QUADRIMESTRALE DI CINEMA E VISIONI
ANNO III Nº 8 MAGGIO AGOSTO 2OO9
FATA MORGANA
Quadrimestrale di cinema e visioni
Pellegrini Editore
Direttore: Roberto De Gaetano
Comitato scientifico: Sandro Bernardi, Francesco Casetti,
Antonio Costa, Giorgio Tinazzi
Comitato direttivo: Marcello W. Bruno, Alessia Cervini,
Daniele Dottorini, Bruno Roberti
Redazione: Alessandro Canadè (caporedattore),
Daniela Angelucci, Vincenza Costantino,
Vincenzo Cuomo, Marianna Curia, Massimo Iiritano,
Bruno La Vergata, Antonella Moscati, Ivelise Perniola,
Simona Previti, Antonio Somaini, Luca Venzi
Responsabile segreteria di redazione: Loredana Ciliberto
Collaboratori alla segreteria: Ada Biafore, Simona Busni,
Greta Himmelspach, Antonietta Petrelli, Antonio Russo
Progetto grafico: Bruno La Vergata
Direttore Responsabile: Walter Pellegrini
Redazione:
DAMS, Università della Calabria
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FATA MORGANA
SOMMARIO
INCIDENZE
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Temporalità e memoria del visuale.
Conversazione con Georges Didi-Huberman
a cura di Alessia Cervini e Bruno Roberti
FOCUS
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Riflessioni a partire da un taglio.
Fotografia, allocronia, anacronismo
Francesco Faeta
39
Il culto delle immagini.
Baudelaire verso il cinema
Vincenzo Trione
65
Dream Factory Communism:
il Realismo Socialista come cultura visuale
Antonio Somaini
73
Visual effects
Marcello Walter Bruno
83
Visuale e defigurazione
Bruno Roberti
95
Quel che resta del cinema.
Il paradosso visuale della sperimentazione
Bruno Di Marino
103 Occhi di calcio (e di cinema)
Daniele Dottorini
111 Figura o immagine?
Il soggetto prende posizione
Alessia Tomaino
119 Il visibile e il visuale
Paolo Godani
129 Appunti presi in fondo alle immagini
(di finestre, di vento e di qualcos’altro)
Luca Venzi
145 Il titolo come sintesi visuale:
i Bass per Scorsese
Daniela Angelucci
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159 L’immagine giocata. Il dibattito sul videogame
e la questione del visuale
Ruggero Eugeni
173 Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica
in un’epoca post-mediatica
Francesco Casetti
RIFRAZIONI
191 Cosa vediamo quando vediamo
un video di Bill Viola
Antonio Costa
199 La camera oscura: dal caso Moro ad Abu Ghraib
Alessia Cervini
205 Edward Weston: la forma fotografica del visibile
Emanuele Crescimanno
213 L’invisibilità del visibile. Me/We, Okay di Ahtila
Antonietta Petrelli
219 Naqoyqatsi: mito e fusione testurale
nell’immagine sonora
Carlo Serra
227 Inoculati
Lorenzo Esposito
231 “Fiat veritas, et pereat mundus”.
A proposito di Redacted di De Palma
Dario Cecchi
237 Su un ricordo allucinatorio
in Valzer con Bashir
Antonio Russo
243 Il gigolò allo specchio: The Walker di Schrader
Marco Grosoli
249 Della vita e della morte: Palermo Shooting
Alessandro Canadè
255 Per una genetica dell’immagine cinematografica.
A partire da Chromosomes di Cronenberg
Andrea Inzerillo
261 Ciò che precede l’inizio. Pechino 2008
Giorgio Lo Feudo
271 Chiudere l’orizzonte del possibile:
Cremaster di Barney
Angela Mengoni
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Temporalità e memoria del visuale.
Conversazione con Georges Didi-Huberman
a cura di
Alessia Cervini e Bruno Roberti
In Gesti d’aria e di pietra citi un passaggio di Pierre Fédida che dice:
«La veggenza dell’immagine è il tempo della sua memorabilità. L’immagine
ha visto [...]. La visualità dell’immagine è una categoria ana-cronica della
temporalità». È un punto importante, perché dietro questo brevissimo passo
si nascondono molte delle cose che hai scritto a proposito dell’immagine,
soprattutto in relazione a questa dimensione temporale/memoriale che è
insita in essa. Tale problema è strettamente connesso a ciò che genericamente definiamo “visualità”: l’immagine ha visto e quindi conserva sempre
memoria di qualcosa. C’è forse, anzitutto, una precisazione linguistica da
fare, prima di entrare nel vivo della discussione. C’è una differenza tra ciò
che chiamiamo visibile e il visuale? In che cosa consiste?
Per ciò che mi riguarda, ho introdotto la differenza tra visibile e visuale
perché ero insoddisfatto dell’opposizione classica, in filosofia, tra visibile e
invisibile. Ci sono state anche filosofie meno classiche (penso per esempio a
Louis Marin, a Derrida e a Merleau-Ponty) che hanno giocato sull’invisibilità
del visibile e, per converso, sulla visibilità dell’invisibile. Io ho sempre trovato insoddisfacente questa opposizione, persino in Derrida, poiché essa ha
dato luogo unicamente a dei paradossi, sorti dalla semplice sovrapposizione
di un termine all’altro. In questo senso ho introdotto il termine visuale per
distinguerlo da visibile. Per visibile, infatti, si intendeva all’epoca, sulla scia
della lezione semiologica di Marin, qualcosa come il leggibile: regnava la
convinzione che, dietro tutto ciò che si vede, fosse possibile leggere sempre
qualcosa; che ci fosse, cioè, la possibilità di ridurre la dimensione di ciò che
posso vedere a una dimensione propriamente semiologica. Ho fondato le mie
convinzioni su esperienze molto semplici. Faccio un esempio: immagina
di avere gli occhi chiusi e di ricevere un colpo alla testa. Vedi le stelle pur
restando a occhi chiusi. Ciò che hai davanti è invisibile o è visibile? C’è
poi quella bella esperienza raccontata da Merleau-Ponty o dallo scultore
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Alessia Cervini, Bruno Roberti
americano Tony Smith. Cammini nella notte e non vedi assolutamente
nulla, ma allora perché tieni gli occhi aperti? Pensa poi all’analisi che fa
Panofsky dell’Allegoria della Prudenza. Tre volti di uomini di età differente
spiccano su un fondo nero. Non c’è niente da dire, tuttavia non c’è nulla di
invisibile. Per questa ragione ho introdotto il termine “visuale”, parola che
fra l’altro è stata duramente osteggiata per esempio da Serge Daney che la
detestava, perché la faceva coincidere con l’audiovisivo, vale a dire con la
televisione.
Oggi io stesso sarei molto meno duro con la parola “visibilità”, che in
fondo è una bella parola perché allude all’“abilità”, ovvero alla possibilità
di vedere qualcosa. In passato mi riferivo infatti alla visibilità intendendola
unicamente come attualità del vedere, non come virtualità. Ero un po’ polemico con la parola, probabilmente perché lo erano gli autori con cui ero
solito dialogare. Lo stesso è successo con la parola “leggibile”, ma da allora
molte cose sono cambiate. Nel 1984, per esempio, quando scrivevo il mio
saggio su Balzac non avevo ancora letto ciò che Benjamin aveva scritto a
proposito della questione della leggibilità. Da quel momento in poi la mia
posizione riguardo alla questione della leggibilità delle immagini ha superato
largamente quella un po’ limitante di Panofsky.
In seguito hai connesso tutto quest’insieme di problemi al tema della
reminiscenza. Più precisamente: il presente reminiscente e il passato anacronico...
Semplificando molto, si potrebbe dire che tutto ciò che riguarda il visuale,
vale a dire ogni esperienza che possiamo compiere grazie ai nostri occhi, ciò
che genericamente chiamiamo immagine, è una questione di tempo. Ogni
esperienza visuale interessante è il risultato di un montaggio di temporalità
plurali ed eterogenee che si compongono sempre di un elemento che ha a
che fare con il passato, un elemento memoriale; di un momento presente, e
per questo assolutamente imprevedibile; e infine di ciò che Deleuze chiamava l’avvenimento, un elemento che invece ha a che fare con il desiderio
e la sorpresa del futuro.
Naturalmente, quando si compie uno sforzo di riflessione ci sono cose
che sembrano più strategiche, più importanti, sulle quali bisogna insistere prima di tutto. Per esempio, quando ho lavorato sul Rinascimento, mi
sembrava importante insistere anzitutto sulla dissomiglianza e non perché
avessi dimenticato la somiglianza: avevo appena lavorato a Firenze su Donatello, dunque sulla somiglianza. Ho insistito sulla dissomiglianza in una
prospettiva strategica e apertamente polemica. Se si dice che consideravo
il Rinascimento italiano solo sulla base della dissomiglianza, si dice una
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FATA MORGANA
Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
cosa totalmente falsa. Credo che la questione della memoria non possa
assolutamente essere separata dalla questione del desiderio. Ho insistito
molto sul problema della memoria in polemica aperta con lo storicismo. Da
storico dell’arte e conoscitore della storia, dico che un’idea di storia fondata
unicamente sulla cronologia è totalmente insufficiente. Non si può guardare
un’immagine solo dal punto di vista della storia cronologica.
Oggi, per esempio, c’è una innegabile dimensione politica che l’analisi
di ogni immagine deve tenere in considerazione. Ogni desiderio è infatti
desiderio di emancipazione: questo è uno dei motivi per cui Deleuze criticava la psicoanalisi.
Tale modo di intendere la memoria testimonia delle lunghe discussioni
che ho avuto per lungo tempo con un amico psicanalista. Dipende da queste anche l’insistenza con cui mi sono occupato di autori come Warburg e
Benjamin: entrambi hanno messo la memoria al centro della loro riflessione
sulla storia in generale, e su quella delle immagini in particolare. Questa
riflessione, a mio parere, acquista un senso particolare grazie al fatto che
questi autori si trovarono a lavorare proprio nel momento in cui Freud stava elaborando una teoria della memoria incosciente. Benjamin, ma anche
Proust, compiono passi enormi verso l’elaborazione dell’idea di memoria
involontaria. Grazie a questa nuova concezione della memoria poté operarsi un capovolgimento completo della sua nozione classica. Si comincia
a parlare di una memoria senza ricordi. Da allora in avanti non si è trattato
più di riconoscere che si posseggono dei ricordi, ma che, al contrario, sono
i ricordi a possedere colui che li conserva. È questa la potenza della teoria
freudiana. Siccome sono stato un attento lettore dei classici della psicoanalisi,
direi che oggi è impossibile limitare la questione del visuale, dell’immagine,
alla sola questione della memoria, se essa è intesa come antiquariato. Se si
vuole comprendere la memoria come Freud la comprendeva (ma a questa
idea di memoria assomiglia moltissimo la nozione benjaminiana di visibilità), bisogna riconoscere che a un dato momento la memoria si fa sentire
sotto forma di desiderio. Tutto ciò non ha niente a che fare con il semplice
studio del passato.
Qual è la dimensione della storia su cui tu oggi lavori? Essa non può
essere certamente la storicità dell’immagine e non è nemmeno la storia delle
immagini, ma è, in senso benjaminiano, la dialettica storica o il divenire
storico dell’immagine...
L’immagine dialettica è piena di tempi incrociati, eterogenei, contraddittori.
FATA MORGANA
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Alessia Cervini, Bruno Roberti
Quando a proposito del visibile e dell’invisibile dicevi della tua diffidenza rispetto alla possibilità di giocare con i due coni della questione, io
pensavo al cinema, agli occhi aperti/chiusi di Kubrick in Eyes Wide Shut.
Non è un caso, infatti, che questo sia un film capitale non soltanto nell’opera di Kubrick, ma anche per il rapporto che mette in gioco tra cinema e
psicoanalisi.
Ci sono esempi anche più radicali, senza dover arrivare a parlare di
Debord che è un caso a parte. Alcuni mesi fa, per esempio, ho visto il film
di un’artista, Susan Hiller, che s’intitolava The Last Silent Movie. Il film
è stato presentato come un’istallazione alla Biennale di Berlino: nessuna
immagine, solo uno schermo nero e una traccia audio che si potrebbe dire
veicoli un contenuto che rimane invisibile. Il lavoro dell’artista consiste
nel far succedere, una dopo l’altra, 23 registrazioni in cui si ascoltano le
voci di persone che parlano lingue ormai scomparse: le lingue degli indiani
d’America, per esempio. Sullo schermo si vedono i sottotitoli in inglese,
traduzioni visive del testo che si ascolta. Non c’è nulla di invisibile in questo
film. Lo schermo è nero, ma avrebbe potuto essere bianco: si tratta della
scelta di raccontare visivamente, nello specifico attraverso un film, delle
lingue che sono state sterminate. Ogni settimana, almeno una dozzina di
lingue scompare.
Le cose che dici mi fanno pensare al film di Coppola, Un’altra giovinezza. Lì si assiste proprio a una specie di regressione, alla genealogia della
lingua originaria in rapporto al tempo. Il romanzo di Eliade, da cui il film
è tratto, narra la storia di un uomo anziano, al limite del suicido, che dopo
essere stato colpito da un fulmine, diventa immortale e ridiventa giovane.
Incontra la donna che ha amato per tutta la vita e questa donna di notte
comincia a parlare lingue non più esistenti. Il gioco consiste proprio nel
rapporto tra lingua, tempo e immagine che il film istituisce.
Quando lavoravo sull’isteria ho visto un paio di casi del genere: donne
che parlavano latino o turco senza averli mai studiati.
Ritorniamo al titolo del film di Kubrick, al tema dell’apertura/chiusura
degli occhi. M’interesserebbe capire se, secondo te, il movimento di apertura
e di chiusura dell’immagine ha a che fare con qualcosa come il respiro.
Leggendo le pagine in cui rifletti, non solo nel libro su Fédida ma anche
in quello su Parmigiani, attorno all’idea dell’aria, del pulviscolo delle
immagini, penso sempre a tutte le immagini dotate di un respiro disteso, di
una durata propria...
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FATA MORGANA
Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
Per esempio?
Penso al cinema di Ford.
A causa della sua apertura?
Certamente, sebbene la forma di Ford sia anche, in un certo senso,
una forma chiusa: più il respiro si apre, più paradossalmente l’immagine
si chiude. Quanto più il respiro dura e diventa lungo, tanto più si chiude
l’immagine. Il respiro corto invece per quanto caratterizzi le immagini che
abbiamo di fronte tutti i giorni (le immagini in presa diretta e quelle prive
di ogni deposito temporale della televisione), garantisce, paradossalmente, un’apertura: un’apertura intesa come frattura, interruzione, sincope.
Sempre in rapporto alla questione del tempo, hai scritto che le immagini
della televisione sono delle immagini che non hanno durata. Ecco mi interessa sapere che rapporto c’è, secondo te, tra le immagini dotate di durata
(durata che al cinema corrisponde al piano sequenza) e quelle sincopate,
istantanee.
Comincia la discussione. Vuoi dire che l’immagine che respira è l’immagine durata, mentre l’immagine sincope è un po’ l’immagine senza respiro?
Sarò più dialettico di te. Anche tu sei stato dialettico quando hai detto: l’immagine aperta è quella di Ford, ma il sistema di Ford è un sistema chiuso.
Hai parlato nello stesso tempo di apertura e chiusura: è interessante.
Si tratta di pensare come una unità inscindibile il processo di apertura e
quello di chiusura. Si potrebbero fare numerosissimi altri esempi: l’alternarsi
di aperto e chiuso non riguarda solo la respirazione ma anche i movimenti
sistolici e diasistolici del cuore. Allo stesso modo per parlare devo necessariamente aprire e chiudere la bocca. Anche quando si guarda un film non
si possono tenere sempre gli occhi aperti, bisogna sbatterli regolarmente.
Tutti i gesti della vita sono un aprire e chiudere: è il movimento che conta,
ed è esattamente ciò che chiamiamo respiro.
Non si può pensare di valorizzare l’apertura se prima non si è sottolineato
il ruolo della chiusura. Lo Strutturalismo concepisce l’opera come qualcosa
di chiuso, invece bisogna pensare l’apertura e la chiusura insieme. Anche le
immagini televisive sono aperte e chiuse, sebbene in un modo esecrabile.
Per esempio, in televisione il miglior modo per chiudere è non fare vedere
ai cittadini che da qualche parte si sta consumando un conflitto ingiusto:
basta semplicemente censurare, non inviare cameraman come è successo
in Ruanda, dove tutto è accaduto impunemente.
La prima possibilità è dunque la censura, la chiusura; l’altra invece corriFATA MORGANA
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Alessia Cervini, Bruno Roberti
sponde a fare un uso dell’immagine come qualcosa che scorre senza fermarsi,
come l’acqua di un rubinetto aperto. Scorre, tu la vedi, ma più la vedi meno
sei in grado di guardarla: è la cattiva durata, la durata senza respiro.
L’espressione di Benjamin «immagine dialettica» è la più bella espressione, perché bisogna che respiri il più con il meno, la vita con la morte, la
tenerezza con l’aggressività, e che tutto sia senza fine. Quando dico dialettica
non voglio riferirmi alla dialettica nel senso hegeliano, quanto piuttosto a
un movimento senza fine.
È l’idea di tensione di Deleuze.
Credo che se Deleuze avesse conosciuto meglio Benjamin, sarebbe stato
meno duro con la parola dialettica.
A questo proposito mi veniva in mente un’immagine de Il vecchio e il
nuovo di Ejzenštejn. Si tratta della sequenza della processione: in un crescendo incalzante, il regista mostra allo spettatore il divenire affannoso
del respiro degli uomini e degli animali che seguono il Pope. Aspettano
la pioggia, che però non arriva: il ritmo del respiro accelera, ma la loro
attesa non viene appagata. È uno dei casi in cui l’immagine non si chiude,
ma si riapre. Ejzenštejn è riuscito qui a creare un’immagine in cui si tengono dialetticamente insieme la durata e l’intervallo, la cesura. La figura
della spirale mostra esemplarmente tutto questo: è un’immagine che anche
quando torna su stessa non si chiude mai e anzi si riapre continuamente.
Essa sta alla base dell’idea ejzenštejniana di estasi.
Mi piace il tuo esempio, ma voglio aggiungere qualcosa a proposito di
Ejzenštejn. C’è Il vecchio e il nuovo, certamente. In questo caso il vecchio va
contrapposto al nuovo. Siamo ancora nel ‘29: due anni più tardi il Messico
permetterà a Ejzenštejn di chiedersi: che cosa è vecchio? Che cosa è nuovo?
Il film messicano è assolutamente emblematico in questo senso, ma già ne La
corazzata Potëmkin qualcosa andava in questa direzione: c’è bisogno di un
elemento proveniente direttamente dalla tradizione affinché scoppi la rivoluzione, affinché monti la rabbia: i vecchi che fino a quel momento pregavano,
imbracciano le armi e diventano anche loro rivoluzionari. È questo che mi
interessa e penso che questo interessasse anche Ejzenštejn. In Messico poi
ha avuto finalmente la libertà di dire: “ecco ciò che mi interessa”.
Quello che hai detto riguardo alla respirazione degli animali, si potrebbe
dire in riferimento al tempo stesso. Il tempo respira attraverso gesti estremamente antichi, tra comportamenti magici e cerimonie: proprio come nella
sequenza che ricordavamo. Quando Ejzenštejn legge Levy-Bruhl non è
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FATA MORGANA
Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
certamente per dire che i primitivi sono degli idioti. L’attività artistica mostra
sempre una tensione particolare verso il pensiero primitivo.
Il motivo per cui a Ejzenštejn interessa il Messico è ciò che è visibile in
Messico, cioè la sovrapposizione di epoche temporali diverse: nelle sculture rivedeva per esempio il volto dei messicani che vivevano in Messico
all’epoca del suo soggiorno.
Molti altri hanno visto questo: Taylor, per esempio, è stato uno dei primi
ad accorgersene. Era andato in Messico per studiare i manoscritti, per comprendere il sistema della contabilità degli Aztechi. Si racconta però che gli
bastò andare al mercato per rendersi conto che i vecchi utilizzavano ancora
quel sistema antichissimo e cominciare a parlare di sopravvivenza. Dopo
di lui anche Aby Warburg, André Breton, Antonin Artaud, D.H. Lawrence,
ed Ejzenštejn evidentemente. Ora dico questo perché generalmente Taylor
è considerato un esponente del vecchio positivismo, mentre in realtà è
l’inventore dell’antropologia moderna. È un gesto moderno quello che ha
compiuto quando ha formulato questa idea di sopravvivenza, sostenendo
che i segni del presente erano là, nel presente, e bastava guardarli. Benjamin
dice lo stesso, quando sostiene che il tempo non trova la propria manifestazione in un indefinito altrove, ma precisamente qui, nel presente, senza
dover ricorrere ai musei.
E qui entra la questione del montaggio...
La questione del montaggio è centrale. Perché l’unica rappresentazione
possibile di questa complessità temporale, di ciò che chiamiamo il visuale,
ma anche dell’invisibile, del presente, della memoria, del futuro, del desiderio è il risultato di una costruzione che si chiama montaggio. Da questo
punto di vista è giusto dire che Ejzenštejn è stato un autore fondamentale
del XX secolo, dal punto di vista antropologico e da quello epistemologico.
Proprio come Benjamin, che sul concetto di montaggio ha costruito la sua
critica allo storicismo.
Si potrebbe far riferimento anche a Il museo immaginario di Malraux e
a Mnemosyne di Warburg.
Sì, sebbene io pensi che, caso per caso, si tratti di pratiche di montaggio
diverse fra loro. Ho cominciato a comprendere quanto Ejzenštejn fosse
importante per me già quando ho lavorato su Georges Bataille, in un libro
molto importante per me.
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Alessia Cervini, Bruno Roberti
È un peccato che non sia uscito in Italia.
Dunque, è il libro che ho dedicato al tipo di montaggio messo in opera
da Georges Bataille a partire da epoche e tipi di documenti totalmente eterogenei fra loro: non si tratta solamente di un’operazione surrealista, ma di
un vero e proprio metodo di conoscenza. In questa prospettiva ho messo in
relazione questo straordinario documento, che è stato creato lo stesso anno
della fondazione degli “Annales”, con l’opera di Warburg che, morendo
proprio in quegli anni, non riuscì portare a termine il progetto Mnemosyne.
Accanto a tutto questo c’è Il vecchio e il nuovo, che Ejzenštejn presentò alla
Sorbona di Parigi nel 1930. Il questore impedì la proiezione ed Ejzenštejn
improvvisò una conferenza che entusiasmò tutti. Tutte le riviste d’avanguardia gli chiesero il testo di quell’intervento: fu intervistato da una serie di
riviste, tutte pubblicate e autografe. Ho scoperto poi un documento che era
sfuggito a tutti: per la rivista di Bataille, Ejzenštejn non scrisse un testo, ma
realizzò un montaggio di immagini: due pagine con cinquanta fotogrammi.
Georges-Henry Rivière firmò le due pagine, ma non è lui che le ha fatte
poiché Ejzenštejn tagliò e incollò lui stesso quelle immagini...
È un documento inedito in Italia.
Io credo che sia molto di più di un semplice articolo: è una vera e propria
opera. D’altro canto nelle sue Memorie Ejzenštejn dice di non amare molto
Breton, ma di essere un grande estimatore del surrealismo dissidente, dunque principalmente Bataille. Non so se si siano mai incontrati, se abbiano
discusso, ma la cosa fondamentale per me è che nell’insieme straordinario
delle pratiche di montaggio si ritrovino Bataille, Warburg, Carl Einstein...
E c’è un ulteriore legame col cinema, perché Einstein ha scritto alcuni
film con Renoir.
Infatti. Nel 1984, in un libro che si chiamava La ressemblance informe
ho messo in relazione i movimenti d’avanguardia da una parte con Bataille
e Ejzenštejn, dall’altra con Warburg. Ma il rapporto che avevo istituito con
Ejzenštejn fu molto criticato dalla critica d’arte americana e dal gruppo di
Rosalind Krauss, che stava preparando il suo lavoro sull’informe.
Nella famiglia di coloro che hanno realizzato grandi opere di montaggio rientra sicuramente anche Godard col suo grandioso progetto sulle
Histoire(s) du cinéma, sebbene, ovviamente, con delle differenze. Nell’opera
di Godard il rapporto tra montaggio e storia diventa molto evidente, dal
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FATA MORGANA
Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
momento che, sin dall’inizio, è denunciata la volontà di costruire un nuovo
modello storiografico...
Voi che idea avete in proposito?
In una conversazione insieme a Ishaghpour, Godard sostiene di aver fatto
qualcosa di non dissimile da ciò che ha fatto a suo tempo Ejzenštejn. Non
so se questo sia del tutto vero: forse si tratta anche qui di due diversi usi
del montaggio. È quello che sostiene Rancière ne Il destino delle immagini
quando parla del montaggio di Ejzenštejn come di un montaggio dialettico,
superato da quello simbolico di Godard. In Ejzenštejn la polarità uno-due
è sempre superata da una sintesi finale, mentre in Godard le immagini
rimangono divise da un “tra” insuperabile.
Non sono del tutto d’accordo.
Hai parlato di questo in Immagini malgrado tutto.
Esattamente. In quella sede mi sono schierato a favore di Godard, contro
la logica di Lanzmann, ma non contro il suo film. Dunque, sono un grande
ammiratore delle Histoire(s) du cinéma. Proprio come Jacques Aumont sono
convinto che nessun documento delle Histoire(s) sia alterato. Godard mette
in atto una grande operazione di montaggio, ma in nessun caso i materiali
usati perdono il valore di documento. È questo fa sì che il film sia veramente
un film sulla Storia. Per questo non ha senso mettere Godard e Vertov da una
parte e Ejzenštejn dall’altra, utilizzando quell’argomentazione del “uno più due
uguale tre”: la dialettica così intesa non ha più a che fare con le immagini.
Faccio un esempio, forse il più noto. Alla fine di Sciopero si alternano
due tipi diversi di immagine: il massacro della folla mostrata attraverso un
piano lungo e l’uccisione dei buoi al macello in piano ravvicinato del bue;
la finzione (una serie di attori eseguono la prima scena) e il documentario.
Due regimi opposti messi insieme. Leggendo l’intera sequenza nei termini
della dialettica classica, si dice che l’immagine degli scioperanti uccisi,
associata a quella del mattatoio produce l’idea che i poveri scioperanti
siano stati massacrati come buoi al mattatoio. Ma questo è linguaggio. Se
penso alla scena, se la rivedo non posso fare una sintesi dei piani generali
del massacro e dei piani ravvicinati del bue. Il bue resterà sempre il bue,
totalmente distaccato dal resto. Si ricorda il bue quando muore, così come
si ricordano i movimenti delle comparse che cadono nella distesa: è indimenticabile. Sul piano del visuale e delle immagini non si può fare sintesi,
è impossibile.
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Alessia Cervini, Bruno Roberti
C’è insomma una vera dialettica in senso godardiano, una dialettica senza
sintesi. Certo, Godard non fa altro che costruire metafore, il suo lirismo è
indiscutibile. C’è un altro cineasta che voglio ricordare: Harun Farochi.
L’amo molto per una ragione soprattutto, che è la stessa ragione per cui dovrei nutrire invece qualche riserva nei confronti di Godard. Si tratta del fatto
che Godard prende questo fluido di immagini e le mescola tutte insieme: la
storia tout-court, il genocidio, Gregory Peck, ecc. Compone lui stesso il tutto
in una sorta di sintesi attraverso l’uso della sua voce. È la voce che domina
tutto il film, con esattamente sempre lo stesso tono: Malraux, profetismo,
apocalisse. Godard imita Malraux, la sua voce. La voce è qualcosa che ha
profondamente a che fare con Malraux, Lacan. È un elemento estremamente
lirico, che non ha mai nulla a che fare con le immagini a cui si sovrappone.
Cosa vuol dire ciò? Quelle che pronuncia sono le sue parole.
Sono sue e non sono sue nello stesso tempo.
Faccio un esempio: Farochi prende un’immagine e te la restituisce, ti dice
quest’immagine viene da là, è fatta così, io lavoro così. Lui ti dona l’immagine e tu hai tutti gli elementi per accoglierla. Forse è meno poetico, meno
ritmico, meno bello, ma c’è certamente qualcosa di profondamente etico
nel fatto che Farochi rimette ai suoi spettatori ogni immagine che usa. Detto
questo, è ovvio che le posizioni di Ejzenštejn e Godard combaciano nella
misura in cui sono entrambi grandi patetici, lirici, poeti del montaggio.
La dimensione dell’intervallo su cui ritorni spesso in Storia dell’arte e
anacronismo delle immagini è secondo te una dimensione di sospensione
dell’immagine, è una mancanza, un vuoto, il “tra” le immagini di Godard,
oppure è qualcosa di pieno da una parte e vuoto da un’altra?
Dunque, io non vedrei opposizione fra le due polarità. Entrambe le prospettive che hai delineato sono vere. Tra i personaggi, che poi sono degli
attori, di Sciopero, e il bue ucciso realmente, c’è un’incommensurabilità
insuperabile.
Un’incommensurabilità, però, in cui la dimensione del movimento lavora
ancora, in cui non c’è immobilità, non c’è sincope.
È una sincope in senso poetico: tracci una linea, la interrompi e cominci
qualcos’altro. È la teoria di Hölderlin sulla sincope. Maurice Blanchot ha
detto, proprio partendo da questo, che la poesia, o più in generale tutto ciò che
è poetico, è la dispersione in cerca della sua forma. Ma questo è il montaggio,
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Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
inteso evidentemente in senso poetico. In questo senso, il montaggio poetico
va distinto dall’uso che di esso ha fatto per esempio Leni Riefenstahl o il
cinema di propaganda sovietico: lì si parla di un uso diverso del montaggio.
La sincope apre una dimensione che supera quella della sintesi dialettica:
essa garantisce la libertà straordinaria del cineasta, ma anche di Joyce quando
scriveva l’Ulisse, di mettere insieme cose diverse. Grazie alla compresenza
può istituirsi fra loro un qualche tipo di rapporto. Perché è certo che ci sia un
rapporto tra il bue e gli scioperanti. Semplificando, il linguaggio dice: “sono
andati al macello”. Nell’immagine si verifica invece un arresto di elementi
che tenderebbero alla dispersione e invece divengono indissociabili.
Per ritornare a quello che dicevamo all’inizio: è proprio in questa
dispersione che sta trovando la sua forma, in questo passaggio che si
nasconde il desiderio. Hai detto che la dimensione del desiderio, che ha
una valenza evidentemente politica, è la dimensione che tende a colmare
la mancanza...
No, non si tratta di un vero e proprio colmare. È piuttosto un dare forma
alla mancanza, il riempimento è un lavoro che spetta al significante.
È una posizione lacaniana la tua.
È lacaniano quello che ho detto, non ho problemi a ripeterlo. Sono stato
lacaniano per diversi anni.
Concludendo, c’è un passaggio del testo da cui siamo partiti in cui prendi
in considerazione un passo di Fédida, che è precisamente quello in cui si
parla dell’elaborazione del lutto da parte delle due bambine che giocano
col lenzuolo. L’esempio mi permette di porre in questione il problema
della morte (legandolo all’elaborazione del lutto e anche probabilmente
alla questione del desiderio) e del suo rapporto con l’immagine, soprattutto quella fotografica e cinematografica. Mi domandavo se secondo te è
lecito parlare, accanto alla dimensione di sopravvivenza che caratterizza
le immagini, di una dimensione mortifera dell’immagine stessa. Penso per
esempio all’uso che dell’immagine ha fatto il regime nazista e per certi
versi anche quello stalinista, o all’uso che fa ora la mafia delle immagini.
Pare, infatti, che siano stati ritrovati veri e propri archivi in cui i vertici
della mafia catalogano le foto delle proprie vittime o dei propri affiliati. In
tutti questi casi, l’immagine non ha a che fare più con la sopravvivenza e
l’apertura, ma con la chiusura e la morte.
FATA MORGANA
17
Alessia Cervini, Bruno Roberti
Credo che la questione non abbia a che fare con l’immagine in sé, ma
con l’uso che di essa si fa. Era la stessa cosa per il montaggio: un conto è
l’uso poetico del montaggio, un conto quello a fini propagandistici. Ogni
buona analisi critica di questi problemi deve occuparsi di comprendere gli
usi differenti che un dispositivo come quello dell’immagine consente. Sono
sempre stato molto critico con Roland Barthes e con la sua “ontologia”
dell’immagine. Non c’è alcuna ontologia dell’immagine. L’immagine non
ha che fare sempre con la stessa cosa, di volta in volta, in base all’uso che
se ne fa, essa diviene qualcosa di differente: ci sono immagini che aprono
e altre che invece chiudono.
Relativamente a questa possibilità mortifera data all’immagine, essa
sembra strettamente connessa alla possibilità che grazie ad essa si costituiscano sempre nuovi archivi, intendendo per archivio qualcosa che seppellisce e condanna a morte certa ciò che invece è aperto alla possibilità
della sopravvivenza.
Anche qui, ci sono archivi immobili e archivi in movimento. Si può
fare una “ontologizzazione” dell’archivio e allora esso diventa qualcosa di
fisso e immobile. Dire però che l’archivio corrisponde alla morte non ha
senso, perché tutto è archivio, anche un libro. Per di più anche lo schermo
è in sé e per sé qualcosa di immobile, il problema consiste nel metterlo in
movimento. È quello che diceva Ejzenštejn: bisogna capire come, a partire
da qualcosa di immobile, attraverso un processo di costruzione, ottenere il
movimento; come produrre il nuovo con il vecchio; come trasformare una
donna in una vela. È il compito che spetta all’immaginazione.
Testi citati durante la conversazione
BOIS Y.-A., KRAUSS R., L’informe, tr. it., Bruno Mondadori, Milano
2003; DIDI-HUBERMAN G., La ressemblance informe ou le gai savoir
visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris 1995; ID., Immagini malgrado
tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005; ID, Gesti d’aria e di pietra.
Corpo, parola, soffio, immagine, tr. it., Diabasis, Reggio Emilia 2006; ID.,
L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia
dell’arte, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2006; ID., Storia dell’arte
e anacronismo delle immagini, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007;
EJZENŠTEJN S.M., Memorie. La mia arte nella vita, tr. it., Marsilio, Venezia 2006; GODARD J.-L., ISHAGHPOUR Y., Archéologie du cinéma et
mémoire du siècle, Farrago, Paris 2000; JOYCE J., Ulisse, tr. it., Mondadori,
18
FATA MORGANA
Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
Milano 1984; MALRAUX A., Il museo immaginario, in ID., Il museo dei
musei, tr. it., Leonardo, Milano 1994; PANOFSKY E., L’«allegoria della
prudenza» di Tiziano: poscritto, in ID., Il significato nelle arti visive, tr.
it., Einaudi, Torino 1999; RANCIÈRE J., Il destino delle immagini, tr. it.,
Pellegrini, Cosenza 2007; ID., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007; WARBURG A., Mnemosyne.
L’atlante delle immagini, tr. it., Aragno, Cuneo 2002.
Film citati durante la conversazione
Sciopero (S.M. Ejzenštejn, 1924); La corazzata Potëmkin (S.M.
Ejzenštejn, 1925); Il vecchio e il nuovo (S.M. Ejzenštejn, 1928); Histoire(s)
du cinéma (J.-L. Godard, 1989-1998); Eyes Wide Shut (S. Kubrick, 1999);
Un’altra giovinezza (F.F. Coppola, 2007); The Last Silent Movie (S. Hiller,
2007).
FATA MORGANA
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FATA MORGANA
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FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio.
Fotografia, allocronia, anacronismo
Francesco Faeta
A Ottavio
Il contributo particolare dello storico
è la scoperta delle molteplici forme del tempo.
Il suo fine, qualsiasi sia la sua specializzazione, è di ritrarre il tempo
George Kubler
Nell’appendice illustrata di La terra del rimorso di Ernesto de Martino, frutto di un sofferto braccio di ferro tra l’etnologo e uno dei suoi più
importanti collaboratori, il fotografo Franco Pinna, appare, tra le altre, una
sua immagine, raffigurante un’anziana tarantata mentre ricostruisce aspetti
dell’orizzonte culturale entro cui si esprime il suo disagio. La donna, sola,
ripresa con una leggera posa dal basso, tiene in mano, ben in evidenza,
ramoscelli di ceci e mostra all’osservatore con piglio drammatico, per il
tramite del fotografo, come il ragno annidato al loro interno l’avrebbe morsa.
Alla fotografia si accompagna una breve didascalia che recita: «Filomena
narra l’episodio del “primo morso”, e la parte che vi aveva avuto il ramo
di ceci»1.
Filomena narra, certo; ma a chi rivolge il suo racconto? Al lettore, in ultima istanza e, più ravvicinatamente, al fotografo, siamo portati a pensare.
In realtà, se si osserva la più estesa sequenza realizzata da Pinna nell’occasione, come figura nel suo archivio, da cui un particolare di un
fotogramma è stato estratto per la pubblicazione, si scopre che la donna
1
Cfr. E. de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il
Saggiatore, Milano 1976, tavola 29.
FATA MORGANA
23
Francesco Faeta
parla a de Martino. Lo studioso, lasciato fuori campo da un taglio netto,
l’ascolta con attenzione e appare, di fotogramma in fotogramma, via via più
meditabondo; è agevole scorgere la sua introflessa attenzione alle parole
pronunciate dall’interlocutrice. La donna, a sua volta, ha un atteggiamento
diverso in ciascuna immagine e in una di esse, in particolare, appare meno
tesa e drammaticamente atteggiata, disinvoltamente rivolta verso il suo
ascoltatore2.
Al di là di quanto immediatamente documenta, questa sequenza, inedita
a quel che mi consta sino alla pubblicazione nel volume testé ricordato,
s’impone come una delle più interessanti testimonianze circa il modo demartiniano di stare sul terreno. Non soltanto, come in altre immagini dello
stesso Pinna o di Ando Gilardi, e di altri “dilettanti” illustri quali Franco
Cagnetta o Diego Carpitella, de Martino appare nei luoghi della sua ricerca, intento a operare, osservare, passeggiare e dialogare con collaboratori,
interlocutori privilegiati, amici, quanto se ne può cogliere la postura d’osservazione, si può sorprendere il suo sguardo mentre si sofferma, attento e
sospeso, sulla tarantata e mentre implode pensoso, si può intuire qual tipo
di rapporto legasse, in quel momento, lui e lei. Si tratta, dunque, di una
sequenza di grandissimo interesse, in grado di svelare, anche attraverso
il rinvio dall’osservazione all’ascolto che opera, molte cose del concreto
processo di costruzione del sapere antropologico dello studioso. Si tratta
di una sequenza che, inoltre, ricorda l’imprescindibilità della ricerca archivistica nel nostro mestiere. È certamente vero che l’archivio è una realtà
costruita e che alimenta processi di costruzione altrettanto arbitrari quanto
quelli da cui esso promana, ma è altrettanto vero che guardare al suo interno
costituisce un’indispensabile operazione conoscitiva e interpretativa, come
anche l’esplorazione dei repertori lasciatici da Pinna testimonia3.
Come mai nessuna di queste immagini fu all’epoca utilizzata nella sua
integrità, un’integrità che mostrava la compresenza del nativo e dell’etnologo e la loro intensa relazione dialogica? Perché a una fotografia (e, più
La sequenza è pubblicata in I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, a cura di C. Gallini, F.
Faeta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 334-336, immagini 230-232 e relative schede.
3
«Basta essersi trovato almeno una volta in un “fondo” documentario – ricorda, facendo
riferimento al lavoro di Arlette Farge, Georges Didi-Huberman – per rendersi conto che l’archivio
non conferisce alla memoria un senso immobile […]. Si tratta sempre “di una storia in costruzione,
una storia di cui non si riesce mai ad afferrare completamente il filo”», cfr. G. Didi-Huberman,
Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 128. Il testo di Farge, di
notevole valore per una lettura antropologica delle pratiche archivistiche, è A. Farge, Le Goût de
l’archive, Le Seuil, Paris 1989. Sui temi qui evocati si veda pure A. Assmann, Ricordare. Forme e
mutamenti della memoria culturale, tr. it., il Mulino, Bologna 2002, soprattutto la parte terza.
2
24
FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
precisamente, a una sequenza) infinitamente più dense di contenuti e significati è stato preferito, attraverso una radicale cesura, un solo particolare
che restituiva una più circoscritta e univoca rappresentazione di terreno?
Chi ha operato questa scelta, Pinna o de Martino?
Non abbiamo risposte certe, né univoche, ma non abbiamo avuto, in
realtà, nel corso degli anni che sono seguiti, neppure una grande attenzione
per la questione. Cosa indica, allora, la cosa in sé e la sua distratta ricezione
nel contesto della, pur nutrita e agguerrita, esegesi demartiniana4? Quale
campo problematico addita?
Occorre premettere che, in realtà, certamente non abbiamo una sola
risposta. Il taglio può rinviare a una quantità di snodi problematici, a volte
assai diversi l’uno dall’altro: può manifestare, ad esempio, la grande considerazione che i ricercatori dell’epoca avevano per l’universo contadino che
incontravano, e il loro desiderio di metterlo in primo piano; può manifestare,
su altro versante, un atteggiamento disinvolto nei confronti dei documenti
visivi, semplici illustrazioni di un costrutto teorico tutto interno alla scrittura.
Può anche indicare, però, qualcosa di più complesso, strettamente inerente
il discorso antropologico.
In quest’ultima prospettiva vorrei muovermi.
Come ho anticipato, Pinna e Gilardi avevano spesso eseguito fotografie
che illustravano il lavoro di terreno e mostravano la presenza e l’operato
degli studiosi frammisti ai nativi con cui lavoravano. Queste immagini
erano state a volte pubblicate (anche nell’appendice prima ricordata ne
figura una5), ma la predilezione (che credo di poter affermare fosse condivisa tra etnologo e fotografi) era per altre che descrivessero un terreno
vergine, libero dalla presenza dei ricercatori, chiuso in una sua arcaica datità
(quella che de Martino prediligeva e che il Neorealismo, che costituiva la
cifra iconica dominante, oltre che ispirante, della sua ricerca, perseguiva6).
Un’esegesi che ha guardato, in realtà, più a de Martino come intellettuale e maestro di
pensiero, nell’ambito di uno schieramento progressista, che come etnografo e antropologo, con
un processo di distorsione che ho, in più di una circostanza, posto in evidenza.
5
In cui si può osservare l’etnologo confuso tra gli astanti seduti attorno a Rosaria di Nardò
che esegue la sua performance rituale. Ma l’osservatore, in questo caso, salvo che per i più informati tra gli addetti ai lavori, è indistinguibile dai nativi e si confonde all’interno del gruppo
degli spettatori. Cfr. E. de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del
Sud, cit., fig. n. 23.
6
Per comprendere aspetti importanti del lavoro demartiniano, occorre transitare per un’attenta
analisi del contesto neorealista, in rapporto dialettico con l’istanza realista che imprescindibilmente permea la conoscenza etnografica e antropologica. Ho iniziato a svolgere tale analisi, cui
si dovrà prestare specifica attenzione, nell’esaminare alcune delle rappresentazioni visive legate
4
FATA MORGANA
25
Francesco Faeta
Dunque, un’opzione stilistica, connessa con una certa idea dello studio del
Mezzogiorno, omogenea con la cultura dell’epoca, con ogni probabilità
operata dallo stesso studioso.
Ma, riguardando con attenzione le immagini (quella scelta e tagliata,
quelle lasciate nel cassetto), mi sembra emerga un’ulteriore motivazione, più
sottile e complessa, che rinvia, su di un piano più generale, a un problema
di definizione temporale della ricerca stessa (un problema, dunque, come ho
accennato, centrale per la riflessione antropologica contemporanea). L’immagine edita, con il suo taglio limitativo, e l’espunzione delle altre, rimandano,
a mio avviso, a quella dimensione allocronica delle scritture etnografiche che,
con diversi orizzonti, caratterizza, secondo l’assunto di Johannes Fabian, il
lavoro antropologico7. La contadina sola che drammaticamente racconta ai
lettori la propria vicenda è una donna del passato che parla, dalla finestra
offerta dal rilievo etnografico e dalla sua cristallizzazione fotografica, a
osservatori contemporanei. La contadina che parla a de Martino, a tratti con
affabile affidamento, indica – indicherebbe –, invece una coevità tra nativi
e ricercatori che disturba l’ordine del discorso antropologico così come, in
forme più stabili e durature che quelle della mera esperienza post-bellica
italiana, si è andato strutturando; discorso che l’etnologo italiano, malgrado la sua notevole eterodossia, aveva certamente presente8. Raffigurare de
Martino intento all’ascolto significava, insomma, non soltanto puntare su
una rappresentazione, per così dire, riflessiva della sua impresa, ma aderire
a un’idea isocronica – o eucronica? – del terreno e della sua scrittura9.
al Mezzogiorno italiano nel secondo Dopoguerra. Si veda, in proposito, F. Faeta, Questioni
italiane. Demologia, antropologia, critica culturale, Bollati Boringhieri, Torino 2005, particolarmente le pp. 108-150 e, Id., Fotografi e fotografie. Uno sguardo antropologico, Franco Angeli,
Milano 2006, particolarmente la parte seconda. Devo alle frequenti conversazioni con Giordana
Charuty, durante il periodo di scrittura del suo Ernesto de Martino. Les vies antérieures d’un
antropologue (Parenthèses, Marseille 2009) decise conferme relativamente a questa linea di ricerca. In una prospettiva critica assai blanda si veda I. Perniola, Oltre il neorealismo. Documenti
d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Bulzoni, Roma 2004, soprattutto il capitolo Presenze
demartiniane. Cenni intorno al rapporto tra poetiche neorealiste e documentario etnografico
sono, infine, in G.P. Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Da “Roma città aperta” a “I soliti
ignoti”, Laterza, Roma-Bari 2009, particolarmente le pp. 99-107.
