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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI Corso di laurea in Filologia, letteratura e tradizione classica Oreste e Amleto: variazioni sul mito Tesi di laurea in Storia dello Spettacolo nel Mondo Antico Relatore Prof: Renzo Tosi Correlatore Prof. Federico Condello Presentata da: Valentina Mancinelli Sessione prima Anno accademico 2013-2014 INDICE INTRODUZIONE 1 1. SHAKESPEARE: «SMALL LATINE, LESSE GREEKE» 4 1. 1 Elizabethan English Grammar School 4 1. 2 Traduzioni, letture e reimpiego dei classici 6 1.3 Il greco in Shakespeare 2. ORESTE E AMLETO FRA MITO, TRAGEDIA E LEGGENDA 13 18 2. 1 Oreste nella letteratura greca 18 2. 2 Amleto in Saxo Grammaticus e Belleforest 21 2. 3 The Spanish Tragedy, Ur-Hamlet e Hamlet 25 2. 4 Similarità delle vicende 29 3. PASSI IN PARALLELO 34 3. 1 Il prologo: la guardia e il re 35 3. 2 Il lutto e Niobe 38 3. 3 Clitemestra e Gertrude 45 3. 4 Claudio, Clitemestra e il simbolismo del serpente 50 3. 5 Il matricidio, la coscienza e il senso del male 55 3. 6 Vendetta e adulterio 63 3. 7 Orazio e Pilade 69 3. 8 Ofelia ed Elettra 73 CONCLUSIONI 77 BIBLIOGRAFIA 79 INTRODUZIONE L’Amleto di Shakespeare rappresenta una delle più alte vette della produzione drammaturgica di tutti i tempi. La tragedia del principe danese dà conto di una serie di tematiche esistenziali, morali, politiche e religiose quanto mai attuali. D’altro canto, la grandezza di un’opera si estrinseca in parte, se non integralmente, nella sua perdurante contemporaneità. Emblematico, a tal riguardo, il titolo di un famoso volume di Jan Kott, Shakespeare Our Contemporary. Ma se l’eccezionalità di un’opera si manifesta nell’universalità delle tematiche trattate, allora non sarà casuale né tantomeno inusuale ritrovare espresse quelle stesse tematiche in altre opere, senza che per questo si debba ipotizzare fra di esse un rapporto diretto. Tale pare essere il caso dell’Amleto: vendetta, colpa e follia sono solo tre fra le più evidenti analogie che si rintracciano ponendolo in parallelo con un altro capolavoro del teatro occidentale, l’Orestea di Eschilo, scritta oltre duemila anni prima dalla nascita dello stesso Shakespeare. L’Orestea, nella sua interezza, tramite il dispiegamento ordinato delle vicende all’interno della trilogia, prende ad oggetto la saga familiare degli Atridi, portando a compimento la narrazione di un unico tragico destino, quello di Oreste, figlio di Agamennone. A prima vista potrebbe apparire quasi inverosimile che il Bardo dell’Avon ignorasse la trilogia eschilea o, se non questa in particolare, che non conoscesse almeno una qualche versione della vicenda di Oreste declinata in forma letteraria nel mondo classico greco (includendo quindi nelle possibili varianti, oltre ai tre tragediografici attici, anche Pindaro e Omero1). Tante e tali le similarità fra le due storie che il dubbio non può che insinuarsi furtivo. Sia Oreste che Amleto sono costretti a vendicare la morte di un padre, re, ucciso a tradimento, di ritorno dalla guerra, da un usurpatore al trono il quale si avvale, per la preparazione e l’esecuzione del delitto, dell’ausilio della fedifraga moglie del re. Inoltre, l’orrore del matricidio e la follia, vera o presunta, sono aspetti peculiari e idiosincratici che caratterizzano entrambe le vicende. Ma un elemento, oltre al finale, le distanzia: il ruolo della madre nel regicidio. Per Eschilo la colpa ricade su Clitemestra, Egisto è una figura di secondo piano. In Shakespeare accade il contrario: Claudio ordisce il regicidio e la colpa di 1 L’Orestea di Stesicoro non può aver avuto alcun impatto su Shakespeare, essendo giunta in età moderna in forma altamente frammentaria. 1 Gertrude è solo nella sua tacita connivenza. Molto è stato scritto sulle connessioni dell’Amleto con la tragedia antica. È significativo che l’argomento sia stato trattato meno dagli studiosi shakespeariani che dai filologi classici. Ponendo come dato incontrovertibile che Shakespeare non conoscesse la tragedia greca, l’argomento non è stato trattato come forse avrebbe meritato. Al contrario, il ‘complesso di Edipo’ di Amleto è stato analizzato abbondantemente nella letteratura scientifica moderna, con analisi ispirate sia dai testi di Freud che da quelli di Jung, in particolare, dalla sua teoria degli archetipi. I temi dell’assassinio regale, del destino ereditario, delle vendette intergenerazionali, dell’incesto, dell’adulterio, dei tetri banchetti, della violazione della sacralità permeano le storie di Esiodo, Pindaro, Omero, e dei tragediografi attici. Per di più, le radici classiche di Amleto sembrano estendersi oltre il dramma mitico, tramite allusioni ai corrotti imperatori romani Claudio e Nerone. Amleto ha una tale varietà di elementi e riferimenti classici che ogni possibile fonte di questo capolavoro elisabettiano non dovrebbe essere esclusa a priori, ma vagliata e considerata con cautela. La trattazione più importante e dettagliata del rapporto fra Amleto e Oreste è rappresentata dallo studio di Gilbert Murray del 1914, Hamlet and Orestes: A Study in Traditional Types. Murray non solo ha proposto un raffronto con l’Orestea e le due Elettre, ma ha inserito nel suo studio anche l’Andromaca, l’Ifigenia fra i Tauri e l’Oreste di Euripide. Ebbe inoltre il merito di collegare per la prima volta lo studio della storia del mito di Oreste con le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus e le Ambales Saga islandesi. Fu anche il primo a confrontare il personaggio di Ofelia con quello di Elettra, e quello di Orazio con Pilade. «There are first the broad similarities of situation between what we may call the original sagas on both sides; that is the general story of Orestes and Hamlet respectively. But secondly, there is something much more remarkable; when these sagas were worked up into tragedies, quite independently and on very different lines, by great dramatists of Greece and England, not only do most of the old similarities remain, but a number of new similarities are developed. That is Aeschylus, Euripides, and Shakespeare are strikingly similar in certain points which do not occur at all in Saxo or Ambales or the Greek epic». Murray propone l’esempio della follia del protagonista, che è molto simile in Euripide e Shakespeare, ma del tutto diversa dalla leggenda nordica di Saxo o dalla saga 2 islandese di Ambales. La domanda che si pone infine è se Shakespeare conoscesse o meno il greco. La risposta che si dà è un no categorico, ma introduce la possibilità che Shakespeare fosse potuto venire a conoscenza dei classici tramite le conversazioni con altri colleghi drammaturghi, meglio istruiti di lui. Il problema fondamentale per lo studio comparato della drammaturgia attica e di quella shakespeariana è da sempre stato rappresentato da una sorta di tacito riconoscimento della scarsa cultura letteraria dell’autore elisabettiano. Per quanto sconcertante possa apparire la raffinatezza, l’allusività, la sensibilità aristocratica e lo stile di Shakespeare in considerazione delle sue ‘umili’ origini, ancora oggi la quasi totalità degli studiosi non ha dubbi sulle scarse conoscenze filologiche e letterarie che questi avesse avuto. Certo, molte sono state anche le teorie sorte circa l’attribuzione delle opere di Shakespeare: la cosiddetta corrente degli Anti-Stratfordiani ne ha messo in dubbio la paternità sin dal diciottesimo secolo, ipotizzando nel tempo una mole portentosa di attribuzioni, passando da Francis Bacon a Christopher Marlowe. Ma la critica più auorevole continua a rigettare queste ipotesi. A mio avviso, piuttosto che cercare di attribuire ad autori differenti l’opera shakespeariana, andrebbe riconsiderata l’idea che dello Shakespeare di Stratford si è creata nei secoli circa la sua scarsa educazione filologica e letteraria. In questo lavoro, tenterò innanzitutto di rilevare le incongruenze che sussistono fra i dati storici relativi all’educazione ricevuta da Shakespeare e l’opinione secondo cui le sue competenze fossero incompatibili con una eventuale fruizione e conoscenza dei classici greci. Nel tentativo specifico di ricercare affinità fra l’Amleto e la drammaturgia attica verrà in seguito proposta una comparazione tematica delle vicende, sulla scorta del lavoro già citato di Murray. In ultimo, verranno prese in considerazione e trattate separatamente delle singole analogie fra personaggi ed episodi, con relativi riferimenti testuali. Credo infatti che limitarsi a redigere analisi comparative senza avvalersi delle fonti primarie – sia nell’ipotesi in cui ciò sia da ricollegare a considerazioni aprioristiche circa l’inesistenza di rapporti diretti fra l’autore inglese e il teatro attico, sia che invece ci si accontenti di rilevare paralleli tematici generali fra le vicende per trarre deduzioni di carattere opposto – sia un’operazione incompleta e di per sé invalidante. Nel mio piccolo, ho cercato di evitare questa situazione. 3 1. SHAKESPEARE: «SMALL LATINE, LESSE GREEKE» Da sempre, stuoli di filologi e studiosi hanno negato a Shakespeare la possibilità di aver subìto influssi d’alcun genere dalla lettura e conoscenza dei classici greci, basando tale asserto sulla scarsa o quasi nulla pṕreparazione linguistica che a questi si ascriveva della lingua greca. Com’è noto, tale giudizio è legato a filo doppio con la testimonianza del drammaturgo suo contemporaneo, Ben Jonson, il quale, nel ricordo che ne delineò nel poema presente nella prefazione al Primo Folio delle opere complete di Shakespeare del 1623, To the memory of my beloved, the Author, Mr. William Shakespeare, and what he hath left us, ne rammenta lo «small Latine and lesse Greeke». Trattandosi di un elogio funebre, è verosimile che Jonson intendesse allora esaltarne la genialità, piuttosto che proporre un giudizio critico sulle competenze linguistiche del collega. A Shakespeare riconosceva infatti l’enorme merito di essere riuscito a raggiungere livelli di espressione lirica d’incomparabile bellezza, pur non avendo alle spalle una formazione scolastica d’élite, ma avendo frequentato una semplice Grammar School inglese di epoca elisabettiana2. Questo capitolo cercherà dunque di fornire delle indicazioni relative all’educazione ricevuta da Shakespeare nella Grammar School di Stratford, per poi utilizzarle come strumento interpretativo della famosa frase di Jonson. In ultimo verranno indicati alcuni passi dell’opera di Shakespeare che vengono generalmente addotti a prova della familiarità che questi aveva con la lingua greca. 1. 1 Elizabethan English Grammar School Se si pensasse alle Grammar Schools come a delle odierne scuole elementari e medie, si rischierebbe di fare un torto enorme alle prime. Nella mastodontica opera in due volumi William Shakspere’s Small Latine & Lesse Greeke (1944) lo studioso Thomas Whitfield Baldwin, dopo aver descritto in dettaglio il funzionamento delle Grammar Schools inglesi di XVI secolo, prestando massima attenzione al trattamento dello studio del latino che in 2 Per quanto riguarda la formazione scolastica di Shakespeare cf. Schoenbaum 1987, pp. 62–63; Ackroyd 2006, p. 53; Wells et al. 2005, pp. xv–xvi. 4 esse avveniva, e portando ad oggetto di indagine la stessa King’s Free Grammar School di Stratford che, ipoteticamente, Shakespeare avrebbe frequentato da ragazzo, mostra come tali istituti fornissero all’epoca la miglior preparazione che si potesse ottenere in ambito umanistico e letterario. Gli studi universitari erano infatti di tipo quasi esclusivamente ‘tecnico’ e ‘professionale’, poco o nulla aggiungevano alle competenze di carattere ‘speculativo’. Queste ultime, acquisite nelle Grammar Schools, erano di gran lunga superiori a quelle a cui siamo abituati oggi. Il latino, in particolare, aveva un ruolo chiave nella formazione letteraria degli allievi: oltre allo studio delle opere dei maggiori autori classici quali Ovidio, Virgilio, Orazio, Seneca e Cicerone, solo per citarne alcuni, si era anche tenuti a redigere vere e proprie composizioni in lingua. Non bisogna dimenticare che il latino rappresentava in quel momento la grande lingua colta, non solo tecnica (John Owen, ad esempio, scrisse i suoi epigrammi in latino), e che tale rimarrà fino alla fine del Settecento. Nelle scuole inglesi, addirittura in pieno XIX secolo, si sosteneva che la lingua inglese non fosse adatta ai commenti dei testi classici, i quali dovevano continuare ad essere redatti in latino. Nel capitolo finale dell’opera, a conclusione del suo immenso lavoro, Baldwin scrive (II, pp. 662-663) che Shakespeare «had such knowledge and techniques as grammar school was calculated to give. We have no direct evidence that he ever attended grammar school a single day. […] But the inference is an inevitable one, amounting almost to certainty. […] The internal evidence and such external evidence as survives conspire together to indicate that Shakespeare pretty certaintly had at Stratford the benefits of the complete grammar school curriculum». Tale preparazione influenzò inoltre Shakespeare nell’adozione di un principio basilare per la futura crescita da drammaturgo: il costante impiego dell’imitatio e dell’aemulatio. Bisogna dunque ammettere una conoscenza approfondita della lingua latina (a discapito dello «small latine»). Per quanto riguarda la lingua greca la questione è diversa. A quei tempi, nelle Grammar Schools, il greco non veniva propriamente insegnato, se non nelle sue linee essenziali come propedeutiche allo studio del latino, e piuttosto che lo studio dei ‘classici’, agli studenti veniva sottoposta la lettura del Nuovo Testamento in greco. Partendo da questo genere di considerazioni non è difficile comprendere per quale motivo si continui a rigettare l’ipotesi secondo cui Shakespeare conoscesse la letteratura 5 greca. La formazione scolastica del tragediografo inglese gli precludeva probabilmente l’accesso ai testi in lingua originale e, a meno che non si desideri prestar fede alle ipotesi Anti-Stratfordiane, secondo cui dietro al piccolo drammaturgo si sarebbe celato un qualche personaggio di spicco3, fosse un nobile, un altro drammaturgo (Christopher Marlowe in primis) o, addirittura, un complesso di altri drammaturghi, si è indotti ad avallare tale opinione. Il testo di James A. K. Thomson, Shakespeare and the Classics (1966), scritto in un periodo in cui venivano diffusamente messi in luce i riferimenti eruditi presenti nei drammi di Shakespeare, era inteso proprio a screditare questo genere di ipotesi. Si parlava allora di ‘disintegrators’, secondo i quali non sarebbe stato possibile assegnare ad un’unica persona dell’educazione di Shakespeare, un canone talmente pregno di passaggi eruditi4. 1. 2 Traduzioni, letture e reimpiego dei classici È chiaro che la questione avrebbe assunto toni differenti se fossero esistite traduzioni inglesi delle opere dei grandi autori classici greci. Ma in epoca elisabettiana, sfortunatamente, ne esistevano pochissime. Restringendo il campo di interesse al solo dramma attico, non ne esisteva alcuna, ad eccezione di una Jocasta di George Gascoigne e Francis Kinwelmersh, edita nel 1566. Era questa a sua volta basata sulla traduzione italiana di Lodovico Dolce delle Fenicie euripidee. Risulta dunque evidente che, in assenza di testi in traduzione e di competenze linguistiche specifiche, la conoscenza del dramma attico era preclusa ai più, ivi incluso Shakespeare. Scrisse a tale riguardo George K. Hunter (1978, p. 3 4 Il film ‘Anonymous’ di Roland Emmerich, del 2011, è solo l’espressione più ‘popolare’ di questo genere di mistificazioni storiche. Il problema, a mio avviso, non sarebbe sorto se non si fosse preteso, sin dall’inizio, di sminuire le competenze linguistiche, letterarie, filologiche, storiche di Shakespeare, con l’intento di magnificarne la naturale genialità. Per uno sguardo generale sulla ‘questione shakespeariana’ cf. Shapiro 2010 e Gibson 2005. Circa la questione della paternità delle opere di Shakespeare e l’attuale temperie critica cf. Kathman 2003, p. 621: «antiStratfordism has remained a fringe belief system»; Schoenbaum 1991, p. 450; Paster 1999, p. 38: «To ask me about the authorship question [...] is like asking a palaeontologist to debate a creationist’s account of the fossil record.»; Nelson 2004, pp. 149–51: "I do not know of a single professor of the 1,300-member Shakespeare Association of America who questions the identity of Shakespeare [...] antagonism to the authorship debate from within the profession is so great that it would be as difficult for a professed Oxfordian to be hired in the first place, much less gain tenure […]»; Carroll 2004, pp. 278–9: «I have never met anyone in an academic position like mine, in the Establishment, who entertained the slightest doubt as to Shakespeare’s authorship of the general body of plays attributed to him.»; Pendleton 1994, p. 21: «Shakespeareans sometimes take the position that to even engage the Oxfordian hypothesis is to give it a countenance it does not warrant.»; Sutherland & Watts 2000, p. 7: «There is, it should be noted, no academic Shakespearian of any standing who goes along with the Oxfordian theory.»; Gibson 2005, p. 30: «[...] most of the great Shakespearean scholars are to be found in the Stratfordian camp.» 6 179) che «the Greek drama (except for Euripides in some of his aspects) was necessarily inaccessible to the Elizabethans». D’altronde, erano marginali anche eventuali mediazioni derivanti da fonti secondarie quali potevano essere gli autori latini. Fra questi, Seneca per la tragedia era il medium più importante, avendo rappresentato per tutto il Rinascimento «the most available and prestigious ancient tragedian5». Polonio, nell’Amleto stesso, indica Seneca e Plauto quali primi modelli rispettivamente per la tragedia e la commedia6. La fase iniziale del teatro elisabettiano tradisce segni inequivocabili della presenza senecana. La prova esterna è fornita dal famoso attacco di Thomas Nashe del 1589 ad un drammaturgo popolare di cui denigra i metodi come caratteristici di coloro che busy themselves with the endeavours of art, that could scarcely Latinize their neck-verse if they should have need; yet English Seneca read by candle-light yields many good sentences, as “Blood is a beggar” and so forth; and if you entreat him fair in a frosty morning he will afford you whole Hamlets, I should say handfuls, of tragical speeches. But O grief! Tempus edax rerum. What’s that will last always? The sea exhaled by drops will in continuance be dry, and Seneca, let blood line by line and page by page, at length must needs die to our stage; which makes his famished followers [...] to intermeddle with Italian translations. Wherein how poorly they have plodded [...] let all indifferent gentlemen that have travelled in that tongue discern by their twopenny pamphlets. Thomas Nashe, 15897 Scritte all’ombra del principato neroniano, le tragedie di Seneca sono caratterizzate da una continua preoccupazione per il verificarsi di crimini orribili e abusi tirannici del potere. I suoi protagonisti sono spinti a uccidere da passioni dissennate come la rabbia, la lussuria, la gelosia, la brama di vendetta; la maggior parte di loro, a differenza della maggior parte degli eroi di Shakespeare, sono consapevolmente ingiusti, ma guidati da istinti che sembrano umanamente incontrollabili (fantasmi, Furie e divinità) e sono spesso maledetti dalle conseguenze di mali radicati nel loro passato; così, nonostante gli sforzi e la loro 5 6 7 Martindale 1990, p. 30. Amleto, 2.2.366: «Seneca cannot be too heavy, nor Plautus too light.» Nashe 1958, pp. 311-315. La famosa battuta di Nashe viene interpretata come indicazione del fatto che i drammaturghi elisabettiani avevano familiarità con le traduzioni contemporanee delle opere (Brower 1971, p. 148). Ma esistono anche interpretazioni alternative. Si veda, ad esempio, Hunter 1978, pp. 193-194. 7 caparbietà, sembrano più le vittime che gli agenti responsabili del proprio destino. Un’altra caratteristica tipica è il loro irresistibile spirito di affermazione del sé; possono esemplificare la nozione stoica di un’identità personale indistruttibile (come l’Ercole sul monte Eta), ma più spesso si tratta di una distorsione perversa di questo ideale (come nel Tieste e nella Medea). Gli eroi e le eroine tragiche di Seneca vedono i loro crimini come possibilità di espressione e imposizione del sé e svolgono questa individualità appassionata tramite monologhi e soliloqui lunghi e retoricamente molto elaborati. George Steiner (1961, pp. 20-21) scrive che i drammaturghi elisabettiani – infrangendo le unità aristoteliche di tempo e spazio, fecendo a meno dei Cori e combinando intrecci tragici a intrecci comici senza discriminazione 8 – si liberarono da ogni precetto redazionale di ascendenza neoclassica. Per fare ciò, si avvalsero di ogni strumento utile, senza rifiutare alcun elemento tratto dalla pratica e dall’esperienza: «saccheggiarono Seneca» e da lui presero la retorica, i fantasmi, gli aforismi morali, e il gusto dell’orrido e della vendetta sanguinosa; ma non le convenzioni austere e artificiose del teatro neoclassico. Shakespeare, secondo Steiner, oppose cioè allo spirito della tragedia greca una diversa concezione della forma tragica e una diversa tipologia di esecuzione, più consona ai tempi. A mio avviso però, la tragedia shakespeariana è molto più simile a quella greca che a quella latina9. Per quanto numerosi possano essere i ‘furti’ a Seneca, la somiglianza con la tragedia attica è ben superiore, perché concettuale. Simon Goldhill (1986), guardando alle tragedie greche non come ad opere isolate, a testi autonomi, ma come a parti di un discorso sociale più ampio che comprende la ritualità, la politica, la definizione dei ruoli sociali e civili (cittadino, marito, moglie, figlia, ecc.), sostiene che il teatro ha un posto centrale nella concettualizzazione ed enunciazione dell’ideologia civica di Atene. La tragedia non si 8 9 Su quest’ultimo punto è utile, a mio avviso, fare una precisazione. Benché molti studiosi, nell’intento di evidenziare le differenze fra il teatro greco classico e quello elisabettiano, facciano sovente richiamo alla mancanza di elementi propriamente ‘comici’ nel primo a differenza del secondo, io non credo che ciò sia del tutto vero. Nella tragedia attica vi sono numerosi episodi a carattere umoristico, utilizzati con intenti assolutamente seri. Solo per citare un caso, nel Filottete di Sofocle, l’improvvisa riapparizione di Ulisse (v. 974) è un chiaro esempio di umorismo in scena. La vera differenza non risiede nell’assenza o nella presenza di elementi comici all’interno dei drammi – d’altra parte, non è pur vero che le tetralogie attiche terminavano con un dramma satiresco? -, ma nello spazio, motivato dai diversi periodi storici, dedicato ad alcuni determinati aspetti. Kitto (1956, p. 225) scrive: «The essential difference between the Greek and the Elizabethan drama may be expressed in the formula Concentration, not Extension». Sul legame fra la drammaturgia shakespeariana e quella greca, cf. Barkan in De Grazia – Wells 2001, pp. 31-47; Martindale 1990, pp. 29-44. 