‘libidine donnesca’ è presentata anche in Shakespeare con toni
di riprovazione e di forte sdegno, nel medesimo intervento in cui si accenna ironicamente
alle lacrime di Niobe.
HAMLET
Oh most wicked speed, to post
With such dexterity to incestuous sheets.
It is not, nor it cannot come to good.
But break, my heart, for I must hold my tongue.
Amleto, 1.2.156-159
47
Oltre a questo riferimento ve ne sono altri di simile spessore, ancora più lirici, icastici ed
enfatici. Sempre all’interno del medesimo intervento, Amleto estende il giudizio, prima
confinato alla sola madre, a tutto il genere femminile, denigrandone la debolezza e
l’incostanza.
HAMLET
Let me not think on’t; frailty, thy name is woman A little month, or ere those shoes were old
With which she followed my poor father’s body
Amleto, 1.2.146-8
Un altro punto di contatto riguarda la tempistica del tradimento. Gertude e Clitemestra sono
accusate di essere scivolate fra le braccia dei propri amanti con una rapidità intollerabile.
Amleto, non è ancora a conoscenza del retroscena dell’assassinio del padre e si limita
dunque a criticare la rapidità con cui la madre è passata dal lutto per la morte del marito ai
festeggimenti per il nuovo matrimonio. Proprio i festeggimenti sono odiosi ad Amleto come
all’Elettra di Sofocle. Anche qui la coincidenza è evidente: nel passo in questione
dell’Amleto, i collegamenti rintracciabili fra il testo shakespeariano e la drammaturgia
attica, sono tutti afferenti alla tragedia di Sofocle.
HORATIO
M y lord, I came to see your father’s funeral.
HAMLET
I pray thee d o not mock m e fellow student,
I think it was to see my mother’s wedding.
HORATIO
Indeed my lord, it followed hard upon.
HAMLET
Thrift, thrift, Horatio. T h e funeral baked meats
Did coldly furnish forth the marriage tables.
Amleto, 1.2.176-181
Nell’Elettra non è il banchetto nuziale a infastidire la ragazza, ma i festeggiamenti che
Clitemestra tiene in ricordo dell’uccisione del marito. Da una parte vi è l’immagine del
banchetto funebre che si tramuta in banchetto nuziale, dall’altro quello della festa in onore
di Agamennone che si trasforma in banchetto che ne festeggia la sua morte. Secondo
48
un’antica tradizione storica argiva infatti, nel giorno 13 del mese di Gamelione 57 (Gennaio)
si svolgevano ad Argo, in onore di Agamennone, cerimonie e riti riparatori, ma agli occhi di
Elettra questi ultimi appaiono come una perversa profanazione della sua sciagurata madre
che ne stravolge il senso più profondo e pio.
Ἠλέκτρα
ἡ δ᾽ ὧδε τλήμων ὥστε τῷ μιάστορι
ξύνεστ᾽, ἐρινὺν οὔτιν᾽ ἐκφοβουμένη:
ἀλλ᾽ ὥσπερ ἐγγελῶσα τοῖς ποιουμένοις,
εὑροῦσ᾽ ἐκείνην ἡμέραν, ἐν ᾗ τότε
πατέρα τὸν ἀμὸν ἐκ δόλου κατέκτανεν,
ταύτῃ χοροὺς ἵστησι καὶ μηλοσφαγεῖ
θεοῖσιν ἔμμην᾽ ἱερὰ τοῖς σωτηρίοις.
Soph. El. 275-81
Sia Elettra che Amleto si sentono soli nella situazione, contro tutto e tutti. Per quanto
riguarda Elettra, l’isolamento è anche rappresentazione di una trasgressione rituale 58 oltre
che etica.
L’analogia fra le due madri sembrerebbe sbilanciata sul versante del tradimento nei
confronti del marito. Gertrude non è colpevole, agli occhi di Amleto, dell’assassinio del
padre, questo infatti è completamente ascritto a Claudio. Nondimeno un altro aggancio fra
le due figure femminili si instaura in relazione al matricidio. Nelle tragedie greche
l’assassinio della madre è propedeutico al prosieguo della vicenda e, soprattutto, si rende
necessario a seguito del ruolo di spicco che assume Clitemestra nell’uccisione. Eppure, nel
finale delle Coefore, si assiste al dubbio di Oreste che si appresta a uccidere la madre. È la
scena in cui Pilade interviene, recitando l’unica sua battuta di tutto il dramma, ricordando
all’amico come sia più importante il rispetto di un oracolo che l’adempimento dei doveri
familiari.
Ὀρέστης
Πυλάδη τί δράσω; μητέρ᾽ αἰδεσθῶ κτανεῖν;
Πυλάδης
ποῦ δὴ τὰ λοιπὰ Λοξίου μαντεύματα
57 Il tredicesimo giorno del mese di Gamelione coincideva con la luna piena del calendario lunare. Pare che
il sacrificio del re avesse sempre luogo durante la luna piena.
58 Finglass2007, p.185
49
τὰ πυθόχρηστα, πιστὰ δ᾽ εὐορκώματα;
ἅπαντας ἐχθροὺς τῶν θεῶν ἡγοῦ πλέον.
Aeschl. Ch. 899-902
Pilade assolve in questo caso al ruolo di ἀλάστωρ atto a far superare il dissidio tragico tante
volte paventato nel corso della tragedia da Oreste. Il gesto della madre di scoprire il seno
per suscitare nel figlio l’idea della maternità, viene superato dal riconoscimento del
maggior peso da assegnane alla volontà divina di fronte al rispetto dei rapporti di
consanguineità. Tuttavia il dubbio finale di Oreste rappresenta un nuovo aggancio alla
figura di Amleto. Questo punto sarà meglio discusso nel prosieguo della trattazione,
nell’ambito della tematica del matricidio.
3. 4
Claudio, Clitemestra e il simbolismo del serpente
Si è già detto dell’analogia principale fra i personaggi di Claudio e Clitemestra relativa al
ruolo principale svolto da entrambi in relazione all’uccisione del re. Si è anche visto
l’atteggiamento simile dei due nei confronti del lutto di Elettra e Amleto. Ora si cercherà di
analizzare un ulteriore punto di contatto che ha a che fare con la simbologia.
Un simbolo è un segno, naturale o artificiale, a cui nel processo immaginativo sono
associati oggetti, fenomeni, condizioni ambientali o idee ed emozioni della psiche umana. Il
carattere associativo di questo processo consente di tenere assieme il segno iniziale con una
vasta gamma di rappresentazioni simboliche e analogiche, che talvolta creano fitte e
intricate reti di rimandi e relazioni.
Il serpente59 è un animale che riveste da sempre un ruolo simbolico di spicco in
letteratura e iconografia, atto a descrivere innumerevoli significati, talvolta ambigui e
persino antitetici fra loro. Questa ambivalenza deriva dal fatto che esso rappresenta
genericamente l’energia, la forza vitale nelle sue più svariate forme, ma anche dal fatto che
spesso vengano presi in considerazione aspetti singoli e particolari, piuttosto che l’animale
nella sua interezza.
Per molte antiche civiltà, simboleggiava il mondo sotterraneo, ctonio, e il regno dei
59 Per un approfondimento sulla simbologia del serpente, cf. Biedermann 1992
50
morti, probabilmente in relazione alla caratteristica dei serpenti di trascorrere gran parte
della propria vita nascosti, fra pietre o in buche sotterranee. Un altro, più sottile, carattere
del serpente afferisce alla sua apparente capacità di ringiovanimento attraverso il processo
della muta, il cambio stagionale della sua pelle. Inoltre, degne di nota sono anche le
caratteristiche relative alla sua nascita da un uovo come un uccello e alla capacità di
uccidere con il suo morso velenoso.
Molto notevoli sono le associazioni con la vita e con la morte; per questa ragione il
serpente svolge un ruolo altamente significativo in molte e diverse culture. Il serpente
biblico, l’incarnazione di Satana nel giardino dell’Eden, diventa in seguito l’ὄφις “messo su
un’asta” di Mosè60, interpretato come archetipo del Cristo crocifisso61. Sempre nell’Antico
Testamento, il bastone di Aronne venne trasformato in un δράκων, capace di divorare i
bastoni dei maghi del Faraone62. Nella mitologia norrena lo Jörmungandr, un enorme
serpente, avvolge la terra, simbolo del mare, richiudendosi su se stesso, come un
οὐροβόρος. Non diversamente il suo omologo egiziano, il gigantesco Apophis,
rappresentazione del Caos e del buio, minaccia costantemente l’ascesa del dio Sole, Ra. La
figura dell’οὐροβόρος è di particolare interesse: rappresenta il ciclo dell’eterno ritorno o,
più in generale, l’eternità.
Molte tradizioni simboliche tendono a sottolineare il ruolo negativo del serpente (ad
esempio, il pericolo del suo morso velenoso); di conseguenza, le creature che si pensa
possano uccidere i serpenti (l’aquila, la cicogna, il falco) vengono ad assumere
connotazioni positive. D’altra parte vi sono complessi mitologici molto antichi che
includono misteriose carattaeristiche positive del serpente, tendenzialmente legati
all’aspetto della rinascita e del ringiovanimento. Il serpente può rappresentare, ad esempio,
la benedizione degli antenati defunti, o anche essere associato alla guarigione e alla
reincarnazione (ad esempio, i serpenti sacri di Asclepio 63). Per gli antichi Egizi, l’οὐραῖος
(rappresentante un cobra) simbologgiava la corona capace di sputare veleno contro i nemici
del Faraone; veniva anche rappresentato avvolto attorno al disco solare e associato a varie
60 Numeri 2:8-9
61 Giovanni 3:14-15: «E come Mose innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’
uomo, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». [Il testo è della Nuova Diodati (1991)]
62 Esodo 7:9-12
63 Il caduceo, avvolto da un serpente, del dio della Medicina Asclepio, fa riferimento al simbolismo
terapeutico che può venire ad assumere l’animale.
51
divinità.
Nelle civiltà precolombiane dell’America Centrale, il serpente appare come il
simbolo del quinto giorno del calendario. Per lo piu presagiva sofferenza per i nati sotto tale
segno, destinato a diventare mercanti o guerrieri, sempre girovaghi senza fissa dimora.
Tuttavia Quetzalcóatl (“serpente piumato”), ornato di piume verdi, era una divinità di
grande significato religioso, che apparentemente rappresentava l’armonizzazione della
dualità uccello-serpente (e quindi cielo-terra). In tutto il mondo questo abbinamento è di
grande importanza come simbolo dell’unione degli opposti polari64.
Nei sistemi filosofici di origine asiatica il serpente Kundalini, arrotolato alla base
della colonna vertebrale, simboleggia l’energia vitale risvegliata ed elevata attraverso la
meditazione. Il serpente nel giardino dell’Eden, che ha portato Eva a disobbedire al
comandamento di Dio di non mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza, è chiamato
Samael nella leggenda ebraica medievale, un nome associato anche a Lucifero. Il serpente,
nella Bibbia, si rivolge alla donna perché è più suscettibile dell’uomo. La psicologia
junghiana vede il serpente (come tutti gli altri rettili) come creatura simbolica risalente ai
primi secoli della terra e della razza umana, rappresentante una forza potente e primordiale.