7
Si veda J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, tr. it., L’ancora
del Mediterraneo, Napoli 2000.
8
Ricondurre alla coevità tra osservatore e osservato è per de Martino un compito, urgente e
possibile, ma non una realtà in atto. Si vedano, in proposito, i numerosi passi contenuti in Note
di viaggio, originariamente in “Nuovi Argomenti” n. 2 (1953), ora in E. de Martino, L’opera
a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla “spedizione etnologica” in Lucania, Argo,
Lecce 1996, pp. 96-128.
9
Molte differenze intercorrono, in effetti, tra l’immagine ricordata nella nota 5, testimone di
26
FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
Dunque la scelta operata sembra indicare una sospensione di fronte
all’immagine, una sorta di abdicazione, tendente a semplificare e a ridurre
la polivalenza cronologica che essa può mostrare, una volontà di allontanamento temporale. De Martino che appare mentre ascolta cose che
vanno a confluire in un sapere in fieri (assieme passato, presente e futuro),
potrebbe significare uno spessore temporale più profondo e complesso
della condizione di terreno, dell’etnografia, dell’antropologia stessa. Potrebbe significare, soprattutto, il ritorno alla condizione isocronica, alla
coevità del racconto e della sua rappresentazione, della vicenda vissuta e
di quella narrata. Una coevità cui l’antropologia, nel suo complesso, non
appare incline e che non sembra saper costruire, malgrado le frequenti
dichiarazioni d’intenti.
La fotografia di Pinna e il suo uso semplificato ci introducono, insomma, in
modo esemplare, al problema della temporalizzazione delle rappresentazioni
etnografiche, particolarmente quelle iconiche, a una considerazione esente
da ipoteche neo-positivistiche o cripto-positivistiche delle immagini10.
È possibile trovare traccia diffusa della tensione allocronica, che mi sembra di aver sin qui individuato, in tutte le immagini etnografiche, nella loro
elaborazione, nel loro uso, nella loro ricezione? Ovvero la manipolazione
temporale sopra evocata rappresenta un caso isolato, un episodio e, tutto
una riflessività possibile, e quelle, su cui mi soffermo, testimoni di una riflessività impossibile
perché irriducibile all’idea del tempo nella ricerca etnografica, qual si concreta attraverso la
rappresentazione. Anche su di un piano più generale, facendo riferimento alla più estesa documentazione del lavoro etnografico realizzata da Pinna e Gilardi, cui prima ho fatto riferimento,
ciò che appare è spesso un set artificiale; i fotogrammi relativi a Filomena, invece, nella loro
interezza, mostrerebbero una situazione etnografica in atto. Negli altri casi ricordati didascalicamente si mostra, per rapidi cenni, come facevamo ricerca, nel caso specifico si vede la ricerca
mentre avviene. L’appena accennata sporgenza riflessiva del volume può inscriversi nella logica
di un’aurorale consapevolezza del problema, la scelta su cui mi soffermo indica le basi reali e
consolidate della rappresentazione etnografica demartiniana.
10
Una considerazione che, malgrado alcune aperture recenti, di carattere però meramente
enunciativo, continua a caratterizzare il concreto lavoro degli storici. Non «seguiremo gli storici,
per i quali il tempo si riconduce semplicemente alla storia – ricorda, citando Francis Haskell,
Didi-Huberman – È una riduzione tipicamente positivistica, ovunque invalsa, trattare le immagini
come semplici documenti per la storia: un modo di negare sia la perversità delle prime sia la
complessità della seconda», G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini,
tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 26-27 (il saggio di Haskell è History and Its Images.
Art and the Interpretation of the Past, Yale University Press, New Haven-London 1993). Sul
testo di Didi-Huberman, in prospettiva ipotetica, dovrò ritornare in conclusione di questo saggio. Per una delle più recenti attestazioni relative al quadro problematico dell’antropologia nei
confronti delle immagini fotografiche, si veda Arrêt sur images. Photographie et antropologie
in “Ethnologie française”, n. 1 (2007).
FATA MORGANA
27
Francesco Faeta
sommato, rispetto all’orizzonte “realista” dell’antropologia demartiniana,
una stranezza?
Mi sembra di poter affermare che l’allocronia è un dato costante.
E mi sembra di dover segnalare in proposito, innanzitutto, una situazione paradossale. Se lo sguardo, infatti, conformemente all’indicazione
teorica che promana dalla fenomenologia, possiede una feconda funzione
di distanziamento, consentendo di distinguere il mondo in termini di alterità e compresenza, la rappresentazione visiva al contrario, e la fotografia
in particolare, allontanano la realtà osservata, serrandola in un tempo irrimediabilmente altro. Si noti bene, ciò non vuol dire che la fotografia sia
ingannevole o inutile sul piano conoscitivo; ho ricordato, in altre sedi, come
essa costituisca un prezioso strumento di individuazione critica della realtà,
come essa aiuti a distinguere e, in definitiva, a identificare con chiarezza il
campo di formazione della conoscenza antropologica. Al termine di questo
saggio ancora si vedrà, sia pur per cenni, come proprio a partire da certi suoi
limiti (quelli legati appunto alla dimensione temporale), sia possibile usare
la fotografia in senso critico con particolare, anche se ancora abbastanza
inesplorata, resa euristica. Il problema che qui pongo inerisce soltanto alla
percezione e alla manipolazione fotografica del tempo.
Così il paradosso cui l’etnografo e l’antropologo vanno incontro è che,
mentre osservano, costruiscono la condizione di coevità che dovrebbe essere
tratto distintivo della loro forma specifica di conoscenza, e mentre, invece,
un attimo dopo, fotografando, cristallizzano tale osservazione in immagine,
sprofondano ciò che osservano in un ineluttabile passato. La fotografia è,
com’è noto, manifestazione del punto d’incontro istantaneo tra la realtà e il
processo di rappresentazione; ma a partire da tale momento epifanico l’una
e l’altro iniziano a correre senza posa verso statuti ontologici profondamente
diversi. E ciò comporta per l’antropologia, scienza della coevità, problemi
peculiari (una sorta di fuga senza fine dell’oggetto, assieme dolorosa e
inaccettabile, dal tempo della sua legittimità, e leggibilità, ermeneutica).
Ma vediamo le cose più in dettaglio.
L’antropologia contemporanea ha fortemente problematizzato la nozione
temporale, in rapporto all’economia politica dei rapporti tra individui, gruppi, Stati, soprattutto a partire dal lavoro di Fabian che ho ricordato prima11.
11
Ma si ricordino anche le riflessioni di Alfred Gell, e le sue osservazioni intorno alle modalità
con cui il pensiero antropologico (Durkheim, Evans-Pritchard, Lévi-Strauss, Geertz, Bourdieu)
ha organizzato la percezione del pensiero nativo del tempo, in rapporto alle proprie coordinate
filosofiche e culturali. Cfr. A. Gell, The Anthropology of Time. Cultural Constructions of Temporal
Maps and Images, Berg, Oxford-Washington 1992, particolarmente la parte prima.
28
FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
Lo studioso argomenta come l’Altro sia stato, attraverso le scienze sociali,
costantemente distanziato nel tempo, rispetto all’osservatore occidentale,
primitivizzato, posto in una prospettiva che, con termine felice, chiama
allocronica. Egli indica questo processo come un processo di negazione
della coevità. «Con questa definizione – scrive – mi riferisco a una tendenza
sistematica a posizionare il referente (o i referenti) dell’antropologia in un
Tempo altro rispetto al presente di chi produce il discorso antropologico»12.
L’allontanamento temporale fa scivolare in una prospettiva implicitamente
o esplicitamente classificatoria e gerarchizzante. «Il tempo», infatti, «come
il linguaggio e il denaro, è latore di significato, è una forma attraverso cui
definiamo il contenuto delle relazioni tra il Sé e l’Altro»13. Per Fabian, la tensione allocronica dell’antropologia ha a che fare con l’oggettiva contiguità,
quando non connivenza, del discorso scientifico e del discorso del potere.
Ciò che, però, appare centrale del discorso dell’antropologo, nella
prospettiva critica che perseguo, è che egli considera lo sguardo elemento
determinante nella costruzione dell’allocronia. Lo sguardo, innanzitutto,
produce un orientamento, quello visualista, attraverso cui si plasma l’antropologia come pratica conoscitiva e discorsiva. Il visualismo, frutto di
una lunga e complessa elaborazione filosofica occidentale (di cui, in realtà, Fabian ricostruisce, a mio avviso, una mappatura piuttosto originale
e ristretta), anche nel più racchiuso campo antropologico, «connota una
predisposizione culturale e ideologica per la vista intesa come il “senso più
nobile” e per la geometria in quanto concettualizzazione grafico-spaziale,
ovvero come il modo più “esatto” per comunicare il sapere»14. Affermando,
poi, di non voler pervenire a negazioni ingenue del visualismo dentro la
pratica disciplinare, negando risolutività ad approcci diversi quale a esempio quello legato alle poetiche dell’ascolto di Walter J. Ong, egli ricorda
come tale orientamento eserciti tuttavia una funzione del tutto simile alla
negazione della coevità e ne sia fondamentale strumento15. La vista, infatti,
per via del suo peculiare modo di costruzione della conoscenza, conduce
a un sapere depersonalizzato che, mentre insegue nobiltà ed esattezza,
J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, cit., p. 62.
Ivi, p. 27.
14
Ivi, p. 134.
15
Rinvio il lettore alle riflessioni preliminari sulla centralità e la contraddittorietà del paradigma visuale in etnografia e antropologia contenute in F. Faeta, Lo sguardo, l’immagine, il
corpo. Riflessioni a partire da Pierre Bourdieu e Maurice Merleau-Ponty, in Il tessuto del mondo.
Immagini e rappresentazioni del corpo, a cura di F. Faeta, L. Faranda, M. Geraci, L. Mazzacane,
M. Niola, A. Ricci, V. Teti, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2007, pp. 61-68.
12
13
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29
Francesco Faeta
produce distanza e separazione. In altre parole «l’Altro, in quanto oggetto
di conoscenza, deve essere separato, distinto e preferibilmente distante da
colui che conosce. L’alterità esotica può non essere tanto il risultato quanto
il prerequisito della ricerca antropologica»16. E tale alterità si costruisce
in modo determinante attraverso lo sguardo e la sistematica collocazione
dentro il paradigma visualista.
L’analisi di Fabian ha l’indubbio merito di porre in evidenza la complessità dei vettori percettivi, culturali e sociali che convergono nel costrutto
allocronico e di indicare con forza la responsabilità del senso della vista nella
produzione del discorso antropologico. Essa presenta un limite, tuttavia, sul
quale mi pare opportuno soffermarsi.
Mi sembra che lo studioso unifichi in modo piuttosto frettoloso “la vista,
l’esperienza visiva e le espressioni visive dell’esperienza” (Fabian), creando
così un marcato cortocircuito tra pratiche legate in stretta concatenazione
all’esercizio dell’occhio, ma profondamente diverse tra loro e, quel che
qui più interessa, dotate di un gradiente piuttosto diverso di negazione
della coevità17. ISu di un piano storico l’osservazione diretta dei fenomeni
in situ trae origine dal bisogno di superare la rigida concezione temporale
che l’antropologia evoluzionista portava avanti: ogni incontro con l’altro,
un incontro in realtà mediato da fonti letterarie o iconografiche pregresse,
era per essa, com’è noto, un allontanamento nel tempo, una discesa agli
inferi delle origini. A questa divaricazione si opposero sia Franz Boas,
con la sua risaputa avversione verso le istanze evoluzioniste, sia, più tardi,
Bronislaw Malinowski. In entrambi i casi l’osservazione diretta della realtà,
la convivenza e l’esercizio diretto dello sguardo, con maggiore o minore
chiarezza e lucidità, si ponevano come rimedio all’eclisse o allo sbiadimento
dell’oggetto che la distanza spaziale comportava. Osservare direttamente
le cose sul terreno significava operare nel senso del superamento del gap
temporale, significava andare nel tempo del nativo, ovvero portare il nativo nel proprio tempo di osservatore. Significava entrare, dunque, in una
relazione sincronica. Nel corso degli anni questa particolare declinazione
del rapporto spazio-tempo nella ricerca etnografica si è andata affermando
stabilmente, malgrado resistenze e contraddizioni.
Il primo movimento della prassi etnografica, insomma, è un movimento
J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, cit., p. 148.
Per una prima distinzione, in prospettiva antropologica e con concreto riferimento all’esperienza di terreno, si veda F. Faeta, Guardare, vedere, osservare, rappresentare. Prolegomeni per
un’etnografia visiva, in Id., Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia visiva, Franco Angeli,
Milano 2003, pp. 15-28.
16
17
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Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
che tende a creare coevità, caratterizzato, certamente, da complesse regole di
sguardo, tese a costruire la contemporaneità e la convivenza del ricercatore
e dei ricercati. Osservare significa, infatti, come si è accennato, porre fuori
di sé, distanziare, creare uno spessore diaframmatico che consenta il riconoscimento in termini di vissuto esperienziale. Osservare significa dunque
distanziare; ma tale distanziamento non comporta in sé un allontanamento
nel tempo; attiene alle pratiche spaziali, ovvero al campo gestaltico che
necessita, ancora in termini fabiani, di una precisa disposizione geometrica
degli attori sociali.
La rappresentazione fotografica, invece, che pur scaturisce imprescindibilmente dal processo testé ricordato, scava fossati temporali tra osservatore
e osservati. Lo fa, innanzitutto, perché irrigidisce un vissuto dentro un fotogramma, passato già nel momento stesso della ripresa (più esattamente
un centoventicinquesimo, un millesimo, un ottomillesimo, ecc. di secondo
più tardi). Lo fa, insomma, per via del carattere strutturale della fotografia
che rende ciascun vivente un vissuto (il noema del mezzo, secondo la locuzione di Roland Barthes, che efficacemente riprende e riassume una diffusa
sensibilità esegetica, è l’essere stato18). Lo fa, ancora, per via delle logiche
culturali proprie di una tradizione disciplinare; perché in modo più o meno
conscio l’etnografo e l’antropologo costruiscono, anche attraverso l’immagine, il remoto passato delle persone che materialmente incontrano (dei
loro contemporanei), in ossequio alle regole della rappresentazione scritta,
individuate da Fabian, e alle ragioni politiche loro sottese. Lo fa, infine, per
via della logica sociale di ricezione dell’immagine; perché la percezione della
fotografia, legata al senso comune, la relega all’interno di una condizione
meta-temporale e, in qualche misura, meta-storica. Dunque, la fotografia
del nativo, che già mi parla di lui al passato, per via del carattere strutturale
del mezzo, che mi parla di lui come di un oggetto del passato, per via del
posizionamento culturale dell’autore, diverrà del tutto sganciata dal tempo,
e in particolare dal tempo presente, nella ricezione che gli altri avranno di
essa. E, in realtà, in questo ulteriore movimento di indeterminazione e di
allontanamento, il senso comune (nella sua idea fondante, di derivazione
lockeana, nient’altro che un indice pragmatico legato alla conservazione
della vita sociale e delle basi materiali che la rendono possibile), ha certamente sue forme distinte di generazione ed espressione ma non appare poi
18
Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 1980. Ma
il rapporto della fotografia con il tempo, e in particolare con il passato, aveva già fortemente
ispirato, alcuni anni prima, la riflessione di Susan Sontag. Si veda S. Sontag, Sulla fotografia,
tr. it., Einaudi, Torino 1978.
FATA MORGANA
31
Francesco Faeta
così distante dal contesto scientifico19. Gli antropologi hanno dato prova di
guardare l’immagine con i medesimi schemi cognitivi e culturali del gran
pubblico, a parte l’ovvia capacità di vedere maggiori particolari referenziali
(quello specifico connotato etnico, quel tipo di aggregato familiare, quel tipo
di insediamento, quella data forma cerimoniale e rituale, ecc.).
Ho potuto personalmente verificare, nel corso della mia esperienza scientifica e accademica a contatto con anziani maestri e giovani ricercatori, le
modalità allocroniche con cui sono pensate le immagini etnografiche; sempre
rappresentazioni di un passato più o meno prossimo, o più o meno definito
(con una collocazione in qualche caso aoristica), vuoi che fossero prodotte
dagli studiosi stessi, vuoi che provenissero da altre esperienze di ricerca. La
fotografie dicono sempre come erano gli Altri, e il come erano non significa
soltanto una esatta individuazione storica o storiografica (come erano gli altri,
insomma, due settimane fa, quando li abbiamo fotografati, o trenta anni fa,
quando li ha fotografati il tal dei tali), ma sfuma nella medesima indefinitezza
allocronica che Fabian individua nelle rappresentazioni letterarie.
E, in effetti, con simmetrica rispondenza rispetto a questa ricezione
passatista, si sviluppa un’elaborazione fotografica che produce, per grandi
campiture rappresentative e in rapporto con le coordinate storico-culturali
che ciascuna epoca possiede, il discorso dell’allocronia. Se proviamo a
scorrere idealmente una storia della fotografia etnografica, così come è
stata realizzata dagli studiosi e dai ricercatori che hanno avuto pratica del
mezzo (ma anche da quanti hanno lavorato a stretto contatto con loro o,
comunque, dentro il milieu antropologico), una storia che, unitamente a
quella del cinema e del video, appare indispensabile se si vuol dare effettiva
completezza al bagaglio storiografico disciplinare, ci rendiamo conto che i
nativi ivi raffigurati pertengono sempre a un passato remoto e immoto, che
poco o nulla ha a che fare con il concreto momento storico dell’incontro,
si tratti dell’uomo Igorot mostrato all’esposizione universale di Parigi nel
1909, di cui parla James Clifford, dei Caduveo di Guido Boggiani, dei Nuer
di Edward Evans-Prithard, dei contadini di Cutrufiano, in Puglia, fotografati
da Annabella Rossi.
Alcuni esempi, un po’ meno rapsodicamente evocati di quanto non
abbia sin ora fatto, pur nella loro inevitabile frammentarietà, ci possono
illuminare.
Ho ricordato, in apertura di questo saggio, sia pur per cenni, Pinna e il
19
Si veda, in proposito A. Gargani, Scienza, filosofia e senso comune, in L. Wittgenstein,
Della certezza, tr. it., Einaudi, Torino 1978, pp. VII-XXX. «Sarebbe superficiale indagare l’idea
del senso comune – ricorda opportunamente Gargani – senza investigare il suo rapporto con il
sapere colto […]. Il senso comune è una controparte del sapere scientifico», p. XV.
32
FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
suo pregevole lavoro di rappresentazione dell’umanità indagata da de Martino nelle sue ricerche. I contadini lucani, pugliesi, calabresi che sono nelle
sue fotografie non sono i contadini del decennio 1950-1960, in cui egli li
riprendeva. Sono icone di un passato assai più lontano e affatto immobile,
costruite con una sapiente tensione allocronica, a quanto è possibile ipotizzare sulla scorta di documenti, con convergente anche se non del tutto
concorde volontà, dal fotografo e dallo studioso. Sono uomini che abitano
le terre dove Cristo non è mai arrivato, e dove assieme con lui non sono mai
arrivate la Storia e tante altre belle cose della modernità. Vi è la trasparente
negazione di una possibile coevità nelle sue immagini etnografiche (ovvero
nelle immagini pensate dentro un contesto di rappresentazione etnografica),
tanto più stupefacente se si pensa che esse costituiscono, come ho già ricordato, testimonianza e frutto di un approccio sincronico e di un rapporto
di contemporaneità20.
Ma un discorso simile può esser fatto per quel che concerne Claude
Lévi-Strauss. Le sue immagini dei nativi Caduveo, Bororo, Nambikwara,
Mundé sono state pubblicate, con il loro specifico rilievo iconografico,
molto tempo dopo la loro realizzazione e la conclusione delle ricerche in
loco dell’etnologo francese21. Collocate per lungo tempo in archivio (un
luogo di sola fittizia giacenza, dove in effetti le immagini, come gli altri
documenti, vivono un’imperfetta ma intricata esistenza latente, e maturano
le ragioni complesse del loro futuro riutilizzo), sono ridivenute presenti per
significare un passato. Già questa scelta parla, con evidenza, di macchinose
pratiche di manipolazione del tempo, e di allontanamento. Tornare, dopo
molti anni, sulle immagini del nostro vissuto significa volerle riassumere
come segno di ciò che è stato e rivisitarle caricandole, volenti o nolenti, di
un’aura nostalgica. Lévi-Strauss stesso, al di là della reale divaricazione cronologica esistente tra esecuzione e pubblicazione delle immagini, si mostra
20
La fotografia che Pinna esegue, invece, per un contesto più immediatamente e liberamente
giornalistico, ha caratteri differenti, anche per quel che concerne l’istanza allocronica. Per un
esempio concreto della presentazione etnografica dell’immagine di Pinna, si veda F. Pinna, Viaggio
nelle terre del silenzio. Fotografie di Franco Pinna, Idea Editions, Milano 1980, che molto deve
all’impostazione intellettuale di Carpitella. Per un’analisi delle differenze suaccennate si consulti
AA.VV., Franco Pinna. Fotografie 1944-1977, Federico Motta, Milano 1996.
21
Si veda C. Lévi-Strauss, Saudades do Brasil, tr. it., il Saggiatore, Milano 1995. L’edizione
francese del libro è del 1994. Alcune delle immagini realizzate sul terreno da Lévi-Strauss (62
per l’esattezza) furono, in realtà, pubblicate, ma con mera funzione illustrativa, nella prima edizione francese di Tristes Tropiques, presso l’editore Plon di Parigi, nel 1955. La prima edizione
italiana dell’opera (il Saggiatore, 1960) era sprovvista di immagini, la seconda (il Saggiatore,
1965), ne mostrava 30.
FATA MORGANA
33
Francesco Faeta
consapevole delle possibilità di una loro non esatta ricezione e accompagna
la loro presentazione con una lucida perorazione delle esatte basi temporali
della realtà che rappresenta. Occorre difendersi da un’illusione, scrive nella
sua premessa al volume, quella di credere che le persone raffigurate siano
primitivi; esse rappresentano l’esito di un processo di sterminio e, dunque,
appartengono storicamente a società di più alta ricchezza e complessità. I
lettori non osserveranno, insomma, ambienti e sembianti di un passato, ma
di un futuro negato. Nonostante ciò, nonostante l’esplicita avvertenza di
non guardare i suoi nativi come primitivi, come relitti che giungano a noi
da una lontana piega della Storia, essi appaiono del tutto decontestualizzati
dal presente, ricondotti dentro una lontananza temporale che gli studi lévistraussiani a loro relativi, in effetti, non mostrano. La complessa dialettica
del contatto con il presente, che l’etnologo riconosce a più riprese nella sua
opera complessiva, tende a essere obliata nelle fotografie. O, più esattamente,
un po’ come per le immagini demartiniane di Pinna, a essere risolta nella
iconografia del contatto tra ricercatori e nativi. Non casualmente il capitolo iniziale dell’opera, Primi sguardi sul Brasile, in cui si mostra la genesi
del viaggio e le sporgenze coloniali che circondano il mondo amerindio, è
quella che meno evidenzia la tendenza allocronica e, anzi, con una vivacità
a tratti cartier-bressoniana, restituisce un vivido mondo istantaneo (nel duplice senso di colto all’istante e di colto dentro una condizione sincronica).
L’apparato didascalico delle immagini, inoltre, usa per lo più i tempi del
passato, operazione che se si giustifica immediatamente per il carattere rimemorativo che l’operazione ha, mostra però anche l’adesione a un modello
passatista della rappresentazione fotografica (così come qualche indulgenza
all’esotismo e alla stereotipizzazione dei mondi nativi, assai significativi in
uno studioso dell’esperienza e della raffinatezza di Lévi-Strauss).
E, a ben guardare, per concludere questo breve excursus, anche lo straordinario lavoro fotografico di Gregory Bateson e Margaret Mead trascende
il modello arcaizzante soprattutto grazie al rigoroso e puntuale impianto
etnografico dell’opera, all’apparato didascalico, alla meticolosa organizzazione delle sequenze, ai testi introduttivi. Se proviamo a decontestualizzare
il sistema di immagini e a leggerlo per quel che è, vi ritroviamo una netta
inclinazione a narrare la realtà in modo allocronico, a restituire ai nativi
balinesi quel fatale tratto arcaico che sembra fatalmente costituire cifra della
lettura antropologica delle cose22.
Certo occorre considerare, in questi casi come in numerosi altri ricor22
Si veda G. Bateson, M. Mead, Balinese Character. A Photographic Analisys, New York
Academy of Sciences, New York 1942.
34
FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
dati e che si potrebbero ricordare, le ragioni della storia culturale in cui la
vicenda euristica e narrativa di ciascuno si colloca e, più ristrettamente, la
predilezione per i mondi chiusi, per gli universi remoti, per le società fredde, per i cacciatori-raccoglitori, i pastori, i contadini che ha caratterizzato
per lungo tempo, e sin quasi ai nostri giorni, la disciplina. Pinna lavorava
dentro il contesto culturale post-bellico italiano e il Neorealismo reclamava,
come ho accennato, che fossero illustrate le ragioni dei poveri nella cornice
della più nuda e indefettibile arcaicità, sino a influenzare le rappresentazioni
delle scienze sociali coeve, che ben altro tipo di rapporto avrebbero dovuto
intrattenere con la categoria epistemologica del realismo. Lévi-Strauss
risentiva delle ragioni figurative che venivano dal naturalismo francese,
così come Bateson e Mead avevano alle spalle la lezione figurativa della
Farm Security Administration che, con un uso assai accorto delle strategie
retoriche dell’immagine, ritraeva un mondo presente come se fosse receduto, per via della crisi economica americana della fine degli anni Venti, di
qualche centinaia di anni.
Ma dietro la ricorrente esperienza della costruzione fotografica dell’arcaicità nativa occorre scorgere anche qualcos’altro: l’intrinseco limite
espressivo del mezzo (da questo particolare punto di vista), la sua omogeneità con la tensione allocronica che attraversa parte cospicua della storia
disciplinare (che fa comprendere anche, da un punto di vista meno scontato
di quello dell’affinità elettiva di matrice positivista, cara ai sociologi della
cultura e dell’immagine, così come ad alcuni antropologi23, la costante alleanza tra la disciplina e la fotografia), la sua ricezione nell’ambito del senso
comune con la netta detemporalizzazione della produzione iconografica che
quest’ultimo postula.
Naturalmente vi sono eccezioni. Vi sono casi in cui la fotografia impiegata
nel contesto delle scienze sociali non rientra nel paradigma allocronico che
qui stiamo prendendo in considerazione (l’esempio di Pierre Bourdieu, cui
ho dedicato attenzione in un saggio che ho già ricordato24, ne è una prova).
Ma, in realtà, per rinvenire narrazioni tendenzialmente isocroniche dei
mondi nativi dovremo rivolgerci più verso quegli autori, di cultura vernacolare, che ne hanno illustrato le realtà dall’interno (al di là della ricezione
nostalgica che oggi si fa delle loro immagini in ambiente colto e popolare,
Per un solo esempio, a proposito di questi ultimi, si veda C. Pinney, The Parallel History
of Anthropology and Photography, in Anthropology & Photography, 1860-1920, a cura di E.
Edwards, Yale University Press, New Haven-London 1992, pp. 74-95.
24
Cfr. F. Faeta, Lo sguardo, l’immagine, il corpo. Riflessioni a partire da Pierre Bourdieu
e Maurice Merleau-Ponty, cit.
23
FATA MORGANA
35
Francesco Faeta
sul modello diffuso del come eravamo): penso a esempio a Martin Chambi,
per il Cuzco, a Seydou Keïta e Malick Sidibé, per Bamako, a Saverio Marra,
per San Giovanni in Fiore, in Calabria, a Giambattista Pinto per Avigliano,
in Lucania, ad Amanzio Fiorini, per Busana, in Emilia, significativamente
orologiaio oltre che fotografo25. Ovvero dovremo sondare alcune produzioni
di impronta artistica e sperimentale: penso, a esempio, al lavoro “etnografico” di Irwing Penn26.
I primi presentano una resa della materia etnografica che nettamente
prescinde dall’impostazione allocronica. Il rapporto di sguardo che questi fotografi realizzavano con i soggetti che rappresentavano, il più delle
volte nel chiuso del loro studio, si traduce in immagini isocroniche, che
devono testimoniare con immediatezza una condizione in atto, un presente
continuo, uno stato di frontalità e coevità che diviene vocabolo essenziale
dell’elaborazione identitaria, sia per l’autore che per i suoi soggetti. Vi è
una tensione utilitaria in questo tipo di liaisons fotografiche che rende del
tutto inutile l’allontanamento; si necessita del presente e della compresenza, nella logica della testimonianza: di stati, ruoli, processi, relazioni,
attestazioni d’autorità e autorialità. I secondi, nell’ambito di esperimenti di
restituzione etnografica posti dentro contesti creativi, artisticamente connotati, realizzano a volte regimi scopici esenti dalle più pesanti ipoteche
passatiste. Penn, che ho ricordato sopra, trasporta i suoi gruppi nativi, di
varia provenienza, all’interno di uno studio, li abbiglia con i vestiti e con
gli arredi che essi stessi decidono di mostrare (nella logica formale del suo
genere espressivo preferito, quello della fotografia di moda), li pone sullo
sfondo di un universo neutro e incolore, sempre eguale, li illumina di una
luce metafisica e innaturale, li descrive in tutta la loro evidenza corporale
e materica, in tutta la sontuosa perspicuità dei tessuti e degli ornamenti.
Con l’effetto di restituirci, malgrado l’indubbia arcaicità dell’umanità che
viene evocata, immagini assolutamente coeve, di fermare un incontro di
sguardi che si realizza nel momento dell’apparizione dei soggetti di fronte
Si vedano, indicativamente, Amanzio Fiorini “orologiaio fotografo”, a cura di I. Zannier,
L. Gasparini, Comune di Reggio Emilia-Biblioteca “A. Panizzi”, Reggio Emilia 1980; Martin
Chambi, a cura di A. Hopkinson, Phaidon, Paris 2001; I ka nyì tan. Seydou Keïta e Malick Sidibé fotografi a Bamako, a cura di C. Perrella, V. Bruschi, Castelvecchi, Roma 2001; Scatti per
sognare. Avigliano nelle fotografie dell’archivio Pinto, a cura di A. Baldi, Electa, Napoli 2004;
Gente di San Giovanni in Fiore. Sessanta ritratti di Saverio Marra, a cura di F. Faeta, Alinari,
Firenze 2007.
26
Si veda I. Penn, Worlds in a Small Room, The Viking Press, New York 1974. Significativamente, rispetto a quanto indicato nel testo, il nome dell’autore è seguito, sulla copertina,
dall’indicazione as an ambulant studio photographer.
25
36
FATA MORGANA
Riflessioni a partire da un taglio. Fotografia, allocronia, anacronismo
alla camera e che prolunga nel tempo la sua malia isocronica.
Simili esperienze, per riassumere, ci dicono che il processo di allontanamento nel tempo dei nativi, al di là dei complessi motivi prima puntualmente
richiamati, molto dipende dalla tensione specifica degli etnografi e degli
antropologi, dal fatto che essi costantemente producano, per i motivi che
Fabian ha descritto (e per altri, più sofisticati, su cui alcuni si sono soffermati
e su cui ancora occorrerà soffermarsi), lo sfasamento cronologico. A tal fine
si servono di un mezzo che permette di uscire dalla coevità (o modernità),
così come a volte in realtà di entrarvi, come ho avuto recentemente modo
di scrivere, evocando, a proposito delle rappresentazioni fotografiche della
Sardegna, il titolo di un fortunato libro di Nestor García Canclini27; di giocare, insomma, con il tempo, e di manipolare le cose e le loro apparenze.
Con il risvolto paradossale che ho tentato di mettere in evidenza.
Credo che nel momento in cui ci poniamo di fronte ai repertori di immagini fotografiche realizzate dentro il contesto antropologico, o immediatamente ai suoi margini, tra le molte cautele che dobbiamo adoperare,
occorre aver ben chiaro come esse tendano a restituirci ambigue cartoline
del tempo passato.
Tale consapevolezza schiude, però, anche una possibilità nuova all’etnografia e all’antropologia, quella di decostruire la prospettiva allocronica
delle immagini per trasformarla in un’occasione feconda di revisione degli
ordini temporali costituiti.
Osservare le immagini etnografiche con netta consapevolezza della
loro torsione allocronica può voler dire muoversi in direzione di quella
lettura anacronistica che, per altro contesto disciplinare, quello storicoartistico, sulla scorta in particolare dell’antropologia di Walter Benjamin,
Didi-Huberman, in un testo che qui ho già ricordato, propone28. Può voler
dire ricontestualizzare il presente da cui guardiamo le cose dentro una sua
più densa percezione e percepire il passato nella sua complessità sinottica
di più tempi (e di più spazi, conseguentemente), di diverse sensibilità ed
esperienze cronologiche, di diverse idee, e strategie, della periodizzazione.
Può voler dire, dunque, non soltanto ripensare pratiche costitutive del nostro
sapere disciplinare, quali quelle che si realizzano sul terreno e intorno a
esso, ma anche riflettere sul costrutto storiografico della disciplina nel suo
insieme, così come si è venuto consolidando nei circa duecento anni della
27
Cfr. F. Faeta, Immagini di Sardegna. Strategie per entrare, e per uscire, dalla modernità,
in La fotografia in Sardegna, lo sguardo esterno, 1854-1939, a cura di M. Miraglia, Ilisso,
Nuoro 2008, pp. 29-37.
28
Cfr. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, cit.
FATA MORGANA
37
Francesco Faeta
sua vicenda. Questo costrutto, edificato a partire da costanti processi di
manipolazione del tempo, come si è sin qui visto, mantiene però un severo
cipiglio nei confronti di quelle forme di pensiero che hanno avuto una più
spigliata relazione con gli ordini temporali e, pertanto, una sciolta capacità
di cortocircuitare spazi e tempi diversi, che il buon senso storiografico
teneva rigorosamente disgiunti. Si pensi all’atteggiamento infastidito con
cui oggi l’antropologia guarda all’evoluzionismo, a esempio, o allo stesso
strutturalismo.
La fotografia etnografica, con il suo marcato tratto allocronico, può essere
uno degli strumenti che inducono una revisione di tale atteggiamento.
Chi può considerare, a esempio, sul piano pragmatico, definitivamente
concluso l’evoluzionismo, nei termini della sua incidenza nell’elaborazione
complessiva dei processi cognitivi della disciplina, dopo aver osservato le
fotografie che un antropologo oggi riporta dal suo terreno, e dopo averlo sentito parlare di esse, del loro rapporto con i referenti nativi, della loro valenza
cognitiva nell’ambito della propria ricerca? Ancora la fotografia etnografica
evoca arcaicità, separatezza temporale, passato, però dentro l’inevitabile e
implicito memento della coevità; ancora, insomma, parla con il linguaggio
proprio dell’evoluzionismo, anche se i suoi autori si considerano anni luce
lontani da tale contesto culturale.
Ma chi può considerare, sul piano teorico, attraverso le stesse fotografie,
attraverso la loro indispensabile concatenazione, attraverso l’accostamento
con altre e diverse fonti, attraverso la comparazione sistematica con altre
immagini, la stessa prospettiva evoluzionista sicuramente e in toto arcaica
e superata, senza che la compresenza di più tempi e il loro complesso mescolarsi, il montaggio di cronologie eterogenee, l’amalgama tra ciò che è
definitivamente tramontato, ciò che ancora permane e ciò che nonostante
tutto riemerge, per ricordare liberamente Francesco Remotti29, si imponga
alla coscienza?
Chi può affermare, in definitiva, che lo spiazzamento cronologico di
cui le fotografie etnografiche sono prodotto e segno, e la consapevolezza
critica di tale fatto, non possano offrire una prospettiva innovativa rispetto
al conformistico disegno dei ricercatori contemporanei, così come rispetto
al pedissequo isocronismo di uno storicismo angusto?
29
Cfr. F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Bollati
Boringhieri, Torino 1993, particolarmente il capitolo terzo.
38
FATA MORGANA
Il culto delle immagini.
Baudelaire verso il cinema
Vincenzo Trione
Un film su Parigi
Nei Passagenwerk di Walter Benjamin: «Chi potrebbe non girare appassionatamente un film sulla mappa urbana di Parigi? Sullo sviluppo delle
sue differenti forme in successione cronologica? Sulla condensazione di
un movimento lungo un secolo di strade, boulevard, passaggi, piazze, nello
spazio di mezz’ora? E cos’altro fa il flâneur?»1. Mettiamoci sulle tracce di
uno straordinario regista involontario come Charles Baudelaire, il quale,
nel corso della sua bruciante esistenza, ha scritto molti testi su figure e su
motivi urbani. Momenti letterari che, simili a fotogrammi, si accostano,
disegnando i contorni di una sorta di appassionato film sulla planimetria
parigina. Un trailer di tanti frames dissonanti, che lascia intuire segmenti
di connessioni, geroglifici di palinsesti, avventure inconciliate.
Le ragioni teoriche sottese a questo lungometraggio mai realizzato si
trovano in un classico come Il pittore della vita moderna. In particolare, nel
terzo paragrafo – “L’artista, uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo”
– di questo audace trattato, denso di spunti ancora inquietanti. È il punto
di approdo di una lunga investigazione avviata nel Salon del 1846, che si
conclude con un capitolo dedicato all’“Eroismo della vita moderna”. Vi si
afferma che è giunto il momento di sfatare il falso mito secondo cui la nostra
epoca sarebbe meno sublime di quelle precedenti. Non è così. Ogni secolo
ha avuto la propria bellezza, e “noi dobbiamo avere la nostra”. Occorre
rifuggire dalle astrazioni distillate, per imparare a guardare lo spettacolo
inebriante di una metropoli abitata da soggetti terribilmente seduttivi quali
criminali e prostitute2.
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, tr. it., vol. I, Einaudi, Torino 2000, p. 89.
C. Baudelaire, Salon del 1846, in Id., Opere, tr. it., Mondadori, Milano 2001, pp. 10961099.
1
2
FATA MORGANA
39
Vincenzo Trione
Questa necessità viene continuamente ribadita nelle pagine de Il pittore
della vita moderna3, che si configura come un saggio mobile e sfaccettato,
eppure intimamente unitario, caratterizzato dalla costante ripresa di temi e
di problemi, per dispiegarsi secondo un movimento spiraliforme. Baudelaire parte da episodi minimi. Si fa ispirare dalla cronaca, che gli impone
un dono tremendo: la fretta. E la fretta offre una prepotente felicità intellettuale: richiede immagini sorprendenti, rapide folgorazioni, accelerazione
del processo creativo.
Esposizioni e frequentazioni sono le tessere di un mosaico ricco di echi
romantici. Un viaggio attraverso le stanze dell’universo della visività ottocentesca. Una sfida giocata tra militanza e saggismo. Riflessioni e tensioni
poetiche si incontrano e si rapprendono nel commento di fatti spesso laterali.
Un sofisticato spartito, che rivela un’intelligenza congetturale e probabilistica: esatta ma inafferrabile, architettonica e anche paradossale. Un affresco
sincopato in cui si alternano paragrafi descrittivi e annotazioni estetologiche. E poi: suggestioni, digressioni, condensazioni di senso. Contingenze e
sguardi metafisici. Un diario intellettuale, che non accetta di essere un mero
deposito di esperienze. Ricorrenze, simmetrie e corrispondenze cementano
l’unità complessiva del discorso.
Un impervio romanzo di idee, che infrange le progressioni cronologiche,
allestendo una topologia nella quale le gerarchie vanno in frantumi. Una
narrazione indipendente dai modelli pittorici di cui tratta. Un’enciclopedia
di situazioni che si colloca dentro i confini di un genere ibrido, tra discorsività didascaliche e metafore. Una passeggiata in cui le ritualità del XIX
secolo assumono le sembianze di una sfilata di moda, tra splendide facciate
di palazzi, abiti scintillanti, gioielli ornati. Il ritratto di un’epoca e, insieme,
l’autoritratto – compiuto e melanconico, felice e maledetto – di uno tra i
suoi più scandalosi interpreti.
Il cannocchiale deformante
Passaggi di un’avventura fatale e solitaria, che si situa tra assonanze
ottocentesche e profezie future. Quasi per istinto, Baudelaire è portato a
servirsi di alcuni autori per affermare con forza maggiore la propria identità. «Qualsiasi cosa traduca o trascriva, vi lascia cadere la sua eloquenza
pastosa e liquida, […] quella acuta leggerezza, che stimola le più ardite
3
40
C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Id., Opere, cit., pp. 1272-1319.
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
invenzioni intellettuali, elaborando un cortocircuito di appropriazioni e di
trasformazioni»4.
In particolare, appaiono evidenti i riferimenti a quegli scrittori che non
vogliono più rintanarsi dentro gusci senz’aria, e non indugiano in penisole
ideali, solitarie, contemplative, favolose o mentali. Affondano, invece, le
loro costruzioni immaginarie nella dimensione del presente. Legano l’uomo
al proprio paradiso o al proprio inferno, scoprendo il lato leggendario della
modernità. Utilizzano la città come protagonista delle loro costruzioni:
fonte, contenuto, alimento.
La metropoli non è più solo un fondale da descrivere o un grande affresco
da contemplare, ma costituisce un insieme tenebroso e inebriante. È una
geografia che non si vuole più soltanto spiare dall’alto: in essa ci si addentra, per smarrirsi in cunicoli oscuri, tra viscidi meandri e incerti sentieri.
In questa monstreuse merveille si sprofonda come speleologi impegnati a
trasformare in allegoria ciò che lo sguardo sfiora5.
Teatro prodigioso è Parigi: «idra, oceano, vulcano, mostro, lupanare»,
territorio del piacere e del rimosso, «residenza del Diavolo, Stige fangoso
dove l’Essere, partito dall’azzurro, è caduto, ribalta senza accesso per inesauribili figurazioni», blocco di appunti da sfogliare, sconfinata miniera da
perlustrare, «enorme asilo per l’intelligenza universale», lambito da bellezza
e da perturbante follia. Nel «cannocchiale deformante» di Victor Hugo, è
un veliero dalle vele ingrossate, alla conquista di un mondo naturalmente
epico6.
Hugo è una matrice fondamentale per comprendere l’origine delle visioni
baudelariane, come ricorderà Benjamin:
Si cercherà invano, nelle Fleurs du mal o nello Spleen de Paris,
qualcosa di analogo agli affreschi cittadini in cui era insuperabile
Victor Hugo. Baudelaire non descrive la popolazione né la città. E proprio questa rinuncia gli ha permesso di evocare l’una nell’immagine
dell’altra. La sua folla è sempre quella della metropoli; la sua Parigi
è sempre sovrappopolata. […] Nei Tableaux parisiens si può provare,
quasi sempre, la presenza segreta di una massa. […] La massa era il
velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi7.
P. Citati, I paradisi artificiali, in “la Repubblica”, 26 giugno 2009.
G. Macchia, Il mito di Parigi, in Ritratti, personaggi, fantasmi, a cura di M. Bongiovanni
Bertini, Mondadori, Milano 1997, p. 719.
6
Ivi, pp. 720-721.
7
W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it., Einaudi, Torino 1995, pp. 101-102.
4
5
FATA MORGANA
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Vincenzo Trione
Hugo. E Balzac, che ha fatto diventare romanzo una città, rappresentando
i quartieri e le strade come personaggi dotati di un carattere. Balzac tratta
figure e situazioni come «una vegetazione spontanea che germina dal selciato di quiete», producendo cataclismi emotivi8. Nella Commedia umana,
compone un poema in cui Parigi è modellata come se fosse una materia
sensibile: un’impronta che condiziona pensieri, parole, gesti. Un gigantesco
crostaceo, di cui gli abitanti sono solo gli arti. Le vie «impriment par leur
physionomie certaines idées contre lesquelles nous sommes sans défense».