8 limita a convalidare le norme della comunità, non è un monito moralistico contro le trasgressione; la tragedia è di per sé un discorso trasgressivo che chiama deliberatamente in causa tutte le istituzioni sociali, ivi inclusa quella della tragedia. Da qui il crescente interesse nei drammi di V secolo riguardo alle convenzioni teatrali: l’esame critico è inerente alla forma stessa della tragedia, e non nasce, come a volte si pretende di dire, con Euripide. Nell’epoca dell’ἐκκλησία democratica e della ῥητορική sofistica, la ‘teoria del linguaggio’ rappresenta un problema politico e ideologico; e una preoccupazione ricorrente della tragedia è quello di dimostrare il potere, l’ambiguità, l’artificiosità o la convenzionalità del linguaggio come sistema di segni. Tutto questo si ritrova in maniera quasi identica nel teatro di Shakespeare, non solo nei drammi storici (in cui questi elementi sono talmente evidenti che parlarne risulta scontato), ma anche nelle tragedie e nelle commedie. Nell’Amleto in particolare, l’ambiguità del linguaggio diventa strumento drammaturgico di estrema rilevanza. I drammaturghi attici hanno sondato, con le loro opere, il valore di verità di un mezzo caratterizzato da possibilità di manipolazione, capacità d’inganno e tavolta, inadeguatezza rispetto all’ampia gamma di significati: quasi nessuna frase in una tragedia può essere presa unicamente nel suo primo e più superficiale significato. Ogni parola pare circondata da tensioni e ambiguità e deve essere interpretata senza pregiudizi ideologici e personali basati su chi la propone e dai valori che questi incarna. Il dominio della tragedia è in ciò che si colloca oltre il controllo o, al più, che ne è ancora fuori: da qui l’esplorazione della violenza della sessualità, della follia, dell’illusione e dell’irrazionale, il lato oscuro dell’intelletto – magia, maledizioni, passioni – e il linguaggio dell’ambiguità, delle contraddizioni, e dell’incontro degli opposti. Ma anche questo è Shakespeare e, nella fattispecie, Amleto. Riporto dunque una lunga citazione di Nemi D’Agostino (1994, pp. 34-5), che descrive bene il senso di quanto ho cercato fin qui di esporre. «Ho avuto per le mani una ristampa diplomatica, in un carattere goticheggiante difficilissimo a decifrarsi, delle cosidette tragedie di Seneca, stampata a Londra nel 1581. Era così famosa nell’ambiente dei teatri, che il maligno Thomas Nashe insinuava che i suoi colleghi, compulsandola a lume di candela, ne ricavavano “molti Amleti”. È un’opera nota agli anglisti. Una vernice di stoicismo è spalmata su degli “oratori” che sembrano ispirati all’orrore che sarà stata la vita 9 a Roma sotto Nerone. T.S. Eliot li definì dei “freaks”, degli esempi bizzarri di dramma non teatrale. Nell’ulteriore adattamento dei traduttori elisabettiani, il pesante latino di Seneca diventa un curioso linguaggio tra medievale e manieristico. Ma più perdevo gli occhi su quella mostruosità epocale, più mi rendevo conto che quel libro somigliava al Socrate descritto dal suo innamorato Alcibiade nel Simposio: un goffo Sileno di legno, che si apre e rivela dentro di sé le immagini degli dei. Difatti, si tratta di una vera scelta, doppiamente adattata, della grande tragedia greca. Eschilo è riscritto nell’Agamennone, Sofocle rappresentato dall’Edipo, dall’Ercole Eteo (dalle stupende Trachinie) e dal Tieste; il resto, tranne l’Ottavia (che avrà pure insegnato qualcosa a chi cominciava a scrivere drammi storici) è calcato su Euripide: Ercole furente, Medea, Fedra, Fenicie e Troiane. Una crestomazia che ben riflette la diversa fortuna di quegli antichi nelle epoche di mezzo: parecchio Euripide, poco Sofocle e quasi niente Eschilo. Come fanno anche le traduzioni più brutte e ritoccate, quei rifacimenti elisabettiani riuscivano a dare una qualche lontana idea degli originali. La tragedia greca era lì, agonizzante con solo qualche segno di vita, ma abbastanza per dare a un genio l’idea del suo antico splendore. Shakespeare compulsò certamente a lume di candela, difatti toni e modi dell’Agamennone si ritrovano nel Macbeth, una delle più «greche» e originali delle sue tragedie. Shakespeare aveva pochissimo greco, ma quel romano di Cordoba, pessimo scrittore di allucinanti e allucinate tragedie, ebbe il grande merito di accostare Shakespeare ai Greci». Prescindendo da analogie concettuali, si continua a ritenere pressocché impossibile che Shakespeare avesse letto i testi dei classici greci in lingua originale e che di conseguenza non avesse con questi alcuna confidenza – Thomson (1966, p. 238.) icasticamente scrive «Greek is out of the question». Diversamente, come già detto, non si nega a quella latina (Ovidio, oltre che Seneca, in particolar modo10) un importante ruolo per la genesi dei testi shakespeariani. L’importanza che hanno rivestito le letture nella produzione del drammaturgo inglese non è più da tempo oggetto di dibattito. Con il termine ‘lettura’, naturalmente, non si fa riferimento ad una generica e superficiale consultazione, ma ad una ben più ampia varietà di interazioni11. Ad eccezione di qualche strenuo ‘negazionista’, la maggior parte degli studiosi concorda oggi nel ritenere Shakespeare un avido lettore, che 10 Cf. Miola 1992. 11 Cf. Miola 2000, p. 168: «The term ‘reading,’ of course, covers a wide variety of interactions». 10 attingeva manibus plenis ai testi altrui per la creazione e redazione delle proprie opere. Scrive Robert Miola (2000, p. 2.): «Shakespeare created much of his art from his reading», dove con ‘reading’ si intendono sia i testi dei suoi contemporanei che quelli di scrittori più antichi. Per quanto riguarda la letteratura greca ci si limita sostanzialmente ad evidenziare coincidenze e parallelismi tipologici, negando un vero e proprio influsso derivante dalla lettura attiva dei testi. Su queste basi teoriche sono da leggere anche i lavori di Adrian Poole (1987)12, Humphrey D. F. Kitto (1956) e Gilbert Murray (1914), che hanno cercato di evidenziare tendenze simili fra la drammaturgia greca e quella shakespeariana senza presupporne rapporti diretti. Una visione differente mostrano in proposito Louise Schleiner (1990) ed Emris Jones (1997). Entrambi notano che all’epoca erano disponibili svariate traduzioni e commentari in latino di alcuni drammi attici. L’edizione Basel del 1555 di Eschilo riportava la traduzione in latino di Jean de Saint-Ravy (Sanravius) di Montpellier che, per quanto inaccurata, era ampiamente diffusa nel sedicesimo secolo. Ancora più diffuse erano poi le traduzioni in latino di Euripide. Nel 1567, a Ginevra, venne perfino pubblicata un’antologia di traduzioni di opere scelte dei tre tragediografi attici, redatte da filologi di notevole spessore quali Erasmo, Buchanan e Camerarius il Vecchio. L’edizione era a cura di Henri Estienne, e l’opera si intitolava Tragoediae selectae Aeschyli, Sophoclis, Euripidis. Cum duplici interpretatione Latina, una ad verbum, altera carmine. Del 1527 era invece la prima traduzione in latino di Alessandro Pazzi de’ Medici dell’Elettra di Sofocle a cui fece seguito nel 1556 quella di Coriolano Martirano. Tali traduzioni, secondo gli studiosi sopra citati, sarebbero state delle fonti a cui Shakespeare avrebbe potuto attingere senza problematiche relative ad eventuali carenze linguistiche. Secondo la Schleiner, Shakespeare sarebbe stato agevolato nel reperimento di tali testi dalla collaborazione, nel biennio 1598-99, con Ben Jonson che fu, assieme a lui, drammaturgo per quell’anno nella compagnia dei ‘Chamberlain’s Men’. Jonson infatti possedeva una biblioteca personale estremamente ben fornita13 e benché i dati relativi ad essa siano oggi solo parziali, essendo i cataloghi andati in gran parte distrutti a causa di un incendio nel 1623, si hanno ancora delle 12 Adrian Poole evidenzia il vasto range di ruoli e significati che può assumere la tragedia in tempi e luoghi differenti, e offre una interpretazione della tragedia greca attraverso un parallelo con quella shakespeariana. «Greek and Shakespearean tragedy [. . .] affirms with savage jubilation that man’s state is diverse, fluid, and unfounded» (p. 2). Poole propone quindi una lettura del Re Lear in parallelo all’Edipo a Colono e alle Baccanti, di Amleto in parallelo all’Edipo re e del Macbeth in parallelo all’Orestea. 13 Evans 1987. 11 attestazioni che rivelano quali fossero alcuni dei testi in suo possesso. Fra questi, appaiono menzionati un’antologia bilingue greco-latino del 1614 – pubblicata dall’editore Pierre de la Roviere e che conteneva una serie di opere fra cui dei drammi di Euripide e la versione di Saint-Ravy dell’Orestea – un’edizione del 1581 delle tragedie di Euripide in latino, e almeno quattro opere solo in greco, fra cui uno Scholia in septem Euripidis Tragoedias (Venezia, 1534). Queste ultime attesterebbero la capacità da parte di Jonson di consultare i testi direttamente in lingua originale. Seppure non si è in grado di determinare quali specifiche opere in latino possedesse Jonson all’epoca dei ‘Chamberlain’s Men’, è tuttavia plausibile che non ne fosse del tutto sprovvisto e che, ad esempio, potesse avere la traduzione del Sanravius dell’Orestea. Poiché il prestito di libri fra drammaturghi e studiosi era abitudine ampiamente praticata al tempo, Shakespeare avrebbe potuto avvalersene durante l’anno di collaborazione con Jonson che risulta di pochissimo anteriore, se non addirittura contemporanea, alla stesura dell’Amleto. In merito a quest’ultimo, Louise Schleiner continua suggerendo che Shakespeare avesse potuto assistere nel 1599 alla rappresentazione di due drammi dell’‘Admiral Company’, intitolati Agamemnon ed Orestes’ Furies (o Orestes Furious)14, non pervenuti fino ai giorni nostri, di Thomas Dekker e Henry Chettle, e che ne avesse tratto ispirazione per la produzione del suo Amleto, notando le affinità fra la storia di Oreste e la leggenda del principe danese. I titoli delle opere dell’‘Admiral’ ricalcano la divisione in due parti dell’Orestea del Sanravius e, plausibilmente, ne indicano la ripresa della trama. Thomas Dekker d’altra parte, vantando la sua conoscenza del greco, ridicolizzava e biasimava i suoi contemporanei che si limitavano a leggere i testi greci in traduzione: O you booksellers (that are factors to the liberal sciences) over whose stalls this drones do daily fly humming, let Homer, Hesiod, Euripides and some other mad-Greeks with a band of the Latins lie like musket shot in their way when these Goths and Getes set upon you in your paper fortifications. It is the only cannon upon whose mouth they dare not venture; none but the English will take their parts. Thomas Dekker, 160315 14 I drammi risultano in un elenco nel diario dell’impresario teatrale inglese Philip Henslowe. 15 Dekker 1968, pp. 29-30. 12 Scrive in conclusione la Schleiner che «[...] it is quite plausible that Shakespeare saw the 1599 Agamemnon and Orestes’ Furies, in all probability a redaction of the two-play Oresteia current among readers of Latin; he might even have become interested enough to look through scenes or passages of the Choephori (which was complete in the Latin text of the supposed Agememnon) and of Euripides’s Orestes. While writing Hamlet, he would have wanted to learn how other authors besides Caxton had told of Orestes: he must have recalled Caxton’s intermingling of the Pyrrhus and Orestes father-revenge stories, important to Hamlet in the Pyrrhus material of the First Player scene, and perhaps Caxton’s statement that writers left different versions of these events16». 1. 3 Il greco in Shakespeare Nel già citato lavoro di Thomson (1966), con riferimento a due episodi del Tito Andronico (1.1.135-39; 1.1.384-87), l’autore dichiara un’origine non autentica dell’opera, poiché entrambi i passi in questione rivelerebbero la conoscenza, da parte dell’autore, sia dell’Ecuba euripidea che dell’Aiace sofocleo. Le Metamorfosi di Ovidio infatti non giustificherebbero il riferimento nel Tito alla tenda di Polimestore in cui avvenne l’accecamento di lui da parte della regina troiana (dato presente, invece, nella tragedia di Euripide, ai vv. 57-58), né il trattamento di Ulisse «as a chivalrous foe 17». Diversamente, Charles e Michelle Martindale (1990), accennano alla prima questione come ad uno «slender peg» (p. 44), un esile appiglio. Thomson cita anche altri passi di altre opere per suggerire la lettura in greco di Luciano e Omero. Degno di nota è il dibattito circa l’autenticità dei sonetti 153 e 154. I due trattano lo stesso argomento: Cupido si addormenta nei pressi di un laghetto e viene scoperto da un gruppo di vergini devote alla casta Diana che gli rubano il brando di fuoco che provoca amore, andandolo a raffreddare in uno stagno vicino. 16 Schleiner 1990, pp. 44-45. L’opera di Caxton a cui si fa riferimento è la traduzione quattrocentesca del romanzo cavalleresco francese di Raoul Lefevre, Recuyell of the Historyes of Troye, o Troy book, che sarebbe stata la fonte per la composizione del resoconto della morte di Priamo per mano di Pirro descritta nell’Amleto. 17 Thomson 1966, pp. 57-58. 13 The little love-god lying once asleep, Laid by his side his heart-inflaming brand, Whilst many nymphs, that vowed chaste life to keep, Came tripping by; but in her maiden hand The fairest votary took up that fire Which many legions of true hearts had warmed; And so the general of hot desire Was, sleeping, by a virgin hand disarmed. This brand she quenched in a cool well by, Which from Love’s fire took heat perpetual, Growing a bath and healthful remedy, For men diseased; but I, my mistress’ thrall, Came there for cure, and this by that I prove: Love’s fire heats water, water cools not love. Son. 15418 Quasi all’unanimità i filologi ammettono per questi come fonte originaria un epigramma greco di Mariano, autore dei V-VI secolo d.C, presente nell’Antologia Palatina. Un rapido confronto del sonetto 154 con l’epigramma in questione, non può che rivelare le evidenti affinità: τᾷδ᾽ ὑπὸ τὰς πλατάνους ἁπαλῷ τετρυμένος ὕπνῳ εὗδεν Ἔρως, Νύμφαις λαμπάδα παρθέμενος. νύμφαι δ᾽ ἀλλήλῃσι, τί μέλλομεν; αἴθε δὲ τούτῳ σβέσσαμεν, εἶπον, ‘ ὁμοῦ πῦρ κραδίης μερόπων.’ λαμπὰς δ᾽ ὡς ἔφλεξε καὶ ὕδατα, θερμὸν ἐκεῖθεν νύμφαι Ἐρωτιάδες λουτροχοεῦσιν ὕδωρ. AP IX, 627 Le analogie sono così lampanti che, se si ammette l’autenticità dei due sonetti, bisogna di conseguenza ammetterne la discendenza diretta dal greco o, come propone Hutton (1914), 18 L’edizione usata è quella a cura di Katherine Duncan-Jones, del 1997, per la «Arden Shakespeare». 14 l’esistenza di una qualche fonte a noi ancora ignota. Nel primo caso però vi è il problema dell’assenza di traduzioni: le uniche disponibili in latino erano del 1556 e del 1603, ma la prima non può essere stata usata per incongruenze testuali mentre la seconda presenta inconciliabilità di carattere cronologico19. L’autore dunque avrebbe dovuto leggere i testi necessariamente in lingua greca. Un altro aspetto della questione è costituito dai neologismi ellenizzanti presenti nelle opere shakespeariane e dall’uso di nomi greci per i personaggi dei drammi. Il caso più noto, per quanto riguarda il lessico, è quello del termine academe, che appare per la prima volta nella letteratura inglese in Pene d’Amor Perdute (1.1.12-14): Our court shall be a little academe, Still and contemplative in living art Per quanto riguarda i nomi grecizzanti invece, si fa spesso riferimento a quelli di Laerte ed Ofelia, personaggi dell’Amleto. William Jones (1960, pp. 9-10.) scrive che l’adozione del nome Laerte segnala il tema centrale della vicenda dell’Amleto, ovvero il rapporto padre-figlio: «careful check of Hamlet and the Odyssey reveals even more valid reasons for the use of the name Laertes. At the beginning of Hamlet, the prince sits brooding over the wedding feast. At the beginning of the Odyssey, Telemachus sits brooding among the wooers to his mother. To both sons comes news of a supernatural visitation: Hamlet hears of the Ghost, Telemachus hears from Athena cum Mentor. Both supernatural agents demand that the sons take action to restore their fathers to their rightful positions, one to the crown of Ithaca, the other to eternal rest. And in both Hamlet and the Odyssey it is the sons’ responses to these supernatural demands that bring about the remaining action». Così, anche il nome di Ofelia, dal greco ὀφείλω, non sarebbe una scelta casuale. Volendo trarre delle conslusioni da quanto qui velocemente passato in rassegna, mancano forse delle prove sufficienti a dimostrare che Shakespeare conoscesse talmente bene il greco da poter approcciare i drammi attici direttamente in lingua originale ma, d’altro canto, neppure ve ne sono a sostegno del contrario. La letteratura latina rappresentava la 19 La datazione dei sonetto si aggira tra gli anni 1592-1598. 15 principale fonte d’ispirazione per gli scrittori del Rinascimento, ma circolavano numerose traduzioni latine dei classici greci: l’ipotesi secondo cui si potesse usufruire di quelle, in mancanza di competenze linguistiche appropriate in greco, non è da rigettare a priori. Pare tuttavia evidente l’impossibilità di valutare a quali livelli fosse il «lesse Greeke» di cui scrive Jonson. Tale argomento risulta ancor più vero se si considera che neppure per il «Latine» sembrerebbe possibile accogliere passivamente la determinazione di «small» che ne viene data. Certo è che Shakespeare non sarebbe stato il primo a veder sminuite le proprie conoscenze a seguito della circolazione di uno stringato e ambiguo aforisma decontestualizzato e poi passato a sintetizzarne il ‘sapere’: il caso di Petrarca, «sine litteris virum bonum», come lo definirono i veneziani Leonardo Dandolo, Tommaso Talenti, Zaccaria Contarini e il reggiano Guido di Bagnolo, potrebbe a tal proposito far riflettere. Piuttosto dunque che ricercare affinità di carattere meramente linguistico fra drammaturgia shakespeariana e letteratura greca, allo stato dell’arte, credo sia più opportuno ricercare, almeno in prima istanza, affinità tipologiche, tematiche e concettuali. D’altronde, le fonti generalmente accettate per l’Amleto giustificano, se non completamente almeno in larga misura, le convergenze con i drammi attici, essendone esse stesse portatrici, senza implicare la necessità d’interazioni dirette fra Shakespeare e i Greci. In ultimo, credo che sapere se Shakespeare avesse letto o meno i suoi autori latini preferiti in originale o in traduzione e domandarsi se e quanto conoscesse il greco conti molto meno rispetto al capire cosa abbia effettivamente incontrato nelle sue letture e di come poi ne abbia fatto uso. In aggiunta a una buona selezione di traduzioni, non bisogna dimenticare che Shakespeare ebbe accesso al mondo antico anche attraverso compendi, raccolte, antologie, dizionari, enciclopedie e manuali che organizzavano quello che ogni persona colta dell’epoca avrebbe dovuto conoscere dei Greci e dei Romani: «the classical presence was ubiquitous20». E altrettanto importante, come quello che Shakespeare lesse sul mondo antico, fu quello che vide e sentì su di esso nella città in cui visse e lavorò come drammaturgo, Londra. Nel capitolo seguente passerò in rassegna le tragedie attiche relative al mito degli Atridi e la tragedia di Amleto, segnando per entrambi i relativi antecedenti storici. L’analisi delle similarità fra le vicende assumerà carattere principalmente ‘ontologico’, in modo tale da 20 Miola 1983, p. 9. 16 evidenziare caratteristiche simili a livello di plot. 17 2. ORESTE E AMLETO FRA MITO, TRAGEDIA E LEGGENDA Prima di entrare nello specifico tramite una comparazione testuale delle opere, propongo uno sguardo d’insieme alle variazioni narrative a cui sono state sottposte le vicende di Oreste e Amleto nel tempo, in modo tale da rilevare quali fossero le similarità sussistenti fra le storie dei due personaggi, prima che Shakespeare ponesse mano alla composizione del suo dramma. 2. 