La figura del serpente appare nel mito di Oreste sin dalla versione stesicorea,
documentata dal frammento PMGF 219 Davies, in cui un serpente insanguinato appare in
sogno a Clitemestra65. Questa riconosce in esso il re Plistenide, cioè Agamennone, secondo
l’interpretazione più corrente. La simbolica da rilevare in quel caso è quella dell’animale
ctonio legato al mondo dei morti. Scrive Untersteiner66 che «il serpente, simbolo delle
potenze ctoniche, appare insistentemente nelle rappresentazioni figurate, già a partire
dall’età geometrica, in cui diventava connessione col mondo dei defunti, e ben presto viene
raffigurato accanto a questo di cui diventa simbolo». Eschilo sicuramente tenne presente,
nella redazione della sua trilogia, il sogno narrato da Stesicoro, ma apportò alcune
modifiche rispetto alla versione precedente. Nell’Orestea infatti l’aspetto serpentiforme è
assunto da Oreste in persona, non dal padre.
Al termine del primo episodio delle Coefore, il Coro riferisce a Oreste che
64 Cfr. M. Lurker, Adler und Schlange 1983.
65 Per l’interpretazione del sogno di Clitemestra cfr. The Serpent at the Breast, William Whallon.
«Transactions and Proceedings of the American Philological Association» (1958), pp. 271-275; M. L.
Sancassano, Il serpente e le sue immagini: Il motivo del serpente nella poesia greca dall’ Iliade all’
Orestea. Como: Edizioni New Press, 1997, pp. 173 ss.
66 Cf. Lapini et al. 2002, p. 17.
52
Clitemestra, sconvolta da un sogno notturno, ha inviato libagioni sulla tomba di
Agamennone. Spinto dal giovane, il Coro gli rivela la natura del sogno:
Χορός
τεκεῖν δράκοντ᾽ ἔδοξεν, ὡς αὐτὴ λέγει.
[…] ἐν ι παιδὸς ὁρμίσαι δίκην.
[…] αὐτὴ προσέσχε μαζὸν ἐν τὠνείρατι.
[…] ὥστ᾽ ἐν γάλακτι θρόμβον αἵματος σπάσαι.
Aeschl. Ch. 527, 529, 531, 533
Clitemestra ha sognato di partorire un serpente, di avvolgerlo fra fasce, come fosse un
neonato, e di offrirgli il seno da cui sarebbe uscito latte misto a sangue. Oreste riconosce
subito nel sogno una premonizione del matricidio: lui è il serpente, uscito dal grembo
materno, che tornerà a vendicarsi contro il seno stesso della madre che lo ha nutrito.
Ὀρέστης
ἡ δ᾽ ἀμφὶ τάρβει τῷδ᾽ ἐπῴμωξεν πάθει,
δεῖ τοί νιν, ὡς ἔθρεψεν ἔκπαγλον τέρας,
θανεῖν βιαίως: ἐκδρακοντωθεὶς δ᾽ ἐγὼ
κτείνω νιν, ὡς τοὔνειρον ἐννέπει τόδε.
Aeschl. Ch. 548-550
Riconoscendosi nel serpente del sogno della madre, ottiene anche un ulteriore associazione
alla figura del padre, il δράκων Agamennone, poiché nell’adempimento dei doveri oracolari
se ne fa degno erede67. In questo senso, il serpente viene ad assumere un significato
simbolico nuovo, relativo alla sua capacotà di rinascita: Oreste infatti rappresenterebbe la
rinascita del padre Agamennone. La madre, d’altra parte, comprende il significato del sogno
in punto di morte, capisce di aver generato e allattato la serpe che l’ucciderà e, scoprendo il
seno, tenta di richiamare il figlio al rispetto del legame di consaguineità. In tal modo però
67 Garvie 1986, pp. 193-194. Mario Untersteiner (in Lapini et al. 2001, p. 25 ) scrive: «La preparazione della
vendetta è subordinata alla spiegazione del sogno di Clitemestra, che rappresenta per Oreste l’ultima
garanzia del volere divino, in quanto il motivo dell’incontro dei due fratelli e quello del sogno si fondono
in unità. Due eventi oscuri e misteriosi, finché isolati, ora si illuminano vicendevolmente e portano Oreste
ad una ferma decisione. Infatti Oreste si riconosce nel serpente generato in sogno da Clitemestra [...].
Questo auto riconoscimento si concreta in un’affermazione dell’eroe tutt’uno con la sua stirpe, quale sta
diventando Oreste, che si sforza di vincere, con la forza del ragionamento e con la decisione implacabile
che questo infonde, le forze demoniche, così vive in lui. Tutto questo avviene nella luce apollinea:
l’ordine violento dato dal dio si trasfigura in dialettica.»
53
offre essa stessa l’occasione al figlio di compiere il matricidio così come prospettato nel
sogno.
Ciò che più interessa ai fini dell’analisi in parallelo con l’Amleto è però un’altra
similitudine: all’interno della trilogia tragica, infatti, è Clitemestra in persona a essere
paragonata più volte a una serpe. Essa si discosta grandemente dalle madri venerabili dei
Greci descritte nei poemi omerici. Cassandra la definisce δάκος, animale che morde68 e la
assimila a un’ἀμφίσβαινα69. Secondo Maria Lucia Sancassano (1997, p. 167) questa
sarebbe una delle prime attestazioni in cui si delinea «attraverso l’associazione con la
donna, l’immagine del rettile insidioso e astuto che tanta fortuna avrà nel mondo
cristiano-medievale». Oreste, da parte sua, nelle Coefore propone una lunga metafora per
cui Clitemestra sarebbe la serpe dalle innumerevoli spire entro cui ha trovato la morte suo
padre, identificato con un’aquila.
Ὀρέστης
Ζεῦ Ζεῦ, θεωρὸς τῶνδε πραγμάτων γενοῦ:
ἰδοῦ δὲ γένναν εὖνιν αἰετοῦ πατρός,
θανόντος ἐν πλεκταῖσι καὶ σπειράμασιν
δεινῆς ἐχίδνης. τοὺς δ᾽ ἀπωρφανισμένους
250νῆστις πιέζει λιμός: οὐ γὰρ ἐντελεῖς
θήραν πατρῴαν προσφέρειν σκηνήμασιν.
Aeschl. Ch. 246-251
Successivamente il giovane torna sulla medesima similitudine identificando la madre con
una μύραινα e una ἔχιδνα70 (v. 994). Così anche il Coro, ai vv. 831-836, esorta Oreste a
farsi come Perseo e a sconfiggere Medusa, il mostro con la testa cinta di serpenti, e ai vv.
1044-1047 si rallegra che il giovane abbia liberato la città di Argo dal giogo di due serpenti,
Egisto e Clitemestra, tagliando loro la testa. Le Erinni, dal canto loro, hanno il capo cinto di
serpi (Coef. v. 1050).
Shakespeare ricorre spesso all’immagine del serpente nelle sue tragedie: si ritrova
68 Oreste usa lo stesso termine al v. 530 delle Coefore per indicare la serpe al seno del sogno della madre
69 Cf. Aeschl. Ag. 1233. Questa figura deve il suo nome alla credenza per cui, avendo una testa a entrambe
le sue estremità, poteva avanzare avanti o indietro con la medesima facilità. A volte è raffigurata con gli
artigli di un uccello e le ali appuntite di un pipistrello. Poteva esprimere l’orrore e l’angoscia associati a
situazioni ambivalenti.
70 Sulla figura del serpente nella mitologia greca cf. Visintin 1997 e Sancassano 1997.
54
nel Macbeth e in Cleopatra ad esempio, e per questo motivo Gilbert Murray (1914) non si
sofferma se non per poche righe sul parallelo riguardante tale immagine nelle due vicende.
Eppure l’analogia sembra evidente, soprattutto in considerazione di tutti i possibili
parallelismi che si possono rintracciare fra le figure a cui è ascritta la principale colpa di
parricidio nelle due vicende, rispettivamente Claudio e Clitemestra. D’altra parte la
metafora del serpente nell’Amleto si colloca all’interno del primo atto, quello in cui sono
maggiormente evidenti le analogie con la storia di Oreste.
GHOST
A serpent stung me. So the whole ear of Denmark
Is by a forged process of my death
Rankly abused; but know, thou noble youth,
The serpent that did sting thy father’s life
Now wears his crown.
Amleto 1.5.36-39
Come nel dramma attico, anche in Shakespeare la figura del serpente si ricollega
all’immagine dell’inganno, e alla trama d’insidie tessute dagli assassinii affinché il delitto
potesse essere perpetrato. Nell’Amleto, l’allusione enigmatica è sciolta attraverso il
riferimento alla corona: viene reso così evidente il tema dell’usurpazione al trono.
Probabilmente Shakespeare fu fortemente influenzato dalla simbologia biblica ma, anche in
questo caso, si ripropone l’analogia con i drammi attici. E se stavolta l’affinità non riguarda
il plot ma il simbolismo uilizzato, la relazione che si insaura – per non voler supporre la
discendenza dell’immagine in Shakespeare dal teatro greco – potrebbe essere valutata a
livello di mitologema.
3. 5
Il matricidio, la coscienza e il senso del male
Il tema del matricidio risulta trattato in maniera molto differente fra Eschilo e Shakespeare.
Ma tale differenza si appiana quando si considera l’Oreste euripideo. Molti aspetti
‘pragmatici’ di Amleto sembrano infatti plasmati sulla rappresentazione del personaggio di
Oreste delineato da Euripide nell’omonima tragedia, piuttosto che su quella definita da
Eschilo. A partire dal tema del matricidio, fino a giungere a quello della follia, dell’aspetto
55
fisico e della propensione all’inganno e agli enigmi, i due personaggi sembrano essere l’uno
l’alter ego dell’altro. Gli elementi di cui sopra sono trattati in maniera dissimile non solo in
Eschilo, ma anche nei precedenti nordici della saga amletica. Per quanto riguarda il tema
della follia, ad esempio, sia in Saxo che nelle saghe norrene, questa è descritta in termini ai
limiti della ferinità. Tornando a Eschilo, come si è visto, i personaggi mancano di uno
sviluppo psicologico interiore a cui fa seguito l’andamento della trama. Essa è data solo dal
verificarsi di eventi esterni, non concernenti la psicologia dei personaggi. In Euripide, al
contrario, la sfera intima e privata è analizzata più nel profondo. Quelle di Euripide sono
‘persone’ più che personaggi.
Un aspetto che non attiene alla sfera psicologica ma che sembra collegare Amleto
con l’Oreste di Euripide, riguarda il tema del matricidio. Nell’Amleto il fantasma del padre
ammonisce il figlio di non sporcarsi le mani facendo del male alla madre.