Non folle anonime, ma un’apoteosi di attori dotati di una loro identità. Siamo
dinanzi, rileva Roland Barthes, al trionfo della verticalità: dalla Cattedrale
di Notre-Dame si domina l’intrico delle strade parigine. Ma siamo dinanzi
anche al trionfo dell’orizzontalità: che consente di misurarsi con esistenze
disseminate tra vie e piazze9. Colpisce l’attenzione ai dettagli, come emergerà anche dalle pagine della “teoria dell’andatura”10.
In questo orizzonte drammatico e contraddittorio, Balzac si chiede:
l’inferno di Parigi riuscirà mai a trovare il suo Dante?
I fiori del male, Lo spleen di Parigi e Il pittore della vita moderna potrebbero essere letti come implicite risposte a questa domanda. Sono testi che,
pur nella loro diversità, convergono in una comune prospettiva: esprimono
il bisogno di dare forma a un paesaggio tumultuante di voci, di sogni, di
dolori. Scritture scabrose, che aderiscono in maniera inesatta a una natura
mercificata, spettacolare, transitoria.
Storie di solitari
Le consonanze con motivi della letteratura francese convivono con
tanti echi americani. Baudelaire guarda a quegli autori – Edgar Allan Poe
ma anche Nathaniel Hawthorne e Herman Melville – che hanno cantato la
condizione dell’individuo nel tempo della caducità. A dominare racconti
come L’uomo della folla, Wakefield e Bartleby è una struggente estraneità
rispetto alle omologazioni della quotidianità. Ci si lascia alle spalle le difese
protettive della comunità d’origine. Si affermano disgiunzioni insanabili,
dis-legami. Si canta una solitudine assoluta, che è luogo deserto, incontro
differito, echi nel vuoto.
I. Calvino, La città-romanzo in Balzac, in Id., Saggi, vol. I, Mondadori, Milano 1995, pp.
775-781.
9
Cfr. V. Brombert, Balzac e il romanzo visionario, tr. it., il Mulino, Bologna 1987.
10
H. de Balzac, Teoria dell’andatura, tr. it., Cluva, Venezia 1986.
8
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FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
Non effetto del dialogo con la natura, ma esito di uno scarto rispetto alla
logica della vita sociale, la solitudine dice un lento abbandono al destino.
Allude alla calma di un naufragio nel mare del destino, del tutto privo del
pathos romantico. È cifra del disagio di stranieri che instaurano relazioni di
alterità irriducibile. «Perché le masse nascono dalla somma di unità separate
che resteranno sempre separate, e perciò la solitudine sarà l’esperienza critica
più diffusa dei tempi moderni»11. L’individuo è disorientato. Sta nel vortice
della folla, nel quale non è più ammessa la distanza tra le persone. Assume i
tratti di una soggettività esposta al mondo esterno. Smarrito nel cuore della
metropoli, è incapace di adeguarsi, in bilico tra accettazione e rifiuto della
consolazione comunitaria: forse testimone dell’utopia della cittadinanza.
Questi tratti si ritrovano soprattutto in molti racconti di Poe, caratterizzati
da alcuni “sentimenti” che ritorneranno nelle scritture poetiche e critiche
baudelairiane: nervi, fretta, partecipazione, ansia. Si pensi a un «tableau
[…] écrit par le plus puissante plume de cette époque», L’uomo della folla.
È la cronaca di uno sfioramento a distanza tra due sconosciuti. Un vecchio
losco vaga per la Londra dei pub al tramonto. Chi è? Cosa sta cercando?
il narratore pedina questa figura. Con un’irresistibile curiosità – come una
passione d’amore –, si precipita tra la gente in cerca di quell’ombra appena
intravista. Osserva ogni cosa, prova a ricordare tutto. Dopo una notte e un
giorno di peregrinazioni, arriva alla conclusione: «Quel vecchio è il tipo e il
genio del crimine profondo. Rifiuta di trovarsi da solo. È l’uomo della folla.
Sarà vano spiarlo ancora…». Intanto, scorrono fantasmi di una vicenda fatta
di allontanamenti, dove la vista è l’organo per lambire il vuoto che separa
gli individui. Poe non descrive un’azione concreta, ma l’impulso a spiare
l’ignoto, a far apparire le assenze.
L’uomo della folla, ma anche Auguste Dupin, il tenebroso principe di
tutti gli investigatori, innamorato degli anfratti della notte, viaggiatore senza
meta, tra le luci strane e le strane ombre della sterminata città moderna. Con
acume e intelligenza, questo strano progenitore del Maigret di Simenon si
avventura nel giorno, illuminando i segreti che gli almanacchi della quotidianità sveleranno. Indugia su particolari infimi, irrilevanti e casuali. Egli
sa che la verità non sta sempre in fondo al pozzo, ma spesso risiede sulla
superficie. Nel corso delle sue passeggiate attraverso la metropoli dormiente,
elabora un metodo di analisi, basato sulla familiarità dell’osservazione, «su
un dono quasi dostoevskijano di simpatia e di identificazione con l’anima
altrui, su una prodigiosa memoria, sui favori del caso e sulla capacità di
11
G. Celati, Storie di solitari americani, in Storie di solitari americani, a cura di G. Celati e
D. Benati, Rizzoli, Milano 2006, p. 8.
FATA MORGANA
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Vincenzo Trione
deduzione, che gli permette di disporre in una rigida catena consequenziale
gli indizi sparsi nel tessuto quotidiano della realtà»12.
Siamo di fronte ai protagonisti di un modo diverso di narrare, fondato
sulla visività. Auguste Dupin e l’uomo della folla provano a districarsi in
un contesto invaso da un buio simbolico, rotto solo dal rapido baluginare
delle luci: uno “spazio da cui non possiamo mai oggettivare niente, perché
composto di altre soggettività come la nostra”. Qui si compie il vagare
perpetuo di personaggi straniati, inconoscibili e laconici, che vediamo solo
di scorcio. Resoconti di sguardi, per cogliere presenze annegate nella solitudine. Sonde lanciate verso l’esteriorità: «che è un mistero parallelo a quello
dell’interiorità»13. Per scoprire che nelle evidenze si annidano gli enigmi più
impenetrabili. Non vi sono scoperte definitive, ma solo apparizioni: profili
che provano a sfuggire al loro isolamento, «riconoscendosi in una specie
di fraternità a distanza»14.
Dietro Il pittore della vita moderna – «suprema opera in prosa»15
– agiscono queste (e altre) memorie: tasselli di un dialogo ricomposto per
frammenti.
Anche il pittore baudelairiano vive in una sorta di perenne convalescenza,
animato da una bramosia infantile e irriducibile. Vuole vedere ogni cosa in
uno stato di novità, come trasformato dal piccolo sisma fisiologico della
malattia cui segue la convalescenza: «la stessa convalescenza che segue al
disfacimento felice […] dell’apocalisse erotica e che è lo stato in cui sorge
per il poeta la visione del mondo attraverso l’analogia»16. Immerso in un’estasi, egli è sedotto dal potere della visione, che restituisce a ogni elemento
pienezza di forma e di colore, estraendo dalla natura una fantasmagoria
percorsa dal flusso della vitalità. Siamo dinanzi a una figura che sembra
anticipare motivi dell’ultimo Nietzsche, il quale indicherà nella “filosofia
del mattino” la sola via di uscita da una modernità effimera: convalescenza
senza fine, infanzia senza domani, ebbrezza a oltranza17.
Analogamente al malato in via di guarigione, il pittore cerca di percepire
in ogni tassello margini di bellezza. Fa della curiosità la propria principale
12
E.A. Poe, L’uomo della folla, in Id., Opere scelte, tr. it., Mondadori, Milano 2006, pp.
396-406.
13
G. Celati, Storie di solitari americani, cit., p. 14.
14
P. Citati, Edgar Alla Poe, quello sguardo sulle tenebre, in “la Repubblica”, 29 aprile
2009.
15
R. Calasso, La folie Baudelaire, Adelphi, Milano 2008, p. 194.
16
G. Montesano, Il ribelle in guanti rosa, Mondadori, Milano 2007, p. 272.
17
A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, tr. it., il Mulino, Bologna 1993, p. 32.
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Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
virtù, che gli consente di comprendere ogni impercettibile slittamento,
interessandosi alle continue trasformazioni del reale. Vuole assorbire gli
splendori del paesaggio. Adotta come sue tutte le professioni, tutte le gioie
e tutte le sventure che l’occasione gli offre. Indaga sulle ragioni segrete
dell’esistenza; raffigura i mille volti del presente, per lasciarsi ammaliare
anche dall’intensità degli abiti neri e delle scarpe verniciate. Si fa travolgere
dallo spettacolo della quotidianità, dalla superficie levigata dell’oggi. L’arte,
per lui, è un cosmo ambiguo. Una disciplina autonoma e indipendente, in
grado di distanziare la verità delle cose. Ma è soprattutto un fatto “politico”,
per non estraniarsi mai dal mondo.
Nei santuari dell’effimero
Maschera spregiudicata e paradossale, produttiva eppure inattiva, l’artista
– flâneur désenteressé – è in possesso di una “passività agonica” che gli
permette di captare temporalità discontinue. Con il suo sguardo decentrato,
coglie metafore in ogni dato. Pronto a consegnarsi a passeggiate casuali, non
si sente mai a casa. Sospeso tra esterno e interno, in dubbio, in pericolo, si fa
incontrare lungo le vie: non al riparo delle mura della città, ma in paesaggi
privi di soglie. Sperimenta la possibilità di abitare l’aperto: strade, piazze.
Il suo cammino non è lineare, ma è frutto di un’ostinata erranza. Sceglie di
uscire dalle “rassicuranti dimore della doxa”, per concedersi alle sospensioni,
alle esitazioni. Il suo è un indugiare nel procedere, un modo per riflettere e
per ritornare in sé, che si accompagna ai voli immaginari18.
Spinto dal desiderio, egli segue traiettorie casuali. Vive la città come
uno spazio non funzionale né prevedibile, ma fortuito, indeterminato: un
processo, un gioco di compresenze e di assenze, un’oscillazione vibrante
di differenze, un flusso da abitare che sfugge a ogni previsione. Non un organismo definito in tutte le sue parti, né un modello ordinato e isolato. Ma
un territorio dai confini permeabili ed estesi, privo di parti definite e chiuse.
Non un luogo in cui sentirsi protetto, ma una ribalta teatrale.
L’artista deve misurarsi con questa “complessità vissuta”, tra connessioni e ritmi, slittamenti e sovrapposizioni, aggregazioni e “improvvisazioni
rappresentative impreviste”. Scrutare il corpo metropolitano imboccando
direzioni insicure, alla ricerca di significati ulteriori. Effettuare un uso degli
spazi in chiave soggettivistica, infrangendo ogni strategia di controllo. Sta
tra la folla, senza subirne le pressioni. Straniero e, insieme, cittadino, è come
18
Cfr. M. Cacciari, Abitare, Pensare, in “Casabella”, n. 662-663 (1998-1999), pp. 2-5.
FATA MORGANA
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Vincenzo Trione
l’homo ludens descritto da Huizinga. Avido di simboli e di esperienze, aspira
a soddisfare quella che Balzac chiamava la “gastronomia dell’occhio”. Per
esistere, ha bisogno di una città diffusa, fatta di boulevard, di passages, di
marciapiedi, di piazze. In questo scenario si immerge, senza timori. Nulla
è codificato, nessuna situazione è eterna. È il tripudio della transitività: di
una musica fatta di ritmi, di stridori, di impronte, di dissonanze19.
Il pittore-viandante percorre strade, senza meta. Di volta in volta, si adatta
a ciò che scopre: provvisorie tappe sulla via di un ritorno ignoto. Viaggia
in un’Odissea senza Itaca. Non ci sono direzioni, né fini. Ogni approdo è
occasionale, in un tragitto lungo il quale si materializzano zone d’emergenza,
macerie di templi crollati. Si percepisce il silenzio di oracoli impossibili,
sotto un cielo che non ha più stelle fisse.
Occorre abitare poeticamente il mondo, nella sua terribile innocenza,
non pregiudicata da alcuna anticipazione di significati. Farsi carico di una
processualità pura: abbandonarsi agli accadimenti, che non vanno iscritti
nella prospettiva di un senso finale né di un progetto, ma all’interno di
una condizione di assoluta liquidità. Disporsi in un rapporto di prossimità
con le cose, per vagare in una pianura che si dispiega nella sua instabilità.
Solitari e senza divinità, affidarsi all’istinto, incuranti di mappe e di mete
preordinate.
Nell’attimo in cui traccia percorsi reali e immaginari, l’artista trasforma la città – cupo vegliardo laborioso – in un labirinto: in uno spazio che
scorre, permette e impedisce accessi, difende ed espone a rischi, tutela e
favorisce spaesamenti. Labirinto come «monotona erranza»20, in cui non
esiste un centro unico. E come «patria dell’esitazione»21, dove non vi sono
collegamenti privilegiati, ma linee spezzate, reversibili e interrotte, che si
intersecano, si ritrovano, per poi divergere.
Vagabondo dell’incertezza, l’artista vuole appropriarsi del sistema topografico, «così come il locutore si appropria della lingua assumendola»22.
Mira ad affermare le ragioni di un’individualità radicata dentro la dimensione
mitica della modernità, che è simile a un «grande volante che gira e nessuna
mano dirige»23. Si consegna ai “santuari dell’effimero”: lì «non è permesso
ad alcuno fermarsi più di un istante»24. Ad animarlo è la convinzione che
A. Amin, N. Thrift, Città, tr. it., il Mulino, Bologna 2005, pp. 25-53.
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 582.
21
W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 136.
22
M. de Certau, L’invenzione del quotidiano, tr. it., Edizioni Lavoro, Roma 2005, p. 151.
23
L. Aragon, Il paesano di Parigi, tr. it., il Saggiatore, Milano 1982, p. 146.
24
Ivi, pp. 21-22.
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20
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Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
la verità è solo un apparato congegnato per nascondere sotto il suo velo un
tessuto variegato di contraddizioni. Alla deriva, egli vive l’ebbrezza del perdersi, dell’agire dentro scarti che spiazzano25. Come un pellegrino, si spinge
sempre in avanti, in una condizione di felice fragilità. Sa che ogni viaggio
– anche quello nel dedalo della città – non è fatto di lunghezza e di durata,
di meraviglie o di capolavori, ma solo di se stesso: è spazio longitudinale,
dentro il quale, come in una fessura del pianeta, cadono icone, profili, parole,
suoni, monumenti, soffi d’aria26. Per assecondare i cambiamenti urbani, l’artista-flâneur deve riconoscere la propria unica dottrina nel nomadismo, inteso
come modo per «essere all’altezza dell’eventi»27. Abbandonarsi al fluire delle
strade, che lo trascina. Aggirarsi per la metropoli, nella consapevolezza di
essere solo una lieve cresta d’onda nel mare della modernità: ma provare a
distinguersi dall’uniformità, dall’appiattimento e dalla fungibilità difendendo
un «minimo di particolarità individuale»28. Vivere la gioia dello smarrimento
in un paesaggio solcato da pieghe, da rughe, da intersezioni: un paesaggio
senza bordi, fatto di “pura vita”, potremmo dire con Hofmannsthal. Il suo
sguardo disfa imperi granitici. Si addentra tra gli strati della realtà, legge
segni sedimentatisi sotto altri segni, per raccogliere le sue impressioni in
una sorta di Arca di Noè. Muovendosi avanti e indietro, si consegna alla
digressione. Sa perdere tempo – ed è tenuto in scacco dal tempo.
Al principio di prestazione, che costituisce il fondamento della società
borghese, contrappone la poetica del dandysme: si comporta come l’uomo
che “non si presta”, dotato di un’educazione generale. Alla base della sua
cultura, vi è l’idea secondo cui quel che conta è essenzialmente «il profitto
dell’ozio»29. Dinanzi all’invadenza delle merci, vuole abolire il valore d’uso
e quello di scambio, riscoprendo la passione dell’inafferrabile e dell’irreale:
la “gelida intangibilità” di ciò che è inutile30.
L’artista deve ospitare in sé ciò che vede, rimanendo sempre straniero agli
eventi, sapiente nell’accettare istantanee dell’inatteso. Situarsi tra le crepe
della Storia, che sono incise sulla pelle della polis come cicatrici indelebili.
Decifrare il misterioso linguaggio scritto dal tempo sui corpi e sulle cose:
25
2005.
Sull’esperienza del “non ritrovarsi”, si veda F. La Cecla, Perdersi, Laterza, Roma-Bari
G. Manganelli, La favola pitagorica, Adelphi, Milano 2005, p. 11.
M. Ferraris, Tracce, Mimesis, Milano 2006, p. 101.
28
C. Magris, L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1984, p. 384.
29
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 507.
30
G. Agamben, Stanze, Einaudi, Torino 1977, pp. 50-51.
26
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è questo il suo destino, il “senso del suo esistere”31. Mentre afferra epifanie
fugaci, salva eventi senza consistenza.
È fino in fondo consapevole di un fatto: la città offre ciò che si potrebbe
raggiungere solo andando in giro per il mondo intero, ovvero l’ignoto32. Si
comporta come un prestigiatore, che trasforma gli esterni in interni. Per lui,
una metropoli è simile a un appartamento: i vari quartieri sono come stanze
da frequentare con calma. Il suo lento camminare non è un atto naturale,
ma l’esito di una scelta. Un’action planning ingenua e dinamica: egli vuole
appropriarsi di quel sistema complesso che è città, compiendo una sorta di
spazializzazione dei luoghi.
Passante discreto, l’artista-flâneur ricorda da vicino un sacerdote laico e
un detective. Somiglia a Teseo, che sfida il labirinto per uccidere il mostro;
ma anche a Orfeo, che combatte nell’Ade per trovare l’amore. Criminale
e esiliato, riconosce il suo regno nella strada, «dimora della collettività»33.
Arena dove “lo scorrere della vita è costretto ad affermare se stesso”. Immagini vi si mescolano insieme con forme indistinte, in un magma con parti
che si cancellano. Non contorni precisi, ma una corrente di significati: «una
vita che continuamente dissolve le figure che sta per creare»34.
Il pittore – nomade urbano – si rapporta con autonomia di giudizio ai
mutevoli volti del presente, che gli appare come un continente di conflittualità irriducibili. Imperatore di un regno ambiguo, ha bisogno di andare via,
ma vuole anche mantenere relazioni. Come una persona sospetta, si sente
osservato da tutti; ma è anche «irreperibile e nascosto»35. Intraprende un
viaggio controllato, che espone a tanti rischi. Nel corso di questo periplo,
mostra il suo talento specifico. Dotato della capacità di vedere dall’interno la
città, salda lo sguardo del nativo – che si sposta nel tempo – con quello dello
straniero, che si muove nello spazio accogliendo tutte le voci come elementi
irripetibili: ogni passo alimenta echi, corrispondenze, analogie. Non guarda
la realtà dall’alto. Ribalta la lontananza – che è spossessamento, ascesi, distanza dalle finitudini – in prossimità. Si pone su una soglia: dove elementi
immutabili ed eterni stanno insieme, perché solo in questa compresenza vive
la bellezza moderna. Scende al livello della strada, in ascolto di una musica
31
C. Magris, La fine del flâneur, in Lo sguardo del flâneur, a cura di U.P. Halberg, Iperborea,
Milano 2002, p. 10.
32
Cfr. J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città nordamericane, tr. it., Einaudi, Torino
2009.
33
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 474.
34
S. Kracauer, Teoria del film, tr. it., il Saggiatore, Milano 1995, p. 144.
35
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 460.
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Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
che “rallenta a dismisura i suoi battiti sotto le frustate della dissonanza”. Si
lascia strattonare dalla folla, considerando la città come un organismo che
si organizza dal basso, al di là di ogni pianificazione: un’entità che ha un
ordine plurale, tra mutazioni e incontri di diversità36.
Vuole possedere le cose. Aspira a leggere nei volti il destino degli individui: mestiere, origine, carattere. Insaziabile, scruta la polis. Si addentra nelle
fessure rimaste aperte, per intravedere ombre. Vaga in un bazar gremito. Si
immerge nel mare edificato come in un fluido. Assapora un senso di intimità
con le forme del mondo. Si sofferma su ogni tassello. Esplora ogni tessera,
dove pensa che risieda la possibilità di un nuovo inizio.
Il principe in incognito
Disegnando il ritratto dell’artista-flâneur, Baudelaire – etnografo delle
tracce evidenti e cartografo delle pulsioni invisibili – fa un elogio della
marginalità. Loda uno sguardo che evita la frontalità, prediligendo interstizi, fessure. È lo sguardo di un artista che vuole mettersi di lato rispetto
al sistema ufficiale.
Dunque, siamo al terzo paragrafo de Il pittore della vita moderna – un
manifesto di poetica.
Il pittore non è un maestro riconosciuto e consacrato, ma un cronista
visivo: C. G., ovvero Constantin Guys. Un poeta minore, legato alle circostanze, agli stimoli, agli spunti. Non uno specialista di colori e di parole,
condannato alla tavolozza o alla pagina “come il servo alla gleba”. Ma un
uomo che “comprende il mondo e le ragioni misteriose e legittime di tutte le
sue usanze”, con una curiosità illimitata per il tumulto della libertà umana,
capace di trasformare il visibile in un’enciclopedia galante. Uno storiografo
della quotidianità, che viene preferito a Delacroix e a Manet: è, questa, una
scelta che, in un secolo dominato dal culto della genialità, ha il valore di
un’audace provocazione intellettuale.
Siamo dinanzi a un “incantevole peso leggero”, dimenticato dai manuali
di storia dell’arte, sedotto dalle icone di una bellezza equivoca. Con lui,
Baudelaire ha complicità, consonanze e affinità: «una comunanza, sotterranea e irreprimibile, di percezioni»37. Viaggiatore cosmopolita, Guys vuole
conoscere e considerare tutto ciò che accade nel “nostro sferoide”. Ferma
36
S. Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, tr. it., in Il romanzo, a cura di F.
Moretti, vol. I, Einaudi, Torino 2001, pp. 732-733.
37
R. Calasso, La folie Baudelaire, cit., p. 196.
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il suo occhio “fisso e animalmente estatico” su volti, luci, stoffe. Spirito
indipendente e parziale, sposa la folla, nei suoi ondeggiamenti e nei suoi
flussi, che crescono e decrescono come maree: ed è una gioia febbrile di
cui saranno eternamente privi gli egoisti, ingabbiati e inviluppati dentro
se stessi. Una folla di individui vivi e unici in un immenso corpo comune:
non ancora la massa fatta di esseri simili a monadi incomunicabili senza
porte e finestre.
È, questo, il regno di C. G., come l’aria è il regno per gli uccelli e l’acqua
per i pesci: un’immensa centrale elettrica in cui entrare.
Ecco chi è Guys: uno specchio, che esibisce “la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti di elementi della vita”. Egli è sempre fuori casa, ma si
sente ovunque nel proprio domicilio. Coglie il ritmo dei luoghi, mostra i riti
dell’eleganza, affronta l’interazione tra l’io e il reale. Principe che gode dell’incognito, “fa del mondo la propria famiglia, come l’amante del bel sesso
compone la propria di tutte le bellezze che ha incontrate”. Convalescente, ha
la facoltà di sapersi interessare anche delle cose in apparenza banali. Ebbro,
vede tutto come novità, assorbendo forme, colori, anime. Ammiratore dello
splendente e maestoso fiume dell’attualità, resta incantato dalle meraviglie
delle capitali: dalla loro “armonia provvidenzialmente conservata nel tumulto
della libertà umana”. Contempla le distese costruite, blandite dalla nebbia o
dal sole. Si districa tra le cose visibili, esprimendo l’“esplosione luminosa
nello spazio”. Con un colpo d’occhio straordinario, cattura mode, andature
di donne, tagli di abiti, nodi di nastri, coccarde, fibbie, cinture e gonne allargate. In questo modo, elabora una fenomenologia della percezione fatta di
ritmi accelerati. Una filosofia pervasiva, diffusa, che salda attimi e totalità,
rappresentazione del presente e qualità essenziale del presente.
Colpiscono alcuni aspetti dei fogli di Guys: l’istantaneità dei tratti,
l’indifferenza alla sfera dei significati, la varietà dei soggetti trattati. E poi:
l’incompiutezza, la frammentazione, l’assenza di senso, il taglio visivo, il
non-finito. Il culto dei dettagli, degli scorci: talvolta, C. G. si sente assalito
da “un tumulto di particolari, che chiedono tutti giustizia col furore di una
folla assetata di uguaglianza assoluta”. Questa veemenza si esprime in uno
stile in cui si cerca di vincere “l’inettitudine della mano e l’indocilità dello
strumento”.
È uno stile insolente e impudente, contraddistinto da una velocità esecutiva strabiliante, per documentare le metamorfosi dell’esteriorità. Una
manière eccessiva, smodata, crudele: addirittura barbarica. «Il termine
barbarie – scrive Baudelaire – che troppo spesso è venuto fuori dalla mia
penna, potrebbe indurre qualcuno a credere che sia dinanzi a disegni informi
[…]. Io ho in mente, infatti, una barbarie inevitabile, sintetica, infantile,
che spesso traspare anche in un’arte perfetta […], e discende dal bisogno
50
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
di vedere le cose in grande, considerandole soprattutto nell’effetto del loro
insieme».
Per descrivere la confusione moderna, Guys inventa un linguaggio che
accorcia le distanze. Si spinge nelle zone di contatto con il presente. Esercita
una sorta di intelligenza della superficie: il suo obiettivo è quello di diventare superficiale per profondità. Vuole farsi sorprendere, atterrire: come un
astronauta in una ricognizione lunare. Cerca di allineare l’occhio alla distesa
– dissestata ma spesso sontuosa – dell’immediato. Stabilisce un rapporto di
intimità fragile e di adesione dubbiosa con ciò che ha di fronte.
Dietro questi artifici si nascondono tante peregrinazioni urbane. Il petit
maître girovaga fino a tarda notte. Poi, mentre la città dorme, inizia a disegnare: per non far sfuggire le immagini viste. Chiede all’opera d’arte di
assumere su di sé ciò che è evento o emergenza, esibendo gesti e spunti,
senza risolvere aporie, contraddizioni, eccedenze. Dona un volto al marchio che il tempo imprime alle sensazioni, rielaborando percezioni acute,
magiche, ingenue. Vuole far rinascere sulla carta le cose: “belle e più che
belle”. In ciò, egli si fa osservatore appassionato, che riflette gli altri come
un “caleidoscopio dotato di coscienza”38.
Ma, in fondo, chi è C. G.?
Una maschera, una finzione, un trucco, un trompe l’oeil. Il protagonista di una biografia letteraria, che è anche un’autobiografia. Baudelaire si
rispecchia nel suo alter ego, sperimentando un parler peinture fondato sull’identificazione nella differenza: un’operazione simile a quella di un attore
che entra nel suo personaggio attraverso un sistema di magnetismi.
Fotografare il divenire
Il pittore della vita moderna non è solo testimonianza di una determinata
epoca. Si fa racconto che supera la cronaca, per afferrare l’avvenire.
Baudelaire attinge a un vasto archivio di suggestioni letterarie, che
elabora con originalità. Autore condannato alla «primavoltità»39, egli può
essere posto all’origine di un’impetuosa onda che ha attraversato ampie
regioni delle poetiche del Novecento, per propagarsi al di là di ogni limite,
contagiando personalità e investendo codici. Spinte avanzano, divagano, si
diramano per giungere fino a noi, tra risucchi, gorghi, risacche40. Contagiosa,
Cfr. C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, cit., pp. 1277-1284.
R. Calasso, La folie Baudelaire, cit., p. 332.
40
Ivi, p. 17.
38
39
FATA MORGANA
51
Vincenzo Trione
la forza baudelairiana si è diffusa nello spazio delle sperimentazioni linguistiche del Novecento: «Impossibile da trascurare – ha rilevato Paul Valéry
– essa è presente nelle menti, rafforzata da un numero ingente di opere che
ne derivano, non come imitazione ma come conseguenze»41.
Siamo di fronte a un interprete e, al tempo stesso, a un anticipatore di
indirizzi. Che parla del suo orizzonte elettivo, eppure ricorre ad analisi
estremamente attuali: vicine, necessarie. Le sue visioni racchiudono pulsioni
forse contrastanti: le sue ansie e le sue gioie si connettono con le nostre.
Baudelaire non vuole solo capire cosa era il suo mondo: cerca soprattutto di comprendere cosa stava per diventare il suo stesso mondo. Come
pochi, egli conosce il valore di un’arte difficile e incerta, indispensabile
per decifrare le mutazioni in atto: la profezia. Ad affascinarlo non sono le
tracce già consolidate, ma gli indizi del divenire: ciò che avrebbe distrutto
i templi consolidati. Lo appassionano le trasformazioni: non lo interessano
gli attimi in cui il reale sembra ripiegarsi in se stesso. Per lui, comprendere
non significa collocare uno specifico “tema” nella mappa delle conoscenze
acquisite. Prova a intuire alcuni passaggi cruciali: quando una determinata
geografia inizia a cambiare aspetto, diventando addirittura irriconoscibile.
Si sofferma su quei momenti in cui una civiltà ruota su se stessa per farsi
paesaggio nuovo. Abile nel fotografare il divenire, consegna scatti mossi,
rapidi, imperfetti, simili a graffiti appena accennati42.
In un luogo dei Fusées, con un’ironia venata di consapevolezza, scriverà:
«A volte sento in me la ridicolaggine di un profeta…»43.
Glorificare il visibile
Accostandosi, gli scatti del profeta ridicolo, definiscono i lineamenti di
un’originale iconologia. Si tratta di una poetica che vuole sottolineare la
centralità del gesto dell’osservare: il bisogno di aprirsi a una molteplicità di
visioni. «Nella loro stessa giovinezza, i miei occhi colmi di immagini dipinte
o incise non avevano mai potuto saziarsi, e credo che i mondi potrebbero
finire, impavidum ferient, prima che io diventi iconoclasta»44, scrive Baudelaire, le cui parole sorgono da spunti, da circostanze, da barlumi. Attingono
P. Valéry, Varietà, tr. it., Rizzoli, Milano 1961, p. 235.
Questi rilievi critici di Baricco su Benjamin possono “adattarsi” anche a Baudelaire (A.
Baricco, I barbari, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2006, p. 26).
43
C. Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, in Id., Opere, cit., p. 1406.
44
C. Baudelaire, Salon del 1859, in Id., Opere, cit, p. 1203.
41
42
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FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
sempre a un materiale preesistente: fantasmi incontrati per strada o in una
mostra. La scrittura si dà innanzitutto come opera di trascrizione, tra rimandi
costanti e giochi di codici. Strategia per imparare ad acquisire ciò che esiste,
portandosi al di là delle astrazioni inerti. Ogni pagina è pensata come una
pianura su cui depositare i detriti catturati dall’occhio, che – avido – si nutre
di situazioni spesso fortuite.
La mistica delle immagini è l’unica religione cui Baudelaire è rimasto
devoto, come rivela una frase di Il mio cuore messo a nudo, che recita:
«Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia
primitiva passione)»45.
Questo intento racchiude un amore antico, esclusivo, assoluto, alimentato
da riti e da occasioni. Una primitiva passione, testimoniata dalle pagine
critiche e dai versi baudelairiani. Sono scritture che prefigurano intenzioni
presenti nella filosofia di Nietzsche, per il quale «Noi crediamo di sapere
qualcosa delle cose in sé quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori,
e intanto non possediamo nient’altro che metafore di cose, per nulla corrispondenti alle entità originarie». Siamo circondati da metafore di cose,
concepite come strumenti per aderire alla prosa del mondo: vengono prima
della parola, e sono impronte del nostro appartenere alla vita46.
I fantasmi dell’anima, i sogni, le allucinazioni, le geometrie, i simboli
religiosi. Le immagini sono ovunque. Servono a dare un ordine alle impressioni. Rivestono un ruolo gnoseologico: posseggono un quid che supera il
dato discorsivo e verbale, e non può essere ridotto allo schema della parola.
Supportano la percezione, accompagnano i nostri affetti, si confondono con
le nostre idee. In ogni uomo, compongono un archivio da profanare. Situate
tra le parole e le cose, si succedono in sequenze serrate; scorrono, in noi, con
straordinaria rapidità. Sfuggenti, erratiche, perturbanti, abbagliano. Isolate
o organizzate, sono il luogo ove si cristallizzano abitudini, posizioni, scelte.
Costituiscono la radice di ogni sapere. Portatrici di significati immediati,
hanno un alto valore informativo. Non indicano l’oggetto, ma solo la sua
rappresentazione sensibile. Trasmettono contenuti al pensiero, attraverso la
memoria e i sogni. Si pongono in una zona intermedia, tra la dimensione
sensibile e quella intelligibile. Alcune si fanno catturare. Altre affiorano
da un ideale fondo; e, nonostante i nostri sforzi, spariscono di nuovo in
quello stesso antro. Nel momento in cui proviamo a toccarle, sembrano
consumarsi.
C. Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, cit., p. 1441.
Sulla nozione di immagine nel pensiero di Nietzsche, si rimanda a J.-J. Wunenburger,
Filosofia delle immagini, tr. it., Einaudi, Torino 2000, pp. 301-305.
45
46
FATA MORGANA
53
Vincenzo Trione
L’intero itinerario di Baudelaire potrebbe essere letto come un’avvincente
“caccia alle immagini”. Un pedinamento senza inizio né fine, governato dal
demone dell’analogia. Un’investigazione per orientarsi tra piani molteplici
e segni mutevoli, senza alcuna garanzia sul principio e sull’epilogo. Un gesto che, descrivendo, ospita le cose nell’alveo del linguaggio; e, scrutando,
partecipa delle impressions véritables del mondo.
Baudelaire attribuisce un’importanza cruciale al problema della visività,
che conserva intatto il “fantastique réel de la vie”. Afferma il suo prepotente
bisogno di guardare sull’occhio, che è «l’epifonema attivo di un atteggiamento mentale, di un modo di porsi di fronte alla realtà»47. Si comporta
come un osservatore animato da una sorta di concupiscentia oculorum.
Considerare se stesso come un vetro smerigliato su cui si riflettono schegge
di un universo che si sfarina e si ricompone, per sfarinarsi di nuovo.
Contro la fotografia
La concupiscentia oculorum passa attraverso diverse strategie: rifiuti e
recuperi, abbandoni e riprese.
I rifiuti, innanzitutto.
Baudelaire parte dalla convinzione secondo cui tutto quel che è naturale
è laido, «partecipe di una degradazione connessa allo stato di colpa dell’uomo, che non si rimuove, anzi si aggrava quando vi si vuole opporre la
certezza canonica di una natura buona»48. Inutile auspicare compromessi:
resta insanabile il conflitto tra arte e industria. Poesia e progresso somigliano
a due individui ambiziosi che si detestano di un odio istintivo, “e quando si
incontrano per la stessa strada, uno dei due deve cedere il passo”. Questo
conflitto ha determinato nette metamorfosi nei modi della visione.
Per Baudelaire, le fatuità del moderno non vanno passivamente celebrate,
ma devono essere combattute con sarcasmo. Occorrono prudenze e cautele,
per smontare alcuni falsi miti. Siamo in un’epoca in cui “l’amore esclusivo
del Vero (tanto nobile se limitato alle sue genuine applicazioni) opprime
e soffoca il gusto del Bello”. Si tende ad assecondare la retorica del facile
equilibrio e della vana fedeltà. Ma, spesso, ci si dimentica che la verità ha
valore solo se non soffoca la bellezza.
Si pensi al ruolo della fotografia. Favorisce pericolosi slittamenti: si
47
E. Raimondi, Prefazione, in C. Baudelaire, Scritti sull’arte, tr. it., Einaudi, Torino 1981,
p. XLVII.
48
Ivi, p. XL.
54
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
ferma alla documentazione, senza spingersi verso le radici del presente.
Possiede la capacità di riprodurre la realtà in maniera precisa, ma è nemica
dell’arte. Un prodotto figlio del progresso tecnologico: uno strumento non
poetico, ma pratico. Un’“ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia, le quali non hanno né creato né sostituito la letteratura”: utile per
arricchire gli album dei visitatori, per conservare la memoria dei luoghi e
delle situazioni, per adornare le biblioteche dei naturalisti, per migliorare le
conoscenze degli astronomi, per salvare dall’oblio “le cose preziose di cui
va scomparendo la forma”. È “il segretario e il taccuino di chiunque abbia
bisogno nella propria professione di un’assoluta esattezza materiale”. Ma
non riuscirà mai a sfiorare i territori della spiritualità…
Esito di questi “giorni deplorevoli”, la fotografia è destinata a tradire
ogni slancio verso la trascendenza. Illude il pubblico che sia possibile acquisire il reale nella sua immediatezza. È un linguaggio senz’anima: esatto
e imperturbabile, fedele e ricettivo. Mimetico ma non creativo, incapace di
spingersi verso le regioni dell’impalpabile. Un codice che tende ad assecondare un impulso caro a ogni individuo: con il diffondersi della fotografia,
«L’immonda compagnia si precipitò, come un solo Narciso, a contemplare
la propria immagine triviale sulla lastra»49.
È un rilievo critico tranchant, che mostra profonde diffidenze. Per Baudelaire, la fotografia riproduce la realtà com’è, mentre la pittura presenta
la realtà come si vede. Si tratta di un sottile errore di lettura: l’obiettivo,
infatti, non è un mezzo imparziale e oggettivo, ma è sempre manovrato
dall’autore, il quale manifesta le sue inclinazioni estetiche e psicologiche
nella scelta dei motivi, delle luci, delle inquadrature, dei tagli e delle messe
a fuoco, soffermandosi su aspetti difficili da captare per l’occhio umano,
più lento e meno preciso.
La fotografia esibisce sequenze di istanti infiniti; congela attimi in una
quasi-eternità, in un tempo che non passa e non si deteriora. Incatena la
vita: non la nega, ma la costringe a cedere schegge della sua eternità. Testimone incorruttibile del mutamento, rivela l’assolutezza di tanti barlumi, il
trascorrere irreversibile del presente. Fa vedere le cose non come sono, ma
come possono diventare di fronte all’obiettivo. Essa è «l’ombra proiettata
sulla pellicola di ciò di cui non avremo mai l’esperienza concreta, […] e di
cui neppure conosceremo mai la fonte luminosa, proprio come i prigionieri
della caverna platonica, i quali del mondo esterno e della propria esistenza
non conosceranno altro che il riflesso»50.
49
50
C. Baudelaire, Salon del 1859, in Id., Opere, cit., pp. 1191-1197.
J. Baudrillard, Ombre et photo, in Jean Baudrillard, L’Herne, Paris 2004, pp. 231-232.
FATA MORGANA
55
Vincenzo Trione
Queste qualità sfuggono all’intelligenza critica baudelairiana. Perché?
Quali sono le ragioni sottese a un’avversione tanto marcata?
È un disprezzo dovuto a precise convinzioni. Mago e demonologo, Baudelaire ritiene che l’arte sia un’attività esclusiva: un evento che non può
essere in alcun modo sostituito da alcun attrezzo meccanico. Egli auspica
una poiesis che sappia saldare ambiti lontani: energia, chiarezza espositiva,
sottigliezze evocative. Per lui, l’opera deve sempre fondarsi su deformazioni, eccessi, estremizzazioni: forse menzogne. Il reale può emergere solo
attraverso effetti di choc: non deve somigliare alla cosa, ma conservare – a
volte esibire – «un ordine estraneo all’oggetto rappresentato»51.
Elogio della grafica
Il rifiuto della fotografia si accompagna a un inatteso recupero: quello
della grafica. Un linguaggio che non deve essere concepito come mero
strumento al servizio della pittura e della scultura, ma come esperienza
d’avanguardia.
La grafica è un sistema che coniuga informazione e interpretazione
immediata. È figlia dell’esercizio del disegno, inteso come stratagemma
per offrire una rapida proiezione delle intuizioni. Avventura decisiva nella
genesi di territori imprevisti, sistema analitico di conoscenza, il disegno
restituisce sagome di regioni lontane. Simile a una scrittura ideografica,
consente di toccare terre vergini. Dona l’unicità delle sensazioni, fa vedere
ciò che è nascosto. Ci fa inabissare nel cuore delle apparenze. È un modo
per riportare, con spontaneità, orme dell’invisibile. Intenzione razionale, che
procede attraverso congiunzioni e disgiunzioni. Permette di cogliere le connessioni del reale. È un atto fisico, ma anche visionario. Insegna a osservare
i pensieri, suggerendo confini, volumi, movimenti, valori plastici. Richiede
gesti ampi. Dopo aver cominciato, la mano deve proseguire, andare avanti,
senza fermarsi. È emblema di contorni chiusi, di rigore, di ordine. Sentieri
si costruiscono negli arabeschi della matita, in tante combinazioni.
Il disegnatore pone in dialogo la dimensione evidente con quella più segreta; integra le indicazioni parziali, le articolazioni che legano gli oggetti.
Governa le curvature, le pieghe, gli interstizi; accosta elementi distanti, di
cui scruta anche gli angoli inaccessibili; connette il davanti con il dietro, il
sopra con il sotto, le facce posteriori e quelle anteriori, gli spigoli concavi
51
A. Berardinelli, Introduzione, in C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi, tr. it., Garzanti, Milano
2004, p. XIV.
56
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
e quelli convessi, l’esterno con l’interno, grazie a uno sguardo “antigorgonico”, che non pietrifica le cose, ma le rende attraversabili. Nella sua
pratica, alcune qualità sono indispensabili: lo “studio assiduo e sincero”,
un’intuizione penetrante dei caratteri del modello, la sapienza nell’esagerare alcuni particolari, “per accentuare la fisionomia e renderne più chiara
l’espressione”. Il disegno, infatti, per Baudelaire, vive in un limbo: “è
un conflitto tra la natura e l’artista, in cui l’artista può trionfare tanto più
agevolmente quanto sa intendere meglio le intenzioni della natura”. Non è
mimesi, ma atto ermeneutico: «Il problema non è quello di copiare, ma di
interpretare in una lingua più semplice e luminosa»52.
Da questa matrice muovono i grafici, i quali tendono a radicalizzare
l’esperienza “aristocratica” del disegno, sperimentando contaminazioni e
intrecci con il giornalismo.
Emancipatisi da ogni ingombro positivista, essi sanno beneficiare delle
infinite risorse della percezione visiva. Liberi di non richiamarsi a maestri
consacrati, capaci di rispondere alle richieste di profitto dei loro committenti,
autonomi rispetto alla logica istituzionale dei Saloons, “felicemente oscuri”,
sanno orientarsi nella cascata delle immagini moderne, «senza neppure avere
bisogno di pronunciare la parola “arte”»53.
Come fa Guys, il cui stile popolare si inchina agli imperativi dell’impressione. Sorprendono i ritmi esecutivi: la maestria nel moto dei tocchi,
nel recupero fulmineo di tracce di memoria. D’istinto, egli segue i “punti
culminanti o luminosi d’un oggetto”; esaspera le relazioni, in modo da
imporre all’attenzione dello spettatore un reticolo essenziale. Deposita le
sensazioni del mondo in un difficile gioco tra la volontà di vedere tutto e la
rimembranza. Assorbe solo “l’arabesco del contorno”, tra rapide indicazioni, masse cromatiche, stadi accennati, intensità di luci e di ombre. Rispetta
schemi visivi e leggi morfologiche54, in bilico “tra un’ottica coloristica e
un’ottica tattile”, analoga a quella elaborata a fine secolo da Alois Riegl55.
Dunque, chi è davvero C. G.?
Una sorta di padre dei fotoreporter contemporanei: fissa gli avvenimenti,
ferma gli attimi e, infine, invia i suoi schizzi ai quotidiani che ne ricaveranno
incisioni istantanee, per illustrare le notizie del giorno56.
C. Baudelaire, Salon del 1846, in Id., Opere, cit., p. 1056.
R. Calasso, La folie Baudelaire, cit., p. 205.
54
C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, cit., pp. 1277-1284.
55
E. Raimondi, Prefazione, in C. Baudelaire, Scritti sull’arte, cit., p. XLVII.
56
A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, cit., p. 25.
52
53
FATA MORGANA
57
Vincenzo Trione
Prima del cinema
Dietro questi rifiuti e questi recuperi, si celano accorte strategie. Mentre
molti dipinti ottocenteschi tendono a essere sempre più affollati di elementi
spesso superficiali, le opere grafiche sono un tripudio di dettagli, nei quali
palpita l’essenziale. Scorci, gesti rubati…
Baudelaire sembra mettere in discussione la sovranità della pittura. Egli
intuisce che “qualcosa di non meno indispensabile, nel regno equoreo delle
immagini, sarebbe giunto dalla malfamata illustrazione”. Facendo l’elogio
di Guys, non si pone affatto in una posizione di retroguardia: vuole, invece,
proiettarsi in avanti. Arriva addirittura a evocare le magie del cinema. In
fondo, è stato ricordato, il petit maître potrebbe essere considerato anche
come “un prodromo di Max Ophüls, più che di Manet”, mirabile nel donare
un abito fantomatico, dinamico, sfuggente e incantato al presente57.