1 Oreste nella letteratura greca La figura di Oreste riveste un ruolo paradigmatico nella drammaturgia attica di V secolo. Appare per la prima volta nella letteratura all’interno dell’Iliade (IX, 142), ma è nell’Odissea che iniziano a esserne meglio delineati i tratti: Oreste diviene una figura ‘esemplare’. Nestore lo indica a Telemaco come esempio di comportamento da seguire in qualità di giovane figlio di re, ingiustamente spodestato: αὐτὰρ ἐπὴν δὴ ταῦτα τελευτήσῃς τε καὶ ἕρξῃς, φράζεσθαι δὴ ἔπειτα κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν, ὅππως κε μνηστῆρας ἐνὶ μεγάροισι τεοῖσι κτείνῃς ἠὲ δόλῳ ἢ ἀμφαδόν· οὐδέ τί σε χρὴ νηπιάας ὀχέειν, ἐπεὶ οὐκέτι τηλίκος ἐσσί. ἦ οὐκ ἀΐεις οἷον κλέος ἔλλαβε δῖος Ὀρέστης πάντας ἐπ’ ἀνθρώπους, ἐπεὶ ἔκτανε πατροφονῆα, Αἴγισθον δολόμητιν, ὅ οἱ πατέρα κλυτὸν ἔκτα; καὶ σύ, φίλος, μάλα γάρ σ’ ὁρόω καλόν τε μέγαν τε, ἄλκιμος ἔσσ’, ἵνα τίς σε καὶ ὀψιγόνων ἐῢ εἴπῃ. (Od. I, 293-302) Questo non è l’unico riferimento, le menzioni sono numerose 21. D’altra parte le analogie fra 21 In totale sono cinque le attestazioni di Oreste all’interno dell’Odissea (I, 30, 40, 298; III, 306; IV, 546; XI, 18 la casa degli Atridi e quella di Ulisse sono di per loro molteplici 22: sia Egisto che i Proci tentano d’impossessarsi della casa del re insidiando la donna di lui, mentre questi è via per la guerra; il re, di rientro in patria, è costretto a fronteggiare degli usurpatori violenti; infine, entrambi, Telemaco e Oreste, vengono ingiustamenti privati del loro legittimo diritto di successione al trono. Quello che qui può interessare maggiormente è il fatto che, nell’Odissea, venga fatta menzione dell’uccisione di Egisto, ma che non si parli della morte di Clitemestra per mano del figlio. Di questo episodio si trova per la prima volta indicazione in Esiodo23, per poi passare a Stesicoro, e, da questi, plausibilmente, a Pindaro e a Eschilo. Non è chiaro se la Pitica XI sia anteriore o successiva alla trilogia eschilea; con molta probabilità le opere hanno una datazione assai vicina. Eschilo presentò la sua trilogia alle Grandi Dionisie del 458. Essa era composta dalle tre tragedie Agamennone, Coefore ed Eumenidi e dal dramma satiresco Proteo, andato perduto. La storia si dipana, tramite la convenzionale scansione tripartita, lungo un periodo non inferiore ai dieci anni, narrando le vicende cardine della casa degli Atridi dal ritorno in patria di Agamennone, dopo dieci anni d’assedio alla rocca di Troia, fino alla definitiva assoluzione di Oreste dalla colpa di matricidio. L’argomento cardine diviene, come spesso accade in Eschilo, il conflitto fra volontà e destino, libero arbitrio e divinità, e il motore della vicenda è rappresentato dal tema della vendetta e della colpa ereditaria. Più che mera narrazione di eventi, il mito in scena è mezzo di sublimazione del reale, strumento educativo (nell’accezione etimologica del termine) e di conseguenza catartico. La complessità della trilogia non è da rintracciare nell’evolversi della trama e neppure nella rappresentazione psicologica dei personaggi. La forza del dramma eschileo risiede nella trama intricata di cause ed effetti, commenti e giudizi, spiegazioni e rimandi che permeano la scena. La storia, nelle sue linee essenziali, è oltremodo semplice: nella prima tragedia, Agamennone, dopo essere stato accolto trinfalmente dal popolo di Argo 24 per il ritorno da Troia, viene ucciso assieme alla principessa troiana Cassandra, suo ‘bottino di guerra’, dalla 461). 22 Per uno studio sulla presenza della vicenda degli Atridi all’interno dell’Odissea, cf. D’Arms-Hulley (1946). 23 Hes., fr. 23a (M-W), 27-29. 24 Conviene ricordare che nella mitologia arcaica Agamennone era re di Sparta, non di Argo. Lo spostamento ad Argo della vicenda rappresenta un tipico espediente eschileo che intende attualizzare il mito nell’Atene dei suoi giorni. 19 moglie di lui, Clitemestra, e da Egisto, suo cugino, divenuto amante della donna. I due, dopo il regicidio, si pongono al comando della città. Nel dramma successivo, le Coefore, ha propriamente inizio la vicenda di Oreste: costui torna ad Argo dopo un esilio forzato durato circa dieci anni, accompagnato dall’amico Pilade; ricongiuntosi alla sorella Elettra, su imposizione di Apollo vendica la morte del padre, uccidendo sia Egisto che Clitemestra. Il matricidio però lo macchia di una colpa tremenda e il dramma si conclude con la fuga di Oreste che vede approssimarsi contro di lui le Erinni della madre. Nell’ultima tragedia, Oreste, ancora perseguitato dalle Erinni, dopo essersi assicurato la protezione di Apollo a Delfi, si reca ad Atene dove viene istituita un’asseblea di cittadini, per volere di Atena, che dovranno deliberare sulla sua sorte25. I voti degli uomini si rivelano equamente distribuiti fra assoluzione e condanna e solo il voto aggiuntivo di Atena riesce a sancire la fine delle pene di Oreste. Le Erinni, pacificate infine con la città, si trasformano in divinità benigne, le Eumenidi appunto, a cui viene attribuito un culto ad Atene. Sofocle nell’Elettra26 riprende sostanzialmente la trama delle Coefore: Oreste che vendica la morte del padre uccidendone gli assassini. La differenza principale rispetto alla narrazione eschilea risiede nel ruolo di spicco che viene ad assumere la figura di Elettra, la quale non si ricongiunge al fratello se non nel finale dell’opera e che mostra un carattere ben più forte rispetto a quello della versione precedente. Tratta in inganno anche lei come i due regnanti dalla falsa notizia, propalata ad arte, della morte di Oreste, disperata, decide di vendicarsi da sé. Quando Oreste, in realtà vivo e giunto in città assieme a Pilade e al Pedagogo, le svela l’inganno, Elettra lascia al fratello l’esecuzione della vendetta. Euripide narra le vicende della casa di Agamennone in due tragedie: l’Oreste e l’Elettra27. Entrambi i drammi stravolgono le narrazioni precedenti, pur mantenendo integro il motivo della vendetta come motore primo della vicenda, aggiungendo elementi drammaturgici estranei sia ad Eschilo che a Sofocle. Nell’Elettra, Oreste torna in patria dopo un esilio decennale in Focide, dove era stato inviato dal vecchio aio di Agamennone, per proteggerlo dagli assassini del re, e trova la sorella, sposa di un umile ma virtuoso 25 Nelle Eumenidi appare chiaro come le unità aristoteliche di tempo e spazio fossero in realtà una mera semplificazione e generalizzazione delle convenzioni drammaturgiche; l’aver assegnato per troppo tempo un carattere perentorio alle categorie di cui parla Aristotele ha rappresentato a lungo un ulteriore ostacolo allo studio comparato del teatro greco e di quello elisabettiano. 26 La datazione è incerta. Probabilmente ascrivibile al 418 a.C.. 27 Anche delle tragedie di Euripide la datazione è incerta. Per quanto riguarda l’Elettra, è all’incirca contemporanea dell’omonima sofoclea, forse del 417 a.C.. 20 contandino, che vive in campagna. Inizialmente in incognito, viene riconosciuto dal vecchio aio e, con Elettra, progetta il duplice omicidio. Prima si procede a quello di Egisto, assassinato mentre compie un sacrificio, e poi a quello della madre, mandata a chiamare da Elettra con l’inganno, facendole credere di aver partorito. Subito dopo il matricidio i due giovani sono presi dal rimorso ma l’intervento ex machina dei Dioscuri chiarisce loro che la vendetta era imposizione di Apollo e che per questo era ineludibile, e spiega inoltre l’evolversi successivo degli eventi. Il dramma si conclude con la partenza dei fratelli da Argo, costretti nuovamente a separarsi, questa volta però, per sempre. Nell’Oreste la trama si complica incredibilmente. Il matricidio è avvenuto. Oreste, reso folle dalle Erinni della madre, attende con Elettra l’esito del giudizio del popolo di Argo nei loro confronti riguardo all’accusa di matricidio e regicidio: se colpevoli saranno meritevoli di morte. L’aiuto che sperano di ottenere da Menelao, fratello di Agamennone, si rivela fallace e vengono condannati dal popolo sobillato da Tindaro, padre di Clitemestra, alla pena capitale. Viene tuttavia loro concessa la possibilità di darsi la morte per propria mano. Con l’aiuto di Pilade tramano per avere salva la vita: uccidono Elena, moglie di Menelao e sorella di Clitemestra, e prendono in ostaggio Ermione, la figlia dei primi due. Proprio quando hanno in scacco gli Argivi e stanno per dare alle fiamme la reggia della città, Apollo appare come deus ex machina e dà loro una serie di istruzioni il cui effetto è quello di cancellare tutto ciò che è accaduto, inclusa la morte di Elena: ingiunge infine ad Oreste di sposare Ermione e di recarsi ad Atene per il giudizio definitivo. Lo scarto più evidente nella trattazione del mito da parte dei tre tragediografi attici risiede nella diversità relativa allo spessore psicologico dei personaggi e alla complessità della trama, più ampi in Sofocle e, soprattutto, Euripide rispetto ad Eschilo. Ma la struttura portante della trilogia originaria, vendetta-matricidio-persecuzione-assoluzione, continua a rappresentare la cornice entro cui si muovono anche i due più giovani drammaturghi. 2. 2 Amleto in Saxo Grammaticus e Belleforest Prima che Shakespeare portasse in scena la figura di Amleto, imprimendola per sempre nell’immaginario collettivo come icona del ‘dubbio’ e della ‘vendetta’, questa aveva già da tempo fatto la sua comparsa non solo nei teatri inglesi di XVI secolo, ma anche in altre 21 tipologie di opere letterarie. Benché ci sia accordo nel ritenere che non l’abbia usata come fonte principale per la redazione della propria opera, la leggenda del principe danese, così come viene trattata da Shakespeare, viene generalmente ricondotta alla storia narrata nei libri III e IV delle Historiae Danicae di Saxo Grammaticus, scritte alla fine del XII secolo, e pubblicate la prima volta in volume nel 1514 con il titolo di Danorum Regum heroumque Historiae. Shakespeare adottò probabilmente la versione della leggenda narrata da François de Belleforest, pubblicata nella raccolta di racconti cavallereschi intitolata Histoires Tragiques nel 1570 (e seguita da molte edizioni successive). Non sembra esistano traduzioni inglesi della storia di Amleto anteriori al 1608. La narrazione di Saxo prendeva avvio ricordando come il padre di Amleto, Horvendil, dopo aver sconfitto il re di Norvegia in duello, venisse assassinato dal fratello Fengo, che aveva preso poi in moglie la vedova di lui, Gerutha. A differenza della tragedia di Shakespeare, lo zio di Amleto non fa mistero del suo omicidio, giustificandolo con i maltrattamenti del re alla moglie. In realtà il suo scopo era unicamente quello di prendersi regno e moglie del fratello. Amleto intende vendicare l’assassinio, ma per evitare che qualcuno sospetti dei suoi piani, si finge pazzo, inizia a comportarsi come uno sciocco e a parlare in modo sibillino. Proprio i suoi discorsi, che sono una miscela di sagacia e follia insieme, rendono Fengo inquieto e sospettoso tanto che, temendo l’inganno, si propone di testare la veridicità dell’instabilità mentale del nipote. Vengono allora messi in atto tre tentativi di smascherare Amleto ma tutti e tre falliscono. In primo luogo si cerca di sorprenderlo in atteggiamenti intimi con una ragazza che fa da esca, parandoglisi sul cammino in una boscaglia. Ma Amleto, intuendo il tranello, si allea con la ragazza e ne ottiene il silenzio e i suoi favori. Successivamente, un amico di Fengo suggerisce di mettere nella stessa stanza Amleto e sua madre, e spiare cosa lui le dica: ma anche in questo caso Amleto scopre l’inganno e uccide la spia, ne smembra il corpo e lo dà come mangime ai maiali e quando torna dalla madre l’accusa amaramente di aver dimenticato il suo primo marito e di averne sposato il fratello. A questo punto, anche senza prove della sanità mentale del nipote, Fengo invia Amleto in Gran Bretagna assieme a due servitori che recano una lettera segreta al re inglese in cui gli si richiede la morte del giovane. Quest’ultimo intercetta la missiva, sostituisce il nome dei suoi compagni al suo e aggiunge l’invito al re di concedergli in sposa la figlia. Dopo l’esilio in Gran Bretagna, Amleto torna 22 in Danimarca e trova in corso le sue esequie. Riuscito ad entrare nel palazzo, uccide Fengo nel suo letto, ottenendo così la vendetta attesa da tempo per l’assassinio del padre. Incerto della reazione del popolo, esce con coraggio dal palazzo a fare un discorso auto-apologetico28: [1] Me tam iustae vindictae ministrum, tam piae ultionis aemulum, patricio suscipite spiritu, debito prosequimini cultu, benigno refovete contuitu. [2] Ego patriae probrum dilui, matris ignominiam exstinxi, tyrannidem repuli, parricidam oppressi, insidiosam patrui manum mutuis insidiis elusi, cuius, si superesset, in dies scelera percrebrescerent. [3] Dolebam et patris et patriae iniuriam; illum exstinxi, vobis atrociter et supra quam viros decuerat imperantem. [4] Recognoscite beneficium, veneramini ingenium meum, regnum, si merui, date; habetis tanti auctorem muneris, paternae potestatis heredem non degenerem, non parricidam, sed legitimum regni successorem et pium noxae parricidalis ultorem. [5] Debetis mihi recuperatum libertatis beneficium, exclusum afflictantis imperium, ademptum oppressoris iugum, excussum parricidae dominium, calcatum tyrannidis sceptrum. [6] Ego servitute vos exui, indui libertate, restitui culmen, gloriam reparavi, tyrannum sustuli, carnificem triumphavi. [7] Praemium penes vos est; ipsi meritum nostis, a vestra merces virtute requiritur. Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, 4.1.7 Amleto viene eletto re e ne vengono narrate altre avventure prima che questi trovi la morte in battaglia. Le somiglianze con la tragedia di Shakespeare sono molteplici: la storia del fratricidio, l’usurpazione e l’incesto; la finta pazzia e il fine uso del linguaggio come strategie di una lenta vendetta. I tre episodi-nucleo vengono sviluppati e rimaneggiati da Shakespeare, soprattutto la parte relativa ad Amleto e la ragazza subisce molte revisioni. L’anonima ragazza della narrazione di Saxo diventa infatti Ofelia, colei che Amleto ama eppure maltratta. L’amico del re che fa da spia nel secondo tentativo di smascherare Amleto 28 Anche nell’Oreste di Euripide il protagonista si difende di persona davanti al popolo, usando quasi gli stessi argomenti. Eur. Or. 932-42: «ἔλεξε δ᾽: ὦ γῆν Ἰνάχου κεκτημένοι, / πάλαι Πελασγοί, Δαναΐδαι δεύτερον, / ὑμῖν ἀμύνων οὐδὲν ἧσσον ἢ πατρὶ / ἔκτεινα μητέρ᾽. εἰ γὰρ ἀρσένων φόνος / ἔσται γυναιξὶν ὅσιος, οὐ φθάνοιτ᾽ ἔτ᾽ ἂν / θνῄσκοντες, ἢ γυναιξὶ δουλεύειν χρεών: / τοὐναντίον δὲ δράσετ᾽ ἢ δρᾶσαι χρεών. / νῦν μὲν γὰρ ἡ προδοῦσα λέκτρ᾽ ἐμοῦ πατρὸς / τέθνηκεν: εἰ δὲ δὴ κατακτενεῖτ᾽ ἐμέ, / ὁ νόμος ἀνεῖται, κοὐ φθάνοι θνῄσκων τις ἄν: / ὡς τῆς γε τόλμης οὐ σπάνις γενήσεται.» 23 diventa in Shakespeare Polonio, ciambellano di corte e padre di Ofelia, trafitto dal principe mentre era nascosto dietro a una tenda nella camera di Gertrude. E i due sventurati accompagnatori del principe in Inghilterra sono in Shakespeare Rosencrantz e Guilderstern. Un altro particolare è che la storia di Saxo ha luogo nello Jutland, così come quella di Shakespeare al castello di Elsinore, che altro non è che Helsingør, città danese, dove nel Cinquecento era stato costruito il castello presso cui le navi mercantili (molte inglesi) si fermavano a pagare il dazio di ingresso nel Baltico. Quel castello era certamente noto nella Londra di Shakespeare. La differenza sostanziale è che con Shakespeare, Amleto diventa il moderno eroe del dubbio e dell’incertezza. Vuole e non vuole vendicarsi. Più intelligente e sensibile di altri, egli è corroso e paralizzato dal suo stesso vortice di pensieri. Finge la pazzia, ma poi si fa misteriosamente irretire dalla sua finzione. L’Amleto di Saxo sa invece unire la forza brutale e la decisione all’astuzia e al calcolo paziente. La sua lentezza è tutta studiata, ed egli attua la sua vendetta senza esitare, punto per punto, fino a diventare re. Quella di Shakespeare è una tragedia: Amleto non diventa re; lui e tutti i suoi rivali muoiono. Per Saxo la storia della Danimarca è la storia dei suoi re legittimi. L’acclamazione finale da parte del popolo sancisce questa legittimità anche per il suo Amleto. Nella sua traduzione e commento al testo di Saxo, William Hansen (1983) indica che l’autore medievale mescolò elementi della tradizione orale scandinava ad elementi letterari e a deliberate eco storiche. Secondo Hansen, Saxo si avvalse dell’opera di Valerio Massimo per plasmare il suo dettato, sulla scorta della narrazione di questi della vicenda del romano Lucio Giunio Bruto, anch’egli fintosi pazzo per vendicare la morte del padre, assassinato da Tarquinio il Superbo. Ma la leggenda di Amleto trova riprese anche nell’Edda in prosa29, in un brano del poeta Snæbjörn databile al 980 circa, e nell’Ambales Saga islandese30. Per quanto riguarda la prima, Gilbert Murray (1914) evidenzia che nel 29 La cosiddetta Edda in prosa è un manuale di versificazione destinato agli scaldi e scritto da Snorri Sturluson attorno al 1220-1230. Essa rappresenta un commento in prosa, sotto forma di racconti dialogati, a numerose strofe di poemi facenti parte della cosiddetta Edda poetica, di argomento sia mitico sia eroico. L’autore attinge al patrimonio antico germanico e lo commenta in quanto materia che i poeti a lui contemporanei, gli scaldi, dovevono conoscere. Il testo venne intitolato da Snorri stesso Edda. Per quanto riguarda la genesi dei carmi le conoscenze attuali sono approssimative. Attraverso l’analisi della lingua i filologi hanno ipotizzato che essi siano stati composti tra il IX e il XII sec. 30 Nella sua forma attuale la Saga è una produzione moderna, appartenente al XVI o forse all’inizio del XVII secolo. Il valore del testo dipende principalmente dalla possibilità che, soprattutto nei capitoli iniziali, si possano rintracciare elementi appartenenti alla leggenda di Amleto precedente alla versione di 24 carme in questione viene messa in luce l’abilità di Amlóði di creare enigmi. Ad ogni modo, come già anticipato, oggi si ritiene che Shakespeare non abbia letto le Historiae di Saxo, ma la versione della leggenda che ne diede Belleforest nelle Histoires Tragiques. L’autore francese si discosta in due punti dalla versione di Saxo: introduce la relazione anteriore all’assassinio del padre di Amleto fra Gerutha e Fengo e ispessisce il ruolo di lei nel piano di vendetta di Amleto sull’usurpatore. Quest’ultimo elemento non è presente in Shakespeare. 2. 3 The Spanish Tragedy, Ur-Hamlet e Hamlet I precedenti scenici della tragedia di Amleto sono di più difficile identificazione31. Certamente la Spanish Tragedy di Thomas Kyd mostra caratteristiche simili alla tragedia di Amleto, anche se, per certi versi, a parti inverse: vi è qui la vendetta di un padre per la morte del figlio. L’opera venne pubblicata nel 1592, dopo essere stata scritta e messa in scena fra il 1586 e il 1587, e introduce alcuni elementi che saranno portanti anche nella tragedia di Shakespeare: il fantasma del morto che chiede vendetta, una rappresentazione nella rappresentazione e la seconda vendetta, quella che nell’Amleto sarà di Laerte nei confronti del padre Polonio. Oltre alla Spanish Tragedy, si attribuisce a Kyd anche l’originario precedente scenico dell’Amleto, il cosiddetto Ur-Hamlet, anteriore alla Spanish Tragedy, che avrebbe trattato la vicenda di Amleto così come descritta nella tradizione scandinava, introducendo gli elementi innovativi che Kyd userà poi anche per la Spanish Tragedy. L’esistenza di questo testo, l’identità del suo autore, e il suo ruolo come fonte shakespeariana rimangono importanti interrogativi per quanto riguarda lo studio delle fonti dell’opera32. Allo Ur-Hamlet allude probabilmente Thomas Nashe nella sua introduzione al Saxo. Che la maggior parte della Saga è tratta dalla storia danese, ristrutturata sotto l’influenza di racconti popolari, dei romanzi arturiani, e delle storie di Tamerlano, non si può dubitare. Il nome Ambales, evidentemente evoluto da Amblethus, una variante tardiva di Amlethus, e punta con molta probabilità a qualche sorta di epitome di Saxo. 31 Per uno studio completo e dettagliato delle fonti shakespeariane per l’Amleto cf. Aasand and Clary 2010 e Muir 1978. 32 Cf. Jack 1905. 25 testo del Menaphon di Greene del 1589. I pochi riferimenti che Nashe fa al riguardo suggeriscono che Thomas Kyd avrebbe scritto un dramma intitolato Hamlet, inseribile nel solco della tradizione senecana: «English Seneca read by candle-light yields many good sentences, as ‘Blood is a beggar’, and so forth; and if you entreat him fair in frosty morning, he will afford you whole Hamlets 33». Sia la questione circa l’esistenza di uno Ur-Hamlet che l’identificazione di Kyd come autore potenziale dell’opera dominano ancora gli studi critici in merito alle fonti del dramma di Shakespeare. Ma quali sono allora le innovazioni shakespeariane relative alla trattazione della vicenda? The Revenge of Hamlet Prince [of] Denmark as it was lately acted by the Lord Chamberlain his men fu registrata allo Stationer’s register nel luglio del 1602. Una versione non autorizzata dell’opera ‘by William Shake-speare’, con svariate inesattezze, edita nel 1603 (il cosiddetto primo in-quarto), suggerisce che in quell’anno l’opera fosse stata rappresentata già da un po’ di tempo. All’interno dell’opera stessa, il riferimento alla grande popolarità delle compagnie che mettevano a recitare dei giovani ragazzi al posto di attori adulti (2.2.313-33) è sempre stato interpretato come un esplicito rimando di Shakespeare alla ‘guerra dei teatri’ di Londra avvenuta attorno al 1601 e al successo della redivive ‘children’s companies’34. La ‘guerra dei teatri’, fu vissuta da Shakespeare in prima persona come attore-drammaturgo di una compagnia stabile, negli anni in cui questa, di cui il poeta era socio e azionista, recitava al Globe, mentre i fanciulli si esibivano al teatro dei ‘Frati Neri’ (Blackfriars). Questi attori giovanissimi erano reclutati in gran parte fra i cantori della cappella reale (Children of the Chapel). Il passo in questione non si trova nell’in quarto del 1604, ‘the good quarto’, generalmente ritenuto la versione ufficiale dell’opera (ristampata con poche varianti nello stesso formato, nel 1611 e nel 1622). Infine, una terza versione della tragedia è quella pubblicata nell’in-folio delle opere compete di Shakespeare del 1623. Quest’ultimo è più breve del secondo in-quarto ma aggiunge circa ottanta versi che non si trovavano in quell’in-quarto. L’esistenza di tre versioni differenti fra loro per episodi ed estensione mostra chiaramente che la tragedia non è stata redatta nella sua forma definitiva sin dal principio ma che, come ogni grande opera, è stata rimaneggiata dall’autore più e più volte. 33 Greene (1996), p. 86. 34 Cf. Chambers (1923), pp. I, 379-82; II, 19-21, 41-3. 