GHOST
But howsomever thou pursues this act
Taint not thy mind, nor let thy soul contrive
Against thy mother aught. Leave her to heaven
And to those thorns that in her bosom lodge
To prick and sting her. […]
Amleto, 1.5.84-88
In Eschilo non ci sono simili ammonimenti, e viene presentata la possibilità di un ciclo
indefinito di vendette e sofferenze finché la maledizione non sia annullata e la giustizia
raggiunta tramite l’istituzione di un’assemblea giudicante in grado di ripristinare l’ordine.
Ogni accadimento spinge Oreste a compiere il matricidio in vista del finale tematico sul
concetto di giustizia a cui fa capo la trilogia. Le Erinni del padre esigevano vendetta. In
Euripide, al contrario, all’inizio della tragedia, dopo un breve dialogo con la sorella, Oreste
richiama alla mente il matricidio e sembra porsi dei dubbi sulla bontà del suo
comportamento. Afferma addirittura che il padre, vedendolo in procinto di uccidere la
madre, lo avrebbe trattenuto.
Ὀρέστης
οἶμαι δὲ πατέρα τὸν ἐμόν, εἰ κατ᾽ ὄμματα
ἐξιστόρουν νιν, μητέρ᾽ εἰ κτεῖναι χρεών,
56
πολλὰς γενείου τοῦδ᾽ ἂν ἐκτεῖναι λιτὰς
μήποτε τεκούσης ἐς σφαγὰς ὦσαι ξίφος,
εἰ μήτ᾽ ἐκεῖνος ἀναλαβεῖν ἔμελλε φῶς,
ἐγώ θ᾽ ὁ τλήμων τοιάδ᾽ ἐκπλήσειν κακά.
Eur. Or. 288-293
Questo episodio, solo immaginato da Oreste, sembra lo stesso messo in scena nell’Amleto
in cui sembra che queste esatte parole del personaggio euripideo vengano rappresentate da
Shakespeare in palcoscenico.
Nella quarta scena del terzo atto, quella in cui avviene l’uccisione accidentale di
Polonio e il successivo feroce dialogo di Amleto con la madre, nella stanza della regina, il
fantasma del re morto – visibile solo al figlio 71 – appare intimandogli di riflettere e di non
perdere la lucidità e di non smarrire la strada della vera vendetta scagliando la propria ira
contro la persona di Gertrude.
HAMLET
A king of shreds and patches Save me and hover o’er me with your wings,
You heavenly guards ! - What would your gracious figure ?
GERTRUDE Alas he’s mad!
HAMLET
D o you not come your tardy son to chide,
That lapsed in time and passion lets go by
Th’important acting o f your dread command? Oh say!
GHOST
D o not forget. This visitation
Is but to whet thy almost blunted purpose.
But look, amazement on thy mother sits.
Oh step between her and her fighting soul:
Conceit in weakest bodies strongest works.
Amleto, 3.4.103-113
Gertrude teme che il figlio sia impazzito, ritenendolo preda di potenti allucinazioni. A mio
parere, l’analogia che si instaura fra i due episodi appena evidenziati amplifica il parallelo
71 Anche Oreste, nel finale delle Coefore, a seguito dell’assassinio di Clitemestra, vede lui solo le Erinni
della madre, iniziando da lì il suo travaglio.
57
tematico della pazzia, già indicato da Murray. In tal caso però, l’analogia è più forte:
sebbene la pazzia rappresenti un elemento comune ai gruppi di saghe greche e nordiche,
l’episodio rappresentato da Shakespeare sembra quasi un’allusione vera e propria al
passaggio euripideo. D’altra parte, la follia di cui è vittima Oreste in Euripide, si distanzia
da quella di Eschilo quanto da quella di Saxo. Con Euripide ci si trova di fronte a un
conflitto intimo, psicologico, di certo non assimilabile alla ferinità delle saghe nordiche o
alla persecuzione delle Erinni di Eschilo.
Da questo trattamento innovativo del tema della follia, risulta ancora più chiaro che
Euripide suggerisce una prospettiva affatto nuova all’interpretazione della vicenda. Viene
additata la futilità e l’inutilità della sofferenza che scaturisce dalla vendetta, contestando la
validità del primo atto vendicativo e annullando così il valore stesso dei comandi divini,
riportando la tragedia su di un piano terreno, più umano. La follia, ugualmente, è vissuta
come travaglio psichico e psicologico, non si limita al piano religioso e non è un semplice
atto persecutorio delle divinità ctonie. Anche Shakespeare riporta la tragedia su di un piano
umano senza tuttavia tralasciare in toto gli aspetti morali e religiosi. Così, nell’Amleto l’atto
della vendetta è analizzato meticolosamente sotto differenti punti di vista e viene in parte
posticipato proprio perché inconsciamente rifiutato come compito moralmente più
impellente rispetto a quello della redenzione della madre che dunque ne prende il posto. Il
fantasma del padre è un’entità spirituale, sovrannaturale, ma l’attitudine al dubbio di
Amleto è umana. Lo scetticismo è comune in egual misura a Oreste e ad Amleto.
Quest’ultimo mette in discussione l’entità del fantasma:
HAMLET
[…] The spirit that I have seen
May be a devil […]
Amleto, 2.2.551-552
E Oreste è ugualmente scettico riguardo al dio che gli ha ordinato di uccidere la madre:
Ὀρέστης
[…] Λοξίᾳ δὲ μέμφομαι,
ὅστις μ᾽ ἐπάρας ἔργον ἀνοσιώτατον
Eur. Or. 285-286
58
Anche Menelao, nella lunga stiticomitia con il nipote, rimarca il carattere ingiusto
dell’ordine divino. Il sospetto cade sull’intera base di convincimenti religiosi
‘antropomorfici’ e la divinità così intesa viene criticata e allontanata. Anche Amleto, a suo
modo, rigetta l’idea cattolica elisabettiana dell’autenticità del mondo spirituale, anche se,
apparentemente, continua a castigarsi per non aver portato a compimento il comando del
fantasma. Il suo coinvolgimento nel compito di riportare ordine nel regno moralmente
corrotto di Danimarca è una questione terrena e decisamente umana che non ha niente a che
vedere con la sfera spirituale.
Il tema della redenzione dal peccato ereditato dalla madre acquisisce il predominio
nella sua coscienza. Euripide è ugualmente interessato alla purificazone di Oreste da un
punto di vista umano (senza quindi chiamare in causa l’ausilio che garantisce Apollo nelle
Eumenidi di Eschilo) e quando Menelao domanda:
Μενέλαος
οὐδ᾽ ἥγνισαι σὸν αἷμα κατὰ νόμον χεροῖν;
Eur. Or. 429
è interessato a questo genere di redenzione, terrena, non divina. Oreste dichiara più e più
volte nel corso della recitazione, in una sorta di difesa in absentia del popolo di Argo che
avrebbe dovuto giudicarlo, che colpevole del matricidio non era lui, ma Apollo, e che dal
dio si sarebbe dovuto esigere il pagamento del misfatto. Ponendo la divinità ai livelli dei
comuni mortali, ne mette paradossalmente in luce l’inconsistente antropomorfismo e lo
biasima, finendo per rigettarlo. Così anche per quanto riguarda l’intervento ex machina di
Apollo nel finale della tragedia: nella sua assenza di connessione con gli eventi fino a quel
momento narrati, evidenziando il forte iato fra giudizio terreno e risoluzione divina,
Euripide ne critica l’irrazionalità e, lungi dal lasciare lo spettore sollevato da una
conclusione così poco in sintonia con tutto ciò che l’ha preceduta, insinua il sospetto,
l’angoscia, il dubbio della fallacia degli dèi. Come scrive Massimo Di Marco, a proposito
dell’Oreste: «Proprio quando tutto sembra risolversi, egli scopre che la vicenda
rappresentata non ha soluzione in una dimensione umana o perlomeno non ha una soluzione
che possa soddisfare il suo senso morale. La cesura con ciò che precede è troppo forte, e lo
riconduce alla realtà, strappandolo di fatto all’illusione scenica proprio nel momento in cui
59
– con la mirabolante epifania del dio – il teatro celebra il trionfo dell’illusionismo72».
Il castello di Elsinore rappresenta il regno del male, ma anche del caos, del
traviamento, del rovesciamento dei giusti valori: nessun dubbio di Amleto trova risposta.
Come già evidenziato in precedenza, nel dramma inglese non vi è la risoluzione dei
conflitti. La morte di tutti i personaggi maggiori della vicenda assimila il finale a quello
euripideo: in entrambi i mondi i valori si sono estinti. Sia Euripide che Shakespeare sono
interessati a evidenziare i concentti di colpa e di peccato. La differenza sta nell’assenza, in
Euripide, del concetto di redenzione, che invece interessa molto a Shakespeare.
Si potrebbe dire che in un confronto fra Shakespeare, Eschilo ed Euripide si passa
da un parallelo inerente alle situazioni esterne, i fatti, a uno inerente alla sfera interna, la
psicologia. In Eschilo e Sofocle la natura fisica degli eventi aveva una controparte spirituale
e religiosa che poneva l’uomo di fronte a forze superiori, tali da fargli capire di essere solo
un burattino nelle mani delle divinità, e di non potersi sottrarre al proprio destino. L’Oreste
di Eschilo e l’Edipo di Sofocle non hanno possibilità di usare il libero arbitrio. Il primo è
stato costretto al matricidio da Apollo – e l’alternativa sarebbe stata patire l’ira del dio. Il
secondo aveva un destino già scritto, a cui risultava impossibile sottrarsi. Ma con Euripide,
Oreste diventa un personaggio differente e molto più vicino ad Amleto.
In Eschilo Oreste è un personaggio piatto. Quando nelle Coefore vede per la prima
volta le Erinni, non vi è alcuna indicazione del suo stato mentale al riguardo. D’altra parte,
la sua pazzia è attribuita oggettivamente alla vista delle Erinni e paradossalmente sembra
non avere nulla a che fare con la sua coscienza di colpevolezza o con i suoi stati psichici.
Oreste è totalmente convinto della giustizia della propria azione e rimane tale fino alla sua
assoluzione. Non vi assolutamente alcuna connessione fra senso di colpa e stato mentale: il
suo dubbio alla vista del seno materno scaturisce dalla paura delle Erinni della madre, non
da un rinnovato amore per la madre. Quando Oreste dice:
Ὀρέστης
ἀλλ᾽, ὡς ἂν εἰδῆτ᾽, οὐ γὰρ οἶδ᾽ ὅπη τελεῖ,
ὥσπερ ξὺν ἵπποις ἡνιοστροφῶ δρόμου
ἐξωτέρω: φέρουσι γὰρ νικώμενον
φρένες δύσαρκτοι: πρὸς δὲ καρδίᾳ φόβος
ᾁδειν ἕτοιμος ἠδ᾽ ὑπορχεῖσθαι κότῳ.
72 Di Marco 2000, p. 282.
60
ἕως δ᾽ ἔτ᾽ ἔμφρων εἰμί, κηρύσσω φίλοις
κτανεῖν τέ φημι μητέρ᾽ οὐκ ἄνευ δίκης,
πατροκτόνον μίασμα καὶ θεῶν στύγος.