Siamo davvero di fronte a un autore pre-cinematografico?
Per rispondere, ritorniamo a Il pittore della vita moderna, ma anche
ai Tableaux parisiens e a Lo spleen di Parigi. Si succedono annotazioni,
visioni, scorci urbani. Capitoli di un’opera frammentaria, spezzettata e
vasta: che sembra mimare i deragliamenti metropolitani. Un’enciclopedia
meravigliosamente incompiuta, da leggere nella repentina e vertiginosa
alternanza di concetti, tra analogie, concordanze e attriti. Pagine di un’avventura che disegna strade incerte e località sempre nuove. Procedendo, non
arriveremo mai a nessuna meta: ma ci convinceremo che l’ultima parola
non verrà mai detta.
Momenti spesso dissonanti, che si continuano e si accostano, delineando
i contorni di un immaginario già cinematografico. Un racconto visivo con
una trama fatta di orme invisibili, di legami celati, di ripostigli oscuri. Segmenti letterari simili a inquadrature, che ritraggono volti, occasioni, scenari,
situazioni. Flâneries per disegnare un ordito libero, eppure segretamente
organizzato, che sembra replicare le disarticolazioni urbane, tra percorsi,
reti, direzioni, parti che collegano ad altre parti. Flussi che si intersecano,
trasformando la città in una sequenza che contiene altre sequenze. Scritti
caratterizzati da sorprendenti interruzioni – impressioni quotidiane colte con
agili tecniche di ripresa –, che potrebbero essere interpretati anche come
involontarie profezie del linguaggio filmico.
R. Calasso, La folie Baudelaire, cit., p. 203. Secondo Calasso, Baudelaire ha intuito un
passaggio epocale: «prima ancora di essere inventata, la macchina da presa era il rôdeur che
batteva le strade di Parigi», ibidem.
57
58
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
Ecco il film appassionato sulla topografia di Parigi sognato da Benjamin58.
Si rifletta ancora sulla figura del flâneur, i cui gesti sembrano anticipare
quelli del regista cinematografico. Affinità, corrispondenze, tensioni. L’occhio sensibile ai dettagli, alle casualità: a ciò che abitualmente si trascura
nella quotidianità. Il desiderio di toccare la realtà mentre si fa e si disfa
dinanzi a noi. Il culto per ciò che è dimenticato, smarrito. Una visione partecipe e, insieme, distanziata, lontana dall’esistenza «distratta e incosciente
della folla»59.
Il flâneur e il regista sono detective, che si consegnano a pellegrinaggi
indomiti. Ad accomunarli è il bisogno di saldare sguardi e luoghi, in un gioco
che tende a rendere ogni dato liquido e instabile. Effettuano il colportage,
perlustrando regioni inesplorate. Intrattengono un costante dialogo con la
città, che è dominata da una simultaneità opprimente. Vogliono captare
tutte le voci che, in contemporanea, li avvolgono. Elaborano una filologia
disinvolta, per entrare dentro le tessiture del mondo.
Analogamente allo straccivendolo benjaminiano, essi si aggirano negli
anfratti di una temporalità frantumata e disgiunta, che non si srotola come
un filo, ma appare come una corda sfilacciata in “mille matasse che pendono come trecce sciolte”. Per loro, uno specifico motivo non è un punto
fisso, né un processo. Non è una linea, ma un arabesco di traiettorie e di
conflitti, di spostamenti e di salti. Sanno porre in relazioni tracce marginali.
Cuciono insieme vestigia, rifiuti, cadute. Ordinano un catalogo di cascami,
rinunciando a sintassi ingabbiate. Collezionano minuzie, raccolgono reliquie, interrompono andamenti, conferendo uno spessore a rimozioni e a
dimenticanze60. Catalogatori di merci usate, interagiscono con il paesaggio
edificato, misurandosi anche con archeologie non ufficiali61.
58
Baudelaire si richiama a una consuetudine molto diffusa tra i letterati dell’Ottocento. Da Poe
in poi, molti scrittori vogliono iscrivere i loro discorsi letterari all’interno di una “consapevole
struttura visionaria”, immettendo il lettore nello spazio del testo, inteso come topos in cui le
tecniche della composizione – scelta dei temi, delle abitudini, dei ritmi, delle sequenze – servono
a svelare “ciò che non può essere rappresentato se non attraverso una programmatica strategia
della sensazione”. Si deformano i territori strutturati, per dare voce a emergenze affettive. I luoghi
sono assunti come zone di fuga, per evadere dai limiti della vita quotidiana: per uscire dal “tempo
esteriore del mondo”. Su queste tematiche, si rimanda ad A. Abruzzese, Cinema e romanzo: dal
visibile al sensibile, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, vol. I, cit., pp. 775-801.
59
A. Vidler, La deformazione dello spazio, tr. it., Postmedia, Milano 2009, pp. 95-98.
60
Sulla figura dello straccivendolo benjaminiano, si veda G. Didi-Huberman, Storia dell’arte
e anacronismo delle immagini, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 95-106.
61
A. Vidler, La deformazione dello spazio, cit., p. 98.
FATA MORGANA
59
Vincenzo Trione
Il regista come flâneur
Siamo in un gioco di rispecchiamenti comportamentali e linguistici. Il
flâneur, regista ante litteram. E il regista, flâneur del Novecento.
È di fronte a noi una figura-duale, amante dello sguardo marginale, che sa
porsi au centre du monde e anche caché au monde. Riesce a essere al centro
e a rimanere nascosta, a stare dentro le cose e a difendere una distanza: la
metropoli non è un contenitore stabile di architetture e di identità, ma un
campo impossibile da circoscrivere.
Il loro sguardo è un sensore che non adotta un itinerario o un tema, ma
divaga, deraglia. Procede per colpi d’occhio, per fascinazioni. Con un movimento random, perlustra la materia urbana, registrandone i brusii. Si affida
alla casualità delle coincidenze e degli incontri, per intercettare differenze,
scarti e intervalli. Decifra confini e soglie, addensamenti e salti di scala,
cambi di proporzioni e passaggi a vuoto.
Il regista-flâneur sa che non conta il punto d’inizio di un attraversamento,
ma il taglio scelto: tangente, anulare o radiale. Si può adottare una precisa
predisposizione visiva, carezzare i flussi; o ci si può lasciare catturare dalle
rivelazioni effimere che si succedono, cambiando angolatura. Si accostano
porzioni di zone, particolari, tasselli. Lucidi scorci nel visibile, cambi di
ritmo, variazioni graduali, poi andamenti spezzati. Ci si addentra in una metropoli simile a un gran bazar, scrigno di indizi e di tracce: edifici accostati
ad altri in modo spesso incongruo, al di là di ogni sintassi.
Si tratta di un impulso che, lungi dal riguardare esclusivamente la sensibilità poetica, si è fatto sempre più diffuso.
In fondo, ciascuno di noi è un po’ un flâneur e, insieme, un istintivo regista. Nella nostra quotidianità, spesso, siano costretti ad accostare idealmente
videoclip, effettuando zapping inquieti, in cui allestiamo un disomogeneo
“girato”. Siamo come “turisti che neppure una frequentazione abitudinaria
può veramente radicare nei territori che sempre più rapidamente percorriamo”. Abitanti erratici, percorriamo lunghi corridoi vibranti di spostamenti.
Componiamo luoghi in sequenza. «Paesaggi tenuti a una distanza di sicurezza dall’attitudine al loro rapido consumo visivo»62.
62
S. Boeri, Luoghi in sequenza, in Paesaggi ibridi, a cura di M. Zardini, Skira, Milano 1999,
pp. 59-69.
60
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
La vita “sul fatto”
Erede diretto del flâneur è l’uomo con la macchina da presa di Dziga
Vertov, impegnato a inquadrare e a riprodurre brandelli di vita.
Sulla scia delle intuizioni baudelairiane, Vertov ritiene che lo sguardo
cinematografico debba stare dentro il fluire dell’esistenza: cogliere questa
corrente nei suoi incomprensibili ripiegamenti, organizzando spunti e motivi
in una forma compiuta. La vita va afferrata sul fatto, al di là di ogni intento
narrativo.
Occorre portarsi oltre le tentazioni letterarie o teatrali. Catturare cose
e immagini, consegnarsi alla ricettività mobile dell’occhio, che raccoglie
tracce, occasioni. Organo attivo, l’occhio svela il funzionamento del reale.
Strumento “prostetico” di conoscenza, surrogato dell’individuo, “estensione dell’esperienza sensoriale umana”, non si ferma mai63. Può vagare ed
esplorare in assoluta libertà, farsi invisibile: sempre in grado di superare le
barriere spazio-temporali, può insinuarsi in ogni luogo. Simbolo di forza,
vive la felicità della sorpresa. Ma, soprattutto, sa mostrare, in ciò che è
stato assimilato, inavvertite correspondances, occulte nervature, misteriose
connessioni64.
Perché l’imprevedibile accadere degli eventi, per Vertov, è tenuto insieme
da trame segrete, spesso difficili da comprendere. Un racconto frantumato e
sconnesso, che attende solo di essere situato in un mosaico di fotogrammi,
legati da ritmi e da rapporti.
La scrittura filmica, perciò, non può limitarsi ad assorbire eventi. Non
è pura documentazione di fatti, ma artificio per investigare sui lati nascosti
dei fenomeni. Attività formativa. Invenzione per far emergere una tessitura linguistica silenziosa, interminabile. La cinescrittura è testimonianza
critica, che vuole immettere ciascun episodio della vita in un’architettura
di accostamenti e di distanziamenti, per indugiare soprattutto sulle noncoincidenze65.
Le ragioni teoriche sottese al rappel di Vertov rivelano molte consonanze
con la riflessione di alcuni critici, i quali, sin dalla metà degli anni Venti,
in polemica con la tendenza documentaristica e scenografica del cinema
espressionista, auspicano un confronto diretto e immediato con il reale.
Ad animarli è l’idea secondo cui la cinepresa può comunicare allo spettatore un senso di moto solo se sa rendere dinamici i contesti rappresentati.
T. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film, tr. it., Einaudi, Torino 2009, pp. 88-89.
Cfr. D. Vertov, L’occhio della rivoluzione, tr. it., Mazzotta, Milano 1976.
65
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini e Associati, Milano 1999, pp. 39-45.
63
64
FATA MORGANA
61
Vincenzo Trione
«Non solo i corpi si muovono nello spazio, ma lo spazio stesso si muove,
avvicinandosi, retrocedendo, girando, dissolvendosi e cristallizzandosi
come appare attraverso il movimento controllato, nella messa a fuoco […],
attraverso il taglio e il montaggio delle varie scene»66.
Così scrive Siegfried Kracauer, per il quale il cinema non deve idealizzare il vero, ma mostrare «la realtà fisica in quanto tale». Perdersi nelle
«configurazioni accidentali», accostando spunti con disinteressata intensità:
istantanee del presente. Non accarezzare il vero con le punta delle dita, ma
provare ad afferrarlo. Per scoprire il volto dell’imminente modernità, in cui
convivono declino ed emancipazione. E fondare un’estetica materiale, tesa
a registrare le emozioni momentanee.
Da queste premesse muove Kracauer per proporre il suo appassionato
elogio di una figura tipicamente baudelairiana: la strada. Che è “luogo e
veicolo” sociale. Non mera scenografia, ma “natura selvaggia” da riprendere, da riportare. Territorio di incontri fortuiti: delimitato, eppure universale. Motivo inesauribile per comprendere le mutazioni della modernità,
nell’intreccio tra possibilità e caso, tra partecipazione e distanza. Questo
vorticoso caleidoscopio dovrà essere raccontato dalla cinepresa: che non è
mero strumento tecnico, ma preciso surrogato dell’occhio umano.
Per intercettare gli incessanti cambi di ritmo della città, il regista dovrà
comportarsi come il nomade descritto da Baudelaire, ricorrendo a una gestualità estremamente dinamica. Questa lontana matrice è colta da Kracauer,
per il quale la tecnica della flânerie ha fornito significativi modelli operativi
al cineasta moderno: «Vediamo il personaggio malinconico passeggiare
senza meta: mentre cammina, il paesaggio che cambia prende forma in
un’innumerevole serie di inquadrature giustapposte di facciate di case, luci
al neon, viandanti e simili»67.
Si pensi a Metropolis (1927). La qualità del film di Fritz Lang risiede
proprio nel modo – vagamente baudelairiano – in cui sono fermate e rappresentate le folle. Una combinazione di prospettive: campi lunghi e primi
piani «Offrono esattamente il tipo di impressioni casuali che riceveremmo
se dovessimo essere testimoni di questo spettacolo nella realtà»68.
S. Kracauer, Teoria del film, cit.
Ivi, p. 17.
68
Ivi, p. 72.
66
67
62
FATA MORGANA
Il culto delle immagini. Baudelaire verso il cinema
Mélanges posthumes
Dietro Vertov e Kracauer, si nasconde l’ombra di Baudelaire, scrittore
“pre-cinematografico”. Uno straordinario profeta, come emerge da un saggio
a lui dedicato da Jules Laforgue. Una lettura audace, rivolta a illuminare le
qualità di una voce d’avanguardia. Un essai d’étude indirecte, potremmo dire
con Jean Cocteau. Un testo “inesatto”, dal tono spesso aforismatico, fatto
di insistiti ragionamenti. Una discesa eterodossa nelle regioni più remote
della modernità, segnata da una prosa spezzata e insinuante, che armonizza
lo sguardo “dettagliato” con la prospettiva metastorica.
In un luogo del suo studio “intermittente”, Laforgue in maniera forse
visionaria individua alcuni tratti distintivi del carattere di Baudelaire: «gatto,
indù, yankee, episcopale alchimista»69. All’apparenza, sono parole prive di
collegamento. Eppure, proprio questi termini definitivi potrebbero essere
utilizzati per disegnare le linee di un ritratto fedele.
In particolare, una parola disorienta perché molto poco baudelairiana:
yankee.
A cosa allude Laforgue?
Sembra davvero di essere lontani dalla sensibilità del poeta de Lo spleen
di Parigi, il quale, nei suoi testi su Poe, aveva offerto una descrizione
piuttosto stereotipata dell’America, vista come il regno dell’utilitarismo e
della grossolanità, quasi una periferia ultramoderna del noioso e mimetico
Belgio: New York come un’estremizzazione di Bruxelles, “la capitale delle
scimmie”. Gli USA sono raccontati con accenti di sberleffo e derisione: “un
paese gigantesco e bambino”, geloso della cultura europea, “fiero della sua
crescita materiale sregolata e quasi mostruosa […], ultimo venuto nella
storia”, sorretto da una “fede ingenua nell’onnipotenza dell’industria”,
innamorato solo dei miti effimeri del denaro e della produzione. «L’attività
materiale, esagerata fino alle proporzioni di una mania nazionale, lascia
negli spiriti ben poco spazio per le cose che non sono di questa terra»70. Un
giudizio che potrebbe essere accostato a un altro feroce j’accuse, in cui si
parla quasi con timore di “Parigi-New York”, Babele caotica e senz’anima
di rifiuti, di rovine e di macerie.
Allora, in cosa Baudelaire sarebbe yankee? A cosa si riferisce Laforgue
quando accenna all’americanismo del “suo” autore?
A una dimensione poco manifesta. Al gusto per gli stridori, per le esa69
J. Laforgue, Mélanges posthumes, in Id., Œuvres complètes, L’Age d’Homme, Lausanne
2000, p. 178.
70
C. Baudelaire, Edgar Poe, la sua vita e le sue opere, in Id., Opere, cit., p. 787.
FATA MORGANA
63
Vincenzo Trione
sperazioni, per le sproporzioni, per gli eccessi: per la radicalità, “preziosa
polverina magica” che si sparge sulle cose del mondo per farle apparire più
potenti di quanto in effetti siano71. Da pensatore esagerato, Baudelaire libera
energie: non vuole incanalarle. Poiché spesso solo «esagerando l’immagine,
affiorano verità che, riducendola, sfuggono all’occhio»72.
Nella sua poesia, è costante il ricorso ai superlativi, concepiti come strumenti per effettuare forzature iconografiche: “yankee sono i suoi très davanti
a un aggettivo”, i suoi paesaggi urtanti e stridenti, alcuni confronti dove “si
vedono i fili di ferro e i trucchi”. Sono, questi, stratagemmi – di impronta
romantica – che gli consentono di portarsi al di là di una facile oratoria. Da
questo impeto decostruttivo nasceranno liriche distaccate, continuamente
interrotte, talvolta brevi, senza un tema degno di nota: «vaghe e senza ragione
come un battito di ventaglio, effimere ed equivoche come un viso truccato,
che fanno dire al borghese che le legge “E allora?”»73.
Baudelaire sa essere estremo, senza mai andare sopra le righe. Inventa un
linguaggio che «si discosta dalla sua esperienza in misura tanto impercettibile
quanto l’habitus di un perfetto prelato dalla sua persona»74.
È, qui, l’anima yankee dell’involontario regista dei tableaux parisiens.
Meraviglioso e inquieto interprete del suo tempo, che ha saputo proiettarsi
verso di noi. Nel momento in cui infrange argini di prudenza, la sua scrittura
si fa scandalo, azzardo, trasgressione. E apre in direzione di tante avventure
poetiche novecentesche.
Forse – sembra essere questo l’invito di Laforgue – occorre capovolgere
la prospettiva: e guardare Baudelaire dal nostro presente.
«Le sue immagini si capiscono meglio attraverso il cinema. Attraverso
Max Ophüls – o anche von Stroheim. O un qualsiasi anonimo film in bianco
e nero»75.
R. Hughes, In difesa dell’inestimabile, lezione magistrale tenuta a Milano il 22 giugno
2009, in occasione della decima edizione della Milanesiana (un estratto di questa lecture è stato
riportato sul “Corriere della Sera” del 21 giugno 2009).
72
G. Pontiggia, Sostare di fronte all’arte per vedere che non c’è, in “Il Sole-24 Ore”, 12
dicembre 1999.
73
J. Laforgue, Baudelaire, cit., pp. 178-179.
74
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 343.
75
R. Calasso, La folie Baudelaire, cit., p. 333.
71
64
FATA MORGANA
Dream Factory Communism:
il Realismo Socialista come cultura visuale
Antonio Somaini
In questo testo prenderò in considerazione il termine “visuale” come traduzione dell’inglese visual nell’espressione visual culture, “cultura visuale”.
Cercherò di chiarire sinteticamente che cosa si può intendere per cultura
visuale, ossia quale può essere l’oggetto di quei visual culture studies che
si sono affermati negli ultimi quindici anni, ed esaminerò infine il modo in
cui il riferimento al concetto di cultura visuale è stato messo in pratica in
un caso particolare ma per molti aspetti emblematico: la mostra intitolata
Dream Factory Communism. The Visual Culture of the Stalin Era curata da
Boris Groys nel 2003 presso la Schirn Kunsthalle di Francoforte1.
A più di dieci anni dalla pubblicazione sulla rivista “October” di un questionario che si proponeva, non senza una certa diffidenza, di fare il punto
sullo statuto dei visual culture studies2, possiamo dire che l’estensione e gli
obiettivi di questo campo di ricerca sono ancora oggetto di discussione. La
pubblicazione di un discreto numero di introduzioni e antologie3, se da un
B. Groys, M. Hollein, Dream Factory Communism. The Visual Culture of the Stalin Era,
Schirn Kunsthalle Frankfurt-Hatje Cantz, Frankfurt 2003.
2
Visual Culture Questionnaire, in “October”, n. 77 (1996), pp. 25-70. La diffidenza nei
confronti dei visual culture studies traspariva chiaramente da una delle domande formulate dagli
autori del questionario, in cui ci si chiedeva se questo nuovo campo di studi, avendo assunto
come presupposto «a newly wrought conception of the visual as disembodied image, re-created
in the virtual spaces of sign-exchange and phantasmatic projection», non avesse come conseguenza magari involontaria quella di contribuire alla produzione di «subjects for the next stage
of globalized capital», ivi, p. 25.
3
Sul concetto di “cultura visuale” cfr. le seguenti introduzioni: J.A.Walker, S.Chaplin, Visual
Culture: An Introduction, Manchester University Press, Manchester-New York 1997; M. Sturken,
L. Cartwright, Practices of Looking: An Introduction to Visual Culture, Oxford University Press,
New York 2001; N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, tr. it., Meltemi, Roma 2002; M.
Dikovitskaya, Visual Culture: The Study of the Visual After the Cultural Turn, MIT Press, Boston
2005. Tra le antologie, cfr. Visual Culture, a cura di C. Jenks, Routledge, London-New York
1
FATA MORGANA
65
Antonio Somaini
lato ha contribuito a definire un certo corpus di autori, di concetti e di “casi di
studio” di riferimento, dall’altro non ha fatto altro che ribadire l’eterogeneità
di un campo di ricerca difficilmente circoscrivibile, dal momento che al suo
interno rientrano come potenziali oggetti di studio tutte le immagini e tutte
le forme di esperienza visiva e spettatoriale: tutte le immagini che siano
in qualche modo culturalmente significative, e tutti i modi di vedere, che
siano o non siano correlati a un qualche tipo di immagine o a una qualche
forma di spettacolo. A coloro che ancora oggi, specialmente nell’ambito
della Bildwissenschaft tedesca, ritengono che gli studi sul visuale debbano
concentrarsi soprattutto sulle immagini, pur nella loro ampia varietà, Mieke
Bal risponde che «i visual culture studies non sono definiti in base alla scelta
di una categoria di oggetti, ma in base alla decisione di concentrarsi sulle
pratiche del vedere. È la possibilità di effettuare un atto di visione, e non la
materialità dell’oggetto visto, che decide se un artefatto può essere considerato all’interno della prospettiva dei visual culture studies»4. Secondo questa
prospettiva, che condivido, tutto ciò che può essere oggetto di un’esperienza
visiva in qualche modo culturalmente significativa – si tratti di un’immagine
di qualsiasi natura, di un oggetto di design, di uno spazio architettonico, di
un paesaggio – rientra nel perimetro degli studi sulla cultura visuale.
Se l’ampiezza di questo campo di ricerca può apparire per certi versi
disarmante, non mancano però degli appigli dai quali partire per cercare
di chiarirne alcuni presupposti e delimitarne un po’ l’estensione. La scelta
stessa di parlare di cultura visuale non è infatti priva di conseguenze: essa
presuppone la decisione di mettere l’accento sulla dimensione culturale
– e quindi costruita, artefatta, convenzionale, socialmente e tecnicamente
manipolabile, storicamente variabile – delle immagini e dell’esperienza
visiva. Come sostiene W.J.T. Mitchell in uno dei saggi più lucidi tra quelli
che hanno tentato di fare il punto sullo statuto dei visual culture studies5, il
1995; Interpreting Visual Culture. Explorations in the Hermeneutics of the Visual, a cura di I.
Heywood, B. Sandywell, Routledge, London-New York 1999; J. Evans, S. Hall, Visual Culture:
The Reader, SAGE, London-Thousand Oaks-New Dehli 1999; The Visual Culture Reader, a
cura di N. Mirzoeff, Rouytledge, London-New York 2002. Sul rapporto tra visual studies, storia
dell’arte ed estetica cfr. Art History, Aesthetics, Visual Studies, a cura di M.A. Holly, K. Moxey,
Sterling and Francine Clark Art Institute, Williamstown, Ma. 2002. Per un’introduzione attenta
a discutere, e criticare, lo statuto attuale dei visual studies, i loro campi di ricerca, le loro possibilità di sviluppo, e le loro metodologie, cfr. J. Elkins, Visual Studies. A Skeptical Introduction,
Routledge, New York-London 2003.
4
M. Bal, Visual Essentialism and the Object of Visual Culture, in “Journal of Visual Culture”,
n. 1 (2003), p. 11.
5
W.J.T. Mitchell, Showing Seeing: A Critique of Visual Culture, in Id., What Do Pictures
66
FATA MORGANA
Dream Factory Communism: il Realismo Socialista come cultura visuale
presupposto degli studi sulla cultura visuale consiste nel far riferimento, in
modo più o meno esplicito e marcato, a un paradigma “costruttivista” che
ci spinge a considerare le immagini e la visione anche e soprattutto come
costruzioni sociali.
Per quanto riguarda le immagini, si tratta di considerarle come parte
integrante del tessuto di una cultura, prendendo in considerazione l’insieme
delle condizioni tecniche e mediali che ne consentono la manifestazione e
la trasmissione, così come la varietà degli usi sociali, politici, biopolitici,
religiosi, artistici, scientifici di cui sono oggetto: la loro capacità di produrre
senso, sapere e valori, di costituire e diffondere identità, credenze e ideologie, di proporsi come veicolo per l’instaurazione e l’esercizio di forme
di potere e di disciplina, così come la loro tendenza ad essere considerate
come terreno di scontro, di iconoclash, secondo il felice neologismo coniato
da Bruno Latour6.
Per quanto riguarda invece la visione, sottolinearne la dimensione culturalmente e socialmente costruita significa considerarla come una pratica
che può essere mediata e manipolata tecnicamente, e che viene esercitata
in modo diverso a seconda dei contesti storici e sociali. Significa da un lato
mettere l’accento sulla molteplicità dei fattori tecnologici e spaziali con cui
i media e i dispositivi inquadrano l’atto del vedere, e dall’altro considerare
l’esperienza visiva come parte dei processi culturali e sociali attraverso i
quali vengono elaborati e negoziati significati, valori e identità.
Sulla base di questi presupposti, nel saggio sopra citato Mitchell definisce lo studio della cultura visuale come studio della «costruzione visiva
del sociale» e contemporaneamente della «costruzione sociale del visivo»7,
ossia come studio del ruolo giocato dalle immagini e dai diversi modi di
vedere nel complesso della cultura.
La scelta da parte dei visual culture studies di adottare questo approccio
culturologico allo studio delle immagini e della visione ha tutta una serie
di conseguenze a cui possiamo qui soltanto accennare.
Innanzitutto, dal momento che le immagini che giocano un ruolo significativo in una data cultura non sono assolutamente soltanto le immagini
comunemente considerate come “artistiche”, si pone il problema di estendere
il dominio delle immagini da analizzare al di là di quello tradizionalmenWant? The Lives and Loves of Images, The University of Chicago Press, Chicago-London 2005,
pp. 336-356.
6
B. Latour, Che cos’è iconoclash?, tr. it., in A. Pinotti, A. Somaini, Teorie dell’immagine. Il
dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 287-330.
7
W.J.T. Mitchell, Showing seeing: a Critique of Visual Culture, cit., p. 343.
FATA MORGANA
67
Antonio Somaini
te stabilito dalla storia dell’arte. Nel far questo, come è stato mostrato in
particolare da Horst Bredekamp8, gli studi sulla cultura visuale possono
richiamarsi ad alcune correnti presenti all’interno della stessa tradizione
della storia dell’arte, e in particolare a quel progetto iconologico che, formulato negli anni ’20 da figure come Warburg e Panofsky, è stato poi ripreso
negli anni ’70-’80 da storici dell’arte come Michael Baxandall e Svetlana
Alpers. Aprendosi all’intero dominio delle immagini senza però ignorare la
problematicità e in alcuni casi la rilevanza della distinzione fra artistico e
non-artistico, i visual culture studies considerano come parte della cultura
visuale tutte le immagini attraverso cui i diversi aspetti di una cultura si
manifestano visivamente. Nel caso della cultura contemporanea, questo
implica la possibilità di prendere in considerazione, attraverso operazioni
di “montaggio” orientate di volta in volta dal tema che è oggetto di studio,
un ampio spettro di immagini che vanno dalle opere d’arte alle trasmissioni
televisive, dal cinema ai videogiochi, dalla pubblicità alle immagini scientifiche, politiche e giornalistiche, con un’attenzione particolare per tutti quei
fenomeni di contaminazione e di ibridazione intermediale che sono stati
favoriti dal passaggio al digitale e dalla convergenza dei media.
In secondo luogo, si tratta di far riferimento a un concetto di cultura che
consenta di chiarire in che modo l’atto socialmente e tecnicamente condizionato della visione contribuisce alla costituzione e alla trasmissione di
valori, credenze e identità, così come all’elaborazione di un immaginario
e di una memoria collettiva. Eredi in questo dei cultural studies, i visual
culture studies fanno riferimento a un’idea di cultura ampia e non-assiologica come quella formulata tra gli anni ’60 e gli anni ’80 da figure come
Raymond Williams, Frederic Jameson e Stuart Hall. Quest’ultimo, in
particolare, propone una concezione negoziale9 della cultura secondo cui
questa è composta non tanto da un insieme di cose, quanto da un insieme
di processi e di pratiche attraverso le quali gli individui e i gruppi producono senso, elaborano e si scambiano significati. Di qui l’enfasi su una
concezione della visione non tanto come momento di ricezione passiva di
significati già stabilmente iscritti nelle immagini, quanto come processo
negoziale sempre aperto, fluido. Una visione intesa come pratica attraver-
8
Cfr. H. Bredekamp, Una tradizione trascurata? La storia dell’arte come Bildwissenschaft,
in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, cit., pp.
137-154.
9
Cfr. S. Hall, Introduction, in Id., Representation: Cultural Representations and Signifying
Practices, Sage, Thousand Oaks, Cal.-London 1997. Sul concetto di negoziazione, cfr. anche F.
Casetti, Communicative Negotiation in Cinema and Television, Vita & Pensiero, Milano 2002.
68
FATA MORGANA
Dream Factory Communism: il Realismo Socialista come cultura visuale
so la quale diamo senso a ciò che vediamo, ci confrontiamo con gli altri,
siamo esposti all’influsso di immagini che trasmettono valori dominanti,
ma siamo anche capaci di elaborare questi stessi valori in forme inedite e
imprevedibili.
Quest’ultimo punto fa emergere un altro dei presupposti “epistemologici”
degli studi sulla cultura visuale. Nel momento in cui facciamo riferimento
a questo concetto prendendolo come orizzonte di riferimento per le nostre
ricerche, l’atto del vedere, e in particolare lo sguardo rivolto alle immagini,
non può più essere considerato come universale, sovrastorico, intersoggettivamente e socialmente omogeneo. Considerata come parte integrante
della cultura visuale, l’esperienza visiva viene studiata come una relazione
negoziale nella quale il significato delle immagini e l’identità dello spettatore
si formano attraverso una complessa interazione tra le immagini stesse, il
modo in cui in esse manifestano le intenzioni di chi le ha prodotte, il contesto spaziale e sociale che ne condiziona la fruizione, e le diverse possibili
risposte dello spettatore. Uno spettatore che può accettare passivamente i
significati “dominanti” o “egemonici” immessi nelle immagini da chi le ha
prodotte, ma che può anche decidere di muoversi liberamente e dar vita a
forme di bricolage, détournement e “bracconaggio”10 con cui appropriarsi
delle immagini che gli vengono proposte per dar loro significati nuovi e
imprevisti. Senza assolutamente svalutare tutti quei saperi o quei progetti di
ricerca – dalla fenomenologia alla Gestaltpsychologie, dalle scienze cognitive alle neuroscienze – che hanno preferito concentrarsi sulla descrizione
delle strutture invarianti, universali e sovrastoriche del vedere, gli studi sulla
cultura visuale, ricorrendo a neologismi come il termine inglese visuality
distinto da vision11, enfatizzano invece il carattere tecnicamente mediato,
socialmente e culturalmente “costruito” e storicamente variabile dei modi
10
Sul concetto di détournement, cfr. Guy Debord (contro) il cinema, a cura di E. Ghezzi e
R. Turigliatto, Il Castoro, Milano 2001, pp. 44-53 (i due saggi di Debord intitolati Istruzioni
per l’uso del détournement e Il détournement come negazione e come preludio). Sul concetto di
bracconaggio, cfr. invece M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, tr. it., Edizioni Lavoro,
Roma 2005, pp. 233-250 (il capitolo «Leggere: una caccia di frodo»).
11
Cfr. Vision and Visuality, a cura di H. Foster, Dia Art Foundation-The New Press, New
York 1988. Ecco come nella sua prefazione al volume Hal Foster spiega la differenza tra i due
termini: «Why vision and visuality, why these terms? Although vision suggests sight as a physical
operation, and visuality sight as a social fact, the two are not opposed as nature to culture: vision
is social and historical too, and visuality involves the body and the psyche. Yet neither are identical: here, the difference between the terms signals a difference within the visual – between the
mechanism of sight and its historical techniques, between the datum of vision and its discursive
determinations – a difference, many differences, among how we see, how we are able, allowed,
or made to see, and how we see this seeing or the unseen therein», ivi, p. IX.
FATA MORGANA
69
Antonio Somaini
di vedere, sottolineando come questi siano delle pratiche che hanno luogo
all’interno di un campo di visibilità che è sempre definito da una molteplicità
di dispositivi tecnici, spaziali e discorsivi.
Superamento della distinzione fra artistico e non-artistico al fine di
prendere in considerazione l’intero dominio delle immagini che circolano
all’interno di una data cultura; attenzione al ruolo giocato dalle immagini
nella costituzione e nella diffusione di identità, valori, credenze, ideologie;
riferimento a un concetto di cultura che consenta di considerare la visione
come una pratica sociale e negoziale segnata dal continuo confronto fra
strategie e tattiche – nel senso dato a questi due termini da De Certeau12 –,
modi di vedere “egemonici” e forme di appropriazione, bricolage e détournement. I tre assi principali attorno ai quali abbiamo articolato la nostra
presentazione di alcune delle linee-guida che orientano attualmente gli studi
sulla cultura visuale si trovano applicati in modo quasi paradigmatico nella
mostra curata da Boris Groys che abbiamo citato all’inizio: Dream Factory
Communism. The Visual Culture of the Stalin Era.
La tesi proposta da Groys nel catalogo della mostra, e prima ancora nel
controverso studio intitolato Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale13, è
nota: il Realismo Socialista è stato quello stile di regime che ha soffocato
le sperimentazioni avanguardistiche degli anni ’20, ma anche, paradossalmente, il tentativo grandioso di realizzare, con mezzi non-avanguardistici,
il progetto stesso delle avanguardie russe, quello di una riorganizzazione
complessiva della società in base a principi estetici14. Espressione di una
Cfr. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., pp. 63-79.
B. Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, tr. it., Garzanti, Milano 1992.
14
In Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Boris Groys fa riferimento in particolare
a Malevič e Chlebnikov, e sostiene che il Realismo Socialista avrebbe ripreso da loro «l’affermazione radicale del predominio, nell’uomo, dell’inconscio sul conscio, e della possibilità
di una manipolazione logica e tecnica dell’inconscio al fine di costruire un mondo nuovo e in
esso un uomo nuovo» (p. 27), così come la convinzione che «l’artista dell’avanguardia […] si
trova dinanzi alla necessità di creare tutto un nuovo mondo: per questo motivo il suo progetto
artistico è necessariamente totale, illimitato», e «per realizzare questo progetto l’artista deve
perciò avere un potere totale sul mondo – e innanzitutto un potere politico totale, che gli dia la
possibilità di vincolare ai propri fini l’umanità intera, o almeno la popolazione di un paese. Per
l’artista dell’avanguardia è la realtà stessa a costituire il materiale della sua costruzione artistica»
(p. 29). In seguito, scrive sempre Groys, «l’avanguardia rinuncia al diritto di supremazia e cede
quel progetto al potere politico reale, al quale viene affidato a questo punto il compito autentico
dell’artista d’avanguardia: la creazione di un disegno globale della nuova realtà. La rivendicazione del potere politico totale, parte integrante del progetto artistico dell’avanguardia, viene
in sostanza sostituita dalla richiesta che il potere politico reale concepisca il proprio progetto
come artistico» (p. 35).
12
13
70
FATA MORGANA
Dream Factory Communism: il Realismo Socialista come cultura visuale
politica concepita come pianificazione egemonica totale di un mondo e di
una società considerati come plastici e malleabili, il Realismo Socialista
intendeva proporre alle masse la visione di un mondo bello, armonioso e
ordinato: una condizione utopica, desiderabile ma ancora tutta da realizzare,
eppure presentata come già presente, concreta, reale, attraverso una sottile
commistione di presente e futuro, realtà e finzione, razionalità e sogno.
In questo progetto di mobilitazione totale, di costruzione e diffusione di
un immaginario e di una memoria collettiva interamente pianificati dal regime, le immagini svolgevano un ruolo fondamentale. Il Realismo Socialista
aveva infatti come obiettivo quello di trasformare radicalmente l’ambiente
visivo della società sovietica, e si serviva delle immagini per diffondere in
modo capillare e omogeneo un’ideologia articolata anche in termini estetici:
il culto della personalità del leader, il mito del lavoro, l’esaltazione delle
figure eroiche del lavoratore, del soldato e dell’atleta, la disposizione plastica
delle masse, l’esibizione trionfale della potenza militare. Pittura, fotografia
e cinema dovevano contribuire a questo progetto di disseminazione istantanea e pervasiva di un numero ristretto di immagini tipiche, una diffusione
che proseguiva poi nella grafica dei poster, nelle riviste, nei libri di testo,
dando vita a una straordinaria circolazione intermediale di immagini in
cui veniva meno l’idea stessa di “originale”. Ciò che contava veramente
in un’immagine non era tanto la sua originalità – un valore drasticamente
ridimensionato dal fatto che il compito di ogni produttore di immagini non
era quello di elaborare una propria visione personale, bensì di visualizzare
nel modo più efficace l’ideologia proposta dal regime – quanto la sua efficacia in termini di riproducibilità. L’originale aveva un ruolo non in quanto
capolavoro da contemplare nello spazio circoscritto e aulico del museo, ma
come “tipo” a partire dal quale produrre una catena riproduttiva e intermediale che permettesse a questa stessa immagine di circolare nel modo più
efficace e pervasivo15.
Interpretato in quest’ottica, il Realismo Socialista secondo Boris Groys
mette in crisi la distinzione a suo tempo teorizzata dal critico americano
Clement Greenberg tra avanguardia e kitsch16: una distinzione che vedeva da
Come scrive Ekaterina Degot, «from the very beginning, Soviet art was formed as the art
of mass distribution, indifferent to the original. Included in its system were the poster, design
books, cinematography, photography. But easel painting was also integrated here – in the form of
mass reproductions in postcards, magazines, textbooks. Precisely the reproduction, and not the
original, is the classic work of Socialist Realism», E. Degot, The Collectivization of Modernism,
in Dream Factory Communism, a cura di B. Groys, cit., p. 93.
16
C. Greenberg, Avant-Garde and Kitsch, in The Collected Essays and Criticism, a cura di
15
FATA MORGANA
71
Antonio Somaini
un lato l’arte d’avanguardia impegnata in un’analisi auto-referenziale delle
condizioni di possibilità del proprio stesso fare artistico, e il kitsch della cultura
di massa interamente rivolto alla diffusione di stilemi ripresi dalle avanguardie
ma semplificati a fini commerciali. Superando questa opposizione, la produzione visiva del Realismo Socialista impiegava i mezzi formali e il kitsch
della cultura di massa ma era anche pienamente avanguardistica per quanto
riguarda i suoi scopi e la concezione del ruolo sociale della cultura su cui
si fondava. Doveva essere accessibile, non-problematica e immediatamente
comprensibile, ma al tempo stesso perseguire l’obiettivo utopico di una trasformazione complessiva della società, della cultura e dell’immaginario.
La scelta di analizzare la produzione visiva del Realismo Socialista non
tanto in termini di “arte” quanto di “cultura visuale” – “the visual culture of
the Stalin era”, come recita il sottotitolo della mostra – è motivata anche da
questa sua ambigua collocazione fra i due poli del kitsch e dell’avanguardia.
Una piena comprensione del significato storico dello straordinario e inquietante repertorio di immagini che il Realismo Socialista ci ha lasciato è infatti
possibile solo mettendo in luce come questo processo di ricostruzione della
società su basi estetiche nascesse da precise convinzioni non tanto relative
allo statuto dell’arte, quanto al potere e all’efficacia che le immagini nel
loro complesso e la loro ricezione possono esercitare all’interno del tessuto
complessivo di una cultura. Un’efficacia che le immagini tipiche prodotte
da quel grande “artista egemonico” che era il regime staliniano acquisivano
grazie a una circolazione intermediale capillare, e che si fondava sulla convinzione che l’esperienza visiva fosse il canale più importante su cui intervenire ai fini di una manipolazione psichica delle masse. Al tempo stesso,
un’efficacia che non avrebbe impedito, dopo la caduta del regime staliniano,
che quelle stesse immagini tipiche fossero oggetto di appropriazione, di
“bracconaggio” e di détournement da parte di quegli artisti appartenenti al
movimento della cosiddetta “Soz Art” – tra gli altri, Erik Bulatov, Sergej
Volkov, Leonid Sokov, Aleksandr Kosolapov, Vitalij Komar e Aleksandr
Melamid – che negli anni ’70 e ’80 si sarebbero richiamati all’universo
visivo del Realismo Socialista in termini di volta in volta ironici, grotteschi
e onirici. Esempio emblematico di come anche la produzione visiva più
egemonica e totalitaria sarebbe stata oggetto, con il passare del tempo, di
una decostruzione al tempo stesso malinconica e dissacrante.
J. O’Brian, The University of Chicago Press, Chicago-London 1986, vol. I (1939-1944), pp. 5-22.
Su questo saggio, mi permetto di rinviare ad A. Somaini, La distinzione tra avanguardia e kitsch
nell’estetica modernista di Clement Greenberg, in Dal Brutto al Kitsch. Percorso antologicocritico, a cura di M. Mazzocut-Mis, CUEM, Milano 2003, pp. 311-329.
72
FATA MORGANA
Visual effects
Marcello Walter Bruno
A noi interessano solo i vari, profondi e sorprendenti effetti ottici
Béla Balázs
Il cinema non esiste ancora
René Barjavel
Il visivo comincia dove finisce il cinema
Régis Debray
Lo sguardo evolve? Oppure, come ha argomentato Arthur Danto, l’occhio
è trans-storico, la percezione è cognitivamente impenetrabile? Il dibattito tra
sostenitori della plasticità e fautori della modularità (Danto si rifà a Fodor)
può esser fatto risalire alle tesi di Benjamin sul carattere di rottura percettiva
costituito dalla modernità: la vita metropolitana richiede una velocizzazione
esponenziale della reattività che dev’essere allenata con nuove forme artistiche; il cinema è l’arte adeguata all’epoca dello shock. Ciò che sarebbe qui in
gioco non è dunque la trasformazione dell’occhio come organo della vista,
ma la performance del cervello in qualità di elaboratore dei dati percettivi
(audiovisivi ma non solo): l’estetica della velocità (impressionista prima che
cubofuturista) è per definizione un’avanguardia di massa, una pedagogia
dello stare al mondo moderno; è questa pedagogia dell’eccesso che genera il
continuo feedback tra esibizione della novità e immunizzazione percettiva,
noia per la reiterazione dell’avanguardia e innalzamento della soglia dello
shock visivo. Quello che andrebbe discusso è esattamente il fatto che «i
film hanno cambiato la percezione dei film»1.
1
N. Carroll, La modernità e la plasticità della percezione, in A.C. Danto, La storicità dell’occhio, tr. it., Armando, Roma 2007, p. 73.
FATA MORGANA
73
Marcello Walter Bruno
Una teoria della noia sarebbe indispensabile per dar conto del fenomeno
della moda in genere e delle mode culturali in particolare. E, per quanto
sia supponibile che anche l’assuefazione abbia carattere trans-storico, va
considerata la specificità moderna dei fenomeni di moda: la rivoluzione
permanente della produzione sembra essere alla base di una obsolescenza
programmata dei gusti; l’innovazione tecnologica diventa uno dei fattori
strutturali dell’evoluzione artistica. Si pensi all’irruzione dell’elettricità nel
teatro: non solo il governo delle macchinerie crea nuovi effetti spettacolari,
non solo la modulabilità dell’illuminazione trasforma tutte le gerarchie dei
rapporti attori/spettatori – è che il concetto stesso di teatro si sposta verso
l’otticità in nome di una magia della luce che vedrà il suo trionfo nel cinematografo Lumière.
Verso il 1800 nacquero di fatto parecchi mezzi artistici del tutto
nuovi, ove il principale ruolo di illusione spettava alla luce. Con
essi la nuova concezione della luce dei secoli XVIII e XIX si diede,
per così dire, la propria forma istituzionale, anziché penetrare in
un’istituzione già esistente – come il teatro – e trasformarla lottando contro molte resistenze. I media ottocenteschi – il panorama, il
diorama, la lanterna magica, le “dissolving views” e, infine, il film
– divennero pure creazioni estetico-tecniche, nate dallo spirito della
luce. Dal teatro si distinsero soprattutto per il fatto di non creare
un’illusione in termini spaziali, bensì tramite immagini, di essere,
cioè, perfezionamenti della pittura, non della scena. L’effetto della
luce era in essi più perfetto che sulla scena, perché la luce non entrava
in concorrenza col fondale dipinto, ma lo rafforzava e lo animava
in termini illusionistici. Tale animazione luminosa dell’illusione di
un’immagine bidimensionale non era minacciata da quella sorta di
rotture dell’illusione che sono proprie del teatro, con il suo intreccio
di elementi pittorici e spaziali. Le possibilità illusionistiche del mondo
delle immagini dei vari “orami” erano infinite, perché questi ultimi
appartenevano a una sfera di esistenza altra rispetto alla realtà nella
quale sedevano gli spettatori. Il golfo mistico che neppure Wagner era
riuscito ad aprire completamente si apriva da solo tra ogni panorama
da fiera e il suo spettatore2.