26 Le principali innovazioni rispetto alle vicende narrate da Saxo e Belleforest sono dunque: 1. l’assassinio segreto del re; 2. il fantasma che rivela ad Amleto l’omicidio ed esige vendetta; 3. l’introduzione dei personaggi di Laerte e del giovane Fortebraccio; 4. l’ampliamento e l’elevazione del ruolo di Ofelia; 5. l’inserimento della compagnia di teatranti e la scena della rappresentazione; 6. la morte di Amleto successiva all’uccisione dell’usurpatore. Fra questi, sicuramente la presenza del fantasma e la rappresentazione nella rappresentazione erano già presenti in Kyd. Così come anche lo spostamento della vicenda da un’ambientazione pre-Cristiana, nella narrazione di Belleforest, a un elegante e raffinato ambiente ‘moderno’. Nell’Amleto di Shakespeare vi sono tre trame distinte: la principale è quella della vendetta, mentre le sottotrame riguardano la storia tra Amleto e Ofelia, e la guerra incombente con la Norvegia. Di seguito vengono esposti gli eventi principali della ‘revenge tragedy’. Il fantasma del padre di Amleto appare a Orazio, Marcello e Bernardo. Orazio chiede all’apparizione di parlare (1.1.127), ma questa rifiuta acconsentendo in un successivo incontro a parlare in privato con Amleto. Durante il dialogo il fantasma gli rivela di essere suo padre e con le parole «So art thou to revenge, when thou shalt hear» (1.5.7) ha inzio la tragedia vera e propria. Il re morto dice ad Amleto di essere stato avvelenato dal fratello Claudio, mentre dormiva nel suo giardino, e chiede di essere vendicato «Revenge his foul and most unnatural murder» (1.5.25). Per accertare la colpevolezza di Claudio, Amleto decide di far rivivere l’assassinio del padre tramite una rappresentazione teatrale nel castello, The Murder of Gonzago. «The play’s the thing / Wherein I’ll catch the conscience of the king» (2.2.606-07): Claudio mostra segni di stizza e irrequietezza e dimostra in tal modo la sua colpa. Amleto è allora sicuro dell’assassinio (3.2.284). Gli si presenta l’opportunità di uccidere Claudio solo, nella sua stanza, ma decide di non intervenire perché in quel momento Claudio sta pregando: ucciderlo in preghiera non sarebbe stata davvero una vendetta perché l’ucciso sarebbe poi andato in paradiso. Durante 27 una dura conversazione con la madre nella camera di lei, Amleto uccide Polonio, nascosto dietro a una tenda, scambiandolo per Claudio (3.4.22). Il fantasma del padre appare di nuovo, recriminando al figlio di non aver ancora ucciso Claudio e aggiungendo di essere tornato «to whet thy almost blunted purpose» (3.4.111). Amleto però viene esiliato da Claudio in Inghilterra per l’omicidio di Polonio (4.3.46), e manda con lui Rosencrantz e Guildenstern a spiare le azioni del nipote, pianificandone l’uccisione sul suolo inglese. Amleto però riesce a tornare sano e salvo in Danimarca, grazie a dei pirati che avevano catturato la sua barca e che lo avevano rilasciato con la promessa di una ricompensa futura e avverte Orazio, con una lettera, del suo rientro (4.6.11). Anche Claudio viene a sapere del ritorno di Amleto e cospira con Laerte, figlio di Polonio, per l’uccisione di Amleto: durante un duello per vendicare la morte del padre, Laerte avrebbe usato una spada dalla punta avvelenata e Claudio avrebbe avuto una bevanda avvelenata da usare all’occasione (4.7.126-161). Il duello viene vinto da Amleto che infine pugnala Claudio (5.2.311) e lo costringe a bere il vino avvelenato (316), ma muore anch’egli a causa di una ferita ricevuta durante lo scontro con Laerte (348), non prima però di aver scambiato con questi parole di perdono. La vicenda di Ofelia è strettamente legata a quella della vendetta. All’inizio della tragedia sia Laerte, suo fratello, in procinto di partire per Parigi, che Polonio, suo padre, mettono in guardia la ragazza dai sentimenti di Amleto. Dopo la rivelazione del fantasma, Amleto appare nella camera di Ofelia, pallido e spettinato, tanto che lei ne è spaventata e corre a raccontare al padre dell’incontro, ma Polonio crede che sia stato il rifiuto di Ofelia ad aver spinto il giovane sull’orlo della pazzia e riferisce lo strano comportamento di Amleto a Claudio, presentando una vecchia lettera d’amore del giovane a Ofelia. Sotto la spinta di Claudio, Polonio invia la figlia a scoprire elementi nuovi sulle condizioni di Amleto, ma questi, quando lei lo saluta, la aggredisce verbalmente. Questi comportamenti scostanti, uniti all’uccisione del padre, fanno impazzire completamente Ofelia che poco dopo si toglie la vita. Rientrato dall’Inghilterra, Amleto, in compagnia di Orazio, incontra il corteo funebre di Ofelia e viene sopraffatto dal dolore, dichiarando infine il suo profondo amore nei confronti della ragazza (5.1.270-72). L’ultima ‘sotto-trama’ è quella della guerra con la Norvegia. Il padre di Amleto aveva sconfitto in duello il re norvegese Fortebraccio. Il figlio di questi, per rivendicare il 28 possesso dei territori sottratigli dal padre di Amleto, organizza una spedizione contro la Danimarca. Pochi sono i riferimenti all’interno del dramma a riguardo della spedizione e dell’arrivo del giovane Fortebraccio. Ma nella scena finale del dramma, Amleto morente, divenuto principe di Danimarca dopo la morte di Claudio, decreta che suo erede regale sarà il giovane principe Fortebraccio e chiede a Orazio di informare il nuovo re di tutti gli eventi che hanno portato alla sua tragica fine: HAMLET But I do prophesy th’election lights On Fortinbras; he has my dying voice. So tell him, with th’occurrents more and less Which have solicited - the rest is silence. Amleto, 5.2.334-37 2. 4 Similarità delle vicende Confrontando le versioni del mito greco con le leggende nordiche, Gilbert Murray, nel suo intervento del 1914 alla British Academy, tenuto nell’ambito dell’annuale convegno intitolato ‘Shakespeare Lecture’, evidenziò una serie di caratteristiche specifiche e peculiari che accomunano i due gruppi. 1. Il padre del protagonista viene ucciso da un parente che poi sposa la regina e usurpa il trono; da qui, l’eroe, spinto da comandi soprannaturali, porta a compimento la vendetta. 2. È sempre presente una sorta di timore e riluttanza riguardo all’assassinio della madre. 3. L’eroe è offuscato dalla ‘follia’. 4. Per alcuni aspetti, sia Oreste che Amleto hanno delle personalità particolari, soprattutto in rispetto al loro essere dei grandi personaggi tragici. L’Amleto di 29 Shakespeare viene descritto come un ‘pazzo trasfigurato’. In particolare, entrambi gli eroi presentano talvolta un aspetto esteriore disordinato o trasandato. Entrambi gli eroi hanno anche un atteggiamento morboso nei confronti delle donne: nelle leggende nordiche questo appare tramite l’uso di un linguaggio offensivo e volgare dell’eroe nei confronti delle donne e nei loro riguardi, nella tradizione greca invece compaiono giudizi denigratori quali quello di Oreste nell’omonima tragedia euripidea (v. 1590): «οὐκ ἂν κάμοιμι τὰς κακὰς κτείνων ἀεί.» 5. Di minore importanza sono le coincidenze per cui a. entrambi gli eroi erano lontani da casa quando inizia il dramma principale, b. entrambi sono in pericolo perché ci sono persone che attentano alla loro vita, c. entrambi hanno «a good deal with the dead». 6. Infine, ci sono molti punti di somiglianza tra i personaggi collegati a ciascuno di questi eroi: a. I padri sono simili per molti aspetti. b. In alcune caratteristiche personali stringenti le madri dei due eroi sono simili, e, almeno in Saxo, le stesse caratteristiche appaiono nella donna di Amleto. c. Ogni eroe ha un amico e confidente fidato. d. In ogni gruppo di leggende ci sono una giovane donna e un uomo molto vecchio, le cui caratteristiche e la cui relazione reciproca presentano aspetti peculiari. Tali analogie e coincidenze non possono semplicemente essere ritenute casuali e lasciate nell’ombra. Meritano di essere analizzate e, in qualche modo, giustificate. Nella ricerca di una spiegazione per la ricca matrice di connessioni tra le figure di Oreste e Amleto, Murray è ostacolato dall’opinione secondo cui la Grammar School di Stratford non sarebbe stata in grado di fornire a Shakespeare una preparazione adeguata alla consultazione delle fonti primarie in greco. Scartando in partenza ogni possibile connessione tra l’Oreste dei drammi attici e l’Amleto di Shakespeare, viene rigettata dunque anche l’ipotesi per cui la conquista romana dell’Inghilterra o i mercenari scandinavi alla corte di Bisanzio avrebbero potuto 30 fornire un ponte per la trasmissione dei testi. Secondo Murray non esisteva infatti alcun collegamento diretto tra le saghe nordiche e i drammi greci, ed è portato a concludere, data la mancanza di prove storiche, che «the ultimate similarities between Euripides and Shakespeare are simply due to the natural working, by playwrights of special genius, of the dramatic possibilities latent in that original seed». Riteneva però che l’elemento comune nelle storie di Oreste e Amleto fosse la storia rituale di quello che chiama ‘Golden-Bough Kings’35, che è alla base anche delle rappresentazioni tradizionali dei Mummers le quali, pur profondamente degradate e volgarizzate, non sono del tutto scomparse nei paesi del Nord Europa. Quando si prova ad analizzare un mitologema, bisognerebbe tralasciare l’approccio meramente testuale e letterario, evitando ogni sorta di enfasi relativa a epoca, autore, testo, in modo tale da poter pervenire a una prospettiva culturale più ampia, in grado di usare i metodi d’indagine della mitologia comparata – supportata dall’antropologia culturale – per rintracciare ed esaminare aspetti universali o specifici di una cultura, riguardo a una determinata tematica. La mitologia, in quanto fenomeno culturale, può essere definita come un sistema organizzato di credenze magico-religiose che assieme a delle norme di comportamento etico, pratiche rituali, istituzioni sociali e artefatti associati a essi, costituisce la sfera della spiritualità umana, a cui normalmente si dà il nome di religione. Ogni sistema di credenze magico-religiose ha lo scopo di creare un modello del mondo inteso a soddisfare le esigenze specificamente umane di conoscenza e comprensione generalizzata della realtà e di ricerca di senso dell’esistenza. A quest’ultima si è sempre tentato di sopperire tramite la creazione di complessi religiosi in cui narrazioni mitiche costituivano dei modelli esplicativi e interpretativi dei principi che governano l’uomo e l’universo. E il linguaggio attraverso cui i miti realizzano le loro funzioni di schematizzazione e spiegazione del mondo è composto da segni e immagini a carattere prettamente simbolico. Murray, da parte sua, evidenzia la somiglianza tra Gaia, Rhea, Giocasta e Clitemestra nel mondo greco da un lato e Amba, Gerutha e Gertrude nelle leggende 35 Il riferimento è a Fraser, The Golden Bough: A Study in Comparative Religion, pubblicato per la prima volta nel 1890 e poi gradualmente ampliato fino all’edizione definitiva del 1915. Fraser propose un approccio innovativo agli studi religiosi, analizzandoli come fenomeni culturali piuttosto che in prospettiva teologica. La sua influenza sul pensiero e la letteratura europea fu sostanziale. 31 nordiche dall’altro. La stessa similarità esiste fra i vecchi re e i giovani vendicatori all’interno dei vari racconti. L’origine di queste somiglianze è senza dubbio l’antica concezione religiosa, comune almeno alla maggior parte dei popoli indoeuropei, secondo cui l’Inverno uccide l’Estate, o il Nuovo Anno uccide il Vecchio, ed è a sua volta ucciso dal suo successore. Nella vicenda narrata da Saxo, Murray ravvisa una analogia fra Horvandillus, padre di Amleto e l’antico dio teutonico Aurvendill, la cui moglie, Gròa, viene identificata con la ‘Terra Verde’. Aurvendill, secondo la leggenda, aveva ucciso il suo nemico Collerus, re vichingo e fu poi a sua volta ucciso dal fratello e vendicato dal figlio 36. Questi collegamenti sembrano implicare, secondo Murray, «a great unconscious solidarity and continuity, lasting from age to age, among all the children of the Poets, both the Makers and the Callers-forth, both the artists and the audiences. In artistic creation, as in all the rest of life, the traditional element is far larger, the purely inventive element far smaller, than the unsopihisticated man supposes». Una analogia simile a quella fra Horvandillus e Aurvendill può essere rintracciata nella vicenda di Agamennone37. La sua è una morte particolare: viene ucciso mentre è inviluppato in una rete gettatagli sopra il capo, con un piede ancora nella vasca da bagno e l’altro per terra, in una stanza annessa al palazzo ma che non fa parte dello stesso. Muore cioè né vestito né svestito, né in acqua né sulla terraferma, né nel suo palazzo né fuori: una situazione che ricorda la morte dell’eroe della mitologia gallese Lleu Llaw Gyffes, per mano della moglie infedele Blodeuwedd e dell’amante di lei Gronw Pebr, narrata nel Mabinogion. Tutte queste vicende rappresenterebbero il mito del re sacro che muore a mezza estate, della dea che lo tradisce, del successore che prende il suo posto e del figlio che ne vendica l’uccisione. Jan Kott (1967), influenzato dall’Antropologia Strutturale di Levi Strauss, propone una personale analisi in parallelo del mito greco e del mito nordico. Molte delle sue conclusioni appaiono troppo fantasiose per poter essere prese seriamente in considerazione, ma su di un punto presenta un’acuta osservazione, che potrebbe essere aggiunta ai paralleli 36 Cf. Dumézil 2001, pp. 193-98. 37 Per una interpretazione della nascita della saga degli Atridi, cf. Untersteiner 1972, pp. 176-77. 32 proposti da Murray e motivare la divergenza fra i due miti. Kott si sofferma infatti su due triadi di morti, Agamennone-Egisto-Clitemestra versus Amleto padre-Gertrude-Claudio. A suo dire, la differenza relativa alla morte della madre nelle due variazioni (matricidio vs. suicidio-omicidio) non rappresenterebbe un particolare problema interpretativo38 e che la differenza paradigmatica risiede nella diversa sequenza di morti e nel loro corrispettivo afferire a una trama del tipo della ‘revenge tragedy’ o a una di spessore etico-religioso. In entrambi i casi, la morte fondamentale è posta in coda alla triade: se il tema prevalente è quello della vendetta, l’ultimo assassinio sarà quello dell’usurpatore, nel caso del tema etico-religioso è invece il matricidio a essere l’ultimo. L’aver separato questa triade dal resto delle morti presenti nelle rispettive vicende pone l’accento su quanto effettivamente può essere probabilmente ascritto al proto-mito originario. La figura di Oreste infatti, nella saga atridica, è un’aggiunta posteriore39 e la stessa cosa si può pensare di Amleto per la saga nordica. Tutte queste analogie fra le due serie di saghe fanno supporre l’esistenza di un mitologema originario in grado di giustificarne la presenza. Eppure, fra la tragedia di Shakespeare e i drammi attici le convergenze sono più nitide e non si limitano esclusivamente alla trama o a determinate caratteristiche dei protagonisti. Le analogie sono testuali, oltre che tematiche. E questo, a mio avviso, rinsalda il legame esistente fra i due. Nel capitolo seguente saranno dunque trattati alcuni aspetti testuali delle narrazioni per verificare se, oltre alle affinità relative alla storia, si possano inferire rapporti più stringenti fra Shakespeare e la drammaturgia attica. 38 In realtà, la divergenza è ampiamente significativa: dal matricidio greco si dipanano tutta una serie di conseguenze etiche e religiose che non avrebbero modo di estrinsecarsi senza che tale questione venisse sollevata. 39 Cf. Untersteiner 1972, p. 338. 33 3. PASSI IN PARALLELO40 Si è visto che nella caratterizzazione di Amleto e Oreste vi sono similarità interessanti. Anche se il secondo non riveste lo stesso ruolo predominante all’interno della trilogia eschilea come il principe danese nell’Amleto (nell’Agamennone Oreste non appare nemmeno), a discapito dello «small latine and lesse greeke», i due personaggi sembrano essere stati concepiti in maniera tanto simile che non ci si può esimere dal sospettare che Shakespeare avesse in mente Oreste mentre raappresentava Amleto. Tale opinione è rafforzata dal fatto che le antiche versioni della vicenda di Amleto non evidenziavano somiglianze così nette, nel dileneamento dei caratteri, con i drami attici. Le differenze fra Oreste e Amleto sono senza dubbio molte ma paiono irrilevanti rispetto alla mole di affinità. Entrambi si confrontano con lo stesso problema e assolvono allo stesso dovere: ottenere vendetta per l’assassinio del padre. Oreste è spinto dall’oracolo di Apollo, Amleto dal fantasma del padre. L’obbiettivo principale della vendetta di Oreste è rappresentato dalla madre. La situazione dell’adulterio è la medesima: come Egisto ha sedotto Clitemestra, così Claudio ha sedotto Gertrude. Nell’Amleto l’obbiettivo principale è Claudio, e il fantasma del padre chiede esplicitamente ad Amleto di non avventare la propria ira contro la madre. Tuttavia è lei a presentarsi costantemente nel flusso dei pensieri del giovane, molto più spesso di Claudio, e Amleto scaglia icasticamente parole che sono come «daggers to her» benché, nei fatti, abbia deciso di non farne uso. Un ulteriore aspetto di divergenza è che nella tragedia di Shakespeare la situazione dell’incesto diventa una vera e propria ossessione. Risulterà interessante notare che gli atti dell’Amleto in cui sono maggiormente presenti analogie con i drammi attici sono il primo e l’ultimo: come in una cornice, la ‘revenge tragedy’ (che nei restanti tre atti si protrae lungamente a causa dei dubbi di Amleto) sembra incastonata nel riferimento alla vicenda di Oreste. A riprova di ciò, sia il primo che il quinto atto iniziano con una scena che richiama ineluttabilmente alla mente l’Orestea: la guardia nel primo atto si ricollega all’inizio dell’Agamennone mentre la scena 40 Le edizioni usate per le citazioni dai testi originali sono quella di Storr (1914), per l’Elettra di Sofocle, Murray (1913) per l’Oreste e Smyth (1926) per l’Orestea. Per l’Amleto, l’edizione usata è quella di Philip Edwards 2003. 34 nel Cimitero si riccolega all’apertura delle Coefore. In questo capitolo verranno quindi confrontati in parallelo episodi, temi e personaggi, in modo tale da verificare direttamente, tramite le fonti primarie, le diversità e le analogie. 3. 1 Il prologo: la guardia e il re Come già anticipato, quel che colpisce in prima battuta dalla lettura in parallelo dell’Orestea e dell’Amleto è l’apertura di entrambi sulla scena di un turno di guardia. Nell’Agamennone, seduto sul tetto della reggia degli Atridi 41, una guardia attende il segnale che annunci la caduta di Troia. Nell’Amleto, del re morto, appare inaspettato il suo fantasma. In entrambi i casi le guardie sono sollevate nel momento in cui termina il proprio turno, sia che si tratti di una fine momentanea (Shakespeare), sia che si tratti di un termine definitivo (Eschilo). Quando appaiono i fuochi che in staffetta si propagano da lontano per annunciare la caduta di Troia, così come predisposto da Clitemestra, le parole della guardia in Eschilo risuonano, perlomeno inizialmente, colme di gioia: Φύλαξ νῦν δ᾽ εὐτυχὴς γένοιτ᾽ ἀπαλλαγὴ πόνων εὐαγγέλου φανέντος ὀρφναίου πυρός. ὦ χαῖρε λαμπτὴρ νυκτός, ἡμερήσιον φάος πιφαύσκων καὶ χορῶν κατάστασιν πολλῶν ἐν Ἄργει, τῆσδε συμφορᾶς χάριν. Aeschl. Ag. 20-24 Similmente, all’inizio dell’Amleto, quando Bernardo arriva a dare il cambio a Francisco, questi lo ringrazia con parole che paiono quasi sproporzionate rispetto alla situazione: FRANCISCO For this relief much thanks, ’tis bitter cold And I am sick at heart. Amleto, 1.1.7-8 L’analogia più evidente è nell’impiego dei termini ‘ἀπαλλαγή’ e ‘relief’, l’uno la 41 Il termine utilizzato da Eschilo è ἄγκαθεν. 35 traduzione dell’altro, ma anche nella condizione di profondo disagio che avvertono entrambi durante la guardia. L’uno è avvinto dal ‘φόβος’, l’altro è ‘sick at heart’. Ciò che aumenta la sofferenza è l’assenza di accadimenti che caratterizza le rispettive notti: «Not a mouse stirring», recita Francisco, mentre in Eschilo è la conta delle stelle a essere indicativa della noia. Il successivo punto di contatto fra le scene è l’avvistamento del re. L’apparizione del fantasma, nel dramma di Shakespeare, getta sin dall’inizio una luce tetra sulla vicenda, scurendone i toni e avvicinandola al tipo di tragedia in voga nel teatro elisabettiano, quella plasmata sulla drammaturgia senecana, lugubre e truce. Ma più che il buio, la presenza del re morto in scena stampa su di essa sin dai primi versi il marchio della ‘vendetta’ che, assieme al ‘dolore’, permea l’intera vicenda. Così paradigmatico è anche l’avvio della tragedia nell’Agamennone: la patina di ansia, paura e mistero trapela dalle parole del πρόσωπον προτατικόν della guardia e da quelle successive del Coro degli anziani, ed è tipicamente figlia del dettato eschileo. Solitamente si fa discendere l’adozione della figura del fantasma in Amleto dal teatro senecano: le due tragedie che portano in scena un’ombra sono il Tieste e l’Agamennone. È interessante notare come, anche in tal caso, si stagli un legame forte con la saga atridica. Nel Tieste è l’ombra di Tantalo a introdurre la vicenda, mentre nell’Agamennone, ad anticipare gli eventi luttuosi che seguiranno, è l’ombra di Tieste. In quest’ultima tragedia, Seneca ascrive all’ombra sentimenti profondamente umani, soprattutto un forte odio, anche da morto, che la porta a fuggire la luce non meno che le tenebre, vagando inquieto in cerca di vendetta. Sicuramente l’influenza di Seneca ha giocato un ruolo importante sia per Shakespeare che per l’autore del supposto Ur-Hamlet, e ugualmente per la Spanish Tragedy di Kyd. Il parallelo con l’ombra di Tieste nell’Amleto è evidente, facendo riferimento all’atteggiamento menzionato del rifuggire la luce. Lo testimoniano le parole di Orazio che riferisce ad Amleto l’incontro con il fantasma del re avvenuto nella notte: HORATIO But even then the morning cock crew loud, And at the sound it shrunk in haste away And vanished from our sight. Amleto, 1.2.217-219 36 Lo confermano anche le parole del fantasma nella successiva apparizione, quella del giuramento: GHOST The glow-worm shows the matin to be near, And gins to pale his uneffectual fire. Adieu, adieu, adieu. Remember me. Amleto, 1.5.89-91 Come in Seneca, lo spirito non riesce a trovare requie nel suo dolore; ciò che lo muove e lo tormenta non è un odio generico, ma il desiderio che 1’assassinio non resti invendicato e il timore che «the royal bed of Denmark be / A couch for luxury and damned incest.» (1.5.82-3): di qui l’ingiunzione ripetuta a giurare e 1’esortazione di Amleto, dopo avergli assicurato la vendetta, a riposare e deporre le proprie pene: «Rest, rest, perturbed spirit.» (1.5.18342). Dunque è dai testi senecani che discende la predilezione nel teatro rinascimentale per questo genere di prologo-apparizione. Già nella Spanish Tragedy viene adottato questo modello, portando a recitare il prologo 1’ombra di Andrea, nobile spagnolo; ugualmente fece Marlowe nell’Ebreo di Malta, che mise a recitare il prologo addirittura l’ombra di Machiavelli. Shakespeare dal canto suo innova l’elemento drammaturgico inserendo l’apparizione dell’ombra all’interno dell’azione drammatica, sia nel prologo, dove rimane silente, che nelle scene successive. Ad ogni modo, influenze senecane a parte, il riferimento anche in questo caso torna alla famiglia di Oreste. Quanto poi al turno di guardia, l’assonanza con l’Agamennone eschileo appare forte. Se congiunta alla presenza del re, sia nel caso in cui torni a casa dalla guerra ignaro ancora del futuro destino di morte, sia nel caso in cui l’assassinio sia già avvenuto, l’affinità della scena diviene ancora più evidente. È quasi banale evidenziare quanto l’incipit di un dramma sia evocativo e al contempo propedeutico al prosieguo di tutta la vicenda. Le supposte fonti shakespeariane non iniziano con una scena simile e neppure fra i vari drammi attici si incontrano prologhi del medesimo tipo43. 