Aesch. Ch. 1021-1029
nessun collegamento viene tracciato fra l’azione e l’incipiente pazzia. Vi è unicamente il
convincimento di aver operato nel giusto e poiché l’ordine di Apollo non avrebbe potuto
essere disatteso senza gravissime conseguenza per Oreste stesso.
In Euripide invece, l’atteggiamento tenuto da Oreste nella medesima situazione è
diverso. Il dramma si colloca temporalmente sei giorni dopo l’assassinio della madre. La
follia di Oreste viene presentata immediatamente come uno stato mentale, dalle parole della
sorella, Elettra, che lo assiste nel delirio:
Ἠλέκτρα
[...] χλανιδίων δ᾽ ἔσω
κρυφθείς, ὅταν μὲν σῶμα κουφισθῇ νόσου,
ἔμφρων δακρύει, ποτὲ δὲ δεμνίων ἄπο
πηδᾷ δρομαῖος, πῶλος ὣς ὑπὸ ζυγοῦ.
Eur. Or. 42-45
Il vendicatore non è più in uno stato di superiore integrità morale, dettata dalla protezione
della divinità. Lo stesso dolore è vissuto da Elettra, quando pronuncia sul corpo
addormentato di Oreste:
Ἠλέκτρα
ἔκανες ἔθανες, ὦ
τεκομένα με μᾶτερ, ἀπὸ δ᾽ ὤλεσας
πατέρα τέκνα τε τάδε σέθεν ἀφ᾽ αἵματος:
ὀλόμεθ᾽ ἰσονέκυες, ὀλόμεθα.
σύ τε γὰρ ἐν νεκροῖς, τό τ᾽ ἐμὸν οἴχεται
βίου τὸ πλέον μέρος ἐν στοναχαῖσί τε καὶ γόοισι
δάκρυσί τ᾽ ἐννυχίοις, ἄγαμος
ἐπὶ δ᾽ ἄτεκνος ἅτε βίοτον ἁ
μέλεος ἐς τὸν αἰὲν ἕλκω χρόνον.
Eur. Or. 195-207
61
Tali parole sembrano proiettare uno stato di futulità interiore, sofferenza, uno stato di
disintegrazione sotto l’impatto delle passioni innaturali, mentre la sterilità, che risulta
quando le forze della vita sono distrutte, è indicata dall’ultimo verso. Ogni frase sembra il
seme di un’esperienza interiore. L’indagine nella psiche del personaggio è andata crescedo:
con la nuova dimensione psicologica data da Euripide, la tragedia greca muove i suoi ultimi
passi nel suo percorso di maturazione e cambiamento. Nel processo, qualcosa della
grandezza cosmica di Eschilo e la concentrazione e concisione di Sofocle viene perso ma la
tragedia diventa definitivamente più moderna. Sarà l’Oreste di Euripide a dire, con
impressionante modernismo:«δουλεύομεν θεοῖς, ὅ τι ποτ᾽ εἰσὶν οἱ θεοί» (v. 418). Se Amleto
è stato chiamato il più moderno fra i drammi shakespeariani, è anche il più vicino allo
spirito euripideo, e l’Oreste di Eupiride è più simile ad Amleto che all’Oreste di Eschilo.
In Eschilo non vi è senso di colpa, mentre in Euripide il protagonista è torturato dal
senso di colpa, così come Amleto è torturato dal senso di colpa dovuto alla sua
identificazione con la madre. Quando Menelao gli domanda quale malattia lo distrugge, il
giovane risponde:
Ὀρέστης
ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν᾽ εἰργασμένος.
[… ]
λύπη μάλιστά γ᾽ ἡ διαφθείρουσά με —
Eur. Or. 396, 398
La coscienza fa la sua prima apparizione all’interno della vicenda. Per la prima volta nel
dramma attico il protagonista si assume piena responsabilità dell’atto compiuto e vuole
trovare una maniera per riscattarsi. Si assiste agli albori della nascita dell’Amleto
shakespeariano, in cui la dimensione interiore rappresenta l’aspetto più originale del
personaggio e quello che motiva la dilazione della vicenda per tre lunghi atti (dal secondo
al quarto) senza che si porti a compimento la vendetta nel modo lineare e rapido con cui si
presenta nelle Coefore.
62
3. 6
Vendetta e adulterio
Il fantasma esorta categoricamente Amleto:
GHOST
List, list, oh list!
If thou didst ever thy dear father love [...]
Revenge his foul and most unnatural murder.
Amleto, 1.5.22-23,25
e ancora:
GHOST
If thou hast nature in thee bear it not;
Let not the royal bed of Denmark be
A couch for luxury and damned incest.
Amleto, 1.5.81-83
L’allusione all’assassinio e all’incesto inizia da questo momento a essere predominante
nella conscienza di Amleto e sebbene la sua «prophetic soul» avesse già sospettato di
Claudio, la sua mente è ora preoccupata dall’idea del «dammed incest». La sua mente
lavora così su due livelli: consciamente sa di dover vendicare la morte del padre, mentre
inconsciamente è proteso ad analizzare la colpa della madre. Entrambi i temi assumono una
valenza enorme per Amleto che si sente quasi soffocato dal peso del male che lo circonda.
Ne risulta una struttura drammaturgica particolare, che assume le sembianze di un ‘giallo’
di stampo psicologico, ma lo stesso Amleto non può scappare a momenti di «sore
distraction» che, la maggior parte delle volte, si manifestano in forma di pazzia. Il
riferimento alla presenza del male viene presentato in numerose battute di Amleto:
HAMLET
The time is out of joint: O cursed spite,
That ever I was born to set it right. –
Amleto, 1.5.189-90
Qui, la distorsione e il dolore non sono da intendersi esclusivamente in connessione alla
vendetta dell’assassinio del padre, ma indicano uno stravolgimento del giusto equilibrio
63
delle cose nel mondo, il prevalere del male sul bene: avviene un passaggio dal particolare al
generale e la sua condizione personale diviene immagine della condizione umana generale.
Nell’Orestea l’imposizione di Apollo non lascia spazio a valutazioni e reazioni
individuali di Oreste: si tratta di un comando divino la cui inadempienza minaccia tremende
conseguenze (non ci sono minacce da parte del fantasma in Amleto).
Ὀρέστης
οὔτοι προδώσει Λοξίου μεγασθενὴς
χρησμὸς κελεύων τόνδε κίνδυνον περᾶν,
κἀξορθιάζων πολλὰ καὶ δυσχειμέρους
ἄτας ὑφ᾽ ἧπαρ θερμὸν ἐξαυδώμενος,
εἰ μὴ μέτειμι τοῦ πατρὸς τοὺς αἰτίους:
τρόπον τὸν αὐτὸν ἀνταποκτεῖναι λέγων,
ἀποχρημάτοισι ζημίαις ταυρούμενον:
αὐτὸν δ᾽ ἔφασκε τῇ φίλῃ ψυχῇ τάδε
τείσειν μ᾽ ἔχοντα πολλὰ δυστερπῆ κακά.
τὰ μὲν γὰρ ἐκ γῆς δυσφρόνων μηνίματα
βροτοῖς πιφαύσκων εἶπε, τὰς δ᾽ αἰνῶν νόσους,
σαρκῶν ἐπαμβατῆρας ἀγρίαις γνάθοις
λειχῆνας ἐξέσθοντας ἀρχαίαν φύσιν:
λευκὰς δὲ κόρσας τῇδ᾽ ἐπαντέλλειν νόσῳ:
ἄλλας τ᾽ ἐφώνει προσβολάς Ἐρινύων
ἐκ τῶν πατρῴων αἱμάτων τελουμένας:
Aeschl. Ch. 269-284
Non vi è traccia di libertà decisionale o possibilità di allontanarsi dal compito imposto. Ma,
come anticipato, l’analisi di Shakespeare, delineata attraverso l’apprensione di Amleto nei
confronti del male nel mondo, si estende al di là dell’atto singolo dell’omicidio e
dell’adulterio. La visione di Eschilo mantiene una salda associazione fra vendetta e
comando divino fino alla fine della trilogia. Ciò non implica che non si venga a creare una
visione più profonda e generica di male, ma che vengono adottati mezzi differenti per farlo:
infatti è una delle funzioni del Coro quella di esprimere natura e condizione del genere
umano. Il male scaturisce dall’atto empio: omicidio e lussuria. Nell’Orestea, oltre al Coro,
vi è un altro personaggio che esplicita questa genealogia del male: Cassandra. La prima
64
visione dell’assassinio di Agamennone nella vasca si collega infatti a quella delle «stragi
consanguinee»73 e dell’«adulterio»74 all’interno della casa di Atreo. Insieme costituiscono il
complesso di mali che passano di generazione in generazione e che in ultimo si manifestano
nel tradimento di Clitemestra con Egisto e nell’assassinio di Agamennone. I due motivi
della vendetta e del tradimento sono ben evidenziati e costituiscono una sorta di traccia nell
schema generale della trama complessiva.
Egisto e Clitemestra uccidono il re. Inoltre il Coro accusa Egisto di aver sedotto la
regina e di essere un profanatore del talamo nuziale. Questi eventi coinvolgono due
personaggi: entrambi sono colpevoli e la punizione per le colpe di cui si sono macchiati è
loro inflitta in accordo con la nozione primitiva di giustizia, quella delle divinità ctonie.
Eschilo presenta tale nozione perché la pone a fondamento della successiva indagine in
merito al tema generale della giustizia: quella infatti è la prima, semplice tipologia
presentata da Eschilo nelle Coefore e che successivamente nelle Eumenidi evolve in un
nuovo concetto che corrisponde alla grazia connessa alle nuove divinità olimpiche, in
particolare a Zeus.
In Shakespeare non vi è questo equilibrio, questo schema causa-effetto. I motivi
dell’omicidio e dell’adulterio sono indagati nel dettaglio ma non si incastrano in uno
schema netto come in Eschilo. Omicidio e adulterio, incarnazioni del male, implicano un
insieme d’interminabili reazioni nella mente di Amleto e prima dell’atto finale la loro
natura, e la natura del male in generale, vengono sviscerate nel dettaglio. Nel vortice della
coscienza fanno il loro ingresso i dubbi. La preoccuapzione nei confronti del male, unita ai
dubbi, pongono Amleto di fronte a dei bivi. Così, mentre la trama procede, la vendetta su
Claudio è indefinitamente procrastinata e rifuggendo il mondo dell’azione, Amleto si
rifugia in quello del pensiero e della speculazione in cui la situazione individuale diventa
riflessione sulla condizione umana.
Dunque la trattazione della vendetta e dell’adulterio in Shakespeare, lungi
dall’essere immediata e semplice come in Eschilo, è complicata dallo spostamento
dell’analisi da un piano esterno a uno interno, da quello individuale a quello universale,
dall’azione alla riflessione e dall’aspetto puramente fisico a quello morale e spirituale del
73 Agamennone, vv. 1090-1092:«μισόθεον μὲν οὖν, πολλὰ συνίστορα / αὐτόφονα κακὰ καρατόμα, /
ἀνδροσφαγεῖον καὶ πεδορραντήριον».