Non è il caso d’insistere sul carattere di precursione che questi media
2
W. Schivelbusch, Luce. Storia dell’illuminazione artificiale nel secolo XIX, tr. it., Pratiche,
Parma 1994, pp. 211-212.
74
FATA MORGANA
Visual effects
hanno rispetto agli esperimenti di fine Novecento: la sala panoramatica
anticipa le strutture Imax che ampliano il campo visivo fino all’attivazione
dei bastoncelli; il mutamento cromatico del diorama avviene secondo un
continuum percettivo che fa pensare alla sostituzione del montaggio (a stacco
o per mini-dissolvenze incrociate) con il morphing. Resta il fatto che questi
light show contengono una strana genealogia che dal teatro d’immagine
portano alla fotografia e poi al cinema: è dopo la distruzione del diorama
che Daguerre inizia quelle collaborazioni scientifiche con Nièpce che porteranno all’invenzione ufficiale della fotografia (dagherrotipia); è da una
famiglia d’industriali della fotografia come i Lumière che spunta fuori il
cinematografo come apparecchio che unisce ripresa e proiezione (e il primo esempio storico di candid camera è proprio l’uscita degli operai dalla
fabbrica Lumière). Ma se i film degli scienziati Lumière sembrano ereditare
le funzioni indessicalizzanti della macchina riprovisiva (con la mediazione
cronofotografica di scienziati come Muybridge e Marey), i film del prestidigitatore Méliès affondano la loro cultura visiva nel teatro fantasmagorico
di Robertson (anticipatore e non prosecutore della fotografia “spiritica” e
“auratica”). Se è possibile paragonare l’esperienza cinematografica a una
trance mesmerica (Munstenberg) e il regista a un ipnotizzatore (Epstein),
è perché gli effetti speciali cinematografici sono una filiazione diretta della
galvanizzazione e mesmerizzazione operata dalla lanterna magica su un
corpo sociale già pronto per la psichiatrizzazione.
L’isteria del corpo fantasmagorico circola, in altre parole, tra la
scena sociale e quella individuale, definendo una vera e propria estetica fisiologica che troverà non a caso la sua massima esplicitazione
ancora una volta nello spettacolo cinematografico, in particolare
nel genere illusionistico praticato da Méliès, formatosi proprio alla
scuola della magia inglese, l’Egyptian Hall di Piccadilly dove il
negromante Maskelyne univa alle proiezioni magiche esibizioni di
corpi metamorfici o disgregati, di automi, o addirittura vere e proprie
sedute spiritiche. Nei cortometraggi di Méliès abbondano così quelle
che Paul Hammond chiama “teste, braccia, gambe recalcitranti”:
teste recise sopravvivono separate dal corpo per essere per esempio
gonfiate (L’uomo dalla testa di gomma, 1902) o duplicate (Le quattro
teste fastidiose, 1898); in Dislocazione straordinaria (1901) braccia,
gambe e testa di un Pierrot abbandonano il suo corpo e fluttuano
nell’aria per eseguire dei compiti autonomi; altrove invece, come in
Chirurgia all’avanguardia (1902), le parti corporee si staccano per
poi ricomporsi nel posto sbagliato, dando vita a un vero e proprio
collage surrealista. Medici, magnetizzatori e illusionisti fantasmagoFATA MORGANA
75
Marcello Walter Bruno
rici sono praticamente figure interscambiabili sulla scena isterica di
Méliès, dove spesso vengono riassunte nel personaggio del Diavolo,
che evoca la possessione magico-sovrannaturale del moderno teatro
dei nervi3.
Diabolicità degli effetti speciali, angelicità del realismo riprovisivo: la
storia dell’arte cinematografica verrà scissa dalla storia delle innovazioni
tecnologiche, e il sonoro riconsegnerà l’immagine (diventata “leggibile”)
al dominio del senso linguistico, sottraendola all’estetica. Eppure Méliès è
collegabile anche a una storia non esoterica del cinema, a patto di accettare
l’evidenza: il cinema nasce contemporaneamente come arte riprovisiva
(ancorata alla cultura visuale della rappresentazione) e come arte post-fotografica (aperta non solo sulla scena isterica degli studi di Breuer e Freud
datati 1895, ma anche e soprattutto sulla sperimentazione dei materiali-base
del dispositivo e dell’apparato). Nel dispositivo riprovisivo non dovremo
riconoscere, come fanno Baudry e Comolli, che il preteso effetto-di-realtà è
banalmente dovuto alla vittoria dell’ideologia prospettica sulla costruzione
stessa dell’apparato tecnologico-riproduttivo?
La conseguenza che oggi si può trarre da una tale concezione del
dispositivo cinematografico è che se la macchina cinema, per la sua
stessa struttura, è nell’impossibilità di intrattenere un rapporto oggettivo con il reale, questo non avviene solo perché il codice prospettico
su cui si basa la macchina da presa è una costruzione convenzionale,
funzionale al sistema dominante, ma soprattutto perché – qualunque
sia il codice attraverso cui qualcosa viene filmato – per il fatto stesso
di essere filmato si caratterizza come rappresentazione, come messa in
scena. Vale a dire come trasformazione, dissimulazione o cancellazione della realtà, anche se è indubbiamente di riproduzione che si tratta.
Il concetto da evidenziare quindi – in questa nozione di dispositivo
– è quello di rappresentazione in quanto trasfigurazione4.
Ebbene, questa concezione del dispositivo che lo riduce all’apparecchio di
base e ai suoi limiti (l’impossibilità d’inquadrare tutto, di filmare la pretesa
totalità) è ancora troppo falsata dall’ideologia del profilmico, che viene solo
spostato dall’area della “naturalità” a quella della “messinscena” (quindi,
3
A. Violi, Il teatro dei nervi. Fantasmi del moderno da Mesmer a Charcot, Bruno Mondadori,
Milano 2004, pp. 51-54.
4
L. Albano, La caverna dei giganti. Scritti sull’evoluzione del dispositivo cinematografico,
Pratiche, Parma 1992, pp. 12-13.
76
FATA MORGANA
Visual effects
letteralmente, della collocazione del mondo nel set). La piena comprensione
del carattere post-fotografico del cinema delle origini richiede invece l’accettazione di un’altra definizione della regìa: non direzione del profilmico
(messa-in-scena come controcampo della messa-in-quadro) bensì progettazione dell’immagine finale (messa-in-fotogramma come primo passo
della messa-in-schermo). Il teatro (anche quello dei nervi) cede il posto alla
pittura – o forse alla grafica; il montaggio lineare cede il posto non tanto
al montaggio verticale quanto al fotomontaggio, cioè a un’operatività che
utilizza le immagini riprovisive (segni indexicali prodotti dalla macchina
da presa – e di cui si può dire che “indubbiamente” di riproduzione si tratta)
come materia prima che viene unita planarmente ad altri segni indexicali
e non indexicali. L’accettazione dell’effetto speciale come specifico cinematografico permetterebbe finalmente di definire l’effetto-di-realtà come
eredità rinascimentale e, a ritroso, di storicizzare la prospettiva come una
forma simbolica che ha il suo equivalente contemporaneo proprio nei visual
effects.
L’uso rinascimentale della prospettiva ha certamente cambiato
l’aspetto delle immagini, ma questo cambiamento non ha comportato
un nuovo atteggiamento nei confronti della percezione della realtà.
In breve, gli spettatori impararono ad accettare questa convenzione visiva per quello che era: un’approssimazione che rispondeva
adeguatamente ai bisogni della situazione visiva. Allo stesso modo,
il pubblico cinematografico sarebbe giunto più tardi ad accettare la
palese irrealtà degli “effetti speciali” – prima della creazione delle
grafiche computerizzate – come parte del divertimento. Quando lo
spazio prospettico costituiva una novità, il pubblico giudicava i dipinti in relazione alla misura in cui riuscivano a essere convincenti,
proprio come il pubblico di Jurassic Park si è accalcato per vedere
nuove illusioni realistiche5.
Dunque, nella prospettiva storica dei visual studies, l’occhio è transstorico ma l’aspetto delle immagini – una convenzione sociale più che
l’espressione artistica di una soggettività o l’acquisizione funzionale di una
oggettività – risponde a bisogni collettivi, eventualmente ludici, eventualmente soggetti alle leggi dell’innovazione. Se l’assimilazione del “realismo
plastico” della prospettiva rinascimentale alla fotografia e al cinema era
già in Malraux e poi in Bazin (per il quale la camera oscura di Leonardo
5
N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, tr. it., Meltemi, Roma 2005, p. 77.
FATA MORGANA
77
Marcello Walter Bruno
prefigura quella di Nièpce), l’accenno alle masse giubilanti per le “nuove
illusioni realistiche” della computer-generated imagery sembra portare
dritto alla ridefinizione baziniana del realismo foto(cinemato)grafico come
soddisfacimento barocco di un desiderio ontologico. Se per Bazin il cinema
è un fenomeno idealista, se il cinema non è ancora stato inventato, è perché
esso non è la conseguenza sovrastrutturale di una struttura tecnologica – determinismo ancora forse operante nel suo contemporaneo Barjavel – ma,
al contrario, il risultato provvisorio di una teleologia del realismo integrale
(“ontogenetico”).
L’opposizione che certuni vorrebbero vedere fra la vocazione
di un cinema consacrato all’espressione quasi documentaria della
realtà e le possibilità d’evasione nel fantastico e nel sogno offerte
dalla tecnica cinematografica è, in sostanza, artificiale. Méliès e il
suo Voyage dans la lune non è venuto a contraddire Lumière e il suo
Arrivée d’un train à La Ciotat. L’uno è inconcepibile senza l’altro.
Le grida d’orrore della folla impressionata dall’ingenua locomotiva
di Louis Lumière preludevano alle esclamazioni degli spettatori del
teatro Robert Houdin. Il fantastico al cinema è consentito solo dal
realismo irresistibile dell’immagine fotografica. È essa ad imporci
la presenza dell’inverosimile, a introdurlo nell’universo delle cose
visibili.
È assai facile fornire la controprova di questa proposizione. Si
immagini infatti L’uomo invisibile a disegni animati e si vedrà che
perde ogni interesse. Ciò che infatti piace al pubblico nel fantastico
cinematografico è evidentemente il suo realismo, voglio dire la contraddizione fra l’oggettività irrecusabile dell’immagine fotografica e
il carattere incredibile dell’avvenimento. Non è un caso che il primo
a comprendere le possibilità artistiche del cinema, Georges Méliès,
fosse un prestigiatore6.
La metafora del Nuovo Testamento, cara al Bazin che vuole ricostruire
l’evoluzione del linguaggio cinematografico trasformando la rottura del
sonoro in una sostanziale continuità col muto, vale anche per la guerra di
religione fra macrogeneri: la “fotograficità” del film non è un puro fattore
tecnico, ma è l’effetto-base (la percezione dell’icona come indice) che permette di gestire i segni endofotogrammatici in funzione illusionistica (la
parte fotografica dell’immagine “indessicalizza” la parte non fotografica: il
6
78
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, tr. it., Garzanti, Milano 1979, pp. 16-17.
FATA MORGANA
Visual effects
tutto irreale viene assimilato alla parte reale); dunque, il genere fantastico è
il compimento della vocazione documentaria del genere realistico. Eppure,
Bazin fa il doppio gioco: il mito del cinema totale, sempre evocato senza
mai citare Barjavel, serve a ribadire l’accidentalità – storica e tecnica – del
primato dell’immagine; e se il cinema non è un’arte visiva (benché riprovisiva), perché mai la visualità dovrebbe averla vinta sulla narrazione? Il
di più di realtà non andrà cercato nel perfezionamento del montaggio (da
lineare a planare) ma, al contrario, nel montaggio proibito e nella regìa
in profondità di campo: insomma, la rivoluzione degli anni Quaranta sta
in Quarto potere (1941) e nel neorealismo, certo non nel mix cartoni/live
action dei Tre caballeros (1944) marca Disney. E poco importa se «il lavoro sugli effetti speciali in Quarto potere è considerevolmente maggiore
rispetto a quello della maggior parte dei film hollywoodiani del periodo»7:
il realismo del tecno-film è un obbligo ontologico, una sovrattassa pagata
per l’allontanamento dal realismo narrativo tipico del film autoriale. La
forma-romanzo del cinema moderno supera la classicità del découpage
hollywoodiano perché la sua estetica restituisce all’illusione cinematografica una qualità fondamentale del reale: il continuum spazio-temporale;
l’immagine-tempo diretta tende al piano-sequenza come forma percettiva
della vita quotidiana (è il “linguaggio scritto della realtà” nella visione poco
freudiana di Pasolini). Lo spettatore del cinema in profondità di campo è
libero d’indagare lo spazio proprio come se si trovasse in un ambiente reale:
ma il massimo degli effetti di questo tipo non si raggiunge in una sala Imax
o altro equivalente degli orami ottocenteschi? Se la parola d’ordine dello
spettatore modernista è la libertà di percorso ottico-ermeneutico, che cosa
dire allora dello spettatore hi-tech?
Chi dice effetto, dice spettatore per avvertire tale effetto. L’effetto
speciale è creato in gran parte dallo sguardo stesso dello spettatore.
Tale sguardo subisce un’evoluzione: nel 1911 il trattato sul cinema di
Jacques Ducom classifica il montaggio fra i trucchi di base. Allo stesso
modo, la dissolvenza incrociata impiegherà anni prima di passare
dallo stato di “trucco” a quello di “figura lessicale”. Lo spettatore si
abitua all’effetto, che perde progressivamente il lato “speciale”. Ciò
spiega in parte il crescendo dell’impatto visivo che costella la storia
degli effetti speciali: bisogna evitare la banalizzazione dell’effetto
e ritrovare sempre la meraviglia, segno dell’effetto riuscito. Sin
7
R.L. Carringer, Come Welles ha realizzato Quarto potere, tr. it., Il Castoro, Milano 2000,
p. 123.
FATA MORGANA
79
Marcello Walter Bruno
dagli esordi del cinema, i tecnici si ispirano alla prestidigitazione,
e si basano sul segreto della pratica per mantenere un divario tra il
risultato a livello d’immagine e le conoscenze tecniche del pubblico
[...]. Quale interesse vi può essere nel vedere ancora un mostro, se si
sa come è stato creato?
Sarebbe forse il mistero la chiave di un effetto riuscito?8
Gli effetti speciali cambiano la percezione degli effetti speciali: per questo
Méliès muore povero non essendo riuscito a innovare le sue tecniche, per
questo Hitchcock deve sostituire i suoi classici trasparenti con i travelling
mattes degli Uccelli (1963), per questo le riprese a passo uno (stop motion) devono aggiungere il difetto della sfocatura da movimento (blur) per
raggiungere il fotorealismo della tecnica go motion. L’allenamento dello
spettatore hi-tech non fa di lui l’alleato di un’idiozia americana, la “pornografia del ricco” di cui si lamenta Bonitzer, ma semplicemente il partner di
uno dei tanti giochi semiotici possibili al cinema: l’antico gioco dello shock
– quello che permetteva a Botticelli di aprire Venere e decapitare Oloferne – e
della meraviglia, l’eccesso dello sguardo e il suo contraltare scientifico. Ma
certo, se vediamo negli anni Quaranta quella cesura storica per cui «come la
modernità dell’elettricità e dell’automobile è superata da quella dell’atomo
e del razzo, la modernità della fotogenia è [...] polverizzata da quella della
caméra-stylo»9, come faremo ad argomentare che la promozione del regista
ad autore è costretta a far retrocedere la macchina-cinema alle dimensioni
tecnologicamente risibili di una penna (benché stilografica o magari biro)?
Bisognerà aspettare allora l’epoca del computer per cambiare metafora della
scrittura: ma a quel punto non si tratta più di metafora, ma di un effettivo
cambio di paradigma che ci fa saltare a una nuova idea di sperimentazione
(ormai lontana dall’artigianalità delle avanguardie storiche cantate da Mitry), di innovazione (visibile – visualizzata – in termini di quantità di pixel
e di potenza dei software elaborativi) e di realismo (sganciato dalla fallacia
referenziale pre- e post-pasoliniana e ricollocato nell’estetica tecnologica
sotto l’ironica categoria del “fotorealismo”, tanto più onto-realistico quanto
più post-fotografico).
Oppure si può scrivere una storia del cinema a teleologia ribaltata:
l’iceberg della produzione di massa non si giustifica per l’emersione di
8
R. Hamus-Vallée, Gli effetti speciali. Forma e ossessione del cinema, tr. it., Lindau, Torino
2006, pp. 7-8.
9
J. Aumont, Moderno? Come il cinema è diventato la più singolare delle arti, tr. it., Kaplan,
Torino 2008, p. 36.
80
FATA MORGANA
Visual effects
una punta autorialista; al contrario, la modernità intrinseca dell’automa
tecno-spirituale è una tigre (nel motore!) che l’autore deve cavalcare assecondandola. Il cinema moderno troverebbe allora il suo compimento non
nella televisione di Rossellini ma in 2001: Odissea nello spazio (S. Kubrick,
1968), primo film in cui gli effetti speciali vengono firmati non dal team
tecnico ma dal regista-visualizzatore (e forse è un segno del destino del
cinema che questo sia l’unico Oscar vinto da Kubrick; e forse è un segno
dell’ironia kubrickiana se la forma dell’osso e dell’astronave è richiamata
dalla fluttuazione antigravitazionale di una penna stilografica). E Kubrick
non sarebbe un outsider che non ha eredi, perché si collocherebbe lungo
una nuova linea di autori hi-tech in cui l’idea di regìa non è disgiungibile
dall’impresa tecnologica: imprenditori come Lucas (“Industrial Light and
Magic”) e James Cameron (“Digital Domain”) sarebbero paladini di un
cinema totale che per ciò stesso è storicamente ancorato alla produzione del
nuovo. Il cinema postmoderno, infine, non è un’involuzione ideologica bensì
un’ulteriore evoluzione tecnoartistica: se «l’artista postmoderno vuole rifare
in meglio, più smart e più cool, Robin Hood, King Kong e Superman»10, è
perché l’utilizzo di un repertorio narrativo permette di spostare l’accento
stilistico sul piano puramente visivo.
Contro i tentativi giansenisti di appiattire il tecnofilm su categorie anestetiche o paraletterarie, bisognerebbe ricordare che proprio il cinema degli
effetti speciali ha non solo tematizzato il tema dell’epifania divina – da
2001 a Contact (R. Zemeckis, 1997), da Incontri ravvicinati (S. Spielberg,
1977) al primo Terminator (J. Cameron, 1984) – ma ha rivitalizzato il rito
della visione collettiva come partecipazione a un gioco comunitario, con
tutte le potenzialità di una società staminale: etimologicamente parlando,
religione e intrattenimento sono la stessa cosa. D’altronde, se 2001 è stato
indicato da Gene Youngblood come esempio mainstream di cinema espanso, non è anche perché la psichedelia del finale – in particolare il tunnel di
luce creato dallo slit-scan di Douglas Trumbull – apre a una storia parallela
della modernità baudelairiana, quella in cui i lucernari dell’infinito sono
connessi ai paradisi artificiali? In questa lettura, non fa scandalo affermare
che fin dall’inizio
il cinema entrò nella stessa logica delle droghe: qualcosa di necessario al sistema sociale e di vantaggioso per il tempo libero, ma
anche qualcosa di pericoloso, da tenere sotto controllo. E in un certo
senso i plot narrativi che subentrarono al puro e semplice voyeuri10
L. Jullier, Il cinema postmoderno, tr. it., Kaplan, Torino 2006, p. 12.
FATA MORGANA
81
Marcello Walter Bruno
smo dei primi spezzoni, finirono per avere l’oggettiva funzione di
desensorializzare la presenza corporea dello schermo o quantomeno
ridurla in strutture narrative e sociali convenzionali. [Questo perché]
quello che si teme della folla – paura rispetto alla quale il cinema
ha continuamente dialogato – è l’alterazione psichica che produce
la pressione tra un corpo e l’altro, le forme emotive, virali e non
concettuali, che suscita. La tradizione, impossessandosi del cinema
primitivo attraverso l’ordinata mappa dei suoi contenuti e dei suoi
generi, ha mortificato ciò che lo stupore primigenio di fronte all’effetto di duplicazione del mondo sembrava poter liberare. Non testi
che comprendessero una folla ordinatamente ricomposta nella sala
in modo collettivo e tuttavia diviso, posto dopo posto, racconto dopo
racconto, divo dopo divo; ma una corporeità diffusa che sarebbe stata
finalmente in grado di produrre testi, nella condizione materiale di
produrli.
Non era possibile. Non fu possibile. Gli effetti speciali di alterazione della sensibilità a disposizione del cinema primitivo non lo
consentivano. Ne erano solo il desiderio. Ed è questo desiderio di un
linguaggio liberato che Barjavel ha sviluppato nella sua idea di cinema
futuro, consegnandola oggi a noi che disponiamo di una tecnologia
pienamente in grado di realizzarla. Entrate in una sala Imax o usate i
linguaggi della virtualità digitale e ve ne accorgete subito11.
Preferire la caméra-stylo ai visual effects è come preferire la penna al
computer: un anacronismo che trasforma l’afflato modernista nella nostalgia
regressiva dei collezionisti di modernariato. L’angelo del cinema è sempre
entrato nel futuro camminando all’indietro, spinto dal vento dell’innovazione
tecnologica: una storia della cultura visuale del Novecento dovrà spiegare
come quel futuro è diventato il presente avanzando alla cieca.
11
A. Abruzzese, Introduzione, in R. Barjavel, Cinema totale. Saggio sulle forme future del
cinema, tr. it., Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 28-29.
82
FATA MORGANA
Visuale e defigurazione
Bruno Roberti
L’altro giorno […] durante una proiezione del Dr. Caligari, improvvisamente apparve in un angolo dello schermo un’ombra che
sembrava un girino. Quest’ombra cominciò a gonfiarsi enormemente
e a tremare, per poi sprofondare di nuovo nel nulla. Per un istante
sembrava incarnare qualche mostruosa fantasia della mente malata di
un pazzo. Per un istante sembrava che il pensiero venisse trasmesso
meglio attraverso le immagini, piuttosto che attraverso le parole. […]
se, a un certo punto, un’ombra può suggerire molto più dei gesti e
delle parole di persone realmente impaurite, sembra chiaro che il
cinema possieda innumerevoli simboli per tutte quelle emozioni che
finora non hanno mai trovato il modo d’esprimersi. Il terrore può
avere, oltre alle sue forme comuni, la forma di un girino che cresce,
si gonfia, trema e scompare. La rabbia non è soltanto declamazione
e retorica, facce infiammate e pugni chiusi. Forse può essere anche
una linea nera che si contorce su un foglio bianco. […] Esiste dunque un qualche linguaggio segreto che possiamo sentire e vedere ma
non pronunciare? E se è così, come si potrebbe renderlo visibile?
Esiste cioè una qualche caratteristica del pensiero che può essere
resa visibile senza l’aiuto delle parole? Se esiste, possiede velocità e
lentezza, immediatezza, precisione e circonlocuzione vaporosa. Ma
nei momenti di grande emozione possiede anche il potere di creare
delle immagini e il bisogno di scaricare il fardello a qualcun’altro,
di lasciare scorrere l’immagine da una parte all’altra1.
È un brano di un breve scritto di Virginia Woolf, The Cinema, pubblicato
1
V. Woolf, The Cinema, tr. it., in “F/L - Film e Letteratura”, Prospero Book’s, n. 3, http://
www.almapress.unibo.it/fl/numeri/numero3/prospero/woolf.htm.
FATA MORGANA
83
Bruno Roberti
per la prima volta in “Arts”, nel giugno 1926. Lo scorrere di quella forma
informe, di quel girino, di quella macchia, lungo l’itinerario visuale sembrerebbe l’emblema di uno stato intensivo delle immagini, di un loro fondo
folle che le “continge”, le permea contenendole, apparendo d’improvviso
per contingenza.
Il contemporaneo si configura sempre di più come una nebulosa visuale,
come un pulviscolo proliferante di immagini che vanno a disseminarsi in
una fluttuante iconosfera. Di fronte a questa potenza dell’immagine non si
tratta più tanto di indagare i dispositivi della diffusione di immaginari e del
controllo panottico degli stessi da parte del potere, quanto di predisporre una
sorta di obliqua scienza delle immagini e insieme un modo nuovo di pensarne
il loro svolgersi, l’emergere, in altri termini, di una svolta epistemica, che
accede a una specie di contro-metafisica dell’immagine, laddove l’iconico
e il tocco sensoriale del pittorico si diffondono in una atmosfera polisensoriale che mentre defigura il visivo, lo apre a un lavoro figurale capace
di trascinare l’immagine nel suo stato estremo, esteso, di sopravvivenza.
L’immagine allora va intesa come una dischiusura, per usare un termine
di Jean-Luc Nancy, che mentre si estende, è capace di ritrarsi, di negare il
proprio apparire in un feedback sensoriale, in una risonanza tattile:
[…] essa ci investe con un tocco che ogni volta si ritira, che non
stringe nulla, che non si appropria di nulla, perché, anzi, dischiude.
[…] l’immagine tocca il nostro desiderio e la capacità di quest’ultimo di produrre immagini, ovvero di estenderle. Nell’immagine si
manifesta un levarsi che sfugge strutturalmente al dominio visivo.
La centralità data alla sfera visiva, che designa una delle strutture
portanti della metafisica occidentale, verrebbe ogni volta minacciata
da questo tatto, ovvero da questa premura dell’intrusione che si dà
senza lasciarsi vedere. C’è un toccare dell’immagine che apre la
visione. Si tratta, allora, di cogliere nel figurativo il lavoro figurale
dell’investimento dello sguardo, al di là del visibile. Ciò che si offre
al di là del visibile è la nudità dell’immagine2.
Si tratta di un rovesciamento della metafisica del visivo in una estensione e disseminazione che ibrida il sensoriale, si tratta di un pictorial turn,
secondo una dizione dello studioso di cultura visuale, W.J.T. Mitchell:
2
T. Ariemma, L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura, Ombre Corte, Verona
2009, p. 57.
84
FATA MORGANA
Visuale e defigurazione
Questa espressione è talvolta paragonata alla più tarda nozione
di “svolta iconica” (iconic turn) di Gottfried Boehm, e con la nascita
delle discipline accademiche degli studi visuali e della cultura visuale
è stata spesso considerata una semplice etichetta per indicare la nascita
dei cosiddetti media visuali come la televisione, il video e il cinema.
[...] I media sono sempre una miscela di elementi sensoriali e semiotici, e tutti i cosiddetti media visuali sono formazioni miste (mixed)
o ibride, che combinano suono e vista, testo e immagine. Perfino la
visione stessa non è mai puramente visuale, poiché richiede sempre
una coordinazione di impressioni ottiche e tattili3.
In tal senso la sfera del visuale esteso, il suo intricarsi e vorticare in un
continuo bilico tra assorbimento ed estensione, pone le sue tracce, dissemina le sue impronte su una dimensione mista, tra forma e informe, per
cui la svolta di una cultura visuale prosegue in una direzione che è quella
a suo tempo indicata da Kracauer, una redenzione del reale come effetto,
come intensitività sensibile, come registrazione e rivelazione attraverso una
particolare logica della sensazione per cui il visuale, dal cinema ai media,
permette di riconfigurare «ciò che normalmente non viene visto perché troppo grande o troppo piccolo, il marginale e il banale, il fortuito e l’effimero
– contribuendo così a una riconfigurazione del nostro campo percettivo»4.
Somaini fa giustamente notare come di “cultura visuale” (Visuelle Kultur)
già parlava Balázs, fondandola su una “riscoperta della dimensione concreta,
sensibile e atmosferica del reale”. L’uomo visibile è l’uomo dell’era del
filmico, per cui il cinematografo imprime una svolta all’umano fornendogli un nuovo, permutativo, volto5. Questa svolta non è solo impressa a una
storia delle immagini ma anche a una loro apprensione rispetto al volto
dell’umano, e insieme a quanto tale volto muti in rapporto alla produzione
del pensiero, a una produzione, a una costruzione del sensibile che mentre
si dà visualmente, si suddivide, si sottrae nella partizione, direbbe Rancière,
del suo svolgersi sensibile6.
Georges Didi-Huberman articola, nella sua magistrale lettura delle
“figure del dissimile” in Beato Angelico una sorta di turning point del vi-
3
p. 6.
W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, tr. it., :duepunti, Palermo 2009,
A. Somaini, Sul concetto di cultura visuale in Sensibilia 1. Potere delle immagini?, a cura
di T. Griffero, M. Di Monte, Mimesis, Milano 2009, p. 216.
5
Cfr. B. Balász, L’uomo visibile, tr. it., Lindau, Torino 2008.
6
Cfr. J. Rancière, Le partage du sensible, La Fabrique, Paris 2000.
4
FATA MORGANA
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Bruno Roberti
suale rintracciato nella emergenza de-figurale ma al contempo inscritta in
una sconcertante evidenza dentro il sistema di figurazione dell’invisibile
all’epoca dell’Angelico.
Queste due o tre cose sconcertanti, ardue da descrivere, estremamente singolari nell’assoluto candore del convento, erano delle
macchie, delle vaste macchie multicolori […] che sembravano prive
di qualsiasi soggetto, sembravano non imitare nulla di preciso, e
infine tutto in loro sembrava stranamente, per quell’epoca, “non
figurativo”.
[..] era innanzitutto una pioggia, uno spruzzo di pigmenti sulla
parete, era l’atto puro del “subjectum”, il “soggetto” nel senso di
qualcosa che viene gettato sotto i sensi, ma talmente gettato da sfuggirvi, da eludervi per oscure vie traverse, da dissimularsi, tanto la sua
evidenza è sconcertante7.
Un movimento della figura che si sottrae alla somiglianza, che sfugge
al racconto e alla imitazione come aspetto visibile, per accedere, tramite la
massima evidenza, a uno strato invisibile delle immagini.
Un tale moto dell’apparenza informe attiene precisamente alla figurazione,
anche se scivola sulla superficie di questa come una deriva, slitta sulla figura
in un movimento che la de-figura piuttosto che sfigurarla, la sgancia dalla
somiglianza facendola accedere alla dissomiglianza, tramite un movimento
dello sguardo che smentisce l’occhio, come avviene per l’anamorfosi.
«Mi resi conto che questa problematica della dissomiglianza andava precisamente definita figurazione, in quanto l’Angelico stesso aveva chiamato
“figurae” tutte quelle zone macchiettate che amava disseminare nelle sue
opere»8. Didi-Huberman nota che al tempo del Beato Angelico la figurazione
non si esplicava nel rendere l’aspetto visibile della cosa ma nel «discostarsi
dalla forma esteriore, trasferirla, compiere una deviazione al di fuori della
somiglianza e della designazione, entrare insomma nel regno paradossale
dell’equivoco e della dissomiglianza»9.
Regno del dissimile, del de-figurale, in cui la nebulosa delle forme, il
pulviscolo del disegno assume i tratti inquietanti di un uscire da sé dell’immagine, e insieme di un rapprendersi di essa, far corpo.
G. Didi-Huberman, Beato Angelico. Figure del dissimile, tr. it., Abscondita, Milano 2009,
pp. 11-12.
8
Ibidem.
9
Ivi, p. 13.
7
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FATA MORGANA
Visuale e defigurazione
A volte ho paura a guardare le sue opere. Paura di quella loro
perfezione assoluta. Sembra che quest’uomo non conosca solo la
magia di ogni mezzo tecnico, ma sappia anche agire sulle corde
più segrete dei pensieri, delle immagini mentali e dei sentimenti
umani. Così dovevano agire le prediche di San Francesco d’Assisi;
così ci incantano i dipinti del Beato Angelico. Egli crea in una zona
dell’intimo più profondo e primitivo. Là dove tutti siamo figli della
natura. Crea a livello di una rappresentazione dell’uomo non ancora
incatenato dalla logica, dalla ragione, dall’esperienza. È così che le
farfalle creano il loro volo. Tale è la corrente elettrica di due immagini
che si compenetrano10.
Così scriveva all’inizio degli anni ‘40 Ejzenštejn a proposito di Walt
Disney, che aveva incontrato dieci anni prima nel suo viaggio americano. In
Disney, Ejzenštejn scorgeva una vis formativa sganciata da ogni struttura di
senso, liberata dai nessi ideologici e rivolta unicamente al potere trasmutatorio dell’immagine. Questa continua, incessante trasmutazione alchemica
delle forme diventava per Ejzenštejn una sorta di stato “chimicamente puro”
della traccia filmica, una forza visuale che connette pensiero, nella sua
intensità nervosa, e generarsi delle forme, come in un vortice elettrico che
compenetra il formarsi delle immagini all’intensità, al pathos che fluisce
nel loro porsi come stati della materia. Ciò comunica un incantamento,
stabilisce un canale di flussione formale, e di continua liberazione dalla
definizione e dalla referenza del segno, in un moto che tende a sganciarsi
dalla narratività, a fuoriuscire dalla rappresentazione, a de-figurarsi. Stato
ek-statico delle immagini, nel loro comunicarsi e dislocare lo sguardo,
come Ejzenštejn andava teorizzando. E infatti non mancava di cogliere in
Disney, soprattutto nel primo Disney, una pura potenza del visivo in cui il
corpo disegnato, anzi il suo contorno, cioè un corpo-linea, era spinto verso
uno stadio prelinguistico e addirittura precorporale, dove la traccia, il tratto, il generarsi della scrittura stessa, il suo germinare preumano permette
la fuoriuscita di una immagine che è pura potenza magica, puro agente di
trasmutazione, qualcosa che fa macchia nel reale.
L’allungamento esagerato del collo di un personaggio disegnato nel momento in cui la sua anima patisce una data emozione: questo l’esempio che
Ejzenštejn adduce, per rendere questa incarnazione estatica, questa formula
che accede alla Figura in un moto che strappa da sé stesso il figurale, che
tende fino all’estremo la figurazione, provocando uno stato di fuoriuscita
10
S.M. Ejzenštejn, Walt Disney, tr. it., SE, Milano 2004, p. 27.
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Bruno Roberti
che permette un oltrepassamento del metaforico, un passaggio oltre il senso
figurato, oltre il transfert, oltre la translitterazione. Non si tratta più di trasmettere degli stati formali, quanto di mostrarli nel loro essere prelinguistico,
premetaforico: è lo stato patico, il de-formarsi dei sensi nel sentire diretto
della linea che si trasforma secondo gli stadi intensivi del sentimento. L’assonanza semantica di anima, animazione e animale diventa indicativa di ciò
che, attraverso Disney, Ejzenštejn presentiva come una specie di destino
primo e ultimo delle immagini, come una sorta di loro vis intrinseca in cui
lo strazio della forma, il suo strappo, la sua mostrificazione e deformazione,
la sua metamorfosi interna ed esterna (in un passaggio infraumano tra animico e animalesco, estatico e selvaggio) procede come una sorta di reazione
chimica, di precipitato che strappa il figurale alla dittatura standardizzante
della “logica formale” delle immagini come reificazione, come merce o come
arma persuasiva di coercizione. La vis comica procede allora direttamente
da uno sparagmos del linguaggio, da uno stato insurrezionale, da un urto
delle immagini nella procedura del montaggio, uno stato tragico delle cose,
che incide i corpi addirittura nel loro formarsi, nel loro accedere all’umano
dallo strato mitografico del mostruoso. In tal senso il precorporale diventa
l’animale metamorfico prima ancora che sacrificale, la maschera totemica
prima ancora che il capro, il tragos, la bestia sacrificale. Disney in questo
movimento accede, secondo Ejzenštejn, al prelogico, a uno stadio magicoinfantile che ride con il riso degli dèi, riso che può anche essere crudele, e
che mette paura. Reazione naturale del prelogico che, per via compulsiva,
ribalta la logica ordinativa del visuale, rendendolo de-figurale.
Questa radice primitiva di possibilità dell’estasi genera personaggi,
figure, tratti, linee, colori, animali, membra, macchie tra di loro solidali e
osmotiche e insieme dotate di una forza di divergenza. Maschere-personeformule-feticci che passano uno nell’altro, dove gli animali sono metaforici
rispetto agli umani, ossia, seguendo la lettura ejzenštejniana, sono metafore
plastiche nella loro essenza, eppure conducono la metafora fuori di sé, in
un raddoppiamento-rovesciamento del proprio moto di trasporto, e questo
moto pulsivo fa sì che l’immagine si defiguri proprio mentre permette l’accesso alla sua Figura sottesa. È la forma arricchita, primitiva, fisiologica,
biologica, magnetica dell’interazione dei contrari. La proprietà comica della
“letteralizzazione” di questa metafora si fonda sull’arcaismo dell’assenza
di transfert e di senso figurato, ossia lo stadio premetaforico.
Nel movimento che dà anima al disegno, riportando a galla l’unione atavica fra moto e anima insito nella mentalità primitiva, Ejzenštejn sottolinea
come «il gioco stupefacente dei contorni» vede questo tendersi e modellarsi
in perfetta sincronia con lo stato d’animo, arrivando a deformazioni comiche del tutto innaturali e così portate all’estremo come per esempio nel
88
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Visuale e defigurazione
caso dell’allungamento esagerato di un collo, «l’allungamento/stiramento
autonomo del contorno si decodifica come “un’uscita del collo da sé”. E a
questo punto si trasforma nell’incarnazione comica della formula del pathos
e dell’estasi»11.
Il generarsi immaginativo di linee e colori si assoggetta così nell’animazione disneyana alla presa del nostro sguardo, e quanto più questo è
capace di sganciarsi dalla prospettiva ottica, dalle leggi del visuale, tanto
più empaticamente, magicamente, tattilmente, le forme si muteranno sotto
un comando istintivamente innocente e se la purezza del bambino, il suo
ritmico pendolare tra la perdita e il desiderio, tra l’oggettuale e il deflagarsi
auroralmente, arcaicamente costitutivo del soggetto, il suo frantumarsi allo
specchio, può avere in sé la potenza del gesto magico dello stregone, allo
stesso tempo l’ombra animata di quel gesto, come nel Topolino dell’Apprendista Stregone, pone in essere un moto incessante, una trasmutazione
continua delle forme, un proliferare e un liberarsi di stati di colore e di tratti
che danno luogo alla Figura (che irromperà non tanto per rimettere tutto in
ordine quanto per rivelarsi come volto supremamente generante, come vis
figurale sottesa, nel momento in cui le forme, per mostrarsi, necessitano di
uno scatenamento sensorio). L’immaginazione creatrice, con il suo portato
assoluto di magia empatica fa sì che abbia luogo una scrittura-incantesimo
che genera la forma precisamente nel momento in cui il nostro sguardo la
spinge fuori di sé in una mostrazione, un modo attrazionale e de-figurante. È
come se l’animazione disneyana induca e lavori su uno stato sciamanico di
controllo pulsionale delle forme oniriche, e Ejzenštejn coglie perfettamente
questo aspetto. «Quanta magia nel ricostruire il mondo secondo la nostra
fantasia e volontà. Un mondo immaginario di linee e colori che si assoggetta
e si muta al nostro comando»12.
Uno stato di onnipotenza infantile o di induzione paranoico-critica. Non a
caso Disney propose a Dalì un lavoro sulle forme oniriche che gli animatori
avrebbero dovuto tradurre nelle sequenze di un sogno per un film (Destino,
1946) incompiuto. Il sostrato dell’animazione, fin da Émile Cohl, McCay o
Blackton (i riferimenti del Disney ai suoi inizi, accanto all’“anarchia infantile” delle comiche), sussiste in una tensione metamorfica, il tendere a una
scrittura visuale che non sia illustrativa ma generante, e al contempo che
unisca la germinazione trasformativa con un potere, evidentemente rituale,
di iterazione puntualmente saldato al processo di riproducibilità tecnica e
all’innovazione della serialità. La fascinazione di un procedimento come
11
12
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 31.
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89
Bruno Roberti
quello disneyano, così antropomorfizzante e individualizzante all’apparenza,
è quella di spingere dentro la formatività un potere che sgancia il figurale dal
suo processo di ancoraggio e di corrispondenza referenziale, dall’illusione
narrativa, proprio nel momento in cui sembrerebbe riferire il tratto a una
imitazione dell’umano. Al contrario è l’inumano, una potenza che fa uscire
estaticamente l’immagine dal suo referente, che introduce l’animalizzazione,
che avviene come inoculazione nell’umano per defigurarlo, sganciarlo dal
riconoscimento gettandolo nell’abbandono di un mondo in cui le forme possono a ogni istante mutare, e si erotizzano in tale scontro tra umano e infraumano (come in I tre Caballeros, 1944). Per cui Disney decide di superare la
figurazione non tanto per via di sganciamento astratto della linea di disegno,
magari ridotta a punto di luce-colore (e in ciò risiede la ragione della fallita
collaborazione tra l’avanguardia e lo Studio Disney, che pure intrattengono
tra loro una sorta di attrazione, nel caso dell’incontro tra Otto Fischinger e
Disney per Fantasia, 1940, laddove il tentativo era quello di visualizzare
Bach con elementari corrispondenze suono-immagine, o sonorità-alone di
luce/colore). Piuttosto il lavoro disneyano è quello, magico-animistico, di
creare una macchina (che corrisponda a un luogo osmotico, una WonderDisney-Land, plasmata cioè senza soluzione di continuità sul processo di
lavorazione dello Studio di animazione) che sia filmicamente un paradossale
anti-cinema, che sia basata cioè sulle potenzialità filmiche dell’arresto del
movimento (di quello scatto singolo, di quel passo-uno, scoperto per caso
da Méliès nelle riprese dall’alto di Place de l’Opèra, dove l’omnibus diventa
carro funebre), della sospensione in un’aura condensata e tattile di linee
bizzarre e inumane che si impossessano dell’umano tramite l’inumano, che
animano oggetti e stati intensivi di nature visibili e invisibili.
E la macchina disneyana (non solo lo Studio, ma anche il dispositivo,
l’industria dell’immaginario, e il meccanismo di proiezione inconscia, la
pulsionalità della rêverie, con il suo inquietante/familiare, un perturbante
che inerisce allo stesso procedimento del disegnare quelle forme animaliumane che fuoriescono da sé e dal proprio “fare quadro”) «è testimone del
correre della mano sul foglio, appresso a figure inesistenti, fantasmi, che
tracciati sulla pagina bianca si animano come il disegno del pupazzo di Zéro
de conduite di Jean Vigo»13.
Ma questo animarsi di una superficie, che a sua volta prende vita come
un supporto soggettile (secondo una definizione di Derrida riferita ai disegni
di Artaud), tradisce appunto la fascinazione ipnotica dell’arresto temporale,
13
E. Bruno, L’anticinema filmico, in Walt Disney, a cura di E. Bruno, E. Ghezzi, Edizioni
de La Biennale di Venezia, Venezia 1985, p. 13.