42 Cf. la scena in Kyd, Spanish Tragedy, 1.5 43 Probabilmente influenzato dall’interpretazione freudiana della vicenda di Amleto, Jean Cocteau fa iniziare la sua personale trattazione della vicenda edipica, nella Machine Infernale (1934), proprio con un turno di guardia, esattamente come avviene nell’Amleto. 37 3. 2 Il lutto e Niobe Il topos del lutto smisurato e ingiustificato appare evidenziato in maniera preponderante nell’Elettra di Sofocle. Di questa, come detto, esistevano almeno due traduzioni in latino nel XVI secolo. Confrontando i passi del tragediografo greco con quelli di Shakespeare, soprattutto nella seconda scena del primo atto, appaiono chiaramente evidenziati i medesimi punti. GERTRUDE Thou know’st ’tis common, all that lives must die, Passing through nature to eternity. HAMLET Ay madam, it is common. If it be, GERTRUDE Why seems it so particular with thee? Amleto, 1.2.68-75 Siamo ancora nel primo atto, Amleto fa la sua prima comparsa in scena. È silenzioso e scuro in volto: la perdita del padre, di cui ancora non sospetta la morte violenta e innaturale, e il repentino nuovo connubio della madre con il fratello del defunto marito, lo hanno fatto sprofondare in un abisso di dolore e risentimento. Nel passo appena citato, la madre gli rammenta che la morte fa parte del ciclo naturale delle cose, per chiunque, e che di conseguenza non vi è nulla che distingua la sua sventura da quella di altri esseri umani. Ma per Amleto non vi è alcuna consolazione in un simile approccio agli eventi e non può impedirsi di addolorarsi a dismisura. Nell’Elettra sofoclea avviene uno scambio di battute simile a quello appena proposto fra Amleto e la madre: questa volta però è il Coro delle donne di Argo, e non la madre, ad ammonire la figlia di Agamennone in merito all’inutilità di un lutto così marcatamente sentito. Anche il Coro greco ricorda alla protagonista del dramma che quello relativo alla perdita di un padre è un evento naturale, comune a tutti gli uomini e non dunque riservato a lei sola e che un lamento eccessivamente protratto e sostenuto non giova a nessuno. Χορός ἀλλ᾽ οὔτοι τόν γ᾽ ἐξ Ἀΐδα 38 παγκοίνου λίμνας πατέρ᾽ ἀνστάσεις οὔτε γόοισιν οὔτ᾽ εὐχαῖς. ἀλλ᾽ ἀπὸ τῶν μετρίων ἐπ᾽ ἀμήχανον ἄλγος ἀεὶ στενάχουσα διόλλυσαι, ἐν οἷς ἀνάλυσίς ἐστιν οὐδεμία κακῶν. τί μοι τῶν δυσφόρων ἐφίει; […] οὔτοι σοὶ μούνᾳ, τέκνον, ἄχος ἐφάνη βροτῶν, πρὸς ὅ τι σὺ τῶν ἔνδον εἶ περισσά, οἷς ὁμόθεν εἶ καὶ γονᾷ ξύναιμος, οἵα Χρυσόθεμις ζώει καὶ Ἰφιάνασσα, Soph. El. 137-143, 154-163 L’Elettra che descrive Sofocle è una donna in preda al θυμός, combattiva e forte quasi come Antigone e come quest’ultima intende prestare fede alla sua interiore legge morale. Le parole del Coro non sono sprezzanti, ma razionali e quasi commosse, come quelle di Gertrude. Nell’Amleto tale parte è affidata alla madre perché, a differenza del mito greco, in lei non vi è odio nei confronti del figlio. In Sofocle, Clitemestra non avrebbe potuto pronunciare parole tanto piane. Il ruolo predominante di Clitemestra nell’omicidio del re viene assunto da Claudio, non da Gertrude, nel dramma di Shakespeare. In questo primo riferimento al lutto, si ha piuttosto un monito contro la smisuratezza insensata e la mancanza di un giusto equilibrio, aspetti, questi ultimi, fondamentali nella tragedia greca. È interessante notare che sia in Shakespeare che in Sofocle a questo punto del dramma viene fatto riferimento a Niobe, nella sua veste simbolica d’immagine del dolore. Il rapporto che si instaura con la figura mitica all’interno dei due drammi è però antitetico. In Shakespeare, Niobe viene ironicamente associata alla figura della madre che, a pochi mesi dalla morte del marito, convola a nuove nozze con il di lui fratello. Nel suo primo soliloquio Amleto dice: HAMLET A little month, or ere those shoes were old With which she followed my poor father’s body Like Niobe, all tears, why she, even she - 39 O God, a beast that wants discourse of reason Would have mourned longer […] Amleto, 1.2.47-51 Sofocle, al contrario, propone un parallelo più propriamente tragico, in cui non è presente alcuna ironia. Paragona le lacrime senza fine di Niobe a quelle di Elettra: ἰὼ παντλάμων Νιόβα, σὲ δ᾽ ἔγωγε νέμω θεόν, ἅτ᾽ ἐν τάφῳ πετραίῳ αἰεὶ δακρύεις. Soph. El. 150-52 In entrambi i passi ciò che viene evidenziato di Niobe è la sua umanità, non la sua discendenza divina, tramite cui diventa simbolo di estremo dolore. Nonostante le parole di Elettra che dichiara di venerarla come una dea, in realtà il rimando è alla sfera delle passioni umane. La coincidenza potrebbe essere certo casuale, ma è significativa sotto un ulteriore punto di vista. Niobe era figlia di Tantalo e della Pleiade Dione 44. Le origini di Tantalo sono assai discusse: suo padre, secondo alcuni, era Zeus. Niobe ebbe in sposo Anfione, un altro figlio di Zeus e re di Tebe. Ricca e potente, chiese al suo popolo di essere venerata al posto della dea Latona, e che venissero predisposti sacrifici nel tempio in suo onore, piuttosto che alla dea. Riteneva infatti di essere più venerabile di Latona per aver messo al mondo quattordici figli45, sette maschi sette femmine, al contrario dei due soli della dea. Per vendicare tale insulto, i figli di quest’ultima, Apollo e Artemide, uccisero la progenie di Niobe, davanti agli occhi della madre che, testimone del massacro, rimase muta di fronte a un orrore e a un dolore tanto grandi. Continuò a piangere per i figli anche dopo essere stata tramutata in una statua da Zeus in persona 46. Il riferimento a Niobe in entrambe le tragedie in oggetto si giustifica proprio tramite il simbolismo del dolore infinito che la donna del mito è venuta ad assumere. 44 Plut. Vitae 33; Pherec. in Sch. Eur. Or. 11; Hyg. Fab. 83; Paus. III 22 4. 45 Secondo Omero i figli di Niobe erano dodici; secondo Esiodo (a quanto risulta da vari scoliasti) erano venti; secondo Erdoto quattro; secondo Saffo diciotto. Ma secondo la versione seguita da Euripide e Apollodoro, essi erano quattordici. 46 Hyg. Fab. 9 e 10; Apollod. III 5 6; Il. XXIV 612 e sgg.; Ov. Met. VI 146-312; Paus. V 16 3, VIII 2 5 e I 21 5. 40 D’altra parte, la presenza di Niobe nel primo monologo di Amleto riporta alla mente anche la figura di suo padre, Tantalo. Costui era talmente benvoluto dagli dèi da essere ammesso ai banchetti di nettare e ambrosia sull’Olimpo. Secondo alcune versioni del mito tentò di rubare il cibo degli dèi, per distribuirlo ai suoi amici mortali. Ma la sua colpa più grande, la causa della maledizione che porterà sofferenze alle generazioni future e condurrà in ultima analisi al matricidio di Oreste, fu il tentativo d’ingannare gli dèi servendo loro, a un banchetto, la carne del figlio Pelope47. Per questo reato fu punito con la distruzione del suo regno e dopo la morte, condannato a non vedere mai saziate la sua fame e la sua sete 48. Pelope fu in seguito resuscitato dagli dèi (totalmente integro tranne che per la spalla sinistra, costituita d’avorio, resasi necessaria perché Demetra, ancora assorta nel dolore per la perdita di Persefone, non accortasi di ciò che aveva nel piatto, aveva mangiato la spalla originale), ma, come suo padre, anche su di lui incombeva una maledizione. Dopo aver richiesto l’assistenza dell’auriga Mirtilo per conquistare la mano di Ippodamia, figlia di Enomao, ed essere riuscito nell’impresa49, quando Mirtilo mostrò troppo interesse per la donna, Pelope lo scaraventò da una rupe50. Mentre precipitava giù, l’auriga maledisse Pelope, scagliando una maledizione che ricadde pesantemente sui figli di Pelope, Atreo e Tieste. Quest’ultimo, in età adulta, commise adulterio con la moglie di Atreo, Erope, e rubò di soppiatto il vello d’oro che avrebbe decretato l’assegnazione del regno di Micene a uno dei due fratelli51. L’inganno di Tieste era stato però smascherato, grazie alla predilezione di Zeus nei confronti di Atreo, e aveva portato all’esilio del primo e all’ascesa al potere del secondo52. Scoperta poi l’infedeltà della moglie, Atreo aveva richiamato Tieste a Micene con il pretesto di riconciliarsi e, a un ennesimo macabro banchetto, aveva servito al fratello le carni dei figli di lui, e dopo che Tieste ne ebbe mangiato con appetito, fece portare dai servi le teste sanguinanti dei bambini, i loro piedi e le loro mani, adagiati su un piatto. A quel punto Tieste lanciò anche lui, a sua volta, una maledizione sulla stirpe di Atreo53. Ulteriori dettagli della vicenda narrano di come Tieste, su consiglio dell’oracolo di Delfi, ingravidò la figlia Pelopia in modo da poter generare un figlio che avrebbe potuto 47 Hyg. Fab. 83; Ov. Met. VI 406. 48 Diod. IV 74; Plat. Crat. 28; Luc. 77 17; Od. XI 582-92; Ov. Met. IV 456; Pind. O. I 60; Apollod.7 Epit. II; Hyg. Fab. 82. 49 Pind. O. I 87; Luc. 83 19; Diod. IV 73; Apollod.7 Epit. II. 50 Strab. Hist. X 1 7; Soph. El. 508 e sgg.; Apollod.7 , Epit. II; Paus. VIII 14 7. 51 Apollod.7, Epit. II 11; Sch. Eur. Or. 812; Sch. Il. II 106. 52 Apollod.7, Epit. II 12; Sch. Il. II 106; Eur. Or. 1001; Ov. Ars 327 e sgg.; Sch. Eur. Or. 812. 53 Hyg., Fab.e 86 e 97; Eur. Hel. 392; Il. II 131e sgg. 41 vendicarsi di Atreo54. Questi era appunto Egisto che sedusse Clitemestra durante la decennale guerra di Troia, aiutando la donna nell’omicidio del marito Agamennone al suo ritorno in patria, e che a sua volta venne ucciso da Oreste. Nell’Odissea (I 35 e sgg. e III 263-75), Zeus ricorda il tradimento di Egisto e di come questi avesse ignorato il consiglio di Ermete di non uccidere Agamennone, perché il figlio di lui, Oreste, si sarebbe poi vendicato. Nell’Orestea (Ag. 1220-1391, 1521 e sgg. ed Eum. 631-35) è Egisto a colpire per primo Agamennone con una spada a doppio taglio, dopo essere stato imbrigliato da una rete gettatagli addosso da Clitemestra la quale lo colpisce definitivamente, decapitandolo con la doppia scure, per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia55. La composizione di queste maledizioni e crimini ereditari rende la casa di Atreo la più tragica di tutte (assieme a quella dei Labdacidi) nella mitologia greca. Ingannare gli dèi e chiedere di essere adorato al loro posto sono crimini che pongono le basi per una catena di omicidi, vendette, adulterii, incesti e cannibalismo. Agamennone è il figlio maggiore di Atreo e nei drammi post-omerici sembra aggravare la maledizione di famiglia sacrificando la figlia Ifigenia ad Artemide, per consentire ai Greci di salpare verso Troia a muoverle guerra. Il sacrificio era in realtà necessario sulla base di un oracolo che avvertiva i Greci dell’ira di Artemide nei loro confronti. Nell’Ifigenia fra i Tauri di Euripide, Ifigenia viene salvata all’ultimo minuto dalla sostituzione di lei, sull’ara, con un cervo. La ragazza è condotta fra i Tauri dove continua a vivere e diviene sacerdotessa della dea. Le cose finiscono meno bene per Ifigenia nella versione di Sofocle, in cui lei viene condotta nel campo greco in Aulide con la promessa del padre di farle sposare Achille. Anche se Achille stesso è abbastanza disposto a consumare il matrimonio – in una versione, si offre di difenderla da coloro che chiedono il suo sacrificio – la ragazza, in coscienza, accetta docilmente il suo destino. In questo assoggettamento al proprio destino Ifigenia è molto simile a Ofelia. Entrambe sono innocenti nobili promesse spose a dei principi guerrieri, pedine di scambio per i piani dei padri le quali finiscono vittime dei giochi politici di corte. I fratelli di entrambe, Oreste e Laerte, cercano vendetta contro gli assassini dei genitori. Laerte, che utilizza un inganno, muore nel tentativo di effettuare la propria vendetta, mentre Oreste impazzisce a causa dalle Furie. 54 Apollod.7, Epit. II 13-14; Hyg., Fab. 87 e 88; Serv. A. II 262. 55 Soph. El. 99; Aeschl. Ag. 1372 e sgg. e 1535. 42 Se il riferimento a Niobe in Shakespeare può essere stato semplicemente dettato dal valore simbolico che questa era venuta ad assumere, soprattutto in età medievale, a seguito della lettura delle Metamorfosi di Ovidio (6.146-312) in cui viene narrata la vicenda del tramutamento in pietra, ciò non toglie che anche in questo caso, come in quello del prologo con fantasma, nuovamente vi sia una allusione, voluta o meno, alla saga atridica. Tornando al topos del lutto, il richiamo alla mancanza di misura nella gestione di questo che avevano indicato il Coro nell’Elettra sofoclea e Gertrude nell’Amleto shakespeariano, viene ora esacerbato e assume i toni di una vera e propria condanna. Come già anticipato, le parti in gioco in questo caso sono quelle di Clitemestra e Claudio. Nel dramma inglese le parole di Claudio fanno riferimento alla non eticità di un comportamento tanto sconsiderato quale è quello che sta tenendo Amleto. CLAUDIUS In filial obligation for some term To do obsequious sorrow; but to persever In obstinate condolement is a course Of impious stubbornness, ’tis unmanly grief, It shows a will most incorrect to heaven, A heart unfortified, a mind impatient, An understanding simple and unschooled. For what we know must be, and is a s common As any the most vulgar thing to sense, Why should we in our peevish opposition Take it to heart? Fie, ’tis a fault to heaven, A fault against the dead, a fault to nature, To reason most absurd, whose common theme Is death of fathers, and who still hath cried, From the first corse till he that died today, ’ This must be so.’ Amleto, 1.2.91-106 Il nuovo re di Danimarca parla di colpa contro gli dèi, di empietà e dissennatezza. Le sue parole non sono piene di comprensione come quelle di Gertrude, ma rivelano un forte astio 43 e un vivo sentimento di stizza. Nell’Elettra non è Clitemestra in prima persona a pronunciare le parole di sdegno per il dolore incontenibile della figlia, ma Elettra stessa riferisce al Coro le lamentele della madre. Ἠλέκτρα ἐγὼ δ᾽ ὁρῶσ᾽ ἡ δύσμορος κατὰ στέγας κλαίω, τέτηκα, κἀπικωκύω πατρὸς τὴν δυστάλαιναν δαῖτ᾽ ἐπωνομασμένην αὐτὴ πρὸς αὑτήν. οὐδὲ γὰρ κλαῦσαι πάρα τοσόνδ᾽ ὅσον μοι θυμὸς ἡδονὴν φέρει. αὕτη γὰρ ἡ λόγοισι γενναία γυνὴ αὕτη γὰρ ἡ λόγοισι γενναία γυνὴ φωνοῦσα τοιάδ᾽ ἐξονειδίζει κακά: ὦ δύσθεον μίσημα, σοὶ μόνῃ πατὴρ τέθνηκεν; ἄλλος δ᾽ οὔτις ἐν πένθει βροτῶν; κακῶς ὄλοιο, μηδέ σ᾽ ἐκ γόων ποτὲ τῶν νῦν ἀπαλλάξειαν οἱ κάτω θεοί. Soph. El. 282-92 Come nel discorso di Claudio anche qui le parole di Clitemestra bruciano di risentimento e sono intese a mortificare il comportamento del figlio (in questo caso, della figlia) che si strugge di dolore per la morte del padre. In entrambi i casi il riferimento è agli dèi e alla mancanza di rispetto nei confronti della religione. Claudio parla di «impious stubbornness» mentre Clitemestra si riferisce alla figlia come a un «δύσθεον μίσημα». L’atteggiamento di Claudio e Clitemestra rispetto a quello tenuto dal Coro e da Gertrude in precedenza, in merito al medesimo argomento, è profondamente diverso. La comprensione ha ceduto il posto all’incomprensione e il giudizio etico con sfumature religiose relativo al comportamento luttuoso ne è un simbolo evidente. Da tali analogie sembrerebbe inoltre possibile inferire un parallelo leggermente diverso da quello proposto normalmente fra Claudio ed Egisto e Gertrude e Clitemestra: pare infatti più evidente la similarità che passa fra Claudio e Clitemestra piuttosto che quella fra quest’ultima e la madre di Amleto, quanto meno in relazione all’astio nei confronti del giovane. D’altronde il personaggio di Egisto, all’interno dei drammi attici, vede ridotta all’osso la propria importanza rispetto a quanto invece accadeva nei poemi 44 omerici. Il ruolo di assassino è ormai pienamente interpretato dalla madre che assomma in sé i caratteri di vindice (originariamente appartenenti a Egisto, in quanto figlio di Tieste), di usurpatrice al trono e di fedifraga. La vendetta di Clitemestra non è più quella di Egisto: lei uccide il marito per vendicare la morte di Ifigenia, e tale sarà il movente per l’azione dei figli. Nell’Amleto, invece, è l’invidia di Claudio a spingere al patricidio, lui ne è colpevole, non Gertrude, che partecipa senza avere in realtà alcun reale movente. Un ulteriore motivo di analogia è il fatto che qui come nell’Amleto il lamento si protrae in solitudine, mentre gli altri sono fuori a festeggiare. 3. 3 Clitemestra e Gertrude Prima di andare a considerare ulteriori motivi di analogia fra Claudio e Clitemestra, si possono identificare quelli che legano le due madri. Clitemestra, come già detto, si è sostituita all’Egisto dei poemi omerici nella rappresentazione del personaggio che incarna il male da vendicare. Eppure ancora un aspetto accomuna le due donne: l’essere entrambe fedifraghe. Egisto e Claudio sono, rispettivamente, cugino e fratello dei defunti mariti. Il carattere incestuoso dell’adulterio di Gertrude viene fortemente stigmatizzato da Amleto, differentemente da quanto accade invece nella vicenda di Oreste. Nel terzo atto del dramma shakespeariano, quando Amleto si reca nella stanza della madre per parlarle e finisce per uccidere Polonio nascosto dietro a una tenda, il giovane esprime un forte rammarico per il comportamento della madre, irrispettoso nei confronti di un marito oltremodo degno. HAMLET No by the rood, not so. You are the queen, your husband’s brother’s wife, And, would it were not so, you are my mother. Amleto, 3.4.14-16 Disapprova a tal punto la mancanza di fedeltà che addirittura è spinto a rinnegare la propria madre. Un atteggiamento simile è tenuto da Oreste nell’omonima tragedia di Euripide, quando questi dialoga con Tindaro, padre di Clitemestra, adirato con il nipote per la vendetta sanguinosa perpetrata ai danni della figlia. 45 Ὀρέστης ἡ σὴ δὲ θυγάτηρ — μητέρ᾽ αἰδοῦμαι λέγειν — ἰδίοισιν ὑμεναίοισι κοὐχὶ σώφροσιν ἐς ἀνδρὸς ᾔει λέκτρ᾽: ἐμαυτόν, ἢν λέγω κακῶς ἐκείνην, ἐξερῶ: λέξω δ᾽ ὅμως. Eur. Or. 557-60 Qui è l’αἰδώς56 a essere chiamato direttamente in causa. Nel tentativo di giustificare il matricidio, Oreste fa appello a un concetto simile alla fides latina: se anche si è macchiato di un crimine talmente grande da dover subire un processo per valutare se potrà o meno essere assolto, accusa d’infedeltà la madre e difende il suo operato additandolo come necessario a preservare la Grecia da eventuali future mancanze di lealtà delle altre donne. Il padre, agli occhi di Elettra e Oreste, era un uomo andato via dalla patria per combattare contro dei nemici. Così anche nell’Amleto il padre è visto come incarnazione del condottiero, salvatore e protettore della patria, onorabile al contrario del fratello. Nell’Elettra di Sofocle, viene esplicitata la tracotanza di Clitemestra, l’aver osato tenere un atteggiamento inconciliabile con i dettami divini. La scena è simile: Ἠλέκτρα ἴδω δὲ τούτων τὴν τελευταίαν ὕβριν, τὸν αὐτοέντην ἡμὶν ἐν κοίτῃ πατρὸς ξὺν τῇ ταλαίνῃ μητρί, μητέρ᾽ εἰ χρεὼν ταύτην προσαυδᾶν τῷδε συγκοιμωμένην: Soph. El. 271-274 In tutti e tre i passi i giovani lamentano il fatto di dover chiamare madre una donna che per gli atteggiamenti fedifraghi tenuti nei confronti del proprio legittimo marito, non lo meriterebbero. Nell’Amleto (soprattutto nel Primo In-Quarto) la regina non è accusata esplicitamente dell’omicidio del marito. Questo scarto rispetto ai drammi attici ne implica anche il differente atteggiamento tenuto dai figli. Nelle tragedie greche la colpa di Clitemestra è duplice al contrario di quanto avviene in Shakespeare. Nel Primo In-Quarto, si fa esplicito riferimento all’innocenza della donna nell’omicidio: 56 Sull’importanza del concetto di αἰδώς, cf. Dodds (1951). 