74 Agamennone, vv. 1191-1193:«ὑμνοῦσι δ᾽ ὕμνον δώμασιν προσήμεναι / πρώταρχον ἄτην: ἐν μέρει
δ᾽ἀπέπτυσαν / εὐνὰς ἀδελφοῦ τῷ πατοῦντι δυσμενεῖς».
65
peccato. Per questo motivo la preoccupazione di Amleto riguarda soprattutto la questione
del peccato materno sul piano morale e spirituale. A tal proposito si è parlato di
atteggiamento edipico, intravedendo nel giovane un eccessivo attaccamento alla madre che
diventa ossessione di redimerla e di recedere dall’intento di uccidere Claudio.
Oreste al contrario non è minimamente coinvolto a livello emozionale nei confronti
della madre. Vi è un unico punto in cui tentenna sul da farsi, nel finale delle Coefore,
quando chiede aiuto a Pilade. Ma il suo imbarazzo non è legato alla sfera dei sentimenti, ma
sempre e solo a dei precetti culturali legati ai legami di consaguineità.
Amleto, a eccezione del primo in-folio in cui escplicita l’innocenza della madre,
sospetta della sua connivenza nell’assassinio del padre:
HAMLET
A bloody deed? Almost as bad, good mother,
As kill a king and marry with his brother.
Amleto 3.4.28-29
La differenza sta nel fatto che il compito di Oreste è semplicemente quello di assolvere un
ordine divino e che Eschilo lo utilizza per illustrare il passaggio di un uomo dal ruolo di
vindice a quello di vittima per presentarne il processo come punto di svolta da un modello
di giustizia primitivo a uno nuovo e democratico. Eschilo è interessato a Oreste soprattutto
per questo aspetto e a Elettra nel suo spronarlo alla vendetta: una volta assolto tale ruolo, la
taglia fuori dall’azione. È il caratteristico comportamento senza psicologia di quasi tutti i
personaggi tragici eschilei. Anche il personaggio di Clitemestra non è compiutamente
delineato.
Diversamente, il Coro è coinvolto emozionalmente, generalizzando aspetti etici e
teologici degli eventi. In Eschilo, esso assolve alla funzione d’illuminare diversi aspetti
della situazione drammatica, incluse le sue implicazioni spirituali e i commenti su di esse,
così da evidenziare gli aspetti e le tematiche essenziali della tragedia. Il Coro può prendere
parte all’azione senza effettivamente parteciparvi, avvertendo o consigliando, ad esempio,
altri personaggi in situazioni critiche. All’epoca di Shakespeare, il Coro era praticamente
scomparso dalle scene ma la sua funzione viene rilevata da un diverso strumento
drammaturgico, il soliloquio: ogni personaggio, nei propri soliloqui, dice la verità, riguardo
a se stesso e agli altri, e persegue una specifica e personale norma etica, per quanto poi
66
possa comportarsi in maniera ingannevole nei confronti degli altri personaggi. Claudio ad
esempio rivela il suo crimine e prega di ottenere la redenzione nel soliloquio del terzo atto
(Amleto 3.3.36-72), esprimendo il contrasto fra la sua apparenza e la realtà.
Si potrebbe dire che Shakespeare riscrive il personaggio di Oreste ampliandone la
definizione psicologica. La situazione dei due è simile, ciò che li distingue è la profondità
emozionale. Kitto (1956, pp. 336-7), a conclusione della sua opera, scrive che «we may
compare Hamlet with Orestes. Externally, they are in a similar position. But when
Aeschylus has shown us that Orestes is an avenger pure in heart, and that his dilemma is
from every point of view an intolerable one, it is not far wrong to say that his interest in
Orestes, as a character, is exhausted; anything more would be unnecessary. Hamlet exists in
a different kind of tragedy, one which requires that we should see how the contagion
gradually spreads over his whole spirit and all his conduct». Addita la stessa mancanza di
profondità psicologica anche nei personaggi di Elettra e Oreste in Sofocle e propone quindi
un giudizio finale sulla differenza che sussiste fra tragedia greca e tragedia elisabettiana:
«Greek tragedy presents sudden and complete disaster, or one disaster linked to another in
linear fashion, while Shakespearean tragedy presents the complexive, menacing spread of
ruin; and that at least one explanation of this is that the Greek poets thought of the tragic
error as the breaking of a divine law (or sometimes, in Aeschylus, as the breaking down of a
temporary divine law), while Shakespeare saw it as an evil quality which, once it has
broken loose, will feed on itself
and on anything else that it can find until it reaches its natural end». Irving Ribner (1960)
analizzando lo sviluppo delle tragedie di Shakespeare nel corso della sua carriera, parla di
una ‘crescita nella visione morale’ (p. 7) e della tragedia come di una forma di religione
nella ricerca di una ‘affermazione di ordine’ (p. 9). Identificando Tito Andronico, Romeo e
Giulietta e Riccardo III come le tragedie ancora estremamente legate nella loro genesi al
modello senecano, riconosce che con l’Amleto e in ultimo con l’Otello, la tragedia di
Shakespeare raggiunge la sua vera maturità (p. 115).
L’importanza ascritta alla problematica del peccato e il relativo confronto con il
male stabilisce un’identità, nella parte iniziale dello schema dell’Amleto e dell’Orestea, fra
le due rispettive ambientazioni, la Danimarca e Argo. I sentimenti di Amleto nei confronti
del suo Paese lo portano a descriverlo come fosse una specie d’inferno. Tali sentimenti sono
67
così preponderanti nel corso dei primi tre atti che costituiscono una sorta di progressione
attraverso di esso. Il viaggio in Inghilterra, la sua prigionia e il ritorno in Danimarca che
occupa il terzo atto, preparano un cambiamento di prospettiva, come se lui emergesse dal
lungo soggiorno nel regno del male e tornasse, finalmente, preparato all’azione. Si assiste a
una riconciliazione fra eventi e Destino, attraverso il principio del πάθει μάθος:
HAMLET
There’s a divinity that shapes our ends,
Rough-hew them how we will Amleto, 5.2.10-11
È indotto ad accettare gli eventi e ad affermare che
HAMLET
Not a whit, we defy augury. There is special providence in
the fall of a sparrow. If it be now, ’tis not to come; if it be not to
come, it will be now; if it be not now, yet it will come - the
readiness is all. Since no man of aught he leaves knows, what is’t
to leave betimes? Let be.
Amleto, 5.2.192-196
Questa accettazione del Destino e il riconoscimento del potere provvidenziale tramite un
percorso di sofferenza accomuna Amleto a Oreste, e l’opera shakespeariana, almeno in
qualche scena del finale, si avvicina allo spirito religioso dell’Orestea. Se la parte centrale
dell’Amleto può rappresentare una sorta di Purgatorio – il periodo di sofferenza e
apprendimento – il suo viaggio può essere visto come apportatore di un cambiamento in lui
e, in particolare, il contatto con l’acqua come una specie d’investitura battesimale. Si
potrebbe allora dire che, alla fine, Amleto perviene a uno stato di rigenerazione, anche se
solo parziale. Per quanto riguarda Oreste, la riconciliazione avviene solo per volere di un
evento superiore, il voto di Atena in assemblea, e si tratta comunque solo di una
riconciliazione ‘tematica’: le Erinni che si riconciliano con la città di Atene e con le divinità
olimpiche testificano tale valenza.
La risoluzione del conflitto è quindi parziale sia nell’Amleto che nell’Orestea: nella
seconda non vi è alcuna risoluzione del conflitto interiore del protagonista poiché questa
68
viene generata direttamente dall’alto, non da una presa di coscienza del personaggio,
nell’Amleto invece non vi è una totale risoluzione poiché di questi avviene la morte.
Eppure, nell’annuncio dell’arrivo del giovane Fortebraccio sembra leggersi la medesima
risoluzione ‘tematica’ presente nell’Orestea.
3. 7
Orazio e Pilade
Le Coefore si aprono con Oreste e Pilade che si lamentano sulla tomba di Agamennone.
Quando Elettra si avvicina accompagnata dalle donne del Coro, i due si nascondono.
L’episodio ha un analogo nella prima scena dell’atto finale dell’Amleto, quando il giovane e
Orazio si nascondono all’arrivo del corteo funebre che porta la salma di Ofelia. Mentre
Elettra piange sulla tomba del padre e si domanda dove sia il fratello, Oreste e Pilade
rientrano in scena fra lo stupore delle donne. Un movimento scenico simile avviene anche
nell’Amleto quando, dopo aver scoperto che la funzione funebre nel cimitero era in ricordo
di Ofelia, Amleto esce allo scoperto e interrompe i lamenti (e le maledizioni) di Laerte.
Già in un commento all’Amleto del XVIII secolo era stato notato il parallelismo tra
le coppie Amleto-Orazio e Oreste-Pilade75. Come compagno di Oreste, Pilade appare in tutti
e tre i tragici greci. Ma sia Eschilo che Sofocle lo trattano come un personaggio minore, e
solo Euripide presenta il rapporto tra Oreste e Pilade come un legame di armonia tra
individui di uguale statura (Eur. El. 82-85;. Eur Or. 1157-61).
L’Oreste di Eschilo mostra pochi segni di esitazione – fondamentalmente solo nel
finale ricordato in chiusura del paragrafo precedente – lasciando i dubbi e le perplessità al
Coro. L’Elettra di Sofocle si assume invece piena responsabilità delle sue decisioni, senza
mostrare dubbi, e non ha dunque alcun bisogno di appoggi esterni per intraprendere
l’azione. Infine, l’Oreste di Euripide è un personaggio per certi aspetti miserabile, caduto in
uno stato di fisiologica follia e stanchezza: è un eroe indebolito che necessita la presenza di
un altro elemento, oltre al Coro, destinato a sostenerne il ruolo di protagonista nella
vicenda. In realtà, tale ruolo di supporto, come già accennato, è presente nelle Coefore di
75 Cf. Davies (1784), III pp.1-152; Il parallelo fra Orazio e Pilade si accorda con quanto sostenuto da Bloom
(1987) che vede in Orazio il personaggio che, amando Amleto, fornisce un legame tra lui e il pubblico;
Amleto altrimenti, come un personaggio che «represents by negation» avrebbe perso la sua «universality
of appeal» (p. 61).
69
Eschilo (896-903) quando Pilade sprona Oreste alla vendetta. Appena tre versi sono
sufficienti a piegare la volontà del giovane, precedentemente sollecitato dal Coro a
commettere l’atto cruciale.
Il personaggio di Pilade di Euripide cessa di essere una mera ombra di Oreste ed
emerge per diventare una dramatis persona a pieno titolo. Pilade intende condividere il
destino di Oreste, condannato a morte, giustificando la decisione di morire insieme con la
sua partecipazione all’omicidio di Clitemestra.
Πυλάδης
ἐπίσχες. ἓν μὲν πρῶτά σοι μομφὴν ἔχω,
εἰ ζῆν με χρῄζειν σοῦ θανόντος ἤλπισας.