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Visuale e defigurazione
la possibilità cioè di reversione: avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori
la forma, dal lato dell’umano e dal lato dell’animale, per cui il “fotogramma singolo” pone tutta la potenza metamorfica della iterazione all’infinito
di un movimento che parte da una forma immota, eterna, al limite ridotta
all’assoluto di una sola linea. E il farsi-disfarsi di quel segno continuo, di
quella linea iconica, di quell’anticinema, di quell’antimateria filmica, diventa
un processo magico di animazione transustanziatoria, un dinamismo insito
nella sensazione, in una sorta di carne viva visuale che paradossalmente
risiede più in un disegno che in un organo, consistente in un artaudiano
corpo senza organi che di nuovo ci fa pensare a Vigo: la donnina nuda disegnata sul ventre rigonfio di Michel Simon che viene fatta ballare, animata
dal tremolìo della carne, in L’Atalante (1934). È una ossessione ancestrale
che spinge Disney a dar vita, ad esempio in Pinocchio, 1940 (e prima nelle
scope animate di Fantasia, e in seguito nel sogno, tra peso e leggerezza, tra
materia plastica e “corpo dell’aria”, bolla ventrale, dell’elefantino ubriaco
di Dumbo, 1941), agli oggetti, animando una sarabanda, una panoplia, un
carnevale dell’inanimato-animato, del immobile-mobile, del tempo sospeso
e ricaricato, portato avanti e indietro nelle forme da wunderkammer degli
orologi a cucù di Geppetto: forza metafilmica di una bottega di “disegnioggetti” animati, o di forme generate da uno stato di veglia sognante, da un
gesto magico-automatico, sempre passibile di una dadaista “rivolta degli
oggetti”, guerra dei giocattoli e delle immagini. C’è una continua tensione
alla fuoriuscita non solo dallo schermo-cornice ma dal proprio corpo disegnato, dal proprio tratto che si disegna, da parte delle forme disneyane:
quell’estasi del corpo inumano-animale-umano, quel sentimento e quel
patire una peripezia della forma stessa, del disegno che si abbandona e si
trasforma, risiede paradossalmente in una osmosi del senziente e dell’insensibile, del corporale e dell’animico, in una trasmissione nervosa del
tratto disegnato che connette soggetto e oggetto, in uno scarto continuo tra
illusione e disillusione, imprigionamento nel quadro e fuoriuscita, sfondamento del fotogramma e sua revulsione, estasi di una coalescenza con il
disegno, di una entrata nel quadro che vuol dire anche sfondamento della
riproduzione. In un cartoon di Tex Avery (cineasta che sembra perseguire
metodicamente lo scatenamento del lato selvaggio dissimulato in Disney),
Dumb-Hounded (1943), c’è una gag in cui un personaggio animato, Wolf,
fuoriesce dal fotogramma debordando dalla perforazione della pellicola e
dando luogo così a una pura potenza del visivo che accede a una sua stessa
reversione. Analoga sensazione la fornisce una famosa foto di Disney al suo
tavolo di lavoro con la parete alle spalle disseminata di foto al cui interno
si replica una cornice, un bordo che, nel fare quadro, deborda: i suoi personaggi disegnati (Paperino, Topolino, Pluto ecc.) fuoriescono, si affacciano,
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91
Bruno Roberti
si spingono sui bordi, sembrano uscire dal proprio stesso disegno, prendere
una vita ulteriore, accedere a un divenire animale che è al contempo una
vis spiritalis.
Io divengo nella sensazione e, al tempo stesso, qualcosa accade
attraverso la sensazione, l’uno per l’altro, l’uno nell’altro. E, al limite,
è il corpo stesso a dare e a ricevere la sensazione, a essere insieme
oggetto e soggetto. Io, spettatore, non provo la sensazione se non
entrando nel quadro, accedendo all’unità del senziente e del sentito.
[...] Il colore è nel corpo, la sensazione è nel corpo, non nell’aria. La
sensazione è ciò che viene dipinto. Ciò che viene dipinto sulla tela è
il corpo, non in quanto rappresentato come oggetto, bensì in quanto
vissuto come affetto da quella particolare sensazione14.
Si tratta di quella “logica della sensazione” di cui scrive Deleuze a proposito della pittura di Bacon, richiamandosi a un “metodo Cézanne” che è
quello di fuoriuscire dalla figurazione (e dalla narrazione-descrizione) non
per via aerea e astratta ma per via concreta, corporale, terrigena: attraverso
una forma di sensazione che permette di accedere alla Figura, qualcosa che
colpisce direttamente il sistema nervoso tramite la sensazione:
Quando Bacon parla della sensazione, intende dire due cose,
entrambe molto vicine a Cézanne. Negativamente, egli dice che
la forma riferita alla sensazione (Figura) è il contrario della forma
riferita a un oggetto che si ritiene debba rappresentare (figurazione).
Secondo un’espressione di Valéry, la sensazione è ciò che si trasmette
direttamente, evitando l’espediente o il tedio di una storia da narrare.
[...] La sensazione è ciò che passa da un ordine a un altro, da un livello
a un altro, da un campo a un altro. Perciò la sensazione è maestra di
deformazioni, agente di deformazioni del corpo15.
È un au-delà del moto, un oltrepassamento e una fuoriuscita dal movimento del figurale verso un immoto che è come una concrezione, una
pluralità di stati di sensazione accumulata, coagulata, “come in una formazione calcarea”.
Deleuze parla di un momento patico (non rappresentativo) della sensa14
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, tr. it., Quodlibet, Macerata 1995,
pp. 85-86.
15
Ivi, p. 86
92
FATA MORGANA
Visuale e defigurazione
zione, che sarebbe captato dalla pittura, fatto vedere, in tutta la sua violenza
nervosa e nei passaggi in cui si prolunga, si sgrana, si deforma in quanto
pathos-momento-movimento, come una sorta di morphing in cui la visualità
accede a una potenza che la supera, più profonda della vista, ultrasensoriale
logica dei sensi.
Si attua una pratica della defigurazione, un prolungare la genesi della
forma dalla deformazione, dal figurale come intensivo alle forme e come
indice-indizio della Figura, che è in continuo stato di emersione. Per accedere a una sorta di generazione attuale delle immagini sotto il disegno,
sotto l’animazione di un di-segno, con l’atto stesso della scrittura visiva che
germina (attraverso il lavoro della mano, con una visualità immediatamente
generata dal tocco), in modo da far vedere nel corpo stesso dell’immagine
«altrettante presenze inaspettate, “rotture enunciative”, cambiamenti di
isotopia che destabilizzano, o addirittura denegano la rappresentazione,
rivelandone l’artificio»16.
Il moto defigurante produce una temporalità non narrativa, ritmica,
come dice Bacon, per cui la rappresentazione, la cornice, il quadro viene
sottoposto a una specie di strappo, viene innescata con un motore che
è l’atto manuale e pensante, la condensazione tattile dell’immagine del
pensiero. Strappare schermi e veli rimanda al paradosso di uno specchio
oscuro, opaco, intransitivo, come gli specchi/cornici che appaiono nei
quadri di Bacon, e che conducono a uno specchio di emersione della
Figura attraverso gli scorrimenti defigurali, come avviene nell’opacità
nebulosa e lattescente di uno specchio-schermo intransitivo ma captante e
pulsante come è quello del cinema. Uno specchio dove le immagini non si
riflettono ma vi abitano, e nello stesso tempo debordano, uno schermo che
sia un pulsante luogo di emissione, di rigetto, oltre che di incorporazione,
dell’immagine, in modo tale che l’abisso captante ed emittente del vortice
entro cui si muovono e si sospendono, vorticano, le immagini sia (come
per il precetto barocco di Pacheco, maestro di Velázquez, che suonava
“l’immagine deve uscire dal quadro”) un moto di fuoriuscita dal quadro
nell’atto stesso del “farsi quadro” da parte delle immagini. E la traccia di
quest’altra scena risiede nel ritmo e nella ripetizione, in un processo in
cui lo strappo dello schermo soggetto corrisponde a una defigurazione del
soggetto, come introiettando il proprio doppio: «Ora in Bacon il doppio
e la ripetizione introducono nel quadro una temporalità che egli definisce
ritmica, non narrativa: i trittici […] non svolgono un racconto unitario e
16
S. Borutti, Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello
Cortina, Milano 2006, p. 121.
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Bruno Roberti
con una direzione, ma ritmano, separandole, le apparizioni seriali (quasi
fotogrammi) dell’immagine»17.
17
Ivi, p. 126. La Borutti più avanti cita le parole di Bacon che si riferiscono esplicitamente
a una logica filmica: «in un certo senso sono come sequenze. Un’immagine, poi un’altra, poi
un’altra ancora, e la cornice ritma lo svolgimento delle immagini», F. Bacon, Conversazioni
con Michel Archimbaud, cit. in S. Borutti, Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero tra filosofia,
arte e letteratura, cit., p. 127.
94
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Quel che resta del cinema. Il paradosso
visuale della sperimentazione
Bruno Di Marino
Che ci troviamo di fronte ad una nuova era della storia dell’immagine in
movimento è un fatto ormai evidente. Così come appare chiaro che da alcuni
anni si è consumata, sotto diversi aspetti, la morte del cinema, perlomeno del
cinema inteso come dispositivo classico. La famosa intuizione dei Lumière
«Il cinema è un’invenzione senza futuro», pronunciata con un pragmatico
pessimismo, dettato storicamente dall’idea di una forma espressiva relegata
nell’ambito del fenomeno da luna park e non ancora elevata al rango di arte,
riletta oggi non è altro che l’acuta prefigurazione di un profondo mutamento
nel campo più generale del visuale che stiamo vivendo oggi. Un mutamento
di ordine creativo, culturale e percettivo.
Ma in realtà la presunta morte di quella che potremmo chiamare la messa
in scena cinematica d’impronta narrativa, fruita in un ambito specifico (la
sala) e legata a codici linguistici ben definiti, è stata anticipata – nella teoria
e nella pratica – da un tipo di rappresentazione audiovisiva sviluppatasi
nell’ambito dell’avanguardia e della cultura underground. Un ambito che,
da sempre per comodità, definiamo con molta approssimazione e ambiguità,
“di ricerca” o “di sperimentazione”.
Siamo abituati a pensare che l’avanguardia cinematografica nasca con i
primi esperimenti futuristi, ovvero tra il 1910 e il 1911 e che venga teorizzata
con il Manifesto stilato da Marinetti e compagni nel 1916. In realtà nasce
prima del cinema e in una cruciale fase di passaggio tra l’immagine fissa
e l’immagine in movimento, troppo a lungo liquidata come un momento
poco significativo nella storia delle immagini, ibrido e transitorio. Eppure
la modernità della Cronofotografia portata avanti all’incirca tra il 1879 e il
1893 contemporaneamente da Marey e Muybridge, torna con prepotenza
di attualità proprio oggi, all’inizio del XXI secolo. Il ritorno a un’estetica
del singolo fotogramma – che Deleuze chiama «istante privilegiato»1 e che
1
G. Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it., Ubulibri, Milano 1984, p. 17.
FATA MORGANA
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Bruno Di Marino
Barthes è convinto contenga, in quanto significante senza significato, il vero
senso del film ovvero il «senso ottuso»2, segna il paradosso di un’arte, il
cinema o quello che di esso ne resta, che ritorna a uno stadio uterino della
sua esistenza, dal quale non si è però mai realmente distaccato, dal momento
che oltre alla sua natura di arte inscritta e “proiettata” nel tempo ha sempre
conservato la possibilità di essere “esposta” (e parimenti proiettata) nello
spazio. L’immagine-movimento al suo grado zero, dunque senza movimento,
segna così il ritorno ad un’immagine che – dopo aver raggiunto la massima
accelerazione – ridiventa fotogramma, frame, visione congelata e cristallizzata3. Il ritorno ad una rappresentazione cinetica pura, non solo pre-narrativa,
ma perfino pre–visuale: i film senza immagini o con fotogrammi bianchi e
neri, da Walter Ruttmann (Wochenende, 1930) a Nam June Paik (Zen for
Film, 1962-1964), da Peter Kubelka (Arnulf Rainer, 1960) a Tony Conrad
(The Flicker, 1966) fino a Derek Jarman (Blue, 1993): l’abisso pulsante e
primigenio che anticipa (e sfida) qualsiasi immaginario.
Il grado zero che il cinema narrativo ha sempre vissuto come nostalgia di
un’epoca primordiale, antecedente alla scoperta del cinematografo Lumière
e, dunque, non ancora corrotta dalla codificazione di regole linguistiche, il
cinema sperimentale lo ha eletto a paradigma, coltivando parallelamente
all’evoluzione del cinema “ufficiale”, un’idea particolare di logica visuale,
che si sviluppa intorno alla temporalità significante di una singola immagine
se non addirittura di un singolo fotogramma.
Se dovessimo operare un confronto con la storia dell’arte moderna,
potremmo dire che la sperimentazione audiovisiva porta avanti, a livello
dell’immagine in movimento, quella che Filiberto Menna chiamò con una
fortunata definizione «linea analitica», nata da un superamento del naturalismo e dalla messa in discussione della «corrispondenza immediata tra
linguaggio e realtà»4. Laddove, al posto di una rappresentazione di carattere
diegetico, il cinema sperimentale è orientato verso una riflessione ontologica degli elementi strutturali che compongono l’orizzonte cinematico e
che presiedono alla nascita stessa della visione (o di una visione, non fa
poi molta differenza). Non parliamo solo di una branca, il film strutturale,
che pure si è concentrato su alcuni aspetti particolari dell’immagine e della
2
R. Barthes, Il terzo senso, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, tr. it., Einaudi, Torino
1985.
3
Cfr. B. Di Marino, Pose in movimento. Fotografia e cinema, Bollati Boringhieri, Torino
2009.
4
F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, tr. it., Einaudi, Torino
1983, p. XI.
96
FATA MORGANA
Quel che resta del cinema. Il paradosso visuale della sperimentazione
sua articolazione in una serie: Bertetto parla giustamente di minimalismo
eidetico5, di immagine-pensiero e sottolinea il carattere concettuale di un
cinema che si sviluppa parallelamente alla conceptual art. Parliamo più
in generale di qualsiasi tipo di immagine che basta a se stessa, che non
ha bisogno di un contesto per significare, e che – proprio per questa sua
profonda libertà di pensiero/azione – è in grado di rappresentare la realtà,
sia essa mentale o fisica, psichica o performativa, ma anche al contempo di
ricordarci come essa sia, sempre e comunque, filtrata da un dispositivo che
può essere totalmente modificato rispetto ai canoni dell’industria e anche
a quelli scientifici.
L’equivoco maggiore in cui si cade è di pensare che il cinema sperimentale, in mancanza di un racconto o quanto meno di una narrazione lineare,
possa slittare in una sorta di virtuosismo formale o compiaciuto tecnicismo
fine a se stesso. Ma la sua vocazione strutturale, ad evidenziare il valore del
dispositivo, non è certo dettata da una carenza sul versante del contenuto
(e quale poi?), semmai dalla necessità che la visione non sia separata dalla
scrittura, che lo sguardo dell’autore diventi non tanto una scrittura automatica, quanto si faccia automaticamente scrittura.
La scrittura di un testo filmico narrativo si compone, normalmente, di
almeno quattro momenti separati: la scrittura letteraria (una sorta di prescrittura quasi paratestuale, data dalla sceneggiatura), la scrittura fotografica
(la ripresa, o meglio la vera scrittura delle immagini), la scrittura assemblativa (il montaggio), la scrittura sonora. Il cinema sperimentale tende a non
disgiungere queste fasi, riunificandole in una sola azione: la camera che si fa
sguardo e lo sguardo che si fa camera. La mancanza di una sceneggiatura, il
montaggio in macchina, l’assenza di suono o il suono ricavato direttamente
con interventi sulla colonna ottica, sono alcuni procedimenti tipici della
sperimentazione. Frutto di un’intimità, di un lavoro senza intermediazioni,
di un cinema che, come dice Brakhage, è fatto-da-una-sola-persona6.
Il dispositivo, in realtà, può anche essere annullato. Ce lo insegnano
i film realizzati senza macchina da presa, con la tecnica della pittura a
mano (McLaren) o dell’esposizione diretta della pellicola (Man Ray) o
dell’assemblaggio di elementi organici (Brakhage) o del foro stenopeico
(Gioli). Oppure, al contrario, il dispositivo può assurgere ad unico facitore
di immagini a discapito dell’autore: la macchina da presa programmata da
5
Cfr. P. Bertetto, Minimalismo eidetico, in Il grande occhio della notte. Cinema d’avanguardia
americano 1920-1990, a cura di Id., Lindau, Torino 1992.
6
Cfr. S. Brakhage, Metafore della visione e Manuale per riprendere e ridare i film, tr. it.,
Feltrinelli, Milano 1970.
FATA MORGANA
97
Bruno Di Marino
un computer compie panoramiche a 360° nel paesaggio canadese (La regione centrale di Snow, 1971: quale migliore esempio di soggettiva libera
indiretta?). Questi éscamotage hanno trasformato radicalmente le modalità
non tanto produttive e creative, quanto configurative e ontologiche del
cinema, non più prodotto di uno sguardo, bensì di una sua assenza. Siamo
ormai al di là di qualunque teoria dell’enunciazione o discorso sul confine
tra soggettività/oggettività della visione.
Il cinema – secondo le regole stravolte della sperimentazione – può dunque riconfigurarsi come oggetto (trovato o prodotto casualmente), imporsi
allo sguardo dello spettatore come pura materia. Lo è quando non viene esposto dall’otturatore della macchina da presa, ma quando al contrario è esposto
sotto forma di strisce di film in un museo (Sharits, Kubelka, Tscherkassky).
Un ritorno alla realtà fisica e pellicolare che capovolge qualsiasi ragionamento sul visuale a livello della rappresentazione spazio-temporale.
Nel found-footage di carattere sperimentale a prevalere è solo il momento
dell’assemblage, la scrittura del montaggio, ma sarebbe meglio parlare di
ri-scrittura, di un ricalco, poiché si interviene su materiale preesistente. Il
grado di modificazione può naturalmente essere più o meno intenso, anche se
l’elaborazione tecnica non è direttamente proporzionale alla trasformazione
del contenuto: per esempio è molto più forte lo scarto forma/contenuto in
uno dei film di Debord basato sulla tecnica del détournement (in fondo una
tipologia di found-footage) e dunque il livello di ri-scrittura, piuttosto che in
un altro esperimento dove l’intervento è ben più marcato. Le implicazioni
che la ri-scrittura e conseguente ri-lettura di un testo audiovisivo hanno sul
piano del visuale, sono naturalmente enormi. Non solo la pratica del foundfootage ci ricorda che un’opera non può mai davvero essere chiusa, conclusa,
definitiva, relegata in un contesto, ma che è proprio in questa apertura che
trova il suo vero senso, rendendosi disponibile ad altre interpretazioni che
arrivano perfino a rovesciarne il senso originario.
Il détournement debordiano delle immagini lavora naturalmente a livello
del contenuto testuale e quindi in senso politico. Il found-footage applicato
ai film amatoriali, agli home movies, non di meno, si pone come operazione
politica oltre che sociale, con l’obiettivo di riportare lo sguardo dell’uomo
comune al centro della riflessione sulla Storia, o meglio di modificare
questa riflessione grazie al recupero di uno sguardo considerato da sempre
marginale, in quanto “non ufficiale”, dunque soggettivo e inattendibile. Ma
è il found-footage di approccio sperimentale a proporsi come pratica veramente politica, di sovversione completa di un immaginario precostituito.
E tutto ciò lavorando direttamente sul visivo, sul corpo reale/virtuale del
film, sulla sua emulsione (il cinema analogico) o sulla sua configurazione
(il cinema digitale), cancellandone e ridisegnandone letteralmente i con98
FATA MORGANA
Quel che resta del cinema. Il paradosso visuale della sperimentazione
torni. Ri-filmando e ri-fotografando un’immagine, finché essa non mostri
tutta la sua presunta verità: la latensificazione messa in scena in Blow-up
da Antonioni (1966) sembra prefigurare per certi versi (in chiave narrativa)
il cinema di Gianikian e Ricci-Lucchi. Vivisezionata dalla truka o dalla
stampatrice ottica o frantumata dal compositing, l’immagine sperimentale
è il frutto di un estenuante corpo a corpo, che produce brandelli: quel che
resta nelle mani di Brakhage dopo aver rifotografato frame-by-frame alla
stampatrice fiori e insetti (Mothlight, 1963). Quel che resta nelle mani di
Kubelka – durante un seminario di tanti anni fa a Napoli – dopo aver fatto
a pezzi lo stesso Mothlight di Brakhage, per donarlo ai partecipanti come
l’ostia durante una funzione religiosa.
La Cronofotografia ha consentito di scomporre e di trascrivere i movimenti separati dei soggetti, di restituirci una visione scientificamente esatta
di ciò che avviene in natura. Cinema “scomposto”, disarticolato, decostruito:
possono essere tante definizioni costitutive dell’immagine in movimento di
carattere sperimentale. Il cinema scientifico confina con quello sperimentale
e viceversa. Non a caso i documentari di Jean Painlevé sono considerati film
surrealisti e inseriti nelle antologie dell’avanguardia storica. Cosa accomuna
i due ambiti? Lo statuto condiviso della non-fiction? L’attenzione al dispositivo? Sicuramente, ma anche una predisposizione all’analisi dei fenomeni.
Il cinema sperimentale è fenomenico, o per meglio dire esperienziale. Non
si vede, si vive, in tutti e con tutti i sensi. Anche se questa sua attenzione
analitica – data proprio dal lavoro sul dispositivo –, e questa sua dimensione
empirica, ottenuta grazie all’espansione dello stesso dispositivo, alla sua
flessibilità, si ribalta continuamente in un’attitudine visionaria, fortemente
erotica e desiderante, nella necessità da un lato di penetrare la materia, di
mostrarne la struttura molecolare (il corpo pulsante e granulare del supporto), dall’altro di dissolverla: «Se c’è una costante di questo cinema», scrive
Deleuze, «è appunto la costruzione di uno stato gassoso della percezione»7.
Lo stato gassoso sta alla sperimentazione chimico-analogica, così come lo
stato liquido sta all’immagine digitale. Il morphing non è forse il massimo
esempio di liquefazione dell’immagine, puro flusso che si modifica sotto i
nostri occhi senza più stacchi né dissolvenze (la dissolvenza: altro procedimento “aereo” del cinema).
Il cinema sperimentale ha sempre avuto a che fare con l’invisibilità. Per
il suo essere, orgogliosamente, realizzato al di fuori del sistema produttivo
e mostrato fuori dai normali circuiti distributivi. Ma soprattutto per la sua
capacità di rappresentare l’invisibile, forse persino l’inimmaginabile di cui
7
G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 106.
FATA MORGANA
99
Bruno Di Marino
parla Didi-Huberman a proposito di due fotografie sottratte all’inferno di
Auschwitz8. E quale forma potrebbe assumere una testimonianza filmica
dall’inferno – qualunque inferno sulla Terra – se non quella diretta, immediata, che fonde insieme corpo e macchina, del cinema sperimentale?
Ciò che Deleuze indica come l’atto del «montare la cinepresa sul corpo
del quotidiano», nel capitolo de L’immagine–tempo in cui si sofferma sul
dilemma tra il cinema/corpo (che può essere quotidiano o cerimoniale) e
il cinema/cervello, la dicotomia tra il «concretivo» e l’«astratto»9. Nella
sua imponente analisi il filosofo francese, giustamente, non separa il cinema sperimentale dal cinema tout court, scrivendo che è quest’ultimo a
sperimentare, mentre l’altro «trova» (picassianamente) o, ancora meglio,
«crea». In tanti cineasti sperimentali, ad ogni modo, l’immagine–corpo non
può essere disgiunta dall’immagine–pensiero, anzi, molti film raccontano
proprio di questo transito continuo da un polo all’altro, della possibilità di
non scegliere o dell’impossibilità di scegliere.
I processi mentali, i flussi della coscienza, i frammenti di una memoria passata o futura, le visioni instabili tra il sonno e la veglia, ma anche il momento
della copula, della nascita, della morte, della decomposizione, dell’autopsia.
Tutto è rappresentabile nel cinema sperimentale, non solo perché nulla è censurabile (l’istituto della censura non è applicabile a questo cinema, anche dal
punto di vista giuridico), ma anche perché nel regime della sperimentazione
non deve esserci necessariamente una corrispondenza tra le parole e le cose,
una separazione tra il corpo e il cervello. Esattamente come nella poesia,
«l’immagine appare come un ostacolo figurativo che si frappone tra le parole
e le cose e paralizza la potenza della parola e del pensiero»10.
Il cubismo ha rivoluzionato la pittura liberandola dalla necessità di
rappresentare il reale. Il film “cubista” per eccellenza è, come sappiamo Le
ballet mécanique (1924) di Léger, forse l’opera più rappresentativa di tutta
l’avanguardia storica. Potremmo aggiungere che tutto il cinema sperimentale
è in fondo cubista. Sempre Didi-Huberman, soffermandosi su quella sorta
di anacronismo moderno che Carl Einstein teorizza nei suoi scritti e in un
saggio su Braque in particolare, ci offre una definizione davvero illuminante
dell’immagine cubista che calza perfettamente per il film sperimentale:
«L’immagine è un sintomo, nel senso critico e non clinico del termine,
l’immagine è un disturbo nella rappresentazione perché indica un futuro
Cfr. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, in particolare pp. 210-213
e 237-239.
10
J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, tr. it., Einaudi, Torino 1999, p. 358.
8
9
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Quel che resta del cinema. Il paradosso visuale della sperimentazione
della rappresentazione, un futuro che non sappiamo ancora né leggere né
descrivere»11.
Se il documentario è la coscienza critica del cinema, l’audiovisivo sperimentale rappresenta il suo inconscio. Al di là di ogni visibile. Il cinema
narrativo invidia al cinema sperimentale questa assoluta possibilità di mettere
in scena l’invisibile, il non rappresentabile: Disney si serve di Fischinger
per Fantasia (1940) e di Dalì per il naufragato progetto di Destino; Kubrick
si ispira chiaramente a Belson e ai fratelli Whitney per la sequenza dello
stargate di 2001: Odissea nello spazio (1968), ovvero materializzare il
viaggio nel tempo, oltre la velocità della luce; Scorsese nell’epilogo di L’ultima tentazione di Cristo (1988) ricorre ad un procedimento strutturalista:
lo sfarfallio della perforazione e la rottura della pellicola per visualizzare
l’istante in cui si compie il trapasso dalla vita alla morte di un essere, sia
esso umano o divino eppure incarnato. E così via.
L’assenza dell’immagine è più forte di qualsiasi immagine dell’assenza.
L’invisibile non è solo il fuori campo (Wavelenght di Snow, 1967, o BlowJob di Warhol, 1963), ma soprattutto il fuori quadro, lo spazio tra-le-immagini, ovvero la linea di scansione tra un fotogramma e l’altro, che diventa
gioco metafilmico in Onboro Film di Tezuka (1985), innocente parodia a
cartoni animati di un western del periodo muto, o allegoria dell’ob-scenità
in Interlinea (2008) di Gioli, beffarda perversione di un film pornografico
“trovato” che si mostra tra gli interstizi del visuale. Infine: il fuori schermo;
ovvero l’esistenza espansa di un’immagine che trova il suo senso ultimo
nello sconfinamento oltre i bordi di una cornice che vorrebbe fissare i limiti
della finzione. Il cinema sperimentale (e la sua prosecuzione in forma smaterializzata costituita dalla creazione digitale) attraverso la sua esplosione
controllata diventa parte maledetta, surplus, eccedenza di un’immagine non
ancora affrancata dalla dittatura del rettangolo bianco e della sala buia.
Finalmente liberata, l’immagine in movimento ha perduto forse la sua
identità. Non è più cinema, non è arte visiva, non è web, è flusso visuale che si
adatta ai vari contesti spaziali e culturali. La fase che stiamo vivendo è molto
simile al limbo cronofotografico, in cui l’immagine non era più fotografia e
non ancora cinema. Ma la transizione tra uno statuto e l’altro, diventa oggi il
vero soggetto su cui concentrare la nostra attenzione. Per rifondare una nuova
teoria dell’immagine in movimento dobbiamo cominciare a pensare ad essa
proprio in termini transitivi, come icona inafferrabile in cerca di un dispositivo
nel quale incarnarsi, prendere corpo, anche se mai definitivamente.
11
G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 205.
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Occhi di calcio (e di cinema)
Daniele Dottorini
Il rigore si batte forte, basso e di lato. Avete capito? Forte, basso e di
lato, e così si segna. Se non si rispetta uno dei tre requisiti, c’è il pericolo
di trasformare il portiere in un eroe
Osvaldo Soriano
Kaiserslautern, Germania, 26 giugno 2006 ore 17:00. Nello stadio della
città tedesca ha inizio la gara valida per l’ottavo di finale dei campionati
del mondo di calcio che vede impegnate le nazionali italiana e australiana.
L’Italia parte favorita ai pronostici, ma la nazionale guidata dal veterano
olandese Guus Hiddink dà filo da torcere ad un team come quello italiano,
tecnicamente superiore, ma che appare, per lunghi tratti della partita, senza
mordente, senza reale capacità di incidere. La partita si trascina e già – siamo
oltre il novantesimo minuto – si profilano all’orizzonte i tempi supplementari
e, poco più in là, i calci di rigore.
Dopo una mischia nell’area italiana, inizia una ripartenza della squadra
guidata da Marcello Lippi. Francesco Totti riceve il pallone nella sua metà
campo ed apre, con un lungo lancio, sulla sinistra nella direzione di Fabio
Grosso, che aggancia la palla e si avvia verso l’area avversaria, saltando un
difensore. Dentro l’area Grosso dribbla un avversario, ma, con mestiere, fa
in modo di finire contro il giocatore australiano cadendo a terra. Per l’arbitro
non c’è dubbio: è rigore.
L’atmosfera si fa tesa, la partita è praticamente finita: una volta battuto
il rigore non ci sarà più tempo per giocare. Se il penalty si trasformerà in
goal, l’Italia continuerà la sua avventura mondiale accedendo ai quarti di
finale, mentre l’Australia tornerà a casa. A battere il rigore si presenta Francesco Totti, autore dell’apertura a Grosso e da poco entrato in campo. È la
prima partita del mondiale in cui Totti, che ha recuperato in tempo record
da un grave infortunio proprio per partecipare ai Mondiali, non parte da
FATA MORGANA
103
Daniele Dottorini
titolare. Ci sono state diverse critiche sul suo comportamento ai Mondiali:
“poco incisivo”, dicono alcuni, “ormai non più in grado di far parte della
nazionale”, dicono altri.
Il momento è dunque decisivo, non solo per la squadra ma anche per il
capitano della Roma, chiamato qui ad un difficile e delicato compito. La
regia si sofferma allora sui particolari, sui dettagli di un tempo sospeso
– dal gesto di posizionamento del pallone sul dischetto del calcio di rigore,
all’inquadratura del portiere che segnala all’arbitro la posizione non consona
della palla, dai primi piani dei volti dei tifosi in apprensione, all’inquadratura
(dall’alto, in plongée) del portiere della nazionale italiana, Gianluigi Buffon,
che in silenzio sta osservando la scena.
Infine, una delle telecamere posizionate sul campo cattura lo sguardo di
Francesco Totti prima del calcio di rigore. L’inquadratura è un primissimo
piano, in campo ci sono solo gli occhi dell’attaccante della nazionale. Le
pupille scartano da sinistra verso destra per poi soffermarsi su qualcosa
(qualcuno) che si staglia di fronte all’attaccante. Lo sguardo si fa fermo,
deciso, quasi di sfida: Totti sta guardando il portiere avversario.
L’inquadratura allarga il campo visivo, Totti inizia a muoversi all’indietro, a prendere la rincorsa necessaria a calciare. Ora l’inquadratura è in
campo lungo, dall’alto. Una breve rincorsa e un tiro secco, veloce, deciso.
Il portiere si butta a destra, la palla entra in rete nell’angolo in alto a destra.
Lo stadio esplode, i commentatori urlano, tutti corrono ad abbracciare Totti,
mentre le telecamere ne seguono la corsa liberatoria; stacchi di montaggio
mostrano, in montaggio alternato, il volto di Lippi che cerca di contenere la
gioia (la partita non è ancora ufficialmente conclusa) e quello di Hiddink,
che osserva il suo collega con uno sguardo sconsolato, ormai consapevole
che non c’è più nulla da fare. Il resto è storia.
La narrazione del/nel flusso visuale: l’occhio western
Perché soffermarsi su questo episodio? Perché, soprattutto, soffermarsi
sulla sua descrizione mediatica? Le immagini, la loro sequenza, il loro concatenamento sono stati visti in contemporanea in tutto il mondo, commentati
in decine e decine di lingue in diretta, a prescindere dall’orario in cui sono
state trasmesse. Immagini ricorrenti, viste allo stesso modo e secondo lo
stesso alternarsi di piani e di campi. Una regia internazionale – a cui le
televisioni da tutto il mondo attingono di volta in volta per (ri)trasmettere
un evento sportivo –, una moltiplicazione delle immagini stesse.
Un evento sportivo come quello appena descritto è, di fatto, un evento
immediatamente mediatizzato, un evento inserito in quel flusso visuale che
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FATA MORGANA
Occhi di calcio (e di cinema)
attraversa la nostra esperienza quotidiana, che costituisce, per dirla con
Nicholas Mirzoeff, la nostra esperienza quotidiana1. L’evento in diretta
(come una partita di calcio) costituisce parte integrante (ma non l’unica
ovviamente) di questo flusso visuale, di questa proliferazione di schermi
che accompagna la nostra esperienza. Il suo essere in diretta, per di più, ne
certifica l’attualità e, al tempo stesso, la sua condizione effimera.
Le immagini circolano dunque; anche le immagini del calcio di rigore
tirato da Totti ai Mondiali del 2006. Esse proliferano anche al di là dei circuiti
televisivi. Su internet si moltiplicano i montaggi fan made dell’evento, ridoppiaggi, clip ed estratti che rilanciano l’evento, lo consegnano ad una nuova
archiviazione mobile come quella tipica dei nuovi network telematici.
Ciò che in ogni caso colpisce nella “sequenza” appena descritta, è che
essa si struttura secondo una logica narrativa ben conosciuta, ma con degli
elementi che destano attenzione, che la rendono ancora più esplicitamente
“interna” ad una forma narrativa che molto deve al cinema e ai suoi linguaggi.
Spieghiamoci meglio: così come è stato raccontato, il segmento di partita
assume immediatamente dei toni epico-drammatici (il rigore a partita ormai
conclusa, il goal segnato da uno dei calciatori più criticati, il senso di attesa
che il calcio di rigore porta con sé, ecc.). L’evento, insomma, contiene al suo
interno gli ingredienti necessari per la costruzione di una narrazione capace
di caricarsi di pathos e di suspense, capace cioè di evocare – attraverso le
immagini – forme e linguaggi che appartengono al cinema.
Tornando alla sequenza sopra descritta, si può notare che una delle inquadrature, infatti, ha una sua particolarità, spicca, per così dire, rispetto alle
altre. Si tratta ovviamente dell’inquadratura in dettaglio degli occhi di Totti
prima del calcio di rigore. Dettaglio raro da vedere, ma efficace. Efficace
perché quell’immagine, quello sguardo duro e deciso che per una frazione
di secondo si fissa sul portiere di fronte a lui, è un’immagine che evoca il
cinema, lo rimette in gioco, lo utilizza per la propria narrazione. Non solo
perché la terminologia utilizzata per descrivere l’intera sequenza proviene
in fondo dal cinema, ma anche, se non soprattutto, perché quell’inquadratura
appartiene ad un genere cinematografico, evoca un genere in un momento
preciso della sua storia. È un’inquadratura western, meglio ancora, un’inquadratura che appartiene ad una fase precisa del western, quella della modernità
eccedente se vogliamo chiamarla così, successiva alla fase del “surwestern”
È la famosa nota introduttiva al testo di Nicholas Mirzoeff: «In questo turbinio di immagini,
vedere è molto più che credere. Non è solo una parte della vita quotidiana è la vita quotidiana
stessa», Id., Introduzione alla cultura visuale, tr. it., Meltemi, Roma 2002, p. 27.
1
FATA MORGANA
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Daniele Dottorini
descritta da Bazin. L’esasperazione dei dettagli che, ingigantiti, raggiungono
un grado di astrazione fino a quel momento mai visto, è infatti uno degli
elementi tipici della rappresentazione estetica del western, tipica del cinema
da Leone in poi2. Il dettaglio dello sguardo fisso sull’avversario mostra, con
un’evidenza lampante, la dinamica del duello, o, meglio, la rappresentazione
del duello che diventa il principio organizzatore delle immagini e del loro
concatenarsi nella ripresa in diretta dell’evento sportivo. Il calcio di rigore
si traduce, o è interpretato dalla logica delle immagini, come se fosse un
duello, vale a dire uno dei topoi della narrazione del western, che proprio
in Leone raggiunge il suo climax. Il cinema è dunque il modello formale
dell’evento interno al flusso visuale, il principio organizzativo di ciò che è
lo spettacolo mediatizzato del calcio.
La forma cinematografica del visuale: Pep Guardiola e Ridley Scott
Roma, 27 maggio 2009. Allo stadio Olimpico si gioca la finale del torneo
Champions League della stagione 2008/2009. Alla finale giungono le due
squadre probabilmente migliori d’Europa, Barcellona e Manchester United.
L’atmosfera è carica di tensione, la posta in palio è alta (si tratta del più importante torneo per club del mondo). I due allenatori, Sir Alex Ferguson per
il Manchester e Pep Guardiola per il Barcellona lavorano non solo dal punto
di vista tattico e atletico, ma anche motivazionale. In particolare il secondo,
più giovane, al primo anno come allenatore del Barça, decide di utilizzare
una tecnica particolare per caricare i propri giocatori. Si è fatto preparare da
una televisione di Barcellona un video di montaggio che alterna le giocate e
i goal più belli dei giocatori del Barcellona durante il torneo di Champions
alle immagini de Il gladiatore (2000) di Ridley Scott. Il ritmo del montaggio,
il suo principio unitario è dato dalla colonna sonora, direttamente presa dal
soundtrack del film. Il montaggio alternato è qui usato nel suo significato
più evidente dal punto di vista retorico, vale a dire come messa in mostra
di un’analogia tra le immagini. L’epica scottiana del gladiatore si riverbera
nei corpi e nei gesti dei giocatori del Barcellona, nei goal di Eto’o o nei
2
Questa idea di messa in scena esasperata è ben evidenziata da Raffaele De Berti: «Il mondo
del western è [...] messo in scena come se si trattasse di una grande rappresentazione teatrale
Kabuki sul cui palcoscenico si sviluppano azioni e si muovono personaggi volutamente artificiosi, esagerati, che danzano con la morte e in cui spesso è difficile identificare, a differenza delle
antiche favole, chi sia fino in fondo il buono o il cattivo», Id., Il teatro del western tra parodia
e mitizzazione dei film di Sergio Leone, in Il cinema western da Griffith a Peckinpah, a cura di
T. D’Angela, Falsopiano, Alessandria 2004, p. 217.
106
FATA MORGANA
Occhi di calcio (e di cinema)
movimenti impossibili di Messi, nella forza di Pujol come nella velocità di
Xavi o Iniesta. I corpi-calcio si sovrappongono ai corpi-cinema. Il cinema li
trasforma in forme dell’Epos. Il montaggio è completo, il Barcellona vincerà
la finale 2 a 0 contro un quasi irriconoscibile Manchester United.
L’esempio del montaggio di Guardiola, come del dettaglio degli occhi
di Totti, ci porta dunque in un territorio dell’ibridazione, della sovrapposizione delle forme, in cui da una parte le immagini moltiplicano le proprie
occorrenze e, dall’altra non cessano di richiamarsi a vicenda, di associarsi
in un continuo rimontaggio. Ma attenzione: il montaggio non è casuale,
non è ludico spostamento di tutte le forme, al contrario. Nei due esempi che
abbiamo analizzato (che sono appunto “esemplari”, cioè rappresentativi di
una tendenza), il movimento è chiaro e costante: il cinema (le sue forme,
i suoi linguaggi, il suo immaginario) si pone come modello organizzativo
delle forme (di alcune forme) dell’orizzonte visuale che costituiscono la
nostra esperienza (mediatica e non).
In altre parole, il flusso visivo della contemporaneità si pone come esperienza visuale nel momento in cui entra in relazione con un soggetto che
organizza il flusso secondo un principio di strutturazione, che lo interpreta,
per riprendere i canoni stessi degli studi visuali3, a partire dalle relazioni
che si instaurano (culturali, psicologiche, storiche, ecc.) nei processi di
produzione e di circolazione delle immagini stesse.
Ora, ciò che emerge da quanto detto sinora è l’esistenza di un procedimento di organizzazione di alcuni eventi mediatici (la ripresa della partita)
secondo forme che appartengono alla narrazione del cinema, al concatenamento delle immagini in un montaggio che trasforma l’evento, lo reinterpreta
secondo dinamiche che affondano nel mito e nell’epos. Questa dinamica
non appartiene solo all’evento in diretta, ma di fatto caratterizza ogni “ripresa” dell’evento stesso, ogni rimontaggio, sintesi, clip, spot che nasce
dall’evento e che circola nei nuovi dispositivi di produzione e riproduzione
delle immagini, televisivi e non.
Ma cosa succede quando il dispositivo si rovescia? Quando, cioè, non è
il flusso delle immagini mediatiche ad impadronirsi delle forme cinematografiche, ma è il cinema stesso che ripensa le proprie forme a partire dall’in3
Ci si riferisce qui ai presupposti su cui si basa l’analisi della cultura visuale contemporanea,
vale a dire «un progetto interdisciplinare di analisi e critica dei linguaggi visivi che preferisce a
un approccio storicista classico una prospettiva antropologica attenta ai processi culturali in cui
qualsiasi tipo di immagine viene prodotta e interpretata, diffusa e trasformata. Le immagini non
vanno cioè studiate isolatamente, come oggetti circoscritti, bensì come insiemi di pratiche che
ne variano non solo l’uso ma anche il significato», C. Demaria, Cultura visuale, in M. Cometa,
Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, p. 152.
FATA MORGANA
107
Daniele Dottorini
contro con i corpi, i gesti e gli eventi di una partita di calcio? Non si tratta
qui di sintetizzare (secondo le inevitabili semplificazioni che accompagnano
ogni sintesi) una storia del rapporto tra cinema ed evento calcistico, quanto
di concentrarsi su alcuni esempi mirati, capaci di aprire ad una prospettiva
nuova lo studio delle forme cinematografiche e della loro evoluzione.
L’evento e il ritratto
Madrid, 23 aprile 2005: nello stadio Santiago Bernabeu, lo stadio del
Real Madrid, ha luogo una partita valevole per il campionato nazionale
spagnolo, la Liga, che vede fronteggiarsi la squadra di casa, il Real Madrid
e il Villareal, la squadra dell’omonima città della provincia di Castellón.
La partita non ha un’importanza capitale per il campionato, ma è sempre
una sfida importante tra due squadre importanti. L’evento è ovviamente
ripreso dalle televisioni spagnole e l’apparato di copertura mediatica della
partita risponde ai canoni del sistema dei media. Rispetto al consueto rituale
dello spettacolo c’è però un elemento in più. Sul campo sono disseminate
più di dieci macchine da presa che hanno come unico obiettivo quello di
riprendere, per tutta la durata del match, un unico giocatore, il numero 5,
Zinedine Zidane, il campione franco-algerino all’epoca di proprietà della
squadra più blasonata di Spagna. Il senso di questa operazione sta in un
film che da questo evento ha origine, un film diretto da Douglas Gordon
e Philippe Parreno, dal titolo Zidane, un ritratto del 21° secolo (2006). Il
film monta, in sequenza lineare, le immagini di Zizou in campo dal primo
all’ultimo minuto, catturandone le espressioni, i gesti, gli sguardi, il sudore,
i movimenti, i lunghi momenti senza palla, gli spostamenti. Il film, della
durata di 90 minuti (la durata di una partita di calcio) cattura dunque un frammento della partita stessa vista non più come evento collettivo. Lo sguardo
della macchina da presa ossessivamente puntato sul calciatore esclude di
fatto tutto il resto: i compagni di squadra o gli avversari, che appaiono solo
quando sono accanto al campione, l’arbitro, il pubblico, che emerge come
folla indistinta, quasi perennemente fuori fuoco, l’azione stessa, che spesso
si svolge lontano dal corpo di Zidane.
Tutti gli elementi che costituiscono l’epica cinematografica del calcio
sono qui assenti, o meglio rovesciati nel loro contrario. Il dispositivo cinematografico si riappropria dell’evento per costruire un’altra forma di
narrazione, che è quella del ritratto.
Un ritratto del 21° secolo è infatti il sottotitolo del film di Gordon e Parreno. Soffermiamoci allora per un attimo sul senso che la parola “ritratto”
assume in questo contesto. Riprendendo le riflessioni di Jean-Luc Nancy sul
108
FATA MORGANA
Occhi di calcio (e di cinema)
tema, il senso stesso del ritratto «non consiste semplicemente nel rivelare
un’identità o un “io”»4; certo, lo “svelamento” di un soggetto è il suo fine
ultimo, ma «lo “svelamento” di un “io” non può avere luogo se non mettendo in opera e in atto questa esposizione: allora dipingere o raffigurare non
significa più riprodurre e neanche rivelare, ma produrre l’esposto-soggetto.
Pro-durlo: condurlo davanti, trarlo al di fuori»5. È proprio a partire da questa prospettiva che si può affrontare un film come Zidane, evidenziarne la
peculiarità cinematografica che, appunto, permette di produrre un soggetto
esponendolo, traendolo al di fuori della maschera che lo mette in scena
mediaticamente. Il dispositivo narrativo che caratterizza la produzione delle
immagini calcistiche passa in secondo piano, a favore di un ritratto di un
soggetto che di quella messa in scena fa parte, ma che emerge dall’interno
dello spettacolo della partita. Il ritratto non mostra Zidane al di fuori dell’evento (gesto che caratterizza un altro tentativo di ritratto di un personaggio
calcistico, il Maradona di Emir Kusturica, 2008), ma riconfigura l’evento
intero, proprio a partire dal soggetto che emerge dal ritratto.
Il rovesciamento è completo. Il dispositivo cinematografico qui prende
l’iniziativa, rivelando, proprio perché assente, il contesto simbolico e culturale entro il quale le immagini calcistiche vengono fruite e, allo stesso
tempo, proponendo uno sguardo nuovo, inedito, puramente cinematografico.