46 QUEEN But, as I have a soul, I swear by heaven I never knew of this most horrid murder. Amleto (Primo In-Quarto), 2520.1 In Eschilo, il riferimento alla vergogna che si prova nel chiamare madre una donna indegna di tale nome, non è ugualmente esplicito, ma l’indicazione della condanna a un atteggiamento non consono a una moglie greca è evidente all’interno delle Coefore. Anzi, tale passo è estremamente simile a un altro dell’Amleto, in cui la generalizzazione delle conseguenze nefaste a cui conduce un comportamento lussurioso è messo in bocca ad Amleto. Naturalmente nelle Coefore un simile commento generale è affidato al Coro, e non alle parole di un singolo personaggio della tragedia: Χορός ἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀνδρὸς φρόνημα τίς λέγοι καὶ γυναικῶν φρεσὶν τλαμόνων καὶ παντόλμους ἔρωτας ἄταισι συννόμους βροτῶν; ξυζύγους δ᾽ ὁμαυλίας θηλυκρατὴς ἀπέρωτος ἔρως παρανικᾷ κνωδάλων τε καὶ βροτῶν. Aeschl. Ch. 594-601 La sferzante condanna della ‘libidine donnesca’ è presentata anche in Shakespeare con toni di riprovazione e di forte sdegno, nel medesimo intervento in cui si accenna ironicamente alle lacrime di Niobe. HAMLET Oh most wicked speed, to post With such dexterity to incestuous sheets. It is not, nor it cannot come to good. But break, my heart, for I must hold my tongue. Amleto, 1.2.156-159 47 Oltre a questo riferimento ve ne sono altri di simile spessore, ancora più lirici, icastici ed enfatici. Sempre all’interno del medesimo intervento, Amleto estende il giudizio, prima confinato alla sola madre, a tutto il genere femminile, denigrandone la debolezza e l’incostanza. HAMLET Let me not think on’t; frailty, thy name is woman A little month, or ere those shoes were old With which she followed my poor father’s body Amleto, 1.2.146-8 Un altro punto di contatto riguarda la tempistica del tradimento. Gertude e Clitemestra sono accusate di essere scivolate fra le braccia dei propri amanti con una rapidità intollerabile. Amleto, non è ancora a conoscenza del retroscena dell’assassinio del padre e si limita dunque a criticare la rapidità con cui la madre è passata dal lutto per la morte del marito ai festeggimenti per il nuovo matrimonio. Proprio i festeggimenti sono odiosi ad Amleto come all’Elettra di Sofocle. Anche qui la coincidenza è evidente: nel passo in questione dell’Amleto, i collegamenti rintracciabili fra il testo shakespeariano e la drammaturgia attica, sono tutti afferenti alla tragedia di Sofocle. HORATIO M y lord, I came to see your father’s funeral. HAMLET I pray thee d o not mock m e fellow student, I think it was to see my mother’s wedding. HORATIO Indeed my lord, it followed hard upon. HAMLET Thrift, thrift, Horatio. T h e funeral baked meats Did coldly furnish forth the marriage tables. Amleto, 1.2.176-181 Nell’Elettra non è il banchetto nuziale a infastidire la ragazza, ma i festeggiamenti che Clitemestra tiene in ricordo dell’uccisione del marito. Da una parte vi è l’immagine del banchetto funebre che si tramuta in banchetto nuziale, dall’altro quello della festa in onore di Agamennone che si trasforma in banchetto che ne festeggia la sua morte. Secondo 48 un’antica tradizione storica argiva infatti, nel giorno 13 del mese di Gamelione 57 (Gennaio) si svolgevano ad Argo, in onore di Agamennone, cerimonie e riti riparatori, ma agli occhi di Elettra questi ultimi appaiono come una perversa profanazione della sua sciagurata madre che ne stravolge il senso più profondo e pio. Ἠλέκτρα ἡ δ᾽ ὧδε τλήμων ὥστε τῷ μιάστορι ξύνεστ᾽, ἐρινὺν οὔτιν᾽ ἐκφοβουμένη: ἀλλ᾽ ὥσπερ ἐγγελῶσα τοῖς ποιουμένοις, εὑροῦσ᾽ ἐκείνην ἡμέραν, ἐν ᾗ τότε πατέρα τὸν ἀμὸν ἐκ δόλου κατέκτανεν, ταύτῃ χοροὺς ἵστησι καὶ μηλοσφαγεῖ θεοῖσιν ἔμμην᾽ ἱερὰ τοῖς σωτηρίοις. Soph. El. 275-81 Sia Elettra che Amleto si sentono soli nella situazione, contro tutto e tutti. Per quanto riguarda Elettra, l’isolamento è anche rappresentazione di una trasgressione rituale 58 oltre che etica. L’analogia fra le due madri sembrerebbe sbilanciata sul versante del tradimento nei confronti del marito. Gertrude non è colpevole, agli occhi di Amleto, dell’assassinio del padre, questo infatti è completamente ascritto a Claudio. Nondimeno un altro aggancio fra le due figure femminili si instaura in relazione al matricidio. Nelle tragedie greche l’assassinio della madre è propedeutico al prosieguo della vicenda e, soprattutto, si rende necessario a seguito del ruolo di spicco che assume Clitemestra nell’uccisione. Eppure, nel finale delle Coefore, si assiste al dubbio di Oreste che si appresta a uccidere la madre. È la scena in cui Pilade interviene, recitando l’unica sua battuta di tutto il dramma, ricordando all’amico come sia più importante il rispetto di un oracolo che l’adempimento dei doveri familiari. Ὀρέστης Πυλάδη τί δράσω; μητέρ᾽ αἰδεσθῶ κτανεῖν; Πυλάδης ποῦ δὴ τὰ λοιπὰ Λοξίου μαντεύματα 57 Il tredicesimo giorno del mese di Gamelione coincideva con la luna piena del calendario lunare. Pare che il sacrificio del re avesse sempre luogo durante la luna piena. 58 Finglass2007, p.185 49 τὰ πυθόχρηστα, πιστὰ δ᾽ εὐορκώματα; ἅπαντας ἐχθροὺς τῶν θεῶν ἡγοῦ πλέον. Aeschl. Ch. 899-902 Pilade assolve in questo caso al ruolo di ἀλάστωρ atto a far superare il dissidio tragico tante volte paventato nel corso della tragedia da Oreste. Il gesto della madre di scoprire il seno per suscitare nel figlio l’idea della maternità, viene superato dal riconoscimento del maggior peso da assegnane alla volontà divina di fronte al rispetto dei rapporti di consanguineità. Tuttavia il dubbio finale di Oreste rappresenta un nuovo aggancio alla figura di Amleto. Questo punto sarà meglio discusso nel prosieguo della trattazione, nell’ambito della tematica del matricidio. 3. 4 Claudio, Clitemestra e il simbolismo del serpente Si è già detto dell’analogia principale fra i personaggi di Claudio e Clitemestra relativa al ruolo principale svolto da entrambi in relazione all’uccisione del re. Si è anche visto l’atteggiamento simile dei due nei confronti del lutto di Elettra e Amleto. Ora si cercherà di analizzare un ulteriore punto di contatto che ha a che fare con la simbologia. Un simbolo è un segno, naturale o artificiale, a cui nel processo immaginativo sono associati oggetti, fenomeni, condizioni ambientali o idee ed emozioni della psiche umana. Il carattere associativo di questo processo consente di tenere assieme il segno iniziale con una vasta gamma di rappresentazioni simboliche e analogiche, che talvolta creano fitte e intricate reti di rimandi e relazioni. Il serpente59 è un animale che riveste da sempre un ruolo simbolico di spicco in letteratura e iconografia, atto a descrivere innumerevoli significati, talvolta ambigui e persino antitetici fra loro. Questa ambivalenza deriva dal fatto che esso rappresenta genericamente l’energia, la forza vitale nelle sue più svariate forme, ma anche dal fatto che spesso vengano presi in considerazione aspetti singoli e particolari, piuttosto che l’animale nella sua interezza. Per molte antiche civiltà, simboleggiava il mondo sotterraneo, ctonio, e il regno dei 59 Per un approfondimento sulla simbologia del serpente, cf. Biedermann 1992 50 morti, probabilmente in relazione alla caratteristica dei serpenti di trascorrere gran parte della propria vita nascosti, fra pietre o in buche sotterranee. Un altro, più sottile, carattere del serpente afferisce alla sua apparente capacità di ringiovanimento attraverso il processo della muta, il cambio stagionale della sua pelle. Inoltre, degne di nota sono anche le caratteristiche relative alla sua nascita da un uovo come un uccello e alla capacità di uccidere con il suo morso velenoso. Molto notevoli sono le associazioni con la vita e con la morte; per questa ragione il serpente svolge un ruolo altamente significativo in molte e diverse culture. Il serpente biblico, l’incarnazione di Satana nel giardino dell’Eden, diventa in seguito l’ὄφις “messo su un’asta” di Mosè60, interpretato come archetipo del Cristo crocifisso61. Sempre nell’Antico Testamento, il bastone di Aronne venne trasformato in un δράκων, capace di divorare i bastoni dei maghi del Faraone62. Nella mitologia norrena lo Jörmungandr, un enorme serpente, avvolge la terra, simbolo del mare, richiudendosi su se stesso, come un οὐροβόρος. Non diversamente il suo omologo egiziano, il gigantesco Apophis, rappresentazione del Caos e del buio, minaccia costantemente l’ascesa del dio Sole, Ra. La figura dell’οὐροβόρος è di particolare interesse: rappresenta il ciclo dell’eterno ritorno o, più in generale, l’eternità. Molte tradizioni simboliche tendono a sottolineare il ruolo negativo del serpente (ad esempio, il pericolo del suo morso velenoso); di conseguenza, le creature che si pensa possano uccidere i serpenti (l’aquila, la cicogna, il falco) vengono ad assumere connotazioni positive. D’altra parte vi sono complessi mitologici molto antichi che includono misteriose carattaeristiche positive del serpente, tendenzialmente legati all’aspetto della rinascita e del ringiovanimento. Il serpente può rappresentare, ad esempio, la benedizione degli antenati defunti, o anche essere associato alla guarigione e alla reincarnazione (ad esempio, i serpenti sacri di Asclepio 63). Per gli antichi Egizi, l’οὐραῖος (rappresentante un cobra) simbologgiava la corona capace di sputare veleno contro i nemici del Faraone; veniva anche rappresentato avvolto attorno al disco solare e associato a varie 60 Numeri 2:8-9 61 Giovanni 3:14-15: «E come Mose innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’ uomo, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». [Il testo è della Nuova Diodati (1991)] 62 Esodo 7:9-12 63 Il caduceo, avvolto da un serpente, del dio della Medicina Asclepio, fa riferimento al simbolismo terapeutico che può venire ad assumere l’animale. 51 divinità. Nelle civiltà precolombiane dell’America Centrale, il serpente appare come il simbolo del quinto giorno del calendario. Per lo piu presagiva sofferenza per i nati sotto tale segno, destinato a diventare mercanti o guerrieri, sempre girovaghi senza fissa dimora. Tuttavia Quetzalcóatl (“serpente piumato”), ornato di piume verdi, era una divinità di grande significato religioso, che apparentemente rappresentava l’armonizzazione della dualità uccello-serpente (e quindi cielo-terra). In tutto il mondo questo abbinamento è di grande importanza come simbolo dell’unione degli opposti polari64. Nei sistemi filosofici di origine asiatica il serpente Kundalini, arrotolato alla base della colonna vertebrale, simboleggia l’energia vitale risvegliata ed elevata attraverso la meditazione. Il serpente nel giardino dell’Eden, che ha portato Eva a disobbedire al comandamento di Dio di non mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza, è chiamato Samael nella leggenda ebraica medievale, un nome associato anche a Lucifero. Il serpente, nella Bibbia, si rivolge alla donna perché è più suscettibile dell’uomo. La psicologia junghiana vede il serpente (come tutti gli altri rettili) come creatura simbolica risalente ai primi secoli della terra e della razza umana, rappresentante una forza potente e primordiale. La figura del serpente appare nel mito di Oreste sin dalla versione stesicorea, documentata dal frammento PMGF 219 Davies, in cui un serpente insanguinato appare in sogno a Clitemestra65. Questa riconosce in esso il re Plistenide, cioè Agamennone, secondo l’interpretazione più corrente. La simbolica da rilevare in quel caso è quella dell’animale ctonio legato al mondo dei morti. Scrive Untersteiner66 che «il serpente, simbolo delle potenze ctoniche, appare insistentemente nelle rappresentazioni figurate, già a partire dall’età geometrica, in cui diventava connessione col mondo dei defunti, e ben presto viene raffigurato accanto a questo di cui diventa simbolo». Eschilo sicuramente tenne presente, nella redazione della sua trilogia, il sogno narrato da Stesicoro, ma apportò alcune modifiche rispetto alla versione precedente. Nell’Orestea infatti l’aspetto serpentiforme è assunto da Oreste in persona, non dal padre. Al termine del primo episodio delle Coefore, il Coro riferisce a Oreste che 64 Cfr. M. Lurker, Adler und Schlange 1983. 65 Per l’interpretazione del sogno di Clitemestra cfr. The Serpent at the Breast, William Whallon. «Transactions and Proceedings of the American Philological Association» (1958), pp. 271-275; M. L. Sancassano, Il serpente e le sue immagini: Il motivo del serpente nella poesia greca dall’ Iliade all’ Orestea. Como: Edizioni New Press, 1997, pp. 173 ss. 66 Cf. Lapini et al. 2002, p. 17. 52 Clitemestra, sconvolta da un sogno notturno, ha inviato libagioni sulla tomba di Agamennone. Spinto dal giovane, il Coro gli rivela la natura del sogno: Χορός τεκεῖν δράκοντ᾽ ἔδοξεν, ὡς αὐτὴ λέγει. […] ἐν ι παιδὸς ὁρμίσαι δίκην. […] αὐτὴ προσέσχε μαζὸν ἐν τὠνείρατι. […] ὥστ᾽ ἐν γάλακτι θρόμβον αἵματος σπάσαι. Aeschl. Ch. 527, 529, 531, 533 Clitemestra ha sognato di partorire un serpente, di avvolgerlo fra fasce, come fosse un neonato, e di offrirgli il seno da cui sarebbe uscito latte misto a sangue. Oreste riconosce subito nel sogno una premonizione del matricidio: lui è il serpente, uscito dal grembo materno, che tornerà a vendicarsi contro il seno stesso della madre che lo ha nutrito. Ὀρέστης ἡ δ᾽ ἀμφὶ τάρβει τῷδ᾽ ἐπῴμωξεν πάθει, δεῖ τοί νιν, ὡς ἔθρεψεν ἔκπαγλον τέρας, θανεῖν βιαίως: ἐκδρακοντωθεὶς δ᾽ ἐγὼ κτείνω νιν, ὡς τοὔνειρον ἐννέπει τόδε. Aeschl. Ch. 548-550 Riconoscendosi nel serpente del sogno della madre, ottiene anche un ulteriore associazione alla figura del padre, il δράκων Agamennone, poiché nell’adempimento dei doveri oracolari se ne fa degno erede67. In questo senso, il serpente viene ad assumere un significato simbolico nuovo, relativo alla sua capacotà di rinascita: Oreste infatti rappresenterebbe la rinascita del padre Agamennone. La madre, d’altra parte, comprende il significato del sogno in punto di morte, capisce di aver generato e allattato la serpe che l’ucciderà e, scoprendo il seno, tenta di richiamare il figlio al rispetto del legame di consaguineità. In tal modo però 67 Garvie 1986, pp. 193-194. Mario Untersteiner (in Lapini et al. 2001, p. 25 ) scrive: «La preparazione della vendetta è subordinata alla spiegazione del sogno di Clitemestra, che rappresenta per Oreste l’ultima garanzia del volere divino, in quanto il motivo dell’incontro dei due fratelli e quello del sogno si fondono in unità. Due eventi oscuri e misteriosi, finché isolati, ora si illuminano vicendevolmente e portano Oreste ad una ferma decisione. Infatti Oreste si riconosce nel serpente generato in sogno da Clitemestra [...]. Questo auto riconoscimento si concreta in un’affermazione dell’eroe tutt’uno con la sua stirpe, quale sta diventando Oreste, che si sforza di vincere, con la forza del ragionamento e con la decisione implacabile che questo infonde, le forze demoniche, così vive in lui. Tutto questo avviene nella luce apollinea: l’ordine violento dato dal dio si trasfigura in dialettica.» 53 offre essa stessa l’occasione al figlio di compiere il matricidio così come prospettato nel sogno. Ciò che più interessa ai fini dell’analisi in parallelo con l’Amleto è però un’altra similitudine: all’interno della trilogia tragica, infatti, è Clitemestra in persona a essere paragonata più volte a una serpe. Essa si discosta grandemente dalle madri venerabili dei Greci descritte nei poemi omerici. Cassandra la definisce δάκος, animale che morde68 e la assimila a un’ἀμφίσβαινα69. Secondo Maria Lucia Sancassano (1997, p. 167) questa sarebbe una delle prime attestazioni in cui si delinea «attraverso l’associazione con la donna, l’immagine del rettile insidioso e astuto che tanta fortuna avrà nel mondo cristiano-medievale». Oreste, da parte sua, nelle Coefore propone una lunga metafora per cui Clitemestra sarebbe la serpe dalle innumerevoli spire entro cui ha trovato la morte suo padre, identificato con un’aquila. Ὀρέστης Ζεῦ Ζεῦ, θεωρὸς τῶνδε πραγμάτων γενοῦ: ἰδοῦ δὲ γένναν εὖνιν αἰετοῦ πατρός, θανόντος ἐν πλεκταῖσι καὶ σπειράμασιν δεινῆς ἐχίδνης. τοὺς δ᾽ ἀπωρφανισμένους 250νῆστις πιέζει λιμός: οὐ γὰρ ἐντελεῖς θήραν πατρῴαν προσφέρειν σκηνήμασιν. Aeschl. Ch. 246-251 Successivamente il giovane torna sulla medesima similitudine identificando la madre con una μύραινα e una ἔχιδνα70 (v. 994). Così anche il Coro, ai vv. 831-836, esorta Oreste a farsi come Perseo e a sconfiggere Medusa, il mostro con la testa cinta di serpenti, e ai vv. 1044-1047 si rallegra che il giovane abbia liberato la città di Argo dal giogo di due serpenti, Egisto e Clitemestra, tagliando loro la testa. Le Erinni, dal canto loro, hanno il capo cinto di serpi (Coef. v. 1050). Shakespeare ricorre spesso all’immagine del serpente nelle sue tragedie: si ritrova 68 Oreste usa lo stesso termine al v. 530 delle Coefore per indicare la serpe al seno del sogno della madre 69 Cf. Aeschl. Ag. 1233. Questa figura deve il suo nome alla credenza per cui, avendo una testa a entrambe le sue estremità, poteva avanzare avanti o indietro con la medesima facilità. A volte è raffigurata con gli artigli di un uccello e le ali appuntite di un pipistrello. Poteva esprimere l’orrore e l’angoscia associati a situazioni ambivalenti. 70 Sulla figura del serpente nella mitologia greca cf. Visintin 1997 e Sancassano 1997. 54 nel Macbeth e in Cleopatra ad esempio, e per questo motivo Gilbert Murray (1914) non si sofferma se non per poche righe sul parallelo riguardante tale immagine nelle due vicende. Eppure l’analogia sembra evidente, soprattutto in considerazione di tutti i possibili parallelismi che si possono rintracciare fra le figure a cui è ascritta la principale colpa di parricidio nelle due vicende, rispettivamente Claudio e Clitemestra. D’altra parte la metafora del serpente nell’Amleto si colloca all’interno del primo atto, quello in cui sono maggiormente evidenti le analogie con la storia di Oreste. GHOST A serpent stung me. So the whole ear of Denmark Is by a forged process of my death Rankly abused; but know, thou noble youth, The serpent that did sting thy father’s life Now wears his crown. Amleto 1.5.36-39 Come nel dramma attico, anche in Shakespeare la figura del serpente si ricollega all’immagine dell’inganno, e alla trama d’insidie tessute dagli assassinii affinché il delitto potesse essere perpetrato. Nell’Amleto, l’allusione enigmatica è sciolta attraverso il riferimento alla corona: viene reso così evidente il tema dell’usurpazione al trono. Probabilmente Shakespeare fu fortemente influenzato dalla simbologia biblica ma, anche in questo caso, si ripropone l’analogia con i drammi attici. E se stavolta l’affinità non riguarda il plot ma il simbolismo uilizzato, la relazione che si insaura – per non voler supporre la discendenza dell’immagine in Shakespeare dal teatro greco – potrebbe essere valutata a livello di mitologema. 3. 5 Il matricidio, la coscienza e il senso del male Il tema del matricidio risulta trattato in maniera molto differente fra Eschilo e Shakespeare. Ma tale differenza si appiana quando si considera l’Oreste euripideo. Molti aspetti ‘pragmatici’ di Amleto sembrano infatti plasmati sulla rappresentazione del personaggio di Oreste delineato da Euripide nell’omonima tragedia, piuttosto che su quella definita da Eschilo. A partire dal tema del matricidio, fino a giungere a quello della follia, dell’aspetto 55 fisico e della propensione all’inganno e agli enigmi, i due personaggi sembrano essere l’uno l’alter ego dell’altro. Gli elementi di cui sopra sono trattati in maniera dissimile non solo in Eschilo, ma anche nei precedenti nordici della saga amletica. Per quanto riguarda il tema della follia, ad esempio, sia in Saxo che nelle saghe norrene, questa è descritta in termini ai limiti della ferinità. Tornando a Eschilo, come si è visto, i personaggi mancano di uno sviluppo psicologico interiore a cui fa seguito l’andamento della trama. Essa è data solo dal verificarsi di eventi esterni, non concernenti la psicologia dei personaggi. In Euripide, al contrario, la sfera intima e privata è analizzata più nel profondo. Quelle di Euripide sono ‘persone’ più che personaggi. Un aspetto che non attiene alla sfera psicologica ma che sembra collegare Amleto con l’Oreste di Euripide, riguarda il tema del matricidio. Nell’Amleto il fantasma del padre ammonisce il figlio di non sporcarsi le mani facendo del male alla madre. GHOST But howsomever thou pursues this act Taint not thy mind, nor let thy soul contrive Against thy mother aught. Leave her to heaven And to those thorns that in her bosom lodge To prick and sting her. […] Amleto, 1.5.84-88 In Eschilo non ci sono simili ammonimenti, e viene presentata la possibilità di un ciclo indefinito di vendette e sofferenze finché la maledizione non sia annullata e la giustizia raggiunta tramite l’istituzione di un’assemblea giudicante in grado di ripristinare l’ordine. Ogni accadimento spinge Oreste a compiere il matricidio in vista del finale tematico sul concetto di giustizia a cui fa capo la trilogia. Le Erinni del padre esigevano vendetta. In Euripide, al contrario, all’inizio della tragedia, dopo un breve dialogo con la sorella, Oreste richiama alla mente il matricidio e sembra porsi dei dubbi sulla bontà del suo comportamento. Afferma addirittura che il padre, vedendolo in procinto di uccidere la madre, lo avrebbe trattenuto. Ὀρέστης οἶμαι δὲ πατέρα τὸν ἐμόν, εἰ κατ᾽ ὄμματα ἐξιστόρουν νιν, μητέρ᾽ εἰ κτεῖναι χρεών, 56 πολλὰς γενείου τοῦδ᾽ ἂν ἐκτεῖναι λιτὰς μήποτε τεκούσης ἐς σφαγὰς ὦσαι ξίφος, εἰ μήτ᾽ ἐκεῖνος ἀναλαβεῖν ἔμελλε φῶς, ἐγώ θ᾽ ὁ τλήμων τοιάδ᾽ ἐκπλήσειν κακά. Eur. Or. 288-293 Questo episodio, solo immaginato da Oreste, sembra lo stesso messo in scena nell’Amleto in cui sembra che queste esatte parole del personaggio euripideo vengano rappresentate da Shakespeare in palcoscenico. Nella quarta scena del terzo atto, quella in cui avviene l’uccisione accidentale di Polonio e il successivo feroce dialogo di Amleto con la madre, nella stanza della regina, il fantasma del re morto – visibile solo al figlio 71 – appare intimandogli di riflettere e di non perdere la lucidità e di non smarrire la strada della vera vendetta scagliando la propria ira contro la persona di Gertrude. HAMLET A king of shreds and patches Save me and hover o’er me with your wings, You heavenly guards ! - What would your gracious figure ? GERTRUDE Alas he’s mad! HAMLET D o you not come your tardy son to chide, That lapsed in time and passion lets go by Th’important acting o f your dread command? Oh say! GHOST D o not forget. This visitation Is but to whet thy almost blunted purpose. But look, amazement on thy mother sits. Oh step between her and her fighting soul: Conceit in weakest bodies strongest works. Amleto, 3.4.103-113 Gertrude teme che il figlio sia impazzito, ritenendolo preda di potenti allucinazioni. A mio parere, l’analogia che si instaura fra i due episodi appena evidenziati amplifica il parallelo 71 Anche Oreste, nel finale delle Coefore, a seguito dell’assassinio di Clitemestra, vede lui solo le Erinni della madre, iniziando da lì il suo travaglio. 