Ὀρέστης
τί γὰρ προσήκει κατθανεῖν σ᾽ ἐμοῦ μέτα;
Πυλάδης
ἤρου; τί δὲ ζῆν σῆς ἑταιρίας ἄτερ;
Ὀρέστης
οὐκ ἔκτανες σὴν μητέρ᾽, ὡς ἐγὼ τάλας.
Πυλάδης
σὺν σοί γε κοινῇ: ταὐτὰ καὶ πάσχειν με δεῖ.
Ὀρέστης
ἀπόδος τὸ σῶμα πατρί, μὴ σύνθνῃσκέ μοι.
σοὶ μὲν γὰρ ἔστι πόλις, ἐμοὶ δ᾽ οὐκ ἔστι δή,
καὶ δῶμα πατρὸς καὶ μέγας πλούτου λιμήν.
γάμων δὲ τῆς μὲν δυσπότμου τῆσδ᾽ ἐσφάλης,
ἥν σοι κατηγγύησ᾽ ἑταιρίαν σέβων:
σὺ δ᾽ ἄλλο λέκτρον παιδοποίησαι λαβών,
κῆδος δὲ τοὐμὸν καὶ σὸν οὐκέτ᾽ ἔστι δή.
ἀλλ᾽, ὦ ποθεινὸν ὄμμ᾽ ὁμιλίας ἐμῆς,
χαῖρ᾽: οὐ γὰρ ἡμῖν ἔστι τοῦτο, σοί γε μήν:
οἱ γὰρ θανόντες χαρμάτων τητώμεθα.
Eur. Or. 1069-84
Poco dopo Pilade occupa brevemente il centro della scena, quando medita il piano per
salvare le loro vite, proponendo un’impresa audace e sanguinosa. Euripide conferisce
all’ombra dell’eroe alcune delle funzioni di supporto ascrivibili, in precedenza, interamente
del Coro.
Al termine dell’Amleto, dopo il duello finale, Orazio mostra una φιλία nei confronti
dell’amico paragonabile a quella di Pilade per Oreste relativa al passaggio poco sopra
citato: anche lui infatti, vedendo Amleto morente, vorrebbe morire assieme a lui, e solo
70
l’ulteriore intervento di Amleto gli impedisce il gesto estremo.
HAMLET
Heaven make thee free of it! I follow thee.
I am dead, Horatio. Wretched queen adieu.
You that look pale, and tremble at this chance,
That are but mutes or audience to this act,
Had I but time, as this fell sergeant death
Is strict in his arrest, oh I could tell you But let it be. Horatio, I am dead,
Thou livest; report me and my cause aright
To the unsatisfied.
HORATIO
Never believe it.
I am more an antique Roman than a Dane.
Here’s yet some liquor left.
HAMLET
As th’art a man,
Give me the cup. Let go, by heaven I’ll ha’t.
0 God, Horatio, what a wounded name,
Things standing thus unknown, shall live behind me!
If thou didst ever hold me in thy heart,
Absent thee from felicity awhile,
And in this harsh world draw thy breath in pain
To tell my story.
Amleto, 5.2.311-328
L’analogia dunque riguarda sia l’atto di φιλία dei rispettivi compagni nei confronti dei due
eroi, sia il successivo intervento dei protagonisti volto a impedire la morte di quelli.
Passando alla tragedia di Shakespeare, si potrebbe pensare che questi avesse
presente il modello euripideo Oreste-Pilade e che se ne sia appropriato in quanto istanza
innovativa del modello di relazione eroe-Coro (che ormai in epoca elisabettiana non
esisteva quasi più), e che lo abbia utilizzato nella forma della coppia Amleto-Orazio. Nel
contesto del parallelismo strutturale tra Oreste-Pilade e Amleto-Orazio si può fare
riferimento a quanto scrive Louise Schleiner (1990) a riguardo: «My hypotheses about
Pylades-Horatio and the churchyard scene are as follows. Early on in writing the play,
71
Shakespeare drafted the scenes where Horatio is the Pyladean foreigner — must have
Danish customs explained to him, reminisces about Wittenberg, and so forth. As the writing
proceeded, Shakespeare was working for scene from the Ur-Hamlet and had sometimes to
assign Horatio the habitué kind of functions. The churchyard scene, like the «foreigner»
aspect of Horatio, is, so far as anyone has known, an invention of Shakespeare’s: the two
features do not occur in Belleforest’s tale of Amleth, the source of the Ur-Hamlet, nor in
Saxo Grammaticus, nor in Fratricide Punished. If these two features did appear in some
source or analogue, it would be likely that they were in Shakespeare’s immediate source,
the Ur-Hamlet. In fact, we have no evidence that they appeared anywhere in versions of the
Hamlet story before Shakespeare».
Le analogie fra la vicenda di Oreste e quella di Amleto non si fermano
semplicemente alla trama: dall’analisi di molti passi finora discussi sembrerebbe che sia,
per certi versi, la struttura interna della tragedia ad aver subito influssi dal dramma attico. Il
personaggio di Orazio si staglia all’interno della vicenda in maniera diversa rispetto al resto
dei personaggi secondari: la sua sembra essere una ‘identità corale’. Generalmente il
personaggio di Orazio viene interpretato in maniera abbastanza linerare, come l’amico
(compagno di scuola e confidente) del protagonista. Quest’ultimo, incontrando Orazio per
la prima volta nel dramma, gli si rivolge con le parole «my good friend» 76, mentre Orazio si
chiama suo «poor servant ever» (1.2.162-62). Si potrebbe quindi pensare che le parole di
Amleto in realtà non si propongano di definire il loro rapporto, ma semplicemente
d’indirizzare una forma standardizzata di saluto cordiale; nella stessa scena Amleto chiama
Orazio un «fellow-student», espressione abbastanza neutra. In alcuni episodi, ma in forma
molto velata, si potrebbe rintracciare l’intenzione di Amleto di fare di Orazio il suo
confidente (3.2.75-77; 3.2.300-304), ma alla fine ne trascura sempre i consigli. Già nelle
scene del fantasma (1.4-5) Amleto stenta a trattare Orazio come un ‘buon amico’, e nel
momento culminante non fa distinzione fra lui e Marcello (1.4.84-89). Questi pochi esempi
permettono di considerare l’interpretazione tradizionale di Orazio come amico-confidente
di Amleto, se non dubbia, quanto meno limitata. D’altra parte il personaggio di Amleto è
costitutivamente portato alla solitudine e la presenza del personaggio del ‘fidato buon
76 Anche in questo caso esiste un parallelo nell’Oreste di Euripide quando, dopo il dialogo con Menelao,
Pilade entra in scena e viene salutato da Oreste con le parole «φίλτατον βροτῶν» (v. 725) e «ἡδεῖαν
ὄψιν» (v. 727).
72
amico’ potrebbe apparire incongruente con tale caratteristica preponderante di Amleto. Di
conseguenza, la figura di Orazio può essere letta in vari modi, senza fissarsi su di un’unica
individualià: può essere percepito come la figura tipica dello ‘straniero’, o come quella di
un cortigiano danese, o di un filosofo, o un ufficiale che in precedenza aveva servito il
padre di Amleto. Queste sfaccettature multiple sono più che evidenti a chiunque avesse
letto
con
attenzione
l’opera.
Eppure,
uscendo
dallo
schematismo
tradizionale
dell’incasellamento dei personaggi all’interno di una cornice esegetica ‘moderna’, tutte
queste contraddizioni non sembrano essere particolarmente significative e paiono anzi
appianarsi se si considerassero la sua funzione e il suo ruolo nei termini del sistema
drammaturgico greco.
In contrapposizione alla tragedia classica, in cui i due elementi del Coro e del
protagonista hanno uno spessore scenico simile (e nella tragedia euripidea, quando il Coro
diventa più debole, la sua funzione sembra in parte riassegnata a Pilade), nell’Amleto
shakespeariano l’eroe si allontana spesso dai suoi compagni. La funzione del Coro viene
infatti parzialmente rilevata dai soliloqui: Amleto non ha lo stesso bisogno di sostegno che
invece caratterizza i personaggi tragici greci e tuttavia, nel finale, questo legame con Orazio
(più Pilade che Coro in questa scena) è definitivamente rinsaldato. Orazio, non morendo,
ricorda un eroe classico. Nell’ecatombe dell’ultima scena bisogna infatti notare più d’ogni
altra cosa le figure di Orazio e del giovane Fortebraccio: tramite essi l’ordine e la giustizia
vengono ristabilite nel regno di Danimarca, sia a livello etico e religioso che a livello
sociale e politico, esattamente come accade in tutti i drammi attici che trattano la vicenda di
Oreste, prima fra tutti l’Orestea.
3. 8
Ofelia ed Elettra
Il personaggio di Ofelia riveste un ruolo fondamentale nella tragedia di Amleto: in qualità
di donna amata dal principe danese ne rappresenta, secondo un’interpretazione di stampo
freudiano, il suo alter ego. Come Amleto, subisce la perdita violenta di un padre e
impazzisce, letteralmente, a seguito di questa. La tragicità del suo personaggio risiede,
esattamente come gli eroi della tragedia greca, nella sua innocenza, nell’essere sottoposta a
un destino crudele di cui non ha alcuna colpa. Il suo nome si ricollega al ruolo che
73
interpreta nella vicenda di Amleto, di amica e compagna, ma, nell’impossibilità di assolvere
ad esso, si riconnette al l’essenza stessa della tragedia. Il parallelo fra l’Elettra di Sofocle e
Amleto è già stato analizzato nell’ambito del discorso sul lutto e sul dolore. Se, nell’analisi
del dramma shakespeariano, si considera Ofelia come un’estensione psicologica del
personaggio principale, anche senza chiamare in causa interpretazioni psicanalitiche, è
possibile stabilire ulteriori analogie con il personaggio di Elettra, non sofocleo stavolta ma
euripideo77.
Le analogie più evidenti si trovano dell’Oreste. Tornando brevemente sul significato
etimologico e concettuale del nome di Ofelia, si può ricordare che Oreste chiami la sorella
«μόνην ἐπίκουρον» (Or. vv. 305-06): anche lei, come Ofelia, rappresenta l’unico vero aiuto
che ha il protagonista, differente, non superiore, rispetto a quello che interpretano Pilade e
Orazio. Sia l’una che l’altra donna necessitano l’intervento del proprio fratello per
vendicare la sorte del padre. È chiaro che una lettura di questo genere pone Laerte nella
posizione di Oreste e, conseguentemente, di secondo alter ego di Amleto.
OPHELIA
I hope all will be well. We must be patient, but I cannot
choose but weep to think they would lay him i’th’ cold ground. My
brother shall know of it […]
Amleto, 4.5.68-70
Elettra, non diversamente da quanto accade in Sofocle, lamenta la propria condizione ma i
termini del suo lamento si ispessiscono con riferimenti alla condizione d’inferiorità che lei
vive in qualità di donna. Nel dialogo iniziale con il Coro, recita:
Ἠλέκτρα
σύ τε γὰρ ἐν νεκροῖς, τό τ᾽ ἐμὸν οἴχεται
βίου τὸ πλέον μέρος ἐν στοναχαῖσί τε καὶ γόοισι
δάκρυσί τ᾽ ἐννυχίοις, ἄγαμος
ἐπὶ δ᾽ ἄτεκνος ἅτε βίοτον ἁ
μέλεος ἐς τὸν αἰὲν ἕλκω χρόνον.