Si potrebbe pensare che un film come Zidane ottiene questo risultato annullando la dimensione narrativa che caratterizza il principio organizzatore delle
immagini sportive in generale (e calcistiche in particolare). Ma si possono
portare esempi a supporto della tesi opposta.
Austria e Svizzera, 7 giugno-29 giugno 2008. Nelle due nazioni ha luogo
il campionato europeo di calcio 2008, vinto alla fine dalla Spagna. L’evento
gode ovviamente, come tutti gli eventi sportivi di questo tipo, di una massiccia copertura mediatica nelle televisioni di tutto il mondo. Durante la
manifestazione il regista Yves Hinant gira un film, non un film celebrativo
dell’evento, ma un progetto di documentario particolare, dal titolo Kill the
Referee (2009). Il progetto si basa sulla possibilità di costruire (come in
Zidane) una diversa linea narrativa a partire da un evento calcistico. Questa
volta l’obiettivo è quello di mostrare (dentro e fuori dal campo), i corpi e i
gesti di alcuni protagonisti dell’evento sportivo, protagonisti spesso nascosti,
o visibili solo in quanto detentori del potere di gestione disciplinare della
gara: gli arbitri. Il film segue alcune partite viste dalla parte degli arbitri,
puntando lo sguardo della macchina da presa – come nel film di Gordon e
4
5
J.-L. Nancy, Il ritratto e lo sguardo, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 14.
Ivi, pp. 14-15.
FATA MORGANA
109
Daniele Dottorini
Parreno – esclusivamente su di loro, permettendo allo spettatore di ascoltare i
loro dialoghi concitati attraverso l’interfono che mantiene in contatto la quaterna arbitrale. Oltre a questo livello ne esistono altri nel film. La macchina
da presa segue gli arbitri negli spogliatoi, durante le riunioni tecniche e la
disamina delle partite, segue le partite insieme ai parenti incollati di fronte
agli schermi o seduti sugli spalti dello stadio. Ne emerge una narrazione che
individua dei personaggi (tre arbitri in particolare, l’inglese Howard Webb,
lo spagnolo Mejuto Gonzalez e l’italiano Roberto Rosetti) e ne sviluppa i
caratteri, le ambizioni, i desideri (uno su tutti: dirigere la finale). Il documentario segue programmaticamente questa linea e racconta in parallelo le
tre storie, facendo di ogni gara il climax drammatico della narrazione. Alla
fine, solo uno dei tre arbitrerà la finale, gli altri saranno, da un certo punto
di vista e per motivi diversi, sconfitti.
A differenza di Zidane, qui non è l’idea di ritratto ad organizzare i materiali, quanto l’idea di racconto, di messa in scena (in questo caso equivalente
alla messa in scena mediatica della partita); ma si tratta di un’idea altra di
racconto. Si tratta, cioè, di costruire altri personaggi, altre storie a partire
da eventi che sono già strutturati in modo tale da costruire – secondo le
dinamiche che abbiamo messo in evidenza sopra – storie narrabili mediaticamente. Non messa in questione della narrazione, dunque, ma ricerca di
un’altra narrazione possibile.
Due esempi, due percorsi. In entrambi i film, a prescindere dalla radicalità della proposta cinematografica di ognuno, vibra un’esigenza comune.
Quella di ripensare la forma-cinema non semplicemente come serbatoio
inesauribile di luoghi e strumenti attraverso i quali organizzare il flusso delle
immagini nell’orizzonte visuale della contemporaneità, ma come forma ancora aperta, in grado di ripensare criticamente le immagini contemporanee
senza necessariamente subirne il potere di diffusione. In questo senso, la
ricerca contemporanea potrebbe orientare il suo sguardo anche seguendo
questa seconda prospettiva, quella cioè di un cinema che accetta la sfida
della contemporaneità. La sfida cioè di un cinema che non si dissolve solo
nei flussi dell’iconosfera attuale, ma si pone ancora come dispositivo in
grado di attraversarla, di ripensarla criticamente.
110
FATA MORGANA
Figura o immagine?
Il soggetto prende posizione
Alessia Tomaino
Ciò che determina, da un punto di vista concettuale, il problematico
rapporto tra visivo e visuale è di fatto il ruolo, o meglio ancora, la posizione
del soggetto. Ed è proprio da qui che si può partire. Emilio Garroni, nel
suo libro Immagine Linguaggio Figura conclude il paragrafo dedicato alla
somiglianza e alla dissomiglianza tra immagine e figura con queste parole:
«Se dovessimo citare un caso di quasi felice avvicinamento della figura
visiva alla mobilità stabilità dell’immagine ci riferiremmo probabilmente
al cubismo»1.
L’intento di Garroni è mostrare come la nostra percezione proceda per
immagini; immagini la cui principale caratteristica è – contrariamente a
quanto si può dire delle figure – l’essere determinatamente indeterminate.
In tale prospettiva ciò che viene naturale chiedersi è: in che modo quindi
possiamo definire le figure? E soprattutto, è possibile riprodurre un’immagine, cioè oggettivarla, dargli dei confini ben precisi, senza cambiarne lo
statuto?
Dopo aver analizzato alcune figure Garroni conclude nettamente che,
seppure esse abbiano come matrice le cosiddette immagini interne, e cioè
derivino direttamente dai complessi percettivi, nessuna riesce in alcun
modo a riprodurne la loro complessità. In altre parole, la figura resta sempre un gradino più in basso rispetto all’immagine poiché è una riduzione
della stessa, è il frutto di una scelta2, ciò che resta di una cernita, e quindi,
implica necessariamente la rinuncia a qualcosa. «Se è possibile considerare
l’immagine come il risultato del concorso di tutti i sensi, non si può fare
E. Garroni, Immagine Linguaggio Figura, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 93.
In realtà anche l’immagine stessa è frutto di una “cernita” dovuta però alla stessa anatomia
del nostro apparato visivo. I dati ottico-retinici, infatti, non possono essere considerati perfetti
altrimenti ci troveremmo congelati al modo di cose tra le cose (Cfr. ivi, p. 21).
1
2
FATA MORGANA
111
Alessia Tomaino
altrettanto con la figura. Questa è infatti una riduzione dell’immagine sia
perché la seleziona ulteriormente, sia perché deve scegliere un campo del
sensibile dove operare, visivo o diverso dal visivo»3.
Torniamo alla frase da cui siamo partiti. Un quadro cubista dovrebbe, in
un certo senso, riuscire a riproporre la dinamicità-stabilità della percezione visiva in virtù del fatto che «restituisce in figura l’immagine vista per
scorci e aspetti diversi sovrapposti l’uno all’altro e ricondotti a una unità
plurima»4.
Lo stesso non vale per la fotografia, dice Garroni, né per il cinema. Per
quanto infatti si possa parlare di tentativi di imitazione del processo percettivo – prendiamo il caso delle realtà virtuali, della macchina da presa portata
a mano, delle tecniche di montaggio – nulla riesce veramente a riproporre
quell’avvicendarsi di confusione e nettezza, di ricchezza e sintesi proprio
delle immagini visive. Le figure, infatti, implicano, intrinsecamente una
prospettiva ben definita, un punto di vista, un confine del visibile, implicano
in altre parole, un fissare lo sguardo, cosa che secondo Garroni è alquanto
paradossale:
Quando crediamo di fissare qualcosa il movimento delle pupille
è, anche se minimo, continuo. […] il fissare è piuttosto uno spostare
lo sguardo via via da un punto all’altro […] costruendo al tempo
stesso l’immagine internamente dinamica dell’oggetto, o di parte
dell’oggetto, attraverso tutti i punti via via perlustrati […]. La flagranza dell’oggetto percepito è dunque un’unità di avvertimento e
di dimenticanza5.
Venendo al punto: la differenza fondamentale tra figura e immagine
sta nella nozione di produttività immaginativa. Un’immagine nella sua
mobilità-stabilità, nel suo eclissarsi-riemergere di tratti, è una totalità non
afferrabile come tale; c’è sempre qualcos’altro da “vedere” e da interpretare;
in essa non è mai tutto presente, al contrario, il visto cela sempre (e si fonda
necessariamente) su un non-visto. Il percetto richiede dunque un continuo
rimando ad un non-percepito-costitutivo e paradossalmente sempre pronto
a cambiare statuto e a risalire alla luce mandando in ombra qualcos’altro. È
proprio questo movimento tra attuale e potenziale, tra presente e non presente
che fa dell’immagine un’unità incompletamente-completa e quindi sempre
Ivi, p. 77.
Ivi, p. 93.
5
Ivi, p. 24.
3
4
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FATA MORGANA
Figura o immagine? Il soggetto prende posizione
sottoponibile a ulteriori processi di significazione. Di fronte ad un’immagine
il soggetto prende posizione, di fronte ad una figura no. Quest’ultima infatti,
essendo già il risultato di una presa di posizione, il ritaglio di uno spicchio
di realtà, non richiede nell’accoglimento uno sforzo di adeguazione, basta
metabolizzarla nella sua interezza, inglobarla nella sua finitezza.
Nel suo ultimo libro Quand les images prennent position Georges DidiHuberman ci mostra come il visibile (in termini garroniani parleremmo di
immagine interna) è straordinariamente reso dai montaggi icono-poetici di
Bertolt Brecht6. In Diario di lavoro e in L’Abicì della guerra, il drammaturgo
tedesco riesce attraverso la giustapposizione di fotografie ed epigrammi (in
un continuo déconstruire puis remonter di fotogrammi e liriche) a rendere
il procedere dell’atto percettivo7. Didi-Huberman ci ricorda, non a caso,
come Brecht amava paragonare la sua tecnica al démantellement des formes
utilizzato da Picasso nella realizzazione di Guernica.
Come abbiamo visto in Garroni, la tecnica cubista è forse quella che
meglio rende il procedere della percezione. Attraverso la decomposizionecomposta di frammenti che restituiscono un’unità, il cubismo (e vedremo le
immagini brechtiane) “figurativizza” paradossalmente un processo. Questo
implica che non ci troviamo di fronte alla fissità di una fotografia bensì alla
ricchezza produttiva di un’immagine che richiede, come le è proprio, la
nostra continua interpretazione. Il nostro compito – paradossalmente non
esplicito bensì naturale – è di prendere continuamente posizione rispetto ad
essa in un processo che in maniera costitutiva non conosce confini temporali
o spaziali e dunque si fa motore di ulteriori modificazioni e creazioni.
Didi-Huberman, citando Correspondance e Che cos’è il teatro epico?
di Benjamin e riprendendo la sua critica a Brecht, scrive che quello che
possiamo vedere nelle sue opere non è un riproporre uno stato di cose ma
un prendere posizione8. In Benjamin troviamo infatti che: «Le paradoxe de
toutes prise de position […] sera donc que son efficacité ne réside pas dans
un communication de contenus […] au contraire, dans un retour à son propre
cristal intérieur, qui désigne la part non-médiatisable»9 e ancora, stavolta
6
Cfr. G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position, Les Éditions de Minuit,
Paris 2009.
7
Cfr. B. Brecht, Diario di lavoro, tr. it., Einaudi, Torino 1976; Id., L’Abicì della guerra, tr.
it., Einaudi, Torino 2002.
8
Cfr. W. Benjamin, Lettere, 1913-1940, tr. it., Einaudi, Torino 1978; W. Benjamin, Che
cos’è il teatro epico?, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it.,
Einaudi, Torino 1966.
9
G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position, cit., p. 250.
FATA MORGANA
113
Alessia Tomaino
parlando del teatro epico: «sa forme foncière est celle du choc, par lequel des
situations particulières de la pièce, bien détachées les unes des autres, vont
se heurtes les unes aux autres. Ainsi se créent des intervalles qui entravent
plutôt et sont réservés à sa prise de position critique»10.
La presa di posizione critica, dice Didi-Huberman, è proprio ciò che
caratterizza l’euristica brechtiana dell’esposizione storica ed è definibile in
termini di un prendre conneissance. Ciò che Brecht fa e di conseguenza,
ciò che lo spettatore è portato a fare11, non è un processo di passività memoriale rispetto ad un particolare periodo storico, ma un vero e proprio atto
di conoscenza che potremmo definire politico.
Didi-Huberman ci dice che l’atteggiamento assunto da Brecht nei confronti della guerra – reso possibile dal montaggio (di immagini con altre
immagini e di immagini ed epigrammi) e dalla ricomposizione formale
di una importante massa documentaria – rappresenta «un’incomparabile
iniziazione alla visione complessa della storia»12.
Ecco il punto cruciale: ciò che viene interrogata nell’Abicì illustrato è la
«notre propre capacité à savoir voir»13.
Garroni insiste proprio su questo. L’opera d’arte cattura la nostra percezione al punto da mostrarne lo stesso suo funzionamento. Quello che sempre
accade nel nostro muoverci tra le cose viene, con la forza dell’evidenza,
riportato in superficie e mostrato in tutta la sua nudità. In questo processo
di resa trasparente del meccanismo del vedere, ciò che viene interrogata è
la nostra stessa capacità di vedere, il nostro stesso stare nelle cose, tra le
cose.
L’immagine, in quest’ottica, si fa quindi centro di un evento, motore di
un atto attraverso cui il visivo stesso si rende visibile e non viene, come
dice Garroni, traguardato e cioè scambiato come merce per qualcosa d’altro. Siamo di fronte a ciò che con le parole di Badiou potremmo chiamare
l’atto archi-esthétique: un atto che attraverso l’operazione di un soggetto
(che nell’operazione stessa si individua come tale, si emancipa ad interprete
attivo della realtà) dalla zona liminare nella quale si trova14 cerca di mettere
in parole (di dire ad esempio attraverso la pratica poetica) ciò che da sempre
Ivi, p. 64.
È importante sottolineare il verbo “fare” in quanto si tratta di un vero e proprio atto di
creazione-costruzione di un reale.
12
Ivi, p. 36.
13
Ivi, p. 37.
14
Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosphicus, tr. it., Einaudi, Torino 1964.
10
11
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FATA MORGANA
Figura o immagine? Il soggetto prende posizione
resta celato: «l’acte est donc bien archi-esthétique, en tant que déposition
silencieuse du sens dans et par le dire, mais au-delà du dit»15.
Al di là del detto stesso, appunto, proprio perché, pur dovendo passare
per quello che Garroni chiamerebbe il significato (per una materialità, potremmo dire semplificando) il senso in ogni caso eccede, non è ingabbiabile
in una griglia predeterminata.
Questo processo di deposizione silenziosa del senso, che per Badiou
passa ad esempio attraverso la scrittura (pur andando al di là di essa in
quanto tale), coincide con il medesimo processo descritto da Garroni e da
Didi-Huberman: attraverso i prodotti dell’arte o attraverso le fotografie
giustapposte ad epigrammi il senso si mostra e il soggetto, in questo mostrarsi, assume una posizione proprio perché esposto non a figure statiche,
bensì a immagini che richiedono un atto, un’interpretazione, una presa di
posizione appunto.
Un’immagine quindi, è una figura emancipata, una figura che assume
uno statuto diverso, nuovo, che si fa potenza di senso. Jacques Rancière la
definisce l’image pensive considerandone la tensione tra molteplici modi
di rappresentazione concentrati in un’unità-multipla la principale caratteristica.
È nel corto circuito tra pensiero, arte, azione e immagini, nell’interazione
tra più livelli e forme di indeterminazione che avviene quello che Rancière
definisce il «passage d’un régime represéntatif de l’expression à un regime
esthétique»16. Se la figura, nella sua accezione classica, rimanda infatti ad
un’operazione nella quale un’espressione si mette semplicemente al posto
di un’altra, l’immagine «est le produit de ce nouveau statut de la figure qui
conjoint sans les homogénéiser deux regime d’expression»17.
Un’immagine, quindi, è pensive se mette in atto questo gioco di scambi
e accostamenti tra diversi regimi del sensibile; gioco che consente allo spettatore di collocarsi in uno spazio di apertura-indeterminazione all’interno
del quale la singola opera percepita si fa sfondo di ulteriori e sempre nuove
significazioni e cioè strumento di destrutturazione dell’esperienza sensibile,
enunciazione che riconfigura i quadri sensoriali stessi18.
A. Badiou, L’antiphilosophie de Wittgenstein, Nous, Paris 2009, p. 84.
J. Rancière, Le spectateur émancipé, Éditions La Fabrique, Paris 2008, p. 128.
17
Ivi, p. 130.
18
Occorre sottolineare come Rancière si avvale di questi strumenti concettuali per porre
l’accento sull’efficacia politica delle esperienze estetiche. Quest’ultime, infatti, delineandosi
come mezzi attraverso cui avviene l’emancipazione del dissenso, consentono quel conflitto tra
diversi regimi sensoriali e quindi la riconfigurazione del rapporto tra il reale e l’apparente, tra il
visibile e il suo significato, tra presente e passato.
15
16
FATA MORGANA
115
Alessia Tomaino
Nel 1965 al fotografo Alexander Gardner è consentito fare un ritratto di
Lewis Payne, condannato a morte per aver assassinato il segretario di Stato
americano. Nella fotografia del giovane ammanettato, Roland Barthes vede
l’immagine della morte. Questa osservazione non rappresenta che un corto
circuito tra il visivo dell’immagine – un giovane uomo dall’aspetto un po’
indifferente che fissa qualcosa che noi non vediamo – le connotazioni storiche suggeriteci dal titolo stesso della foto – che rimandano direttamente
all’identità storico-sociale dell’uomo immortalato – e il nostro sguardo
soggettivo, che in un melange di forme-funzioni indeterminate giunge a
vedervi l’emblema della morte.
Nella prospettiva finora delineata, pertanto, ciò che sembra giocare un
ruolo fondamentale è proprio questo intrecciarsi di parola, pensiero e sensorialità. Tutto ciò consente ad un’opera di elevarsi allo statuto di immagine
e quindi di farsi carico di un’operazione estetico-politica di apertura e di
riconfigurazione del sensibile nonché di messa a tema, attraverso un modello
emblematico, del senso stesso della percezione.
Per Garroni quello che potremmo chiamare il riproporsi del meccanismo stesso dello stare tra le cose, presuppone un ruolo forte dell’attività
linguistica:
Se l’immagine interna è così poco afferrabile nella sua completa determinatezza, tale ambiguità in quanto unita a un qualche
linguaggio, non è affatto un difetto, ma è piuttosto il dischiudersi
di una indefinita proliferazione di possibilità operative, semantiche,
concettuali, conoscitive. […] A questo tende la nostra immagine del
mondo: a trasformarsi via via, attraverso il linguaggio, in significati
determinati e, in quanto determinati, anche liminarmente indeterminati (ciò che appunto è stata chiamata “indeterminatezza semantica”,
di cui la percezione è un’esibizione primaria)19.
Il ruolo del linguaggio è dunque liminare e costitutivo. Liminare perché
in effetti non stiamo sempre lì a chiederci cosa vediamo o a dover esplicitare
la nostra azione percettiva, semplicemente vediamo e questo ci basta per
muoverci tra gli oggetti, per schivare gli ostacoli, per aprire una porta, per
bere una tazza di caffè. Nonostante ciò il suo ruolo è costitutivo perché,
laddove non ci limitiamo a vedere ma ci interroghiamo sul vedere stesso, il
linguaggio diventa l’unica fonte di risposta. Non a caso Garroni si avvale
della poesia e più in generale dell’esperienza estetica, per mostrare come
19
116
E. Garroni, Immagine Linguaggio Figura, cit., p. 51.
FATA MORGANA
Figura o immagine? Il soggetto prende posizione
è attraverso di esse che possiamo cogliere coscientemente quel fiorire,
svariare, eclissarsi e riemergere di tratti immaginativi tipico dell’immagine
interna. In altre parole, l’arte (il linguaggio) ci mette al corrente di ciò che
sempre accade nella percezione e che noi non cogliamo perché catturati
dall’utilizzabilità pratica delle cose20.
Come abbiamo già visto parlando del ritratto di Lewis Payne, così anche
Brecht nei suoi foto-epigrammi ci mostra il senso stesso del percepire. A tal
proposito è illuminante ciò che Didi-Huberman scrive: «[…] l’acte de parler
pour ne rien dire mais aussi celui d’avoir le courage de nommer. […] Ce
courage est celui d’affronter le réel dans sa dimension d’image […] et c’est
ainsi qui les poètes, non pas recontent, mais remontent l’histoire»21.
Nella planche n.59 non vediamo solo una madre arresa che scopre il
cadavere dei suoi figli, la lirica sottostante ci dice infatti che la pietà è
menzognera se non si trasforma in rossa collera strappata dalla carne dell’umanità22. Ciò che cogliamo, dice Didi-Huberman, è un pathos che per
farsi azione politica si trasforma in ethos23. Non siamo di fronte ad una
semplice immagine di guerra (ad una figura direbbe Garroni), quello che
percepiamo è certamente un documento storico, ma non solo. Anche nel
caso della planche n. 47 – “soldato americano guarda il cadavere del soldato
giapponese che ha appena ucciso” – la fotografia documenta certamente
un momento della seconda guerra mondiale ma allo stesso tempo il poema
che l’accompagna ci invita a distanziarci da esso in quanto documento e a
interpretarlo in modo più ampio, in un certo senso, a lasciare aperto il nostro
sguardo per consentire ulteriori significazioni e riattualizzazioni.
In queste operazioni di montaggio che Rancière definisce anche «jeu
d’échanges entre les pouvoirs de médiums différentes»24, il visuale – suscitato dal titolo dell’opera (nel caso della foto di Payne) o dagli epigrammi
giustapposti a fotografie di guerra (nel caso delle planches di Brecht), o
ancora, dall’echaînement de micro-événements sensibiles (nel caso dei
frammenti di oggetto delle composizioni cubiste) – si fa portatore di quel
processo di individuazione del soggetto di cui ci parla Didi-Huberman e di
quell’operazione di emancipazione di cui ci parla lo stesso Rancière:
L’émancipation, elle, commence quand on remet en question
Ivi, p. 99.
G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position, cit., p. 174.
22
Cfr. B. Brecht, L’Abicì della guerra, cit.
23
Cfr. G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position, cit., p. 166.
24
J. Rancière, Le spectateur émancipé, cit., p. 133.
20
21
FATA MORGANA
117
Alessia Tomaino
l’opposition entre regarder et agir […] quand on comprend que regarder est aussi une action. […] Le spectateur observe, sélectionne,
compare, interprète. Il lie ce qu’il voit à bien d’autres choses qu’il a
vues […] en d’autres sortes de lieux25.
È un po’ come stare di fronte a L’enigme sans fin (1938) di Salvador
Dalì: il titolo dell’opera incita lo spettatore a “perdersi” nelle infinite
facce del percetto; lo spettatore è come posseduto dall’opera d’arte, dice
Garroni, e in quella posizione di “distanza-ravvicinata” che lo lega a quei
colori costruisce in un farsi e rifarsi di immagini la non-storia che gli viene
vorticosamente raccontata. Egli partecipa a quell’energia vitale facendosi
interprete attivo, rielabora la propria percezione per appropriarsene, in
quell’aura di coinvolgimento che è proprio ciò a cui ci siamo interessati;
quel coinvolgimento che è sempre in atto nella percezione delle cose e il
cui senso sale sorprendentemente all’evidenza soltanto in certi momenti,
quando il soggetto prendendo posizione si rende tale, e l’arte, nella sua
liminarità esperienziale, ce lo mostra.
Quanto il cinema possa rientrare in questo processo di trasformazioneemancipazione delle figure in immagini resta ancora da chiarire; certo è che
vi rientrano tutte quelle arti che interrogano la capacità stessa dell’essere
umano di farsi soggetto, danno voce ad una crisi dell’universo del sensibile
determinando l’intervento dello spettatore ed emancipandolo ad interprete
attivo, aprono orizzonti nuovi del possibile e fondano scenari nei quali
giocare nuove mosse politiche: «E non si dà anche il caso in cui giochiamo
e – “make up the rules as we go along”? E anche il caso in cui le modifichiamo – as we go along»26.
Cosa significa allora per un’opera farsi fulcro di congiunzione tra piano
dell’estetica e piano della politica e cioè consentire la presa di posizione del
soggetto? Elevarsi a motore dell’azione creando nuovi giochi linguistici,
nuove regole d’azione che rimodellino le forme di vita pur in quella naturale
condivisione dello sfondo sensibile proprio della nostra specie.
25
26
118
Ivi, p. 19.
L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, tr. it., Einaudi, Torino 1967, p. 56.
FATA MORGANA
Il visibile e il visuale
Paolo Godani
Il termine “visuale”, utilizzato come sostantivo maschile, connota ormai
un intero ambito di pratiche, non solo artistiche, che hanno a che fare con
la produzione di immagini. “Il visuale” è sostantivazione dell’aggettivo
“visuale”: che ha a che fare con la vista. “Visuale” deriva dal latino visus,
cioè appunto “vista”, da cui chiaramente proviene anche la parola “visibile”, essa stessa passibile di una sostantivazione che dà “il visibile”. Il
visuale e il visibile, che possono apparire a tutta prima sinonimi, in ragione
della loro identica derivazione, in realtà divergono in maniera piuttosto
netta quanto al loro significato. “Visibile” significa infatti “ciò che si può
vedere”, laddove “visuale” significa “della vista” (che concerne la vista).
La sostantivazione femminile del secondo termine conferma il riferimento
soggettivo (una “visuale” è una veduta, con accento significante posto sul
soggetto che vede), mentre il verbo “visualizzare” mette in luce il rendere
visibile qualcosa che, per sua essenza, visibile non è.
Potremmo dunque stabilire d’intendere con il termine “visibile” l’insieme
di ciò che si vede, ovvero il mondo così come appare innanzitutto e per lo
più, e con la parola “visuale” l’insieme delle pratiche e delle tecniche volte
a rendere visibile qualcosa di altrimenti invisibile. In tal caso, rientrerebbe
nelle pratiche visuali propriamente dette anche, per esempio, il lavoro dei
radiografi. Non si tratta di una pratica artistica, e tuttavia può far pensare
che un grande pittore come Francis Bacon potesse prediligere le radiografie
rispetto alle fotografie. Per precisare il senso che vorremmo dare alla parola
“visuale”, in modo da riuscire a rendere ragione, fra l’altro, della differenza
tra una radiografia e un’opera d’arte, è utile soffermarsi sullo statuto di quel
non-visibile che il visuale avrebbe appunto il compito di visualizzare. Lo
scheletro di un corpo vivo, così come viene reso visibile dai raggi X, è e
resterà per sempre invisibile all’occhio umano, benché difficilmente la sua
veduta possa ormai darci qualche emozione (a meno forse di essere grandi
pittori). Una radiografia non ci provoca alcuno stupore, tantomeno l’estasi
FATA MORGANA
119
Paolo Godani
che può nascere dalla veduta di un’opera d’arte, forse perché essa, in quanto
un oggetto riproducibile e sempre identico a se stesso, è ormai entrata a far
parte dell’orizzonte abituale del visibile.
Si potrà obiettare che anche un’opera d’arte è riproducibile e che la fotografia e il cinema lo sono per loro stessa essenza. Ma ciò che è riproducibile
è sempre e solo l’opera in carne e ossa, non l’atto che l’ha prodotta. Ciò che
è riproducibile è la copia della radiografia, non la radiografia stessa. Solo
che, mentre anche una radiografia originale può essere sempre realizzata, a
condizione di possedere i mezzi tecnici adeguati, un’opera d’arte – com’è
noto – è cosa rara, per la quale la tecnica è necessaria, ma non sufficiente,
precisamente perché – ecco la nostra ipotesi – il suo oggetto non è dell’ordine del visibile. Il che si potrebbe dire anche così: i mezzi necessari alla
realizzazione di un’opera d’arte, le condizioni per rendere visibile, per
visualizzare o per produrre del visuale, non sono i pennelli o le macchine
da presa, bensì il cervello; e il suo oggetto, ciò che il cervello può visualizzare, non è della natura del visibile. Si precisa, così dicendo, lo statuto
del non-visibile: non qualcosa che, pur non essendo ancora visibile è atto a
diventarlo (come è il caso dello scheletro di un corpo vivo), bensì qualcosa
che è essenzialmente eterogeneo rispetto all’ambito del visibile. L’oggetto
intenzionale di un’opera d’arte visuale, ciò che essa prende di mira, implica il lavoro di un cervello perché, in ultima istanza, non è dell’ordine del
visibile, bensì dell’ordine del pensiero. In questo senso si dirà che esso non
potrà mai diventare visibile. Delle radiografie, come delle foto-tessera che
attraevano e respingevano Bacon, si può dire «sono loro ad essere viste, e
in fin dei conti non si vede altro»1. Esse sono parte integrante del visibile.
L’altro a cui accenna Bacon, il supplemento di non-visibile che manca al
visibile, è l’elemento mancante anche delle immagini televisive2. La TV è
in qualche modo il visibile allo stato puro, anche quando ci mostra ciò che
non potremmo mai vedere, la Terra vista da un satellite, il fondo degli abissi
o i raggi verdi di un bombardamento.
Avendo distinto in maniera così netta il visibile, che ha a che fare con
la percezione oggettiva, e il visuale che sta in una qualche relazione con il
pensiero, si pongono due problemi. Innanzitutto quello di spiegare il senso
della relazione che anche il visuale intrattiene con la vista; secondariamente,
quello di comprendere che genere di relazione sia quella che lega il visuale
e il pensiero.
1
Cfr. F. Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, tr. it., Edizioni
Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991, pp. 31 sgg.
2
Cfr. G. Deleuze, Pourparler, tr. it., Quodlibet, Macerata 2000, pp. 102-104.
120
FATA MORGANA
Il visibile e il visuale
È innegabile che un’opera pittorica o un film debbano essere visti, proprio in quanto sono essi stessi delle vedute, solo che – abbiamo detto – ciò
che si vede in un’opera visuale non è della natura del visibile, bensì del
pensabile. Potremmo cavarcela chiamando in causa gli occhi dello spirito,
dicendo che ciò che vedo in un’opera d’arte non lo vedo realmente, bensì
solo nell’immaginario o nel pensiero. Ma non si tratterebbe di una soluzione, quanto di un aggiramento del problema. Quando diciamo di “vedere”
l’oggetto dell’opera d’arte, utilizzeremmo semplicemente una metafora, per
intendere che quell’oggetto lo immaginiamo o lo pensiamo.
Un problema di questo genere lo troviamo formulato, per esempio,
nell’Immaginario di Jean-Paul Sartre. Il pittore – suggerisce il filosofo
– non realizza ciò che ha in mente, non mette in opera la sua «immagine
mentale», ma costruisce «un analogon materiale tale che tutti possono
afferrare quell’immagine rifacendosi soltanto all’analogon». Quest’ultimo
consiste di «un insieme di toni reali che consentono a quell’irreale – cioè
appunto all’immagine mentale – di manifestarsi»3. Lo scopo di Sartre, nel
dire questo, è mostrare come l’immagine mentale dell’artista, per quanto
si dia a vedere in un dipinto in carne e ossa, non cambi affatto la propria
natura di mera immagine, come cioè essa non si incarni in un ente reale (il
dipinto), ma resti ciò che è: un oggetto dalla natura perfettamente immaginaria. L’analogon materiale dell’immagine mentale si limita a rimandare
a quest’ultima. Dicendo questo, Sartre deve distinguere in verità non due
elementi (l’immagine mentale e il suo analogon reale), ma tre: l’immagine
mentale dell’artista, il dipinto come oggetto reale (costituito dalla tela, dai
colori ecc.) e l’oggetto intenzionale di una coscienza immaginativa ed estetica4. L’oggetto intenzionale estetico, ovvero ciò che guardiamo nel dipinto
quando diciamo ad esempio che esso è “commovente” o anche semplicemente “bello”, si distingue sia dal dipinto che si trova in carne e ossa davanti
ai nostri occhi, sia dall’immagine mentale dell’artista. Il fatto è che, dopo
aver distinto questi tre elementi, Sartre ritiene possibile identificare i due che
hanno in comune una natura immaginaria o irreale: l’immagine mentale e
l’immagine come oggetto di un’intenzione estetica. Quando ci atteggiamo
esteticamente (cioè quando osserviamo un quadro disinteressandoci alla sua
esistenza fisica e mirando invece all’oggetto immaginario che su di esso è
J.-P. Sartre, L’immaginario, tr. it., Einaudi, Torino 2007, p. 283.
In realtà sarebbe necessario distinguere un quarto oggetto: il referente reale e oggettivo del
quadro (quando si tratta di pittura “figurativa”), cioè ad esempio la montagna Sainte-Victoire
che si trova in Provenza. Ma per ora sorvoliamo su questo.
3
4
FATA MORGANA
121
Paolo Godani
rappresentato), ciò a cui miriamo è l’immagine mentale del pittore identica
all’oggetto intenzionale del giudizio estetico.
Nel discorso di Sartre non è semplice comprendere in che modo l’analogon materiale e reale possa rimandare ad un oggetto immaginario (sia
esso l’immagine mentale o l’oggetto intenzionale estetico). Riguardo a tale
questione, Sartre pare risolverla in maniera affatto tradizionale, ponendo
una differenza ontologica, ma non concettuale, tra oggetto materiale e
immagine: gli elementi caratteristici, ovvero la struttura concettuale, dell’immagine e del suo analogon sono affatto identici; ciò che li distingue
è semplicemente l’intenzione o l’attribuzione d’essere, cioè il fatto che
l’analogon è reale, mentre l’immagine mentale e l’oggetto intenzionale
estetico sono irreali o immaginari. La loro differenza, in sostanza, concerne
la sola esistenza, ovvero (potremmo dire con Kant) non un predicato reale
della cosa.
Per Sartre, il problema della relazione tra la vista e l’oggetto di un’opera d’arte è facilmente risolto in quanto, in fondo, l’oggetto immaginario è
supposto strutturalmente identico all’oggetto reale, e differente solo per
l’intenzione, realizzante o immaginante, che ad esso è rivolta. Potremmo
dire, per riprendere i termini del nostro discorso, che l’immagine artistica, in
Sartre, rientra pienamente nell’ambito del visibile, essendo concettualmente
omogenea alle immagini che ci fornisce la percezione. Per noi, invece, che
abbiamo stabilito una differenza di natura strutturale tra il visibile e l’oggetto estetico, il problema è più arduo. Si tratta di comprendere che cosa
significhi e come sia possibile che un oggetto eterogeneo rispetto al visibile
si manifesti alla vista, in un’opera visuale, e perché possiamo continuare a
dire che quell’oggetto eterogeneo si dia, in effetti, alla vista.
Per tentare di elaborare questo problema, continueremo a seguire l’ipotesi
dell’opposizione tra visuale e visibile. Quest’ultimo – abbiamo detto – consiste in una mancanza di supplemento, ovvero in un’assenza di pensiero.
Ciò che appare nell’ambito del visibile non è altro che del visibile: in fin dei
conti non si vede altro – come dice Bacon. Prendiamo un esempio celebre.
Roland Barthes, in La camera chiara, descrive lungamente una foto della
madre, immortalata in un giardino d’inverno, e, a partire dalla riflessione
su quella fotografia, costruisce il suo percorso fenomenologico alla ricerca
del “noema” della fotografia in generale. Tra le numerose fotografie che
punteggiano il testo, quella foto non compare. La ragione di quest’assenza,
l’Autore la enuncia con estrema chiarezza, benché tra parentesi:
Io non posso mostrare la Foto del Giardino d’Inverno. Essa non
esiste che per me. Per voi non sarebbe che una foto indifferente, una
delle mille manifestazioni del “qualunque”; essa non può affatto
122
FATA MORGANA
Il visibile e il visuale
costituire l’oggetto visibile di una scienza; non può fondare un’oggettività, nel senso positivo del termine»5.
Se è giusto che quella fotografia non venga mostrata, è perché la sua
importanza le viene da fuori, il suo senso non le è intrinseco, bensì proiettato dall’affettività e dalla memoria di un osservatore. Noi, in quella foto,
non vedremmo altro, in effetti, che una signora qualunque immortalata in
un giardino, d’inverno. In sé, la foto del giardino d’inverno non è altro che
del visibile. Secondo la nostra ipotesi, quella foto sarebbe entrata di diritto
tra gli oggetti visuali, piuttosto che semplicemente visibili, solo nel caso
in cui avesse mostrato (non semplicemente richiesto), a chiunque vi fosse
incorso, un supplemento di pensiero. Diciamo “mostrato” e non “richiesto”, perché il pensiero, in quanto eterogeneo all’immagine, deve esserle
tuttavia immanente, non proiettato su di essa dall’esterno (come nel caso di
un osservatore affettivamente implicato). Senza voler affatto far sfoggio di
cinismo, diremo che la foto del giardino d’inverno è della stessa natura delle
immagini televisive, salvo che a queste ultime raramente ci si preoccupa
di donare un senso. Per quanto la TV si sforzi di inoculare il germe della
tristezza, la nostra reazione di fronte ad essa è di solito piuttosto indifferente.
Questo, chiaramente, non accade per colpa del medium, bensì in ragione
dell’immagine unidimensionale che esso diffonde, ovvero dell’assenza, in
essa, di qualunque barlume di pensiero. Non è forse necessario sottolineare
come sia precisamente questa natura dell’immagine a fare della televisione
«il consenso per eccellenza»6. Il fatto è che l’assenza di pensiero è provocata dalla perfezione dell’immagine, cioè dal fatto che l’immagine mostra
esattamente ed esclusivamente il suo oggetto visibile. L’immagine televisiva
è refrattaria al pensiero non in quanto manchi di qualcosa, come avevamo
supposto, bensì in quanto è interamente e perfettamente visibile. Allora,
l’operazione che è necessario compiere affinché un po’ di pensiero, come
un soffio d’aria pura, passi nell’immagine ci sembra sia quella di bucare
il visibile.
In questo modo saranno forse anche risolti i problemi che si ponevano
in precedenza: quello della relazione tra il visuale e la vista, e quello del
rapporto tra l’immagine e il pensiero. L’immagine non realizzerà miracolosamente il pensiero, ma si limiterà a presentare in se stessa dei luoghi
d’assenza di visibile nei quali il pensiero potrà sussistere. Ciò che si vede
effettivamente e letteralmente in un oggetto visuale è un’incrinatura del visi5
6
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotrografia, tr. it., Einaudi, Torino 2003, p. 75.
G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 103.
FATA MORGANA
123
Paolo Godani
bile, uno scarto rispetto al visibile. La relazione del visuale con la vista non
consiste, in effetti, nel fatto che l’opera renda visibile qualcosa di invisibile,
bensì nel fatto che l’opera produce un’immagine inassimilabile al visibile,
un’immagine incapace di entrare nell’ordine del visibile. La ragione di una
tale inassimilabilità risiede nel fatto che l’immagine, per sottrarsi al visibile,
ricorre ad una relazione tra i suoi elementi che è d’ordine noetico.
Ci pare risieda in questo il senso ultimo di quello che, nelle sue riflessioni
sul falso raccordo cinematografico, Deleuze chiama «taglio irrazionale»:
giustapporre, secondo una relazione di pensiero, due immagini senza rapporto apparente, per creare uno scarto nel visibile nel quale, a sua volta, il
pensiero possa insinuarsi. È evidente che anche in questo caso l’immagine
provocherà ogni sorta di proiezioni, viste all’opera nel caso della foto di
Barthes, ma l’insinuarsi “secondo” del pensiero sarà – per così dire – un
supplemento del supplemento, un di più che non cancella la presenza immanente del pensiero nell’immagine stessa.
Traducendo il nostro problema nei termini di quello di Sartre, potremmo
presentare alcune conclusioni. L’oggetto reale, cioè la tela i colori ecc. in
carne e ossa, è il campo del visibile. Quella che per Sartre era l’immagine
mentale, situata nella testa del pittore, per noi non è affatto un’immagine,
bensì una struttura noetica. L’oggetto estetico, ovvero ciò che si vede in un
quadro quando si assume un atteggiamento disinteressato, è lo scarto che la
struttura noetica produce nel campo del visibile, cioè il visuale stesso. Tutti
e tre questi elementi sono per noi perfettamente reali, ma si distinguono per
la loro composizione concettuale. Tra l’oggetto-tela, la struttura noetica e
l’oggetto estetico non c’è alcuna somiglianza, dato che il primo è un oggetto
saturo, il secondo un oggetto virtuale, il terzo un oggetto bucato. L’oggetto-tela è saturo, proprio in quanto è il visibile stesso, cioè in ragione del
legame organico che lo connette alla totalità del visibile. L’oggetto noetico
è virtuale, in quanto eterogeneo rispetto alla totalità del visibile, ovvero
non attualizzabile in alcuna configurazione visibile. L’oggetto estetico è
bucato, in quanto è del visibile incrinato e sconnesso, in quanto è costituito
da elementi visibili nei quali è tuttavia assente la legalità organica caratteristica del visibile.
Si potrebbe discutere la relazione di eterogeneità che abbiamo posto
tra il visibile e il pensiero. Si potrebbe dire, ad esempio, che c’è altrettanto
pensiero nella percezione naturale che costituisce il campo del visibile di
quanto ce ne sia nel visuale. Non sarebbe sbagliato. Da un punto di vista
filosofico, sarebbe come negare la radicale eterogeneità che Kant ha posto
tra la sensibilità e l’intelletto. Ma a nostro avviso il problema non è tanto
quello di stabilire se tra il visibile e il noetico, per tradurre i termini kantiani
in quelli che abbiamo utilizzato sin qui, vi sia continuità piuttosto che se124
FATA MORGANA
Il visibile e il visuale
parazione, bensì quello di stabilire quale significato attribuiamo al pensiero
nel caso in cui lo si veda agire nel campo del visibile e quale significato
gli attribuiamo nel caso in cui lo vediamo all’opera nel campo del visuale.
Crediamo che nel primo caso si tratti di una sorta di pensiero automatico e
associativo, che per questo si può evitare di chiamare pensiero. È la ragione
per la quale abbiamo creduto necessario parlare di pensiero solo nel caso del
visuale. Più precisamente, diremo che se il pensiero esercita una funzione
nell’organizzazione del visibile, si tratta di una funzione di supporto o di
completamento: gli schemi che il pensiero porta nell’organizzazione del
visibile sono cioè omogenei rispetto agli schemi che la percezione presenta
già in proprio. Viceversa, gli schemi o le strutture che fanno del pensiero un
elemento essenziale del visuale sono eterogenei o, se si vuole, irrazionali
rispetto a quelli percettivi e intellettuali che costituiscono il visibile.
Consideriamo in conclusione un paio di esempi concreti, concernenti
la pittura e il cinema. Dalle appassionanti letture che ne hanno dato Henri
Maldiney e Maurice Merleau-Ponty, siamo abituati a considerare Cézanne
come il pittore del visibile. Con la sua opera, la pittura smetterebbe di pensarsi come rappresentativa di un mondo esteriore, e ricercherebbe se stessa
come una specie di automanifestazione del visibile7. Il soggetto percipiente
e l’oggetto percepito si fonderebbero fin dall’inizio, per lasciare apparire
la natura selvaggia del visibile. In questa lettura c’è qualcosa di autentico e
vero, soprattutto la consapevolezza che l’opera di Cézanne presenta qualcosa che destituisce la pregnanza e la legittimità assoluta della percezione
naturale. Ciò che manca, tuttavia, è la ragione per cui Cézanne ha potuto
mostrare qualcosa che non stava nel campo del visibile, ovvero i mezzi grazie
ai quali il pittore ha ottenuto gli effetti che possiamo ammirare. Bene, questa
ragione e questi mezzi sono, senza alcun dubbio, dell’ordine del pensiero, e
niente affatto dell’ordine della percezione. È insomma una struttura logica
o noetica, quella che fa dei dipinti di Cézanne opere visuali eterogenee al
campo del visibile. E possiamo continuare a dire visuali, evidentemente,
perché l’effetto di quella struttura noetica si fa sentire solo ed esclusivamente
attraverso l’organizzazione del colore. Paradigmaticamente, Cézanne parla
del colore come del luogo nel quale s’incontrano il cervello e l’universo.
Questo già esclude che si possano leggere i dipinti di Cézanne come il frutto
di un’intenzione “espressionista”, volta appunto a rendere l’essere selvaggio
delle cose. L’incontro del cervello e dell’universo si fa nel colore, perché
è attraverso il colore che, in Cézanne, è possibile sottomettere il visibile
ad un’organizzazione “ragionata” capace di destituire l’organizzazione
7
Cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, tr. it., SE, Milano 1989, p. 49.
FATA MORGANA
125
Paolo Godani
percettiva normale. Come questo venga realizzato è semplice: sostituendo
alla relazione percettiva di oggetti e colori (il mare azzurro, la terra ocra, le
chiome degli alberi verdi), la «legge di armonia» fornita dalla successione
dei colori nello spettro8. I tratti di colore non si giustappongono secondo
la regola che ci fornisce la percezione, bensì secondo l’ordine dello spettro. Non è un caso che Cézanne dicesse spesso che il pittore non doveva
limitarsi a osservare la natura, bensì a leggerla. Noi stessi del resto – ecco
infine il supplemento del supplemento – siamo portati non semplicemente
ad osservare un’opera come quella di Cézanne, bensì a leggerla, cioè a pensarla. Se, come sapeva Kant, l’arte dà da pensare, è perché essa destituisce
il visibile attraverso il pensiero, è perché, in pittura come al cinema, «la
visione avviene attraverso il pensiero e l’occhio pensa»9.