57 tematico della pazzia, già indicato da Murray. In tal caso però, l’analogia è più forte: sebbene la pazzia rappresenti un elemento comune ai gruppi di saghe greche e nordiche, l’episodio rappresentato da Shakespeare sembra quasi un’allusione vera e propria al passaggio euripideo. D’altra parte, la follia di cui è vittima Oreste in Euripide, si distanzia da quella di Eschilo quanto da quella di Saxo. Con Euripide ci si trova di fronte a un conflitto intimo, psicologico, di certo non assimilabile alla ferinità delle saghe nordiche o alla persecuzione delle Erinni di Eschilo. Da questo trattamento innovativo del tema della follia, risulta ancora più chiaro che Euripide suggerisce una prospettiva affatto nuova all’interpretazione della vicenda. Viene additata la futilità e l’inutilità della sofferenza che scaturisce dalla vendetta, contestando la validità del primo atto vendicativo e annullando così il valore stesso dei comandi divini, riportando la tragedia su di un piano terreno, più umano. La follia, ugualmente, è vissuta come travaglio psichico e psicologico, non si limita al piano religioso e non è un semplice atto persecutorio delle divinità ctonie. Anche Shakespeare riporta la tragedia su di un piano umano senza tuttavia tralasciare in toto gli aspetti morali e religiosi. Così, nell’Amleto l’atto della vendetta è analizzato meticolosamente sotto differenti punti di vista e viene in parte posticipato proprio perché inconsciamente rifiutato come compito moralmente più impellente rispetto a quello della redenzione della madre che dunque ne prende il posto. Il fantasma del padre è un’entità spirituale, sovrannaturale, ma l’attitudine al dubbio di Amleto è umana. Lo scetticismo è comune in egual misura a Oreste e ad Amleto. Quest’ultimo mette in discussione l’entità del fantasma: HAMLET […] The spirit that I have seen May be a devil […] Amleto, 2.2.551-552 E Oreste è ugualmente scettico riguardo al dio che gli ha ordinato di uccidere la madre: Ὀρέστης […] Λοξίᾳ δὲ μέμφομαι, ὅστις μ᾽ ἐπάρας ἔργον ἀνοσιώτατον Eur. Or. 285-286 58 Anche Menelao, nella lunga stiticomitia con il nipote, rimarca il carattere ingiusto dell’ordine divino. Il sospetto cade sull’intera base di convincimenti religiosi ‘antropomorfici’ e la divinità così intesa viene criticata e allontanata. Anche Amleto, a suo modo, rigetta l’idea cattolica elisabettiana dell’autenticità del mondo spirituale, anche se, apparentemente, continua a castigarsi per non aver portato a compimento il comando del fantasma. Il suo coinvolgimento nel compito di riportare ordine nel regno moralmente corrotto di Danimarca è una questione terrena e decisamente umana che non ha niente a che vedere con la sfera spirituale. Il tema della redenzione dal peccato ereditato dalla madre acquisisce il predominio nella sua coscienza. Euripide è ugualmente interessato alla purificazone di Oreste da un punto di vista umano (senza quindi chiamare in causa l’ausilio che garantisce Apollo nelle Eumenidi di Eschilo) e quando Menelao domanda: Μενέλαος οὐδ᾽ ἥγνισαι σὸν αἷμα κατὰ νόμον χεροῖν; Eur. Or. 429 è interessato a questo genere di redenzione, terrena, non divina. Oreste dichiara più e più volte nel corso della recitazione, in una sorta di difesa in absentia del popolo di Argo che avrebbe dovuto giudicarlo, che colpevole del matricidio non era lui, ma Apollo, e che dal dio si sarebbe dovuto esigere il pagamento del misfatto. Ponendo la divinità ai livelli dei comuni mortali, ne mette paradossalmente in luce l’inconsistente antropomorfismo e lo biasima, finendo per rigettarlo. Così anche per quanto riguarda l’intervento ex machina di Apollo nel finale della tragedia: nella sua assenza di connessione con gli eventi fino a quel momento narrati, evidenziando il forte iato fra giudizio terreno e risoluzione divina, Euripide ne critica l’irrazionalità e, lungi dal lasciare lo spettore sollevato da una conclusione così poco in sintonia con tutto ciò che l’ha preceduta, insinua il sospetto, l’angoscia, il dubbio della fallacia degli dèi. Come scrive Massimo Di Marco, a proposito dell’Oreste: «Proprio quando tutto sembra risolversi, egli scopre che la vicenda rappresentata non ha soluzione in una dimensione umana o perlomeno non ha una soluzione che possa soddisfare il suo senso morale. La cesura con ciò che precede è troppo forte, e lo riconduce alla realtà, strappandolo di fatto all’illusione scenica proprio nel momento in cui 59 – con la mirabolante epifania del dio – il teatro celebra il trionfo dell’illusionismo72». Il castello di Elsinore rappresenta il regno del male, ma anche del caos, del traviamento, del rovesciamento dei giusti valori: nessun dubbio di Amleto trova risposta. Come già evidenziato in precedenza, nel dramma inglese non vi è la risoluzione dei conflitti. La morte di tutti i personaggi maggiori della vicenda assimila il finale a quello euripideo: in entrambi i mondi i valori si sono estinti. Sia Euripide che Shakespeare sono interessati a evidenziare i concentti di colpa e di peccato. La differenza sta nell’assenza, in Euripide, del concetto di redenzione, che invece interessa molto a Shakespeare. Si potrebbe dire che in un confronto fra Shakespeare, Eschilo ed Euripide si passa da un parallelo inerente alle situazioni esterne, i fatti, a uno inerente alla sfera interna, la psicologia. In Eschilo e Sofocle la natura fisica degli eventi aveva una controparte spirituale e religiosa che poneva l’uomo di fronte a forze superiori, tali da fargli capire di essere solo un burattino nelle mani delle divinità, e di non potersi sottrarre al proprio destino. L’Oreste di Eschilo e l’Edipo di Sofocle non hanno possibilità di usare il libero arbitrio. Il primo è stato costretto al matricidio da Apollo – e l’alternativa sarebbe stata patire l’ira del dio. Il secondo aveva un destino già scritto, a cui risultava impossibile sottrarsi. Ma con Euripide, Oreste diventa un personaggio differente e molto più vicino ad Amleto. In Eschilo Oreste è un personaggio piatto. Quando nelle Coefore vede per la prima volta le Erinni, non vi è alcuna indicazione del suo stato mentale al riguardo. D’altra parte, la sua pazzia è attribuita oggettivamente alla vista delle Erinni e paradossalmente sembra non avere nulla a che fare con la sua coscienza di colpevolezza o con i suoi stati psichici. Oreste è totalmente convinto della giustizia della propria azione e rimane tale fino alla sua assoluzione. Non vi assolutamente alcuna connessione fra senso di colpa e stato mentale: il suo dubbio alla vista del seno materno scaturisce dalla paura delle Erinni della madre, non da un rinnovato amore per la madre. Quando Oreste dice: Ὀρέστης ἀλλ᾽, ὡς ἂν εἰδῆτ᾽, οὐ γὰρ οἶδ᾽ ὅπη τελεῖ, ὥσπερ ξὺν ἵπποις ἡνιοστροφῶ δρόμου ἐξωτέρω: φέρουσι γὰρ νικώμενον φρένες δύσαρκτοι: πρὸς δὲ καρδίᾳ φόβος ᾁδειν ἕτοιμος ἠδ᾽ ὑπορχεῖσθαι κότῳ. 72 Di Marco 2000, p. 282. 60 ἕως δ᾽ ἔτ᾽ ἔμφρων εἰμί, κηρύσσω φίλοις κτανεῖν τέ φημι μητέρ᾽ οὐκ ἄνευ δίκης, πατροκτόνον μίασμα καὶ θεῶν στύγος. Aesch. Ch. 1021-1029 nessun collegamento viene tracciato fra l’azione e l’incipiente pazzia. Vi è unicamente il convincimento di aver operato nel giusto e poiché l’ordine di Apollo non avrebbe potuto essere disatteso senza gravissime conseguenza per Oreste stesso. In Euripide invece, l’atteggiamento tenuto da Oreste nella medesima situazione è diverso. Il dramma si colloca temporalmente sei giorni dopo l’assassinio della madre. La follia di Oreste viene presentata immediatamente come uno stato mentale, dalle parole della sorella, Elettra, che lo assiste nel delirio: Ἠλέκτρα [...] χλανιδίων δ᾽ ἔσω κρυφθείς, ὅταν μὲν σῶμα κουφισθῇ νόσου, ἔμφρων δακρύει, ποτὲ δὲ δεμνίων ἄπο πηδᾷ δρομαῖος, πῶλος ὣς ὑπὸ ζυγοῦ. Eur. Or. 42-45 Il vendicatore non è più in uno stato di superiore integrità morale, dettata dalla protezione della divinità. Lo stesso dolore è vissuto da Elettra, quando pronuncia sul corpo addormentato di Oreste: Ἠλέκτρα ἔκανες ἔθανες, ὦ τεκομένα με μᾶτερ, ἀπὸ δ᾽ ὤλεσας πατέρα τέκνα τε τάδε σέθεν ἀφ᾽ αἵματος: ὀλόμεθ᾽ ἰσονέκυες, ὀλόμεθα. σύ τε γὰρ ἐν νεκροῖς, τό τ᾽ ἐμὸν οἴχεται βίου τὸ πλέον μέρος ἐν στοναχαῖσί τε καὶ γόοισι δάκρυσί τ᾽ ἐννυχίοις, ἄγαμος ἐπὶ δ᾽ ἄτεκνος ἅτε βίοτον ἁ μέλεος ἐς τὸν αἰὲν ἕλκω χρόνον. Eur. Or. 195-207 61 Tali parole sembrano proiettare uno stato di futulità interiore, sofferenza, uno stato di disintegrazione sotto l’impatto delle passioni innaturali, mentre la sterilità, che risulta quando le forze della vita sono distrutte, è indicata dall’ultimo verso. Ogni frase sembra il seme di un’esperienza interiore. L’indagine nella psiche del personaggio è andata crescedo: con la nuova dimensione psicologica data da Euripide, la tragedia greca muove i suoi ultimi passi nel suo percorso di maturazione e cambiamento. Nel processo, qualcosa della grandezza cosmica di Eschilo e la concentrazione e concisione di Sofocle viene perso ma la tragedia diventa definitivamente più moderna. Sarà l’Oreste di Euripide a dire, con impressionante modernismo:«δουλεύομεν θεοῖς, ὅ τι ποτ᾽ εἰσὶν οἱ θεοί» (v. 418). Se Amleto è stato chiamato il più moderno fra i drammi shakespeariani, è anche il più vicino allo spirito euripideo, e l’Oreste di Eupiride è più simile ad Amleto che all’Oreste di Eschilo. In Eschilo non vi è senso di colpa, mentre in Euripide il protagonista è torturato dal senso di colpa, così come Amleto è torturato dal senso di colpa dovuto alla sua identificazione con la madre. Quando Menelao gli domanda quale malattia lo distrugge, il giovane risponde: Ὀρέστης ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν᾽ εἰργασμένος. [… ] λύπη μάλιστά γ᾽ ἡ διαφθείρουσά με — Eur. Or. 396, 398 La coscienza fa la sua prima apparizione all’interno della vicenda. Per la prima volta nel dramma attico il protagonista si assume piena responsabilità dell’atto compiuto e vuole trovare una maniera per riscattarsi. Si assiste agli albori della nascita dell’Amleto shakespeariano, in cui la dimensione interiore rappresenta l’aspetto più originale del personaggio e quello che motiva la dilazione della vicenda per tre lunghi atti (dal secondo al quarto) senza che si porti a compimento la vendetta nel modo lineare e rapido con cui si presenta nelle Coefore. 62 3. 6 Vendetta e adulterio Il fantasma esorta categoricamente Amleto: GHOST List, list, oh list! If thou didst ever thy dear father love [...] Revenge his foul and most unnatural murder. Amleto, 1.5.22-23,25 e ancora: GHOST If thou hast nature in thee bear it not; Let not the royal bed of Denmark be A couch for luxury and damned incest. Amleto, 1.5.81-83 L’allusione all’assassinio e all’incesto inizia da questo momento a essere predominante nella conscienza di Amleto e sebbene la sua «prophetic soul» avesse già sospettato di Claudio, la sua mente è ora preoccupata dall’idea del «dammed incest». La sua mente lavora così su due livelli: consciamente sa di dover vendicare la morte del padre, mentre inconsciamente è proteso ad analizzare la colpa della madre. Entrambi i temi assumono una valenza enorme per Amleto che si sente quasi soffocato dal peso del male che lo circonda. Ne risulta una struttura drammaturgica particolare, che assume le sembianze di un ‘giallo’ di stampo psicologico, ma lo stesso Amleto non può scappare a momenti di «sore distraction» che, la maggior parte delle volte, si manifestano in forma di pazzia. Il riferimento alla presenza del male viene presentato in numerose battute di Amleto: HAMLET The time is out of joint: O cursed spite, That ever I was born to set it right. – Amleto, 1.5.189-90 Qui, la distorsione e il dolore non sono da intendersi esclusivamente in connessione alla vendetta dell’assassinio del padre, ma indicano uno stravolgimento del giusto equilibrio 63 delle cose nel mondo, il prevalere del male sul bene: avviene un passaggio dal particolare al generale e la sua condizione personale diviene immagine della condizione umana generale. Nell’Orestea l’imposizione di Apollo non lascia spazio a valutazioni e reazioni individuali di Oreste: si tratta di un comando divino la cui inadempienza minaccia tremende conseguenze (non ci sono minacce da parte del fantasma in Amleto). Ὀρέστης οὔτοι προδώσει Λοξίου μεγασθενὴς χρησμὸς κελεύων τόνδε κίνδυνον περᾶν, κἀξορθιάζων πολλὰ καὶ δυσχειμέρους ἄτας ὑφ᾽ ἧπαρ θερμὸν ἐξαυδώμενος, εἰ μὴ μέτειμι τοῦ πατρὸς τοὺς αἰτίους: τρόπον τὸν αὐτὸν ἀνταποκτεῖναι λέγων, ἀποχρημάτοισι ζημίαις ταυρούμενον: αὐτὸν δ᾽ ἔφασκε τῇ φίλῃ ψυχῇ τάδε τείσειν μ᾽ ἔχοντα πολλὰ δυστερπῆ κακά. τὰ μὲν γὰρ ἐκ γῆς δυσφρόνων μηνίματα βροτοῖς πιφαύσκων εἶπε, τὰς δ᾽ αἰνῶν νόσους, σαρκῶν ἐπαμβατῆρας ἀγρίαις γνάθοις λειχῆνας ἐξέσθοντας ἀρχαίαν φύσιν: λευκὰς δὲ κόρσας τῇδ᾽ ἐπαντέλλειν νόσῳ: ἄλλας τ᾽ ἐφώνει προσβολάς Ἐρινύων ἐκ τῶν πατρῴων αἱμάτων τελουμένας: Aeschl. Ch. 269-284 Non vi è traccia di libertà decisionale o possibilità di allontanarsi dal compito imposto. Ma, come anticipato, l’analisi di Shakespeare, delineata attraverso l’apprensione di Amleto nei confronti del male nel mondo, si estende al di là dell’atto singolo dell’omicidio e dell’adulterio. La visione di Eschilo mantiene una salda associazione fra vendetta e comando divino fino alla fine della trilogia. Ciò non implica che non si venga a creare una visione più profonda e generica di male, ma che vengono adottati mezzi differenti per farlo: infatti è una delle funzioni del Coro quella di esprimere natura e condizione del genere umano. Il male scaturisce dall’atto empio: omicidio e lussuria. Nell’Orestea, oltre al Coro, vi è un altro personaggio che esplicita questa genealogia del male: Cassandra. La prima 64 visione dell’assassinio di Agamennone nella vasca si collega infatti a quella delle «stragi consanguinee»73 e dell’«adulterio»74 all’interno della casa di Atreo. Insieme costituiscono il complesso di mali che passano di generazione in generazione e che in ultimo si manifestano nel tradimento di Clitemestra con Egisto e nell’assassinio di Agamennone. I due motivi della vendetta e del tradimento sono ben evidenziati e costituiscono una sorta di traccia nell schema generale della trama complessiva. Egisto e Clitemestra uccidono il re. Inoltre il Coro accusa Egisto di aver sedotto la regina e di essere un profanatore del talamo nuziale. Questi eventi coinvolgono due personaggi: entrambi sono colpevoli e la punizione per le colpe di cui si sono macchiati è loro inflitta in accordo con la nozione primitiva di giustizia, quella delle divinità ctonie. Eschilo presenta tale nozione perché la pone a fondamento della successiva indagine in merito al tema generale della giustizia: quella infatti è la prima, semplice tipologia presentata da Eschilo nelle Coefore e che successivamente nelle Eumenidi evolve in un nuovo concetto che corrisponde alla grazia connessa alle nuove divinità olimpiche, in particolare a Zeus. In Shakespeare non vi è questo equilibrio, questo schema causa-effetto. I motivi dell’omicidio e dell’adulterio sono indagati nel dettaglio ma non si incastrano in uno schema netto come in Eschilo. Omicidio e adulterio, incarnazioni del male, implicano un insieme d’interminabili reazioni nella mente di Amleto e prima dell’atto finale la loro natura, e la natura del male in generale, vengono sviscerate nel dettaglio. Nel vortice della coscienza fanno il loro ingresso i dubbi. La preoccuapzione nei confronti del male, unita ai dubbi, pongono Amleto di fronte a dei bivi. Così, mentre la trama procede, la vendetta su Claudio è indefinitamente procrastinata e rifuggendo il mondo dell’azione, Amleto si rifugia in quello del pensiero e della speculazione in cui la situazione individuale diventa riflessione sulla condizione umana. Dunque la trattazione della vendetta e dell’adulterio in Shakespeare, lungi dall’essere immediata e semplice come in Eschilo, è complicata dallo spostamento dell’analisi da un piano esterno a uno interno, da quello individuale a quello universale, dall’azione alla riflessione e dall’aspetto puramente fisico a quello morale e spirituale del 73 Agamennone, vv. 1090-1092:«μισόθεον μὲν οὖν, πολλὰ συνίστορα / αὐτόφονα κακὰ καρατόμα, / ἀνδροσφαγεῖον καὶ πεδορραντήριον». 74 Agamennone, vv. 1191-1193:«ὑμνοῦσι δ᾽ ὕμνον δώμασιν προσήμεναι / πρώταρχον ἄτην: ἐν μέρει δ᾽ἀπέπτυσαν / εὐνὰς ἀδελφοῦ τῷ πατοῦντι δυσμενεῖς». 65 peccato. Per questo motivo la preoccupazione di Amleto riguarda soprattutto la questione del peccato materno sul piano morale e spirituale. A tal proposito si è parlato di atteggiamento edipico, intravedendo nel giovane un eccessivo attaccamento alla madre che diventa ossessione di redimerla e di recedere dall’intento di uccidere Claudio. Oreste al contrario non è minimamente coinvolto a livello emozionale nei confronti della madre. Vi è un unico punto in cui tentenna sul da farsi, nel finale delle Coefore, quando chiede aiuto a Pilade. Ma il suo imbarazzo non è legato alla sfera dei sentimenti, ma sempre e solo a dei precetti culturali legati ai legami di consaguineità. Amleto, a eccezione del primo in-folio in cui escplicita l’innocenza della madre, sospetta della sua connivenza nell’assassinio del padre: HAMLET A bloody deed? Almost as bad, good mother, As kill a king and marry with his brother. Amleto 3.4.28-29 La differenza sta nel fatto che il compito di Oreste è semplicemente quello di assolvere un ordine divino e che Eschilo lo utilizza per illustrare il passaggio di un uomo dal ruolo di vindice a quello di vittima per presentarne il processo come punto di svolta da un modello di giustizia primitivo a uno nuovo e democratico. Eschilo è interessato a Oreste soprattutto per questo aspetto e a Elettra nel suo spronarlo alla vendetta: una volta assolto tale ruolo, la taglia fuori dall’azione. È il caratteristico comportamento senza psicologia di quasi tutti i personaggi tragici eschilei. Anche il personaggio di Clitemestra non è compiutamente delineato. Diversamente, il Coro è coinvolto emozionalmente, generalizzando aspetti etici e teologici degli eventi. In Eschilo, esso assolve alla funzione d’illuminare diversi aspetti della situazione drammatica, incluse le sue implicazioni spirituali e i commenti su di esse, così da evidenziare gli aspetti e le tematiche essenziali della tragedia. Il Coro può prendere parte all’azione senza effettivamente parteciparvi, avvertendo o consigliando, ad esempio, altri personaggi in situazioni critiche. All’epoca di Shakespeare, il Coro era praticamente scomparso dalle scene ma la sua funzione viene rilevata da un diverso strumento drammaturgico, il soliloquio: ogni personaggio, nei propri soliloqui, dice la verità, riguardo a se stesso e agli altri, e persegue una specifica e personale norma etica, per quanto poi 66 possa comportarsi in maniera ingannevole nei confronti degli altri personaggi. Claudio ad esempio rivela il suo crimine e prega di ottenere la redenzione nel soliloquio del terzo atto (Amleto 3.3.36-72), esprimendo il contrasto fra la sua apparenza e la realtà. Si potrebbe dire che Shakespeare riscrive il personaggio di Oreste ampliandone la definizione psicologica. La situazione dei due è simile, ciò che li distingue è la profondità emozionale. Kitto (1956, pp. 336-7), a conclusione della sua opera, scrive che «we may compare Hamlet with Orestes. Externally, they are in a similar position. But when Aeschylus has shown us that Orestes is an avenger pure in heart, and that his dilemma is from every point of view an intolerable one, it is not far wrong to say that his interest in Orestes, as a character, is exhausted; anything more would be unnecessary. Hamlet exists in a different kind of tragedy, one which requires that we should see how the contagion gradually spreads over his whole spirit and all his conduct». Addita la stessa mancanza di profondità psicologica anche nei personaggi di Elettra e Oreste in Sofocle e propone quindi un giudizio finale sulla differenza che sussiste fra tragedia greca e tragedia elisabettiana: «Greek tragedy presents sudden and complete disaster, or one disaster linked to another in linear fashion, while Shakespearean tragedy presents the complexive, menacing spread of ruin; and that at least one explanation of this is that the Greek poets thought of the tragic error as the breaking of a divine law (or sometimes, in Aeschylus, as the breaking down of a temporary divine law), while Shakespeare saw it as an evil quality which, once it has broken loose, will feed on itself and on anything else that it can find until it reaches its natural end». Irving Ribner (1960) analizzando lo sviluppo delle tragedie di Shakespeare nel corso della sua carriera, parla di una ‘crescita nella visione morale’ (p. 7) e della tragedia come di una forma di religione nella ricerca di una ‘affermazione di ordine’ (p. 9). Identificando Tito Andronico, Romeo e Giulietta e Riccardo III come le tragedie ancora estremamente legate nella loro genesi al modello senecano, riconosce che con l’Amleto e in ultimo con l’Otello, la tragedia di Shakespeare raggiunge la sua vera maturità (p. 115). L’importanza ascritta alla problematica del peccato e il relativo confronto con il male stabilisce un’identità, nella parte iniziale dello schema dell’Amleto e dell’Orestea, fra le due rispettive ambientazioni, la Danimarca e Argo. I sentimenti di Amleto nei confronti del suo Paese lo portano a descriverlo come fosse una specie d’inferno. Tali sentimenti sono 67 così preponderanti nel corso dei primi tre atti che costituiscono una sorta di progressione attraverso di esso. Il viaggio in Inghilterra, la sua prigionia e il ritorno in Danimarca che occupa il terzo atto, preparano un cambiamento di prospettiva, come se lui emergesse dal lungo soggiorno nel regno del male e tornasse, finalmente, preparato all’azione. Si assiste a una riconciliazione fra eventi e Destino, attraverso il principio del πάθει μάθος: HAMLET There’s a divinity that shapes our ends, Rough-hew them how we will Amleto, 5.2.10-11 È indotto ad accettare gli eventi e ad affermare che HAMLET Not a whit, we defy augury. There is special providence in the fall of a sparrow. If it be now, ’tis not to come; if it be not to come, it will be now; if it be not now, yet it will come - the readiness is all. Since no man of aught he leaves knows, what is’t to leave betimes? Let be. Amleto, 5.2.192-196 Questa accettazione del Destino e il riconoscimento del potere provvidenziale tramite un percorso di sofferenza accomuna Amleto a Oreste, e l’opera shakespeariana, almeno in qualche scena del finale, si avvicina allo spirito religioso dell’Orestea. Se la parte centrale dell’Amleto può rappresentare una sorta di Purgatorio – il periodo di sofferenza e apprendimento – il suo viaggio può essere visto come apportatore di un cambiamento in lui e, in particolare, il contatto con l’acqua come una specie d’investitura battesimale. Si potrebbe allora dire che, alla fine, Amleto perviene a uno stato di rigenerazione, anche se solo parziale. Per quanto riguarda Oreste, la riconciliazione avviene solo per volere di un evento superiore, il voto di Atena in assemblea, e si tratta comunque solo di una riconciliazione ‘tematica’: le Erinni che si riconciliano con la città di Atene e con le divinità olimpiche testificano tale valenza. La risoluzione del conflitto è quindi parziale sia nell’Amleto che nell’Orestea: nella seconda non vi è alcuna risoluzione del conflitto interiore del protagonista poiché questa 68 viene generata direttamente dall’alto, non da una presa di coscienza del personaggio, nell’Amleto invece non vi è una totale risoluzione poiché di questi avviene la morte. Eppure, nell’annuncio dell’arrivo del giovane Fortebraccio sembra leggersi la medesima risoluzione ‘tematica’ presente nell’Orestea. 