Eur. El. 201-07
77 Marguerite A. Tassi (2011, p. 87) ricollega il personaggio di Ofelia anche a quello della Cassandra
eschilea. Le visioni della sacerdotessa nell’Agamennone sarebbero simili a quelle di Ofelia,
74
Ofelia, dal canto suo, non si chiama da sé ἄγαμος, ma l’essere una donna ‘a metà’ è
riportato nelle parole di Gertrude durante il rito funebre per la sua morte.
GERTRUDE I hoped thou shouldst have been my Hamlet’s wife.
I thought thy bride-bed to have decked, sweet maid,
And not t’have strewed thy grave.
Amleto, 5.1.212-14
nel dolore per la morte della ragazza, mostra un attaccamento materno, rinforzando l’ipotesi
della relazione intrinseca che sussiste fra Ofelia e Amleto.
D’altra parte, il legame che c’è fra Oreste ed Elettra non è meno ambiguo di quello che si
instaura fra i personaggi della tragedia di Shakespeare. Anche in questo caso, sono le parole
stesse dei personaggi a indicare una somiglianza.
HAMLET
I loved Ophelia; forty thousand brothers
Could not with all their quantity of love
Make up my sum. What wilt thou do for her?
Amleto, 5.1.236-38
Nella scena del cimitero, Amleto avvista il corteo funebre a cui partecipano la madre,
Claudio e Laerte e, dopo aver riconosciuto che è in onore di Ofelia, rivela il dolore per la
perdita della ragazza, amata da lui quanto e più di un fratello. Questo amore dai contorni
indefiniti è quello che lega anche Elettra e Oreste. Dopo aver saputo del destino di morte a
cui sono stati condannati dal popolo di Argo, entrambi si lasciano andare a dichiarazioni
d’affetto che superano in intensità il normale affetto fraterno.
Ἠλέκτρα
ὦ φίλτατ᾽, ὦ ποθεινὸν ἥδιστόν τ᾽ ἔχων
τῆς σῆς ἀδελφῆς ὄνομα καὶ ψυχὴν μίαν.
Ὀρέστης
ἔκ τοί με τήξεις: καί σ᾽ ἀμείψασθαι θέλω
φιλότητι χειρῶν. τί γὰρ ἔτ᾽ αἰδοῦμαι τάλας;
ὦ στέρν᾽ ἀδελφῆς, ὦ φίλον πρόσπτυγμ᾽ ἐμόν,
τάδ᾽ ἀντὶ παίδων καὶ γαμηλίου λέχους —
προσφθέγματ᾽ ἀμφοῖν τοῖς ταλαιπώροις πάρα.
75
Eur. Or. 1045-51
Se nel caso di Amleto l’amore sensuale si trasforma in amore fraterno, in Elettra e Oreste
avviene l’esatto contrario. I sentimenti, in entrambi i casi, si mescolano fra loro in una
commistione dai contorni non più netti. Credo che tale analogia sia una delle più incisive e
originali fra quelle che possono indicare un rapporto diretto fra Shakespeare e i classici
greci.
76
CONCLUSIONI
In questo lavoro ho tentato di delineare le caratteristiche che accomunano la tragedia
shakespeariana di Amleto ai drammi attici che hanno come argomento la vicenda di Oreste,
in particolare l’Orestea di Eschilo, l’Elettra di Sofocle e l’Oreste di Euripide. Un iniziale
raffronto fra le storie ha evidenziato un possibile collegamento a livello di mitologemi.
Agamennone come Horvendil (il padre di Amleto nella narrazione di Saxo) rappresenta il
topos del vecchio re ucciso a tradimento da un usurpatore e dalla propria moglie, divenuta
amante di quest’ultimo. La vicenda rappresenterebbe simbolicamente l’avvicendamento del
vecchio col nuovo. L’inserimento del personaggio del figlio è probabilmente un espediente
successivo, che non rientrava nel nucleo originario del mito. In questo, Oreste e Amleto
sono espressione del medesimo elemento: il giovane figlio che vendica la morte del padre
ingiustamente assassinato.
Le affinità di carattere mitico non spiegano però le numerose analogie testuali che si
incontrano procedendo nella lettura in parallelo delle opere. L’Amleto di Shakespeare
sembra essere una riscrittura in chiave moderna delle tragedie attiche. L’aspetto a mio
avviso più interessante della questione è rappresentato dalla struttura circolare della
tragedia elisabettiana: è sorprendente che Shakespeare apra e chiuda il suo dramma con due
episodi che ricordano da vicino l’inizio dell’Agamennone e quello delle Coefore. La scena
della guardia (primo atto) e quella della tomba (ultimo atto) sembrano essere allusioni
troppo esplicite alla trilogia eschilea perché si possa semplicemente parlare di coincidenza.
In epoca elisabettiana non era certamente possibile mettere in scena un dramma
simile, in lunghezza, a quelli attici poiché sarebbe risultato troppo breve. Le aspettative del
pubblico ai tempi erano ben diverse da quelle del pubblico ateniese di V secolo a.C.. Di
conseguenza risultava inevitabile un trattamento della vicenda più articolato a livello di
trama: si è visto che l’intreccio nell’Amleto prevede l’intersezione di tre trame
interconnesse, di cui la principale risulta quella della vendetta. D’altronde, le trame
secondarie si ricollegano anch’esse alla vicenda di Oreste. Ofelia rappresenta l’alter ego
femminile di Amleto mentre la vicenda di Fortebraccio sancisce nel finale una rinnovata
costituzione dell’ordine sovvertito. Non vi è un ritorno allo status quo né in Amleto né nelle
Eumenidi. Entrambe le tragedie chiudono un ciclo di evoluzione. Se nell’Orestea si assiste
77
alla consacrazione di un concetto di giustizia democratica e della supremazia delle divinità
olimpiche rispetto a quelle ctonie, nell’Amleto il cambiamento risiede nel passaggio da
un’investitura regale a carattere familiaristico ed ereditario (presentata tramite un ciclo di
morti violente) ad una a carattere meritocratico.
Amleto e Ofelia compendiano nella propria persona caratteristiche che
appartengono sia ad Oreste che ad Elettra. Il rapporto simbiotico che esiste fra le due
coppie è evidente in Euripide e in Shakespeare: un rapporto fraterno che sembra sfociare in
amore sensulae e, viceversa, un amore sensuale che assume caratteri di legame fraterno. La
dimensione psicologica dei personaggi elisabettiani non trova riscontro nei drammi eschilei.
Se qualcosa Shakespeare ha tratto da Eschilo, si è trattato di eventi e situazioni. Lo sviluppo
interiore è da ricollegare ad Euripide e, in parte, a Sofocle. I motivi del lutto e del dubbio
sono da ascriversi, rispettivamente, all’Elettra di Sofocle e all’Oreste di Euripide, a cui,
icasticamente, rimorde la coscienza, come rivelerà nel dialogo sticomitico con Menelao.
Ulteriori motivi di analogia si incontrano nell’analisi in parallelo dei personaggi di
Clitemestra e Claudio, e di Orazio e Pilade, mentre pare che la funzione assolta dal Coro
nella tragedia greca venga assunta tendenzialmente dai soliloqui dei personaggi
shakespeariani. I mezzi e le modalità espressive cambiano, ma i temi, gli episodi e i
personaggi mantengono un forte legame di affinità fra loro.
Quanto messo in luce non basta ad implicare un collegamento diretto fra
Shakespeare e i tragediografi attici, eppure resta il dubbio che negli anni ci si sia assestati
su un’opinione riguardante l’educazione del drammaturgo inglese più dettata da pregiudizi
che dall’effettivo parere che si può trarre da una lettura accorta dei suoi testi. I riferimenti
eruditi all’interno delle opere di Shakespeare sono numerosi e talvolta non si giustificano
facendo riferimento alla conoscenza che questi aveva della letteratura latina. Oreste e
Amleto rappresentano due facce della stessa medaglia e, forse, continuare perentoriamente
a negare il legame genetico che esiste fra i due è solo indicativo di una volontà di adeguarsi
ad una credenza generale, divenuta cogli anni imperante e difficile da confutare,
riguardante la genialità innata di Shakespeare e la paura di sminuirne la portata qualora
venisse indicata l’ascendenza classica, non più solo latina, di tante sue opere.
78
BIBLIOGRAFIA
1.
Fonti: edizioni, traduzioni e commenti
AA. VV. 1975
C. Diano (a cura di), Il teatro greco. Tutte le tragedie,
Firenze: Sansoni, 1975.
Denniston – Page 1957
J. D. Denniston e D. Page (ed. e comm.), Aeschylus:
Agamemnon, Oxford: Clarendon Press, 1957.
Di Benedetto 1965
V. Di Benedetto (a cura di), Euripidis Orestes, Firenze: La
Nuova Italia, 1965.
Del Corno – Cantarella 1990
D. Del Corno (a cura di), R. Cantarella (trad.), Eschilo:
Orestea, Milano: Mondadori, 1990.
Duncan-Jones 1997
K. Duncan-Jones (ed.), Shakespeare’s Sonnets, Nashville:
Thomas Nelson and Sons Ltd., 1997.
Edwards 2003
P. Edwards (ed.), Shakespeare: Hamlet, Prince of
Denmark, Cambridge: Cambridge University Press, 2003.
Finglass 2007
P. J. Finglass (ed. e comm.), Sophocles: Electra,
Cambridge: University Press, 2007.
Jebb 1894
R. C. Jebb (ed. e comm.), Sophocles: The Plays and
Fragments, IV: The Electra, Cambridge: Cambridge
University Press, 1894.
Lapini et al. 2002
W. Lapini, V. Citti (ed. e comm.), M. Untersteiner (trad.),
Eschilo: Le Coefore, Amsterdam: Adolf M. Hakkert, 2002.
79
Mandruzzato et al. 2010
E. Mandruzzato, F. M. Pontani, L. Traverso, M. Valmigli
(cura e trad.), I tragici greci: Eschilo, Sofocle, Euripide,
Roma: Grandi tascabili economici Newton, 2010.
Medda et al. 1995
E. Medda, L. Battezzato, M.P. Pattoni (trad. e note),
Eschilo:
Orestea. Agamennone, Coefore, Eumenidi,
Milano: BUR, 1995.
Murray 1913
G. Murray (ed.), Euripides. Euripidis Fabulae, 3 vols,
Oxford: Clarendon Press, 1913.
Paduano 1982
G. Paduano (a cura di), Sofocle: Tragediae e frammenti,
Torino: UTET, 1982.
Paton 1915
W. R. Paton (ed. e trad.), The Greek Anthology. London:
William Heinemann Ltd, 1915.
Smyth 1926
H. W. Smyth (ed.), Aeschylus, Cambridge – Cambridge
(Mass.): Harvard University Press; London: William
Heinemann, Ltd., 1926.