Abbiamo accennato al falso raccordo cinematografico come esempio
dell’insinuarsi del pensiero nell’immagine, ovvero come modalità attraverso la quale l’irruzione del pensiero presiede alla realizzazione di una
configurazione visuale eterogenea rispetto a quella del visibile. Vediamo
ora come qualcosa di analogo si possa realizzare con altri mezzi, prendendo
l’esempio di una sequenza della Collezionista (1967) di Rohmer. L’intreccio del film è piuttosto semplice: Adrien, il protagonista, vuole passare un
periodo di “vacanza assoluta”, e si fa per questo ospitare dal suo amico
Daniel (un artista in cerca di una sorta di serenità mistica) nella sua casa al
mare; qui però si trova anche Haydée, la collezionista, una ragazza giovane,
bella, disinibita. Anziché trascorrere in pace la sua vacanza, Adrien, per
tutto il tempo del film, è come in balia degli eventi, ovvero delle scelte di
Daniel e di Haydée. Adrien, la cui fidanzata è partita per Londra, pretende
dapprima di ignorare la bellezza e il fascino di Haydée, ma poi finisce per
desiderarla. Nei momenti che precedono immediatamente la sequenza di cui
vorrei parlare, Adrien ha abbandonato l’idea della vacanza assoluta e pensa
che sia conveniente per lui trascorrere la settimana che gli resta, vivendo
con Haydée quello che chiama un «amore occasionale assoluto». In realtà,
anche l’effetto di questa “decisione” non dura che lo spazio di qualche
momento e la scelta dell’amore occasionale viene rapidamente soppiantata
da una decisione di segno opposto. Adrien e Haydée sono in auto, quando
Adrien si convince che vivere per una settimana il suo amore occasionale
con Haydée è proprio quel che gli ci vuole. I due incrociano alcuni amici
di Haydée, che scende a salutarli; Adrien l’attende in mezzo alla strada, ma
un’altra auto chiede di passare. Adrien decide così di togliere l’auto dalla
8
9
126
Cfr. L. Gowing, Cézanne: la logique des sensations organisées, Macula, Paris 1992.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it., Einaudi, Torino 1996, p. 202.
FATA MORGANA
Il visibile e il visuale
carreggiata, ma, una volta partito, non si ferma: decide di non accostare e
abbandona per sempre Haydée. Ora, l’essenziale sta nel modo in cui Rohmer
mostra questa decisione o, meglio, nel fatto che la decisione di Adrien viene
detta, senza che possa tuttavia apparire nello scorrere delle immagini: la
decisione, che avviene quando l’auto è già in movimento, non lascia alcun
segno nell’immagine – quindi può essere presentata solo dalle parole che
Adrien dice tra sé e sé. Questa strana sconnessione tra parola e immagine,
realizzata da Rohmer in modo così raffinato e inappariscente, ci pare sia
la fenditura attraverso cui il pensiero entra a costituire una configurazione
visuale dell’immagine. Infatti, nel momento in cui vediamo semplicemente
un’automobile che procede in un movimento già iniziato, sentiamo che, in
un imprecisabile istante di quel movimento, è avvenuta una decisione, una
cesura, un taglio che ha separato la continuità apparente in due segmenti distinti: il prima e il dopo della decisione. Le parole che ascoltiamo vorrebbero
agire sull’immagine, proprio grazie alla discrepanza tra ciò che affermano
e ciò che l’immagine mostra. Ma non possono farlo davvero, non possono
nulla su un’immagine che naturalmente resta identica a se stessa. E tuttavia,
è precisamente questa impossibilità della parola di incidere sull’immagine
a fornire il senso proprio di quest’ultima. In verità Adrien, checché ne dica,
non ha preso alcuna decisione, ma ha solo lasciato proseguire l’automobile.
Nello spazio aperto dalla discrepanza tra l’immagine veduta e le parole
dette, s’incunea l’idea che ogni decisione non è altro che la constatazione
o la legittimazione a posteriori di una necessità. È precisamente questo
che l’immagine, una volta posta in relazione discordante con la parola, fa
vedere, è cioè precisamente l’idea ciò che viene a configurare un’immagine
che deborda essenzialmente l’ambito del visibile.
FATA MORGANA
127
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FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini
(di finestre, di vento e di qualcosa d’altro)
Luca Venzi
1.
Ed improvvisamente si fa avanti non un discorso,
ma il pensiero di alte finestre
Philip Larkin
Il vento soffia dove vuole
Vangelo di Giovanni
Un grande, immenso albero deborda scuro dentro l’immagine, sulla
sinistra. Alberi più bassi, ma ugualmente fitti, si ammassano sulla parte
opposta, ricoprendo quasi per intero gli edifici che occupano quel lato della
strada. In mezzo, un viale pieno di gente – venditori e donne con borse e
cestini, intente ad osservare, a valutare, a scegliere – e, in fondo, cielo e
case, un brevissimo segmento di case, che chiude l’immagine mentre si
apre un varco alla visibilità tra il denso fogliame degli alberi. Si tratta di
Wochenmarkt in Köln [Mercato settimanale a Colonia], uno scatto di August Sander datato circa 19251. Le macchie scure e larghe degli alberi che
occupano i due lati della fotografia costringono subito lo sguardo a vagare
nel mezzo, lo chiudono sul viale che s’allunga verso il fondo, lasciano che
si soffermi su cose e persone che, disordinatamente, vi prendono posto: le
quattro ampie ceste dei venditori, nella parte bassa dell’immagine, povere,
malcerte, custodite da tre figure ora tutte assorte a guardare in una stessa
L’immagine si trova in A. Sander, Hommes du XXe siècle, vol. VI, La grande ville-Die
Großstadt, a cura di S. Lange, G. Conrath-Scholl, G. Sander, La Martinière-Die Photographische
Sammlung/SK Stiftung Kultur, Paris-Köln 2002, p. 57.
1
FATA MORGANA
129
Luca Venzi
direzione (qualcosa deve aver catturato la loro attenzione: uno schiamazzo,
un richiamo, qualcuno che, fuori campo, le trova, le saluta); la donna con
il cappello, sempre in basso, presa ad osservare merce esposta che non ci
è dato vedere; ancora donne, prossime ad un banchetto, e altre ancora di
spalle, nel centro, l’aria incerta, tra poco sceglieranno una via da seguire.
Un passo fuori dell’ombra del grande albero che campeggia a sinistra,
due bambine – hanno in mano qualcosa, si direbbe qualcosa da mangiare
– si fissano entrambe sullo stesso punto, a terra; un carretto imbandito, di
fronte, affollato, poi figure e figure, minute, ricurve, in cammino, appena
distinguibili. Finché, in fondo all’immagine, lo sguardo incontra le case:
tetti, finestre, abbaini, balconi. Si ferma precisamente in un punto, meglio,
ne è trattenuto: il piccolo quadrato nero di una finestra aperta. La lettura
discontinua, progressiva, dell’immagine, la riconfigurazione in termini di
senso, d’ordine, di comprensibilità, operata dallo sguardo dello spectator
sulla composizione della fotografia, si fermano qui, sulla soglia e insieme
già all’interno di un piccolo punto cieco, un buco in fondo all’immagine,
cui l’atto di guardare approda e in cui si disperde. Da vedere non c’è nulla
in questo piccolo riquadro nero, e tuttavia se da questo giorno di mercato
bazinianamente «avvolto nel suo istante»2 qualcosa ritorna intero, integro
al nostro sguardo – con quell’integrità e quella pienezza che appartengono
non all’invisibile, ma ad una raffigurazione dell’invisibile –, se qualcosa ci
si rifà potentemente incontro di questo minuto momento della vita di una
città dell’Europa nel 1925, esso si situa esattamente in questa oscura fessura,
in questo grumo di buio che insiste dentro la visione. Più dell’incertezza
delle due donne colte di spalle, delle bimbe che mangiano con lo sguardo
in terra, del guardare identico delle tre venditrici dietro ai loro cestelli – più
di qualunque altra cosa cui il dispositivo dia modo di presentarsi e d’essere
già, anche, una rappresentazione –, ci colpisce questo spalancato vuoto,
questa apertura chiusa su stessa, che subito ci trascina a guardar dentro,
a voler vedere e a voler sapere, e subito ci lascia sulla soglia, ci inchioda
ai bordi del riquadro e quasi ci condanna a tutto il resto dell’immagine, a
non poter vedere altro che tutta l’immagine che stiamo guardando – donne,
mercanti, bambini, alberi e viale – che pare ora disporsi e insieme in definitiva scomparire attorno a questo nero d’esistenza che sporge intatto fino
a noi. Idee di figure, allucinazioni di forme, filamenti, abbozzi, protoplasmi
di presenze, di gesti, di pensieri – che cos’era la vita dietro quel nero e che
ne è stato di essa dopo il passaggio di uno sguardo che ora ce ne riconsegna
2
A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id., Che cosa è il cinema?, tr. it., Garzanti, Milano 1991, p. 9.
130
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
niente altro che il pensiero? – bruciano incessantemente in fondo al buio
e in fondo all’immagine che lo contiene. «Il reale allo stato passato»3, ciò
che ritorna già sempre al nostro sguardo da una fotografia, si compone qui
nella sua apparenza più radicale e più pressante, si dà in immagine come il
luogo di una intrattabile presenza: dentro quel buio non c’è da vedere che
l’insistere di un’oscurità e di un’apertura, e tuttavia proprio in ragione di
questa oscurità e di questa apertura definitive, lo spettatore si ritrova faccia a
faccia con un’istanza muta ed ostinata che lo trattiene a considerare «la vita,
la morte, l’inesorabile estinguersi delle generazioni», a sentire in fondo a
un’immagine – preso in quella «metafisica stupida» di cui parlava Barthes4
– l’ottuso mormorio dell’esistente colto nella sua più estrema, più incomponibile intimità. La vita come tale in una città tedesca in un qualunque giorno
del 1925, la vita perduta e dispersa di quella giornata qualsiasi di un qualsiasi
inizio di primavera, si incrosta in questo coagulo minimo di invisibile e vi
vibra all’interno, si rapprende nel buio e si fa avanti, più intensamente e
più insistentemente che in tutte le figure, in tutte le forme distinte, in tutti i
gesti e gli sguardi che hanno trovato posto in questa fotografia.
Che qualcosa di ciò che la compone vi si presenti in posa o che tutto
appaia colto sul fatto, che l’immagine si debba alla ricerca di un autore, alla
rapidità di un fotogiornalista, alla levità di un fotografo di famiglia, capita
spesso, guardando una fotografia raccolta nell’impersonale continuare delle
“cose là fuori”, di trovare in fondo all’inquadratura queste piccole aperture
oscure, questi minuti sbocchi d’invisibile (finestre lontane e quasi perdute
in un’immagine che parla d’altro, segrete allo sguardo che le prendeva, sole
in un certo senso dentro la visione) che improvvisamente e anche solo per
alcuni istanti ci inchiodano a guardarle, a misurare ostinatamente, e senza
vie d’uscita, il nulla che le informa, a sentire comporsi – e comporsi senza
concetti, senza discorsi, senza niente – l’indistinto fiotto di esistenza passata
(quale esistenza? quali oggetti, quali storie, quali legami? «Che romanzo!»5,
avrebbe detto Barthes) che, spalancate, esse continuano ad oscurare.
Questi piccoli riquadri neri e aperti che troviamo di tanto in tanto nelle
fotografie, questi occhi spalancati/chiusi (eyes wide shut) sul passato morto
e disperso – e in essi vivo e indicibile, sensibile e inimmaginabile –, che
rapiscono la nostra attenzione e la costringono a vagare a vuoto, che si
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 2003, p. 83.
Ivi, pp. 84 e 86.
5
È proprio nei termini di un’incompibile vertigine narrativa che Barthes commenta la possibilità che il piccolo Ernest, lo scolaro fotografato da Kertész a Parigi nel 1931, sia in qualche
modo, da qualche parte, ancora vivo. Ivi, p. 84.
3
4
FATA MORGANA
131
Luca Venzi
fanno punctum (ecco la più suggestiva delle parole dell’ultimo Barthes),
annullano ogni ipotesi di visibilità, vale a dire ogni definita riconoscibilità,
ogni curiosità orientata, e in ultima analisi ogni voyeurismo. La presenza
di corpi, di oggetti, di segnali eventualmente coglibili dentro e al di là del
buio non farebbe che limitare irreparabilmente e all’infinito, dotandolo di
una qualsivoglia istanza di discorsività, il comporsi di un informe e muto
sentimento del tempo che in queste aperture ha corso proprio in ragione
della loro immobile e improduttiva e visionaria cecità. Esse appaiono spesso
esposte al nostro sguardo e alla nostra attenzione: “figurativamente” esposte
(come in questo caso: il viale ci conduce a questo piccolo foro che si apre in
fondo all’immagine) e insieme esposte come la più elementare e fascinosa
delle promesse di visione: una finestra aperta – lo sguardo vi è come convocato – in cui pure non si dà che il buio. L’infinitesimo sgomento che si
prova contemplandole (appena un sussulto, che pure restituisce l’esperienza
di una vertigine spettatoriale) pare improbabile laddove l’oscurità si presenti
per così dire infranta e come normalizzata (e per ciò resa essa stessa definitivamente invisibile) da una qualche identificabile presenza. Per restare a
Sander, basterà riferirsi ad altre due foto coeve e consimili, Demonstration
der “Roten Front” [Manifestazione del “Fronte Rosso”], 1927 – la folla di
manifestanti in piazza, i palazzi a chiudere compatti il lato superiore dell’immagine – e Straßenmusikanten in Köln [Musicisti di strada a Colonia],
19286 – i musici e gli strumenti in figura intera, un grande albero dietro di
loro, quindi le case e i tetti – per osservare come le figurette emerse dalle
finestre aperte, in fondo all’inquadratura (minuscole e indefinite, lontane),
non facciano che svanire nel piano informativo-discorsivo dell’immagine, in
cui, disfatte dalla loro stessa plausibilità dentro la rappresentazione (figure
tra figure nel corpo di una veduta, qui addirittura parte attiva e sensibile del
suo comporsi, veri e propri spettatori interni all’immagine: di un raduno
politico, di una performance musicale), si integrano senza alcuna possibilità
di frattura, di scarto, di deviazione, come alberi minuti e distanti si integrano
nel corpo di un paesaggio.
Ma, soprattutto, questi piccoli riquadri neri si ripresentano al nostro sguardo come ciò che di fatto è caduto dentro una fotografia. Vi esistono come
presenze segrete, ulteriori, collaterali; si trovano in fondo a un’immagine
senza che l’immagine le abbia in senso stretto desiderate, estranee ai suoi
progetti primari, alle sue istanze formative individuanti, o, per così dire,
ai suoi primi pensieri. Uno sguardo le ha colte senza averle cercate, le ha
6
e 55.
132
A. Sander, Hommes du XXe siècle, vol. VI, La grande ville-Die Großstadt, cit., pp. 53
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
piuttosto trovate in immagine, così come adesso il nostro sguardo le trova.
Sono supplementi necessari di una visione. Erano lì, come il resto di ciò
che l’immagine presenta (l’«è stato» di una fotografia) ed uno sguardo le ha
colte, meglio, le ha raccolte, come una rete che risale dal fondo raccoglie di
più di quello che serve. Si trovano in fondo a un’immagine (a una fotografia,
ove tutto questo è possibile) e da esso riemergono: è da lì che ci pungono7,
senza smettere di nascondere (per il fatto che non smettono di nascondere)
ciò che pure deve averle animate. Benché complessivamente segnato da
una certa indefinitezza teorica, il punctum di Barthes si dà essenzialmente a
partire da alcunché di inintenzionale, da una qualche fatalità presente nella
foto che raccoglie e che satura la nostra attenzione:
Certi particolari potrebbero “pungermi”. Se non mi pungono,
è senza dubbio perché il fotografo li ha messi lì intenzionalmente.
[…] Così il particolare che mi interessa non è, o per lo meno non è
rigorosamente, intenzionale, e probabilmente bisogna che non lo sia:
esso si trova nel campo della cosa fotografata come un supplemento
7
Non c’è vertigine, né turbamento, né ferita alcuna di fronte alle innumerevoli fotografie
– quale che sia l’orizzonte applicativo individuante dell’operator: artistico, documentale,
privato – in cui case, finestre, o addirittura lo stesso quotidiano comporsi di gesti e situazioni
che dietro di esse ha luogo, si diano come il nucleo principale della rappresentazione o come
parte eminentemente significativa di essa, come luoghi e zone del rappresentato interamente ed
evidentemente presenti all’istanza poietica che le lavora. Ciò è osservabile in molti celebri e
meno celebri scatti del secolo scorso, fino alla recentissima, suggestiva proposta di un giovane
fotografo come Giorgio Barrera, che da anni, in giro per l’Europa, fotografa la quotidianità
puntando il suo obiettivo (con la complicità dei soggetti rappresentati) dentro le finestre delle
case. Ciò che in una fotografia può farsi avanti come l’oscuro istituirsi di una piega, di un risvolto
involontario dell’immagine, come un sottofondo della visione che si apre al di là dell’attenzione
e dell’immaginazione mobilitate da una poiesis, si presenta in questi casi (ed ovviamente non
solo nella radicale omogeneità tematica di quello appena descritto) come il corpo stesso della
rappresentazione, il materiale più o meno individuante della sua azione configurativa, l’oggetto più
o meno determinante del suo interesse. È il dispiegarsi della rappresentazione in sé, l’istituzione
di una azione discorsiva, e – in Barrera – perfino il tratto originario e inaugurale di una istanza
narrativa (la cui configurazione più complessa, più celebre e più consapevolmente formalizzata
ha il suo luogo emblematico evidentemente fuori dalla fotografia propriamente intesa, e cioè
nella Finestra sul cortile, 1954, hitchcockiana). Per non dire degli infiniti casi – modelli elementari di una ricerca compositiva addirittura platealmente consapevole – di re-inquadramenti
e re-incorniciamenti interni all’immagine, spesso effettuati attraverso la figura della finestra, che
pure ad evidenza esulano in larga parte, in ragione di una loro marcata specificità, dall’ordine di
problemi che qui si sta discutendo. Un’ampia parte della ricerca di Barrera è stata recentemente
presentata all’interno di Fotografia. Festival Internazionale di Roma, VIII edizione, Palazzo delle
Esposizioni, Roma, 29 maggio-2 agosto 2009, e raccolta, in occasione della stessa esposizione,
in G. Barrera, Attraverso la finestra, Zoneattive, Roma 2009.
FATA MORGANA
133
Luca Venzi
che è al tempo stesso inevitabile, non voluto8.
Siamo nel cuore del dispositivo fotografico analogico, nel nucleo della
sua identità meccanica, così come per lungo tempo essa si è configurata. In
un’immagine fotografica, così come, in via di principio, in un’immagine
filmica, si ha quello che Serge Daney ha chiamato il «diritto di prelazione
della tecnica di registrazione sulla composizione iconica», quel «leggero
sfalsamento che “immortala” a lato dell’oggetto mirato, ciò che il mirino
ha “visto”»9.
Un’immagine registrata automaticamente non è che il luogo in cui si deposita una certa fusione di reale e di immaginario. Essa contiene ed esibisce
due polarità, due spinte distinte e interconnesse: da un lato una pulsione
poietica (l’intenzione di fissare qualcosa), dall’altro ciò che pur disponendosi ad accogliere quella stessa pulsione (il dispiegarsi del sensibile, il suo
darsi ad uno sguardo che lo attraversa) non coincide con essa (il costitutivo
essere altro del reale dai nostri progetti formativi) e che ripresentandosi in
immagine può già sempre esibire il più radicale consistere di questa stessa
alterità. L’immagine (cine)fotografica analogica, che ha determinato un peculiare tipo di percezione «di cui siamo gli eredi e di cui avvertiamo ormai
l’esaurimento»10, può essere pensata in questo senso come «un blocco impuro
in cui ciò che è stato voluto e ciò che potrà essere visto si incontrano»11.
C’è la volontà di restituire qualcosa e c’è lo stato di mondo in cui esso è
compreso, la necessità dell’ambiente che lo circonda, fosse anche soltanto
l’aria che l’avvolge e l’accompagna, nell’aperto di un esterno o nei domini
riparati di uno studio. Tutto è preso nel comporsi di un gesto formativo e
tuttavia non è mai completamente e fino in fondo aderente ad esso. C’è
una pulsione formativa che si spinge nel reale, di cui si nutre e del quale
è traccia e scrittura, e c’è una potenza del reale che l’accoglie mentre le
lascia in cambio, ora più ora meno evidenti, ora più ora meno percettibili,
i tratti del suo ottuso trascorrere, distante da quella stessa pulsione. Una
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 49.
Il brano daneyano (che risale al 1991) da cui la citazione è tratta si apre proprio con un’affermazione che riguarda la necessità di pensare sempre più in profondità la contiguità tra l’immagine
filmica e quella fotografica (e di denominare «cine-fotografico» il secolo e mezzo in cui hanno
operato), proprio a partire dalla loro precipua capacità di poter già sempre ospitare al loro interno
elementi supplementari, collaterali, coesistenti all’intenzione di un’istanza costruttiva. Cfr. S.
Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, tr. it., Il Castoro, Milano 1997, p. 266.
10
P. Sorlin, I figli di Nadar. Il «secolo» dell’immagine analogica, tr. it., Einaudi, Torino
2001, p. XXII.
11
S. Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, cit., p. 267.
8
9
134
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
fotografia di Seiichi Furuya, tra le infinite possibili – Izu (Japan), 1978
– descrive con esemplare pregnanza, nella sua intensa semplicità, questo
stesso ordine di problemi. Vi compare una donna ritratta in mezzo primo
piano, di tre quarti, sorridente. Ha gli occhi quasi chiusi, forse per l’azione
del vento che le sospinge all’indietro i capelli, sollevandoli, da un lato, sul
bavero alzato della giacca. Sullo sfondo solo la macchia larga e bianca del
cielo, in cui si iscrivono, vicini l’uno all’altro, due uccelli in volo. Non discuterò né l’intensità drammatica cui questa immagine rimanda (la donna
ritratta è Christine Gössler, moglie del fotografo, di cui egli documenta in
Mémoires 1978-198812, il doloroso declino psichico e fisico che la conduce
alla morte per suicidio), né la composta e rigorosa nitidezza figurativa che
la definisce. Ciò che qui mi interessa è che essa pare restituire la radice
e quasi la meccanica dell’atto fotografico in sé: distesa, meglio, scavata
nel reale, cui consegna una configurazione spazio-temporale definita (un
esterno, di giorno), l’azione dell’operator cerca l’oggetto del suo desiderio
(«ciò che è stato voluto»), la sua costruzione tecnico-formale (mezzo primo
piano, contre-plongée, il vuoto del cielo di sfondo), la sua resa espressiva e
comunicativa, e nell’atto di metterlo in forma (qui nell’attimo in cui questo
mettere in forma si compie: «nella foto tutto è dato in un sol colpo»13) lo
restituisce assieme a quello che trova in quello stesso cercare: il vento che
soffia dove vuole e gli uccelli che incrinano in un istante la plaga vuota
dell’aria («ciò che potrà essere visto»). Il blocco impuro di cui dice Daney
è questa regione d’incontro, questa zona di frontiera che divide e insieme
trattiene attorno a sé, dell’immaginario e del reale, vale a dire un desiderio
all’opera (l’attualità di una forma) e l’esser altro del mondo che continua (la
potenzialità di una forza)14. Anche in Furuya, come in Sander, qualcosa ci
chiama dal fondo: dal fondo spaziale della visione (lo sfondo: gli uccelli in
transito), come dal fondo segreto e imperlustrabile di ciò che un’immagine
non ha cercato (il passare del vento, il passare di uccelli). E da quel fondo
ci colpisce, ci punge. Nella registrazione fotografica c’è sempre spazio,
in via di principio, per quelle «punte di realtà», dice Daney non lontano
12
S. Furuya, Mémoires 1978-1988, Edition Camera Austria/Neue Galerie am Landesmuseum
Joanneum, Graz 1989.
13
Ph. Dubois, L’atto fotografico, tr. it., Quattroventi, Urbino 1996, p. 102.
14
Un trattamento teorico importante delle nozioni di forma e forza è rintracciabile negli ultimi
lavori di Roberto De Gaetano, soprattutto a partire da Ejzenštejn, Deleuze, e le vie della teoria
in Italia, in M. Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni,
Roma 2003, in particolare pp. 14-19.
15
S. Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, cit., p. 20, corsivo mio.
FATA MORGANA
135
Luca Venzi
da Barthes, «che impediscono all’immaginario di chiudersi»15, di farla da
padrone, di controllare tutto, da solo con i suoi desideri. In questo tipo di
immagine c’è già sempre posto per qualcosa d’altro. Per l’alterità del reale,
di cui l’immagine stessa si alimenta, e che può sempre mostrarsi in tutta la
sua puntuta densità. Del resto il cinema, che discende dalla fotografia, non
è forse nato pungendo uno dei suoi primi e più illustri spettatori, Méliès,
presentandogli, nel Goûter de bébé (A. e L. Lumière, 1895), l’imprevista,
impensata, supplementare irruzione del vento che muoveva le foglie – ancora
una volta – in fondo a un’immagine?
2.
Immagini malgrado tutto
Georges Didi-Huberman
È chiaro, ciascuna delle questioni discusse fin qui appare interamente
da ripensare all’interno dell’odierno regime visuale e più precisamente a
partire dalla svolta impressa all’universo dell’immagine (e più in generale,
evidentemente, all’universo dei media, vecchi e nuovi) dalla tecnologia digitale. Il digitale, lo sappiamo da tempo, scardina la certezza dell’«è stato»
barthesiano. Fotografica o filmica che sia, un’immagine digitale non è più
traccia, in ragione della sua stessa natura numerica, discontinua, discreta, di
quello che mostra. Sospende definitivamente la nostra certezza di ritrovare
in immagine ciò che in un tempo e in uno spazio determinati è stato presente di fronte a un obiettivo. Di più: essenzialmente fondata sul principio
della manipolazione, attuabile con la più grande rapidità e la più grande
efficienza, essa può già sempre restituire come interamente trasformato
(emendato, incrementato, distorto) ciò che in essa si dà a vedere16. Quello
stesso principio – autentico principio di determinazione dell’immagine
numerica – garantisce il più vasto e generalizzato controllo su ogni punto
dell’immagine stessa. In base a quanto si è detto fin qui, ciò che troviamo
16
Sappiamo benissimo, naturalmente, che anche la fotografia analogica è stata sempre capace di trasformare, anche radicalmente, i suoi dati, attraverso la pratica del fotomontaggio. E
tuttavia sappiamo altrettanto bene che quella stessa pratica manipolatoria si doveva pur sempre
alla sovrapposizione, al montaggio interno, alla mescolanza, di immagini pur tutte essenzialmente indicali e, soprattutto, che essa, complessivamente piuttosto lenta e laboriosa, non ha mai
costituito il vero principio individuante della fotografia analogica (che consisteva invece proprio
nella sua indicalità), come ad evidenza accade per la fotografia digitale.
136
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
nel corpo di un’immagine digitale può già sempre darsi, in ragione della
stessa natura del dispositivo, come alcunché di interamente desiderato. È
cioè evidentemente possibile che all’interno di questo tipo di immagine
tutto ciò che si vede risulti a pieno titolo voluto dall’istanza poietica che
la produce. Scorie, residui, supplementi della visione raccolti in fondo al
suo stesso dispiegarsi, al suo stesso formare, possono in ogni momento e
con la più grande semplicità essere rimossi, addomesticati o per così dire
spuntati, nell’immagine e dall’immagine. Al contrario, apparenze, figure,
visioni ulteriori, possono sempre divenire parte di un corpo visuale il cui
stato originario non è più, in definitiva, pensabile come tale. In questo senso,
un’immagine digitale tende a presentarsi, in via di principio, come il luogo in
cui l’istanza formativa che la fa esistere esibisce il più alto e incondizionato
gradiente di operatività. Il che equivale a dire, come del resto è stato più
volte notato, che un’immagine digitale tende a presentarsi come del tutto
consimile – paradosso della tecnologia – ad un’immagine manuale. Dunque,
ad un’immagine pittorica: discontinua, manipolabile, controllabile in ogni
sua parte. Che ne è allora, qui, di quelle «punte di realtà» che controbattono
alla inclinazione totalizzante dell’immaginario (che, ce lo aveva insegnato
già Bazin, al reale «progetta di sostituirsi»17) e gli impediscono di bastare
a se stesso? Che ne sarebbe, dunque, di ciò che avviene a un’immagine
fotografica o cinematografica, in ragione del suo stesso muovere incontro
al reale e del suo scrivere con esso e assieme a esso? E che ne sarebbe di
quello stato della cine-fotografia per cui un’immagine era sempre e in via
di principio una sorta di emblema necessario dell’altro, il luogo di un’accoglienza ineludibile, di un’apertura necessaria, visibile, rispetto a ciò che
non è noi? E infine: c’è ancora qualcosa da vedere in fondo a un’immagine
se essa può presentarsi come un composto di strati indecidibili di visibile, il
risultato di innesti e di prelievi, la sovrapposizione indiscernibile di visioni
suturate e compatte, omogenee, perfettamente chiuse in se stesse?18
Di nuovo una singola immagine, tra le infinite possibili (qui unicamente
convocata in ragione di un suo apparente sovrappiù di emblematicità), ci
restituisce in modo quasi perentorio la necessità di ricomporre dalle fondamenta questo modo di pensare le immagini: ecco allora Bamboo (2008),
A. Bazin, Montaggio proibito, in Id., Che cosa è il cinema?, cit., p. 70.
«Oggi possiamo comporre un numero illimitato di livelli d’immagine. Un’inquadratura
può consistere in decine, centinaia o migliaia di livelli di immagine. Queste immagini possono
avere origini completamente diverse: riprese in esterno (“inserti live”), set creati al computer o
attori virtuali, sfondi digitali, filmati d’archivio e così via», L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi
media, tr. it., Olivares, Milano 2002, p. 196.
17
18
FATA MORGANA
137
Luca Venzi
una suggestiva fotografia di Julia Fullerton-Batten, in cui una figura di
donna sospesa da terra (cifra ricorsiva forte di un’ampia parte della ricerca
di questa artista), rigidamente distesa all’indietro, in posizione obliqua,
nell’atto di cadere, prende posto all’interno di uno spazio rigorosamente
neutro in cui compaiono un mosso drappo viola, nell’angolo alto a sinistra
dell’immagine, e, sul fondo, tre alberelli leggeri, anch’essi mossi e agitati
dal vento, posizionati l’uno accanto all’altro. La donna in caduta libera, il
drappo e la macchia verde dei tre alberi in fondo all’immagine sono tutti
perfettamente inclinati nella stessa posizione obliqua, tutti disposti lungo
linee trasversali parallele che modellano la visione e le consegnano il suo
tratto compositivo più vistoso. Le figure sono come travolte da un’unica,
poderosa presenza che alla lettera le piega a suo piacimento: il trascorrere
incondizionato di qualcosa che somiglia ad un vento che allinea in obliquo,
in un solo passaggio, uomini, oggetti e natura. Tutto ciò che compare in
immagine, allora, si inchina – come canna di bambù – di fronte al soffio
illimitato dell’immaginazione che, essenzialmente da sola, governa ogni lato
dell’immagine e ne modella ogni parte. Il reale con cui l’immagine lavora
ne è interamente e intimamente regolamentato19. In un’immagine digitale, in
via di principio, è dunque possibile che senza alcuno sforzo, senza nessuna
preventiva, laboriosa riarticolazione materiale del fotografabile, il vento
soffi dove vogliamo noi, che il reale risulti perfettamente gestito dalla spinta
virtualmente totalizzante di un’immaginazione che può quello che desidera.
Al cinema l’immagine più perfettamente corrispondente a questo tipo di
considerazioni è la celebre apertura di Forrest Gump (1994) di Zemeckis: la
piuma portata dal vento che danza all’infinito dentro l’inquadratura, interamente progettata, controllata, costruita nei suoi movimenti più infinitesimali,
nei suoi scarti appena percettibili, nelle sue deviazioni più significative,
dall’istanza poietica che la mette in forma. Ciò che un tempo non poteva
che darsi in fondo a un’immagine, residuo ineludibile di una forza altra con
cui pure una scrittura doveva fare i propri conti, può occupare ora il cuore
stesso dell’immagine in cui tutto è gestibile, malleabile, in senso stretto
programmabile, sempre sotto controllo. Dal vento che muove le foglie nel
piccolo film dei Lumière a quello che in Zemeckis posa una piuma discesa
dal cielo sul piede del protagonista, un’intera epoca dell’immagine è trascorsa e si dà come conclusa.
19
È, credo, abbastanza chiaro che non ho qui intenzione di giudicare in alcun modo la ricerca
della Fullerton-Batten. Mi limito invece più semplicemente a rilevare, dentro una singola immagine, alcuni dei lineamenti individuanti di una tendenza applicativa tipica del nostro presente
evidentemente dovuta all’impiego delle nuove tecnologie.
138
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
Se restiamo al cinema spettacolare che fa largo uso della tecnologia
digitale, noteremo inoltre come assai spesso l’azione di manipolazione
e di controllo tenda ad orientarsi proprio su ciò che costituisce lo sfondo
dell’inquadratura, su quel fondo dell’immagine (qui da intendersi in termini
meramente spaziali) particolarmente incline, lo si osservava, a restituire le
emergenze più dure, più acute della connaturata alterità del reale. Ma non
solo al cinema: se della fotografia d’autore abbiamo discusso un esempio
tra tanti, basterà pensare alla pratica, pressoché quotidiana, con cui i fotografi amatoriali possono in ogni momento sostituire gli sfondi delle loro
immagini con quelli, preordinati in amplissimi e variegati stock, largamente
diffusi anche in rete, che meglio si addicono alle loro inclinazioni e alle
loro preferenze.
Sorretta da un’operatività che la assimila in tutto a un disegno, intimamente grafizzata, pittoricizzata, e talvolta (il cinema dei grandi effetti)
propriamente cartoonizzata, l’immagine digitale pare comporsi, nei casi
appena evocati, attorno all’azione di un immaginario che controlla tutto
ciò che tocca, che domina interamente e fino in fondo i suoi materiali,
che si presenta in immagine e al nostro sguardo solo con la sua forza. La
gran parte delle immagini che ci circondano funziona in modo consimile:
la manipolazione digitale vi si presenta come la condizione necessaria e
sufficiente per conseguire, nel modo più compiuto, più immediato e, in
certi casi (cinema spettacolare-commerciale, pubblicità visiva e audiovisiva, ecc.), più evidentemente accordato con le regole del mercato, una
multiplanare prevaricazione dell’immaginario sul reale, un generale sovradimensionamento dell’immaginario a discapito del sensibile, che in una
poderosa grafizzazione delle immagini e in una loro generalizzata e spesso
interscambiabile inclinazione attrazionale presenta i suoi più vistosi tratti
distintivi. Qui davvero l’immagine è sola con se stessa, è fatta di se stessa,
è niente altro che immagine o immagine senz’altro. È il visivo [visuel] di
cui parlava Daney, riferendosi all’universo della televisione, alle immagini
di sintesi, all’estetica dominante (la sola estetica di cui riconoscesse delle
occorrenze definite) della pubblicità in cui, talvolta, le ricerche espressive
di autori e sperimentatori (tanta fotografia che nutre le esposizioni contemporanee più diverse e più prestigiose) finiscono, spesso in modo del tutto
inconsapevole, per essere inglobate.
Dunque, provando a riassumere (e continuando, per necessità, a semplificare): 1) il digitale pone radicalmente in crisi e in via definitiva la (già)
costitutiva dimensione attestativa dell’immagine cine-fotografica analogica;
2) per contro, in ragione del suo immediato e larghissimo potenziale manipolatorio, esso incrementa in modo evidentemente esponenziale le capacità
più intrinsecamente formative di un’immagine, al punto da renderla del tutto
FATA MORGANA
139
Luca Venzi
simile a un’immagine manuale. Ciò la espone in modo evidente, almeno per
una larga parte delle sue espressioni più influenti, alle logiche spettacolari del
mercato, che in modi e a livelli diversi tende, proprio sfruttando l’illimitata
mutabilità delle immagini, a una diffusa attrazionalizzazione del visibile.
Ma la questione si esaurisce in definitiva nei termini appena descritti?
Le cose stanno insomma soltanto così?
In ordine al secondo punto, va osservato in via preliminare che la possibilità di disporre di una “incondizionata” operatività formativa e di esercitare il più ampio controllo possibile sui dati dell’immagine si configura,
pressoché immediatamente, come una delle linee più definite e riconoscibili
che percorrono dall’interno, pure in forme volta a volta differenti, tanto la
storia della fotografia quanto la storia del cinema. Da questo punto di vista,
le nuove tecnologie conducono a pieno compimento quello che in un certo
senso appare da sempre come un desiderio profondo, ma tutt’altro che segreto,
della cine-fotografia analogica (un desiderio che dai fotografi che imitavano i
pittori a quelli che esibivano una più consapevole ricerca autoriale nonostante
la fortissima ipoteca indicale del mezzo, passa ovviamente per Méliès, per il
cinema del controllo “totale” delle majors hollywoodiane, ma anche per tanta
avanguardia più o meno grande e più o meno “pura”, oltreché naturalmente
per il cinema d’animazione, ecc.). Insomma, qui l’avvento del digitale si dà
come l’atteso conseguimento di un’aspirazione antica.
Ciò detto, e per un altro verso, appare del tutto evidente che se da un
lato l’innalzamento del potenziale propriamente immaginativo e applicativo garantito dalle nuove tecnologie può agevolmente essere assorbito, con
diversi gradi di consapevolezza, nell’orizzonte inglobante del mercato,
dall’altro non può non presentarsi all’immagine come il fondamento di
un suo più autentico e più profondo incremento espressivo, configurativo,
compositivo (più autentico, più profondo e dunque più complesso, della
logica elementare delle attrazioni in cui, come detto, confluisce in larga
parte l’impiego strettamente formativo delle nuove tecnologie). Se ancora
pensiamo al cinema contemporaneo sarà facile osservare come sempre più
spesso i realizzatori tendano a pensare il digitale non soltanto come a uno
strumento con il quale sia più semplice, più rapido e più economico dare
corso a progetti configurativi già destinati all’analogico, ma come a un
mezzo pienamente espressivo e compositivamente produttivo attorno alle
cui specifiche potenzialità orientare dinamiche compositive nuove e complesse, e nuovi progetti poietici, talora del tutto coincidenti con le regioni
immaginative profonde di una intera costruzione testuale. Pensare in questi
termini le tecnologie digitali significa consegnare loro, ora più ora meno
integralmente, la possibilità che il cinema si faccia capace di comporre (nel
senso direi ejzenštejniano del termine e non limitandosi ad unire, come
140
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
in tanto cinema dei nostri giorni, una serie più o meno efficace di effetti)
come prima non gli era possibile fare e proprio in forza di un potenziale
espressivo aggiunto, che apre alle più varie e alle più diverse possibilità
formative (qui, dunque, ma solo qui, l’introduzione del digitale nel cinema
non è poi così distante da quella del sonoro o del colore). Basterà pensare
agli straordinari lavori condotti negli ultimi anni, tra gli altri, dai von Trier
(Dancer in the Dark, 2000), dai Rohmer (La nobildonna e il duca, 2001),
dai Kiarostami (Dieci, 2002), dai Sokurov (Arca russa, 2002) e fino a opere
più recenti come Inland Empire (2006) di Lynch, per osservare nel dettaglio quanto qui si è indicato in rapide e concise osservazioni. In fondo a
queste immagini, allora, tra loro così diverse, si agita in tutta la sua densità
un qualche decisivo tratto di bellezza, per cui pure assediata da processi di
generale anestetizzazione (che tendono a convertire la complessità del sentire
nell’immediatezza della sensazione o della sensazionalità)20, un’immagine
si dà ancora, malgrado tutto, come il luogo di un fare estetico elaborato e
complesso, come un autentico strumento di pensiero, che in sé si definisce in
quanto forma d’opposizione, espressione di qualcosa d’altro nell’indistinto
dispiegarsi di una azione di regolamentazione tecnologica e mercantile,
pienamente in corso, del reale e dell’immaginario.
In ordine al primo punto, la cui portata appare evidentemente epocale: è
vero, l’immagine cine-fotografica non è più attestazione certa dell’esistenza
dello spectrum, o detto in altri termini, non è più per essenza testimone di
ciò che compone. Mai la natura stessa dell’immagine analogica era stata a
tal punto intimamente posta in questione. Occorre prendere in carico l’importanza di una tale trasformazione nel modo più consapevole. Ma anche
osservare subito che ove si collochino evidentemente al di fuori di orizzonti
espressivi e comunicativi largamente inclinati sul versante delle attrazioni
(blockbuster, spot televisivi, clip musicali, ecc.), le immagini digitali continuano a essere percepite come assolutamente capaci di restituire a chi ne
fruisce la pienezza di un’esperienza “veritativa”. Sarà sufficiente tornare
alla fotografia e fare un solo esempio: di fronte alle spaventose immagini
giunteci – malgrado le intenzioni dei loro realizzatori – dall’orrore di Abu
Ghraib, nessuno, come ha acutamente notato Rodowick21, ha pensato anche
solo per un momento che ciò che ci trovavamo a guardare fosse il frutto
20
Alla nozione di anestetizzazione e alle dinamiche che essa comporta (cui qui, semplificandole, non si è potuto che accennare), Pietro Montani dedica pagine decisive nel suo Bioestetica.
Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007.
21
D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, tr. it., Olivares, Milano 2008, p. 163.
22
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 81.
FATA MORGANA
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Luca Venzi
di una qualche azione di manipolazione, vale a dire che ciò che avevamo
davanti non fosse realmente accaduto così come lo vedevamo. Potere per
così dire postumo della fotografia, un tempo descrivibile come «emanazione
del referente»22 e oggi ancora tardivamente percepita come tale o potere
nuovo dell’immagine digitale, ontologicamente incapace di dare testimonianza certa e tuttavia, in ragione del suo prodursi senza ingombro e senza
sforzi (telefoni cellulari, minuscole fotocamere, ecc.) laddove anche solo
una immagine è ancora necessaria, capace di mostrare, più facilmente che
in passato, ciò che pretende di essere testimoniato? Paradosso della visione
– che ci domanda di essere pensato nel modo più adeguato – per cui qui non
ho le prove che quello che vedo «è stato» (non esistono ad esempio negativi
cui poter fare appello) e insieme ho “evidentemente” le prove (nient’altro
che queste povere immagini che salvano «l’onore di tutto il reale»23, dovute
ai carnefici malgrado loro, giunte a noi così come sono, malgrado tutto) che
sia stato proprio così come lo vedo. Godard diceva, qualche tempo fa, che
la caduta dell’indicalità dell’immagine fotografica potrebbe far sostenere, a
chiunque fosse interessato a farlo, che l’orrore che si agita in una fotografia
non è più in alcun modo certificabile24. Aveva ragione e insieme si sbagliava.
Una fotografia digitale ha ancora tutto il potere che si deve a un’immagine
se si trova laddove c’è bisogno di lei (e laddove essa non si accontenti di
presentarsi come un emblema del potere).
Una significativa fioritura di un cinema compositivamente improntato
all’orizzonte della testimonianza25 (nel film documentario e non solo in
quello, in opere che raggiungono la vasta distribuzione e in molte altre che
popolano i festival internazionali) ha potuto negli anni più recenti svilupparsi e diffondersi proprio in virtù della leggerezza, della duttilità, della
maneggevolezza delle nuove strumentazioni digitali. Ma più in generale,
nell’ampio arco che va dai filmati “diretti”, che testimoniano quasi in tempo
reale di accadimenti presenti (mentre scrivo: la grave crisi post-elettorale in
Iran), del tutto o quasi del tutto privi di accorgimenti formali, assai spesso
unicamente dovuti alla sola attivazione del dispositivo (siti come YouTube
ne raccolgono e ne diffondono ogni giorno le espressioni più diverse), fino
J.-L. Godard, Histoire(s) du cinema, Gallimard-Gaumont, Paris 1998, vol. I, p. 86.
J.-L. Godard, Jean-Luc Godard rencontre Régis Debray, in Id., Godard par Godard, vol.
II, 1984-1998, Cahiers du Cinéma, Paris 1998, p. 424.
25
La necessità di rintracciare nelle nuove tecnologie l’apertura e la praticabilità di autentiche
opportunità testimoniali costituisce un nodo importante della riflessione recente di Pietro