3. 7 Orazio e Pilade Le Coefore si aprono con Oreste e Pilade che si lamentano sulla tomba di Agamennone. Quando Elettra si avvicina accompagnata dalle donne del Coro, i due si nascondono. L’episodio ha un analogo nella prima scena dell’atto finale dell’Amleto, quando il giovane e Orazio si nascondono all’arrivo del corteo funebre che porta la salma di Ofelia. Mentre Elettra piange sulla tomba del padre e si domanda dove sia il fratello, Oreste e Pilade rientrano in scena fra lo stupore delle donne. Un movimento scenico simile avviene anche nell’Amleto quando, dopo aver scoperto che la funzione funebre nel cimitero era in ricordo di Ofelia, Amleto esce allo scoperto e interrompe i lamenti (e le maledizioni) di Laerte. Già in un commento all’Amleto del XVIII secolo era stato notato il parallelismo tra le coppie Amleto-Orazio e Oreste-Pilade75. Come compagno di Oreste, Pilade appare in tutti e tre i tragici greci. Ma sia Eschilo che Sofocle lo trattano come un personaggio minore, e solo Euripide presenta il rapporto tra Oreste e Pilade come un legame di armonia tra individui di uguale statura (Eur. El. 82-85;. Eur Or. 1157-61). L’Oreste di Eschilo mostra pochi segni di esitazione – fondamentalmente solo nel finale ricordato in chiusura del paragrafo precedente – lasciando i dubbi e le perplessità al Coro. L’Elettra di Sofocle si assume invece piena responsabilità delle sue decisioni, senza mostrare dubbi, e non ha dunque alcun bisogno di appoggi esterni per intraprendere l’azione. Infine, l’Oreste di Euripide è un personaggio per certi aspetti miserabile, caduto in uno stato di fisiologica follia e stanchezza: è un eroe indebolito che necessita la presenza di un altro elemento, oltre al Coro, destinato a sostenerne il ruolo di protagonista nella vicenda. In realtà, tale ruolo di supporto, come già accennato, è presente nelle Coefore di 75 Cf. Davies (1784), III pp.1-152; Il parallelo fra Orazio e Pilade si accorda con quanto sostenuto da Bloom (1987) che vede in Orazio il personaggio che, amando Amleto, fornisce un legame tra lui e il pubblico; Amleto altrimenti, come un personaggio che «represents by negation» avrebbe perso la sua «universality of appeal» (p. 61). 69 Eschilo (896-903) quando Pilade sprona Oreste alla vendetta. Appena tre versi sono sufficienti a piegare la volontà del giovane, precedentemente sollecitato dal Coro a commettere l’atto cruciale. Il personaggio di Pilade di Euripide cessa di essere una mera ombra di Oreste ed emerge per diventare una dramatis persona a pieno titolo. Pilade intende condividere il destino di Oreste, condannato a morte, giustificando la decisione di morire insieme con la sua partecipazione all’omicidio di Clitemestra. Πυλάδης ἐπίσχες. ἓν μὲν πρῶτά σοι μομφὴν ἔχω, εἰ ζῆν με χρῄζειν σοῦ θανόντος ἤλπισας. Ὀρέστης τί γὰρ προσήκει κατθανεῖν σ᾽ ἐμοῦ μέτα; Πυλάδης ἤρου; τί δὲ ζῆν σῆς ἑταιρίας ἄτερ; Ὀρέστης οὐκ ἔκτανες σὴν μητέρ᾽, ὡς ἐγὼ τάλας. Πυλάδης σὺν σοί γε κοινῇ: ταὐτὰ καὶ πάσχειν με δεῖ. Ὀρέστης ἀπόδος τὸ σῶμα πατρί, μὴ σύνθνῃσκέ μοι. σοὶ μὲν γὰρ ἔστι πόλις, ἐμοὶ δ᾽ οὐκ ἔστι δή, καὶ δῶμα πατρὸς καὶ μέγας πλούτου λιμήν. γάμων δὲ τῆς μὲν δυσπότμου τῆσδ᾽ ἐσφάλης, ἥν σοι κατηγγύησ᾽ ἑταιρίαν σέβων: σὺ δ᾽ ἄλλο λέκτρον παιδοποίησαι λαβών, κῆδος δὲ τοὐμὸν καὶ σὸν οὐκέτ᾽ ἔστι δή. ἀλλ᾽, ὦ ποθεινὸν ὄμμ᾽ ὁμιλίας ἐμῆς, χαῖρ᾽: οὐ γὰρ ἡμῖν ἔστι τοῦτο, σοί γε μήν: οἱ γὰρ θανόντες χαρμάτων τητώμεθα. Eur. Or. 1069-84 Poco dopo Pilade occupa brevemente il centro della scena, quando medita il piano per salvare le loro vite, proponendo un’impresa audace e sanguinosa. Euripide conferisce all’ombra dell’eroe alcune delle funzioni di supporto ascrivibili, in precedenza, interamente del Coro. Al termine dell’Amleto, dopo il duello finale, Orazio mostra una φιλία nei confronti dell’amico paragonabile a quella di Pilade per Oreste relativa al passaggio poco sopra citato: anche lui infatti, vedendo Amleto morente, vorrebbe morire assieme a lui, e solo 70 l’ulteriore intervento di Amleto gli impedisce il gesto estremo. HAMLET Heaven make thee free of it! I follow thee. I am dead, Horatio. Wretched queen adieu. You that look pale, and tremble at this chance, That are but mutes or audience to this act, Had I but time, as this fell sergeant death Is strict in his arrest, oh I could tell you But let it be. Horatio, I am dead, Thou livest; report me and my cause aright To the unsatisfied. HORATIO Never believe it. I am more an antique Roman than a Dane. Here’s yet some liquor left. HAMLET As th’art a man, Give me the cup. Let go, by heaven I’ll ha’t. 0 God, Horatio, what a wounded name, Things standing thus unknown, shall live behind me! If thou didst ever hold me in thy heart, Absent thee from felicity awhile, And in this harsh world draw thy breath in pain To tell my story. Amleto, 5.2.311-328 L’analogia dunque riguarda sia l’atto di φιλία dei rispettivi compagni nei confronti dei due eroi, sia il successivo intervento dei protagonisti volto a impedire la morte di quelli. Passando alla tragedia di Shakespeare, si potrebbe pensare che questi avesse presente il modello euripideo Oreste-Pilade e che se ne sia appropriato in quanto istanza innovativa del modello di relazione eroe-Coro (che ormai in epoca elisabettiana non esisteva quasi più), e che lo abbia utilizzato nella forma della coppia Amleto-Orazio. Nel contesto del parallelismo strutturale tra Oreste-Pilade e Amleto-Orazio si può fare riferimento a quanto scrive Louise Schleiner (1990) a riguardo: «My hypotheses about Pylades-Horatio and the churchyard scene are as follows. Early on in writing the play, 71 Shakespeare drafted the scenes where Horatio is the Pyladean foreigner — must have Danish customs explained to him, reminisces about Wittenberg, and so forth. As the writing proceeded, Shakespeare was working for scene from the Ur-Hamlet and had sometimes to assign Horatio the habitué kind of functions. The churchyard scene, like the «foreigner» aspect of Horatio, is, so far as anyone has known, an invention of Shakespeare’s: the two features do not occur in Belleforest’s tale of Amleth, the source of the Ur-Hamlet, nor in Saxo Grammaticus, nor in Fratricide Punished. If these two features did appear in some source or analogue, it would be likely that they were in Shakespeare’s immediate source, the Ur-Hamlet. In fact, we have no evidence that they appeared anywhere in versions of the Hamlet story before Shakespeare». Le analogie fra la vicenda di Oreste e quella di Amleto non si fermano semplicemente alla trama: dall’analisi di molti passi finora discussi sembrerebbe che sia, per certi versi, la struttura interna della tragedia ad aver subito influssi dal dramma attico. Il personaggio di Orazio si staglia all’interno della vicenda in maniera diversa rispetto al resto dei personaggi secondari: la sua sembra essere una ‘identità corale’. Generalmente il personaggio di Orazio viene interpretato in maniera abbastanza linerare, come l’amico (compagno di scuola e confidente) del protagonista. Quest’ultimo, incontrando Orazio per la prima volta nel dramma, gli si rivolge con le parole «my good friend» 76, mentre Orazio si chiama suo «poor servant ever» (1.2.162-62). Si potrebbe quindi pensare che le parole di Amleto in realtà non si propongano di definire il loro rapporto, ma semplicemente d’indirizzare una forma standardizzata di saluto cordiale; nella stessa scena Amleto chiama Orazio un «fellow-student», espressione abbastanza neutra. In alcuni episodi, ma in forma molto velata, si potrebbe rintracciare l’intenzione di Amleto di fare di Orazio il suo confidente (3.2.75-77; 3.2.300-304), ma alla fine ne trascura sempre i consigli. Già nelle scene del fantasma (1.4-5) Amleto stenta a trattare Orazio come un ‘buon amico’, e nel momento culminante non fa distinzione fra lui e Marcello (1.4.84-89). Questi pochi esempi permettono di considerare l’interpretazione tradizionale di Orazio come amico-confidente di Amleto, se non dubbia, quanto meno limitata. D’altra parte il personaggio di Amleto è costitutivamente portato alla solitudine e la presenza del personaggio del ‘fidato buon 76 Anche in questo caso esiste un parallelo nell’Oreste di Euripide quando, dopo il dialogo con Menelao, Pilade entra in scena e viene salutato da Oreste con le parole «φίλτατον βροτῶν» (v. 725) e «ἡδεῖαν ὄψιν» (v. 727). 72 amico’ potrebbe apparire incongruente con tale caratteristica preponderante di Amleto. Di conseguenza, la figura di Orazio può essere letta in vari modi, senza fissarsi su di un’unica individualià: può essere percepito come la figura tipica dello ‘straniero’, o come quella di un cortigiano danese, o di un filosofo, o un ufficiale che in precedenza aveva servito il padre di Amleto. Queste sfaccettature multiple sono più che evidenti a chiunque avesse letto con attenzione l’opera. Eppure, uscendo dallo schematismo tradizionale dell’incasellamento dei personaggi all’interno di una cornice esegetica ‘moderna’, tutte queste contraddizioni non sembrano essere particolarmente significative e paiono anzi appianarsi se si considerassero la sua funzione e il suo ruolo nei termini del sistema drammaturgico greco. In contrapposizione alla tragedia classica, in cui i due elementi del Coro e del protagonista hanno uno spessore scenico simile (e nella tragedia euripidea, quando il Coro diventa più debole, la sua funzione sembra in parte riassegnata a Pilade), nell’Amleto shakespeariano l’eroe si allontana spesso dai suoi compagni. La funzione del Coro viene infatti parzialmente rilevata dai soliloqui: Amleto non ha lo stesso bisogno di sostegno che invece caratterizza i personaggi tragici greci e tuttavia, nel finale, questo legame con Orazio (più Pilade che Coro in questa scena) è definitivamente rinsaldato. Orazio, non morendo, ricorda un eroe classico. Nell’ecatombe dell’ultima scena bisogna infatti notare più d’ogni altra cosa le figure di Orazio e del giovane Fortebraccio: tramite essi l’ordine e la giustizia vengono ristabilite nel regno di Danimarca, sia a livello etico e religioso che a livello sociale e politico, esattamente come accade in tutti i drammi attici che trattano la vicenda di Oreste, prima fra tutti l’Orestea. 3. 8 Ofelia ed Elettra Il personaggio di Ofelia riveste un ruolo fondamentale nella tragedia di Amleto: in qualità di donna amata dal principe danese ne rappresenta, secondo un’interpretazione di stampo freudiano, il suo alter ego. Come Amleto, subisce la perdita violenta di un padre e impazzisce, letteralmente, a seguito di questa. La tragicità del suo personaggio risiede, esattamente come gli eroi della tragedia greca, nella sua innocenza, nell’essere sottoposta a un destino crudele di cui non ha alcuna colpa. Il suo nome si ricollega al ruolo che 73 interpreta nella vicenda di Amleto, di amica e compagna, ma, nell’impossibilità di assolvere ad esso, si riconnette al l’essenza stessa della tragedia. Il parallelo fra l’Elettra di Sofocle e Amleto è già stato analizzato nell’ambito del discorso sul lutto e sul dolore. Se, nell’analisi del dramma shakespeariano, si considera Ofelia come un’estensione psicologica del personaggio principale, anche senza chiamare in causa interpretazioni psicanalitiche, è possibile stabilire ulteriori analogie con il personaggio di Elettra, non sofocleo stavolta ma euripideo77. Le analogie più evidenti si trovano dell’Oreste. Tornando brevemente sul significato etimologico e concettuale del nome di Ofelia, si può ricordare che Oreste chiami la sorella «μόνην ἐπίκουρον» (Or. vv. 305-06): anche lei, come Ofelia, rappresenta l’unico vero aiuto che ha il protagonista, differente, non superiore, rispetto a quello che interpretano Pilade e Orazio. Sia l’una che l’altra donna necessitano l’intervento del proprio fratello per vendicare la sorte del padre. È chiaro che una lettura di questo genere pone Laerte nella posizione di Oreste e, conseguentemente, di secondo alter ego di Amleto. OPHELIA I hope all will be well. We must be patient, but I cannot choose but weep to think they would lay him i’th’ cold ground. My brother shall know of it […] Amleto, 4.5.68-70 Elettra, non diversamente da quanto accade in Sofocle, lamenta la propria condizione ma i termini del suo lamento si ispessiscono con riferimenti alla condizione d’inferiorità che lei vive in qualità di donna. Nel dialogo iniziale con il Coro, recita: Ἠλέκτρα σύ τε γὰρ ἐν νεκροῖς, τό τ᾽ ἐμὸν οἴχεται βίου τὸ πλέον μέρος ἐν στοναχαῖσί τε καὶ γόοισι δάκρυσί τ᾽ ἐννυχίοις, ἄγαμος ἐπὶ δ᾽ ἄτεκνος ἅτε βίοτον ἁ μέλεος ἐς τὸν αἰὲν ἕλκω χρόνον. Eur. El. 201-07 77 Marguerite A. Tassi (2011, p. 87) ricollega il personaggio di Ofelia anche a quello della Cassandra eschilea. Le visioni della sacerdotessa nell’Agamennone sarebbero simili a quelle di Ofelia, 74 Ofelia, dal canto suo, non si chiama da sé ἄγαμος, ma l’essere una donna ‘a metà’ è riportato nelle parole di Gertrude durante il rito funebre per la sua morte. GERTRUDE I hoped thou shouldst have been my Hamlet’s wife. I thought thy bride-bed to have decked, sweet maid, And not t’have strewed thy grave. Amleto, 5.1.212-14 nel dolore per la morte della ragazza, mostra un attaccamento materno, rinforzando l’ipotesi della relazione intrinseca che sussiste fra Ofelia e Amleto. D’altra parte, il legame che c’è fra Oreste ed Elettra non è meno ambiguo di quello che si instaura fra i personaggi della tragedia di Shakespeare. Anche in questo caso, sono le parole stesse dei personaggi a indicare una somiglianza. HAMLET I loved Ophelia; forty thousand brothers Could not with all their quantity of love Make up my sum. What wilt thou do for her? Amleto, 5.1.236-38 Nella scena del cimitero, Amleto avvista il corteo funebre a cui partecipano la madre, Claudio e Laerte e, dopo aver riconosciuto che è in onore di Ofelia, rivela il dolore per la perdita della ragazza, amata da lui quanto e più di un fratello. Questo amore dai contorni indefiniti è quello che lega anche Elettra e Oreste. Dopo aver saputo del destino di morte a cui sono stati condannati dal popolo di Argo, entrambi si lasciano andare a dichiarazioni d’affetto che superano in intensità il normale affetto fraterno. Ἠλέκτρα ὦ φίλτατ᾽, ὦ ποθεινὸν ἥδιστόν τ᾽ ἔχων τῆς σῆς ἀδελφῆς ὄνομα καὶ ψυχὴν μίαν. Ὀρέστης ἔκ τοί με τήξεις: καί σ᾽ ἀμείψασθαι θέλω φιλότητι χειρῶν. τί γὰρ ἔτ᾽ αἰδοῦμαι τάλας; ὦ στέρν᾽ ἀδελφῆς, ὦ φίλον πρόσπτυγμ᾽ ἐμόν, τάδ᾽ ἀντὶ παίδων καὶ γαμηλίου λέχους — προσφθέγματ᾽ ἀμφοῖν τοῖς ταλαιπώροις πάρα. 75 Eur. Or. 1045-51 Se nel caso di Amleto l’amore sensuale si trasforma in amore fraterno, in Elettra e Oreste avviene l’esatto contrario. I sentimenti, in entrambi i casi, si mescolano fra loro in una commistione dai contorni non più netti. Credo che tale analogia sia una delle più incisive e originali fra quelle che possono indicare un rapporto diretto fra Shakespeare e i classici greci. 76 CONCLUSIONI In questo lavoro ho tentato di delineare le caratteristiche che accomunano la tragedia shakespeariana di Amleto ai drammi attici che hanno come argomento la vicenda di Oreste, in particolare l’Orestea di Eschilo, l’Elettra di Sofocle e l’Oreste di Euripide. Un iniziale raffronto fra le storie ha evidenziato un possibile collegamento a livello di mitologemi. Agamennone come Horvendil (il padre di Amleto nella narrazione di Saxo) rappresenta il topos del vecchio re ucciso a tradimento da un usurpatore e dalla propria moglie, divenuta amante di quest’ultimo. La vicenda rappresenterebbe simbolicamente l’avvicendamento del vecchio col nuovo. L’inserimento del personaggio del figlio è probabilmente un espediente successivo, che non rientrava nel nucleo originario del mito. In questo, Oreste e Amleto sono espressione del medesimo elemento: il giovane figlio che vendica la morte del padre ingiustamente assassinato. Le affinità di carattere mitico non spiegano però le numerose analogie testuali che si incontrano procedendo nella lettura in parallelo delle opere. L’Amleto di Shakespeare sembra essere una riscrittura in chiave moderna delle tragedie attiche. L’aspetto a mio avviso più interessante della questione è rappresentato dalla struttura circolare della tragedia elisabettiana: è sorprendente che Shakespeare apra e chiuda il suo dramma con due episodi che ricordano da vicino l’inizio dell’Agamennone e quello delle Coefore. La scena della guardia (primo atto) e quella della tomba (ultimo atto) sembrano essere allusioni troppo esplicite alla trilogia eschilea perché si possa semplicemente parlare di coincidenza. In epoca elisabettiana non era certamente possibile mettere in scena un dramma simile, in lunghezza, a quelli attici poiché sarebbe risultato troppo breve. Le aspettative del pubblico ai tempi erano ben diverse da quelle del pubblico ateniese di V secolo a.C.. Di conseguenza risultava inevitabile un trattamento della vicenda più articolato a livello di trama: si è visto che l’intreccio nell’Amleto prevede l’intersezione di tre trame interconnesse, di cui la principale risulta quella della vendetta. D’altronde, le trame secondarie si ricollegano anch’esse alla vicenda di Oreste. Ofelia rappresenta l’alter ego femminile di Amleto mentre la vicenda di Fortebraccio sancisce nel finale una rinnovata costituzione dell’ordine sovvertito. Non vi è un ritorno allo status quo né in Amleto né nelle Eumenidi. Entrambe le tragedie chiudono un ciclo di evoluzione. Se nell’Orestea si assiste 77 alla consacrazione di un concetto di giustizia democratica e della supremazia delle divinità olimpiche rispetto a quelle ctonie, nell’Amleto il cambiamento risiede nel passaggio da un’investitura regale a carattere familiaristico ed ereditario (presentata tramite un ciclo di morti violente) ad una a carattere meritocratico. Amleto e Ofelia compendiano nella propria persona caratteristiche che appartengono sia ad Oreste che ad Elettra. Il rapporto simbiotico che esiste fra le due coppie è evidente in Euripide e in Shakespeare: un rapporto fraterno che sembra sfociare in amore sensulae e, viceversa, un amore sensuale che assume caratteri di legame fraterno. La dimensione psicologica dei personaggi elisabettiani non trova riscontro nei drammi eschilei. Se qualcosa Shakespeare ha tratto da Eschilo, si è trattato di eventi e situazioni. Lo sviluppo interiore è da ricollegare ad Euripide e, in parte, a Sofocle. I motivi del lutto e del dubbio sono da ascriversi, rispettivamente, all’Elettra di Sofocle e all’Oreste di Euripide, a cui, icasticamente, rimorde la coscienza, come rivelerà nel dialogo sticomitico con Menelao. Ulteriori motivi di analogia si incontrano nell’analisi in parallelo dei personaggi di Clitemestra e Claudio, e di Orazio e Pilade, mentre pare che la funzione assolta dal Coro nella tragedia greca venga assunta tendenzialmente dai soliloqui dei personaggi shakespeariani. I mezzi e le modalità espressive cambiano, ma i temi, gli episodi e i personaggi mantengono un forte legame di affinità fra loro. Quanto messo in luce non basta ad implicare un collegamento diretto fra Shakespeare e i tragediografi attici, eppure resta il dubbio che negli anni ci si sia assestati su un’opinione riguardante l’educazione del drammaturgo inglese più dettata da pregiudizi che dall’effettivo parere che si può trarre da una lettura accorta dei suoi testi. I riferimenti eruditi all’interno delle opere di Shakespeare sono numerosi e talvolta non si giustificano facendo riferimento alla conoscenza che questi aveva della letteratura latina. Oreste e Amleto rappresentano due facce della stessa medaglia e, forse, continuare perentoriamente a negare il legame genetico che esiste fra i due è solo indicativo di una volontà di adeguarsi ad una credenza generale, divenuta cogli anni imperante e difficile da confutare, riguardante la genialità innata di Shakespeare e la paura di sminuirne la portata qualora venisse indicata l’ascendenza classica, non più solo latina, di tante sue opere. 78 BIBLIOGRAFIA 1. Fonti: edizioni, traduzioni e commenti AA. VV. 1975 C. Diano (a cura di), Il teatro greco. Tutte le tragedie, Firenze: Sansoni, 1975. Denniston – Page 1957 J. D. Denniston e D. Page (ed. e comm.), Aeschylus: Agamemnon, Oxford: Clarendon Press, 1957. Di Benedetto 1965 V. Di Benedetto (a cura di), Euripidis Orestes, Firenze: La Nuova Italia, 1965. 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