Sommerstein 1989
A. H. Sommerstein (ed. e trad.), Aeschylus. Oresteia.
Agamemnon, Libation – Bearers, Eumenides, Cambridge
(Mass.) – London: Harvard University Press, 2008.
Storr 1914
F. Storr (ed. e trad.), Sophocles. Sophocles. Vol 2: Ajax.
Electra. Trachiniae. Philoctetes, London – New York:
William Heinemann Ltd.; The Macmillan Company, 1913.
Wells et alia 2005
Stanley Wells, Gary Taylor, John Jowett, William
80
Montgomery (eds.), The Oxford Shakespeare: The
Complete Works, Oxford: Oxford University Press, 2005.
West 1987
M. L. West (ed. trad. e comm.), Euripides: Orestes,
Warminster: Aris & Phillips, 1987.
Willink 2004
C. W. Willink (introd. e comm.), Euripides: Orestes,
Oxford: Clarendon Press, 2004.
2.
Contributi critici
Aasand – Clary 2010
H. Aasand and F. N. Clary, The Sources of Hamlet,
hamletworks.org.website, Online: MIT Partnership, 2010.
http://opus.ipfw.edu/english_facpubs/491
Ackroyd 2006
P. Ackroyd, Shakespeare: The Biography, London:
Vintage, 2006.
Baldwin 1944
T. W. Baldwin, William Shakspere’s Small Latine and Less
Greeke, Urbana: University of Illinois Press, 1944, vols. 2.
Biedermann 1989
H.
Biedermann, Dictionary of Symbolism, New York:
Meridian, 1989.
Bloom 1987
H. Bloom, Ruin the sacred truth, Cambrige (Mass.):
Harvard University Press, 1987.
Brower 1971
R. Brower, Hero and Saint. Shakespeare and the
Graeco-Roman Heroic Tradition, Oxford: Clarendon
Press, 1971.
81
Carroll 2004
D. A. Carroll, Reading the 1592 Groatsworth Attack on
Shakespeare, «Tennessee Law Review», Vol. 72, No. 1
(2004), pp. 277–94.
Chambers 1923
E. K. Chambers, The Elizabethan Stage, 4 vols., Oxford:
Clarendon Press (1923).
Chevalier – Gheerbrandt 1996 J. Chevalier and A. Gheerbrant, Dictionary of symbols,
Penguin, 1996.
Condello 2010
F. Condello, Elettra: Storia di un mito, Roma: Carocci,
2010.
D’Arms – Hulley 1946
E. F. D’Arms – Karl K. Hulley, The Oresteia: Story in the
Odyssey, «Transactions and Proceedings of the American
Philological Association» (1946), pp. 207-213.
D’Agostino 1994
N. D’Agostino, Shakespeare e i greci, Roma: Bulzoni 1994.
Davies 1784
T. Davies, Dramatic Miscellanies, 3 vols., London, 1784.
De Grazia – Wells 2001
M. de Grazia and S. Wells, The Cambridge Companion to
Shakespeare , Cambridge: Cambridge University Press.
Dekker 1968
T. Dekker, The Wonderful Year … and Selected Writings, ed.
E. D. Pendry, Cambridge (Mass.): Harvard Univ. Press,
1968.
Dodds 1951
E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley:
University of California Press, 1951.
82
Dutton 2003
R. Dutton and J. Howard (eds.), A Companion to
Shakespeare’s Works, vol. I: The Tragedies, Malden, MA
and Oxford: Blackwell Publishing, 2003.
Dumézil 2001
Georges Dumézil, La saga di Hadingus. Dal mito al
romanzo, Roma: Edizioni Mediterranee, 2001.
Evans 1987
R. C. Evans, Ben Jonson’s Library and Marginalia: New
Evidence
from
the
Folger
Collection,
Philological
Quarterly, 66 (1987), 521-28.
Gibson 2005
H. N. Gibson, The Shakespeare Claimants: A Critical
Survey of the Four Principal Theories Concerning the
Authorship of the Shakespearean Plays, London: Routledge,
2005.
Goldhill 1986
S.
Goldhill,
Reading
Greek
Tragedy,
Cambridge:
Oresteia,
Cambridge:
Cambridge University Press, 1986.
Goldhill 1992
S.
Goldhill,
Aeschylus:
The
Cambridge University Press, 1992.
Gollancz 1898
I. Gollancz, Hamlet in Iceland: being the Icelandic
romantic Ambales saga, London: D. Nutt, 1898.
Greene 1996
R. Greene, Menaphon, ed. Brenda Cantar, Ottawa:
Dovehouse Editions, 1996.
Hansen 1983
W. F. Hansen, Saxo Grammaticus and the Life of Hamlet: A
Translation, History and Commentary, Lincoln: University
of Nebraska Press, 1983.
83
Hunt 2007
M. W. Hunt, Looking for Hamlet, New York: Palgrave.
Macmillan, 2007.
Hunter 1978
G. K. Hunter, Dramatic Identities and Cultural Tradition:
Studies in Shakespeare and his Contemporaries, Liverpool:
Liverpool Univ. Press, 1978.
Hutton 1941
J. Hutton, Analogues of Shakespeare’s Sonnets 153-54:
Contributions to the History of a Theme, Modern Philology,
Vol. 38, No. 4 (May, 1941), pp. 385-403.
Jack 1905
A. E. Jack, Thomas Kyd and the Ur-Hamlet, «PMLA», Vol.
20, No. 4 (1905), pp. 729-748.
Jones 1960
W. Jones, Shakespeare’s Sources for the Name ‘Laertes.’,
«The Shakespeare Newsletter» 10 (1960).
Jones 1997
E. Jones, The Origins of Shakespeare, Oxford: Clarendon,
1997.
Kathman 2003
D. Kathman, The Question of Authorship, in Wells; Orlin,
Shakespeare: an Oxford Guide, Oxford: Oxford University
Press, 2003, pp. 620–32.
Kerrigan 1981
J. Kerrigan, Hieronimo, Hamlet and Remembrance, «Essays
in Criticism», Vol. 31, No.2, (1981), pp. 105-126.
Kerrigan 1996
J. Kerrigan, Revenge Tragedy: Aeschylus to Armageddon,
Oxford: Clarendon Press, 1996.
84
Kirkwood 1958
G. MacDonald Kirkwood, A Study of Sophoclean Drama,
New York: Cornell University Press, 1958.
Kitto 1956
H.D.F. Kitto, Form and Meaning in Drama: A Study of Six
Greek Plays and of Hamlet, London: Methuen, 1956.
Kott – Taborski 1967
J. Kott and B. Taborski, Hamlet and Orestes, «PMLA», Vol.
82, No. 5 (1967), pp. 303-313.
Martindale 1990
C. and M. Martindale, Shakespeare and the Uses of
Antiquity: An Introductory Essay, London: Routledge, 1990.
Martindale – Taylor 2004
C. Martindale and A. B. Taylor (eds.), Shakespeare and the
Classics, Cambridge: Cambridge University Press, 2004
Matus 1994
I. Matus, Shakespeare, IN FACT, New York: Continuum,
1994.
McEachern 2002
C.
McEachern,
The
Cambridge
Companion
to
Shakespearean Tragedy, Cambridge: Cambridge University
Press, 2002.
Mehl 1986
D.
Mehl,
Shakespeare’s tragedies:
an
introduction,
Cambridge: Cambridge University Press, 1986.
Miola 1983
R. S. Miola, Shakespeare’s Rome, Cambridge: Cambridge
University Press, 1983.
Miola 1992
R. S. Miola, Shakespeare and Classical Tragedy: The
Influence of Seneca, Oxford: Clarendon Press, 1992.
85
Miola 2000
R. S. Miola, Shakespeare’s Reading, Oxford: Oxford
University Press, 2000.
Muir 1978
K. Muir, The Sources of Shakespeare’s Plays, New Haven:
Yale University Press, 1978.
Murray 1914
G. Murray, Hamlet and Orestes: A Study in Traditional
Types, London: Oxford University Press, 1914.
Nashe 1958
T. Nashe, Preface to Greene’s Menaphon in The Works of
Thomas Nashe, Ronald B. McKerrow (ed.), III, Oxford:
Basil Blackwell, 1958.
Nelson 2004
A. H. Nelson (2004), Stratford Si! Essex No!, «Tennessee
Law Review», Vol. 72, No. 1, pp. 149–69.
Newman 1984
J. K. Newman, Small Latine and Lesse Greeke?
Shakespeare and the Classical Tradition, «Illinois Classical
Studies», Vol. 9, No. 2 (1984), pp. 309-330.
Paster 1999
G. K. Paster, The Sweet Swan, «Harper’s Magazine», pp.
38–41.
Poole 1987
A. Poole, Tragedy: Shakespeare and the Greek Example,
Oxford: Basil Blackwell, 1987.
Potter 2012
L. Potter, The life of William Shakespeare: a critical
biography, Chichester, UK: Wiley-Blackwell, 2012.
Sancassano 1997
M. L. Sancassano, Il serpente e le sue immagini: il motivo
del serpente nella poesia greca dall’lliade all’Orestea,
86
Como: Edizioni New Press, 1997.
Schleiner 1990
L. Schleiner, Latinized Greek Drama in Shakespeare’s
Writing of "Hamlet", «Shakespeare Quarterly», Vol. 41, No.
1 (1990), pp. 29-48.
Schoenbaum 1987
S. Schoenbaum(1987), William Shakespeare: A Compact
Documentary Life, Oxford: Oxford University Press, 1987.
Schoenbaum 1991
S. Schoenbaum, Shakespeare’s Lives, Oxford: Oxford
University Press, 1991.
Shapiro 2010
J. Shapiro, Contested Will: Who Wrote Shakespeare?, New
York: Simon & Schuster, 2010.
Simmons 1989
J. L. Simmons , Recent Studies in Elizabethan and
Jacobean Drama , «Studies in English Literature,
1500-1900», Vol. 29, No. 2, 1989, pp. 357-408.
Smith 2004
E. Smith (ed.), Shakespeare’s tragedies, Oxford: Blackwell
Publishing, 2004.
Steiner 1961
G. Steiner, The Death of Tragedy, London: Faber and Faber,
1961.
Sutherland – Watts 2000
J. Sutherland; C. T. Watts, Henry V, War Criminal?: and
Other Shakespeare Puzzles, Oxford: Oxford University
Press, 2000.
Tassi 2011
M. A. Tassi, Women and Revenge in Shakespeare: Gender,
Genre,
and
87
Ethics.
Selinsgrove,
Pa.:
Susquehanna
University Press, 2011.
Thomson 1966
J. A. K. Thomson, Shakespeare and the Classics, New York:
Barnes & Noble, 1966.
Untersteiner 1972
M. Untersteiner, La fisiologia del mito, Firenze: La Nuova
Italia Editrice, 1972.
Visintin 1997
M. Visintin, Di Echidna, e di altre femmine anguiformi,
«Mètis. Anthropologie des mondes grecs anciens», Vol. 12
(1997). pp. 205-221.
Whallon 1958
W. Whallon, The Serpent at the Breast, «Transactions and
Proceedings of the American Philological Association»
(1958), pp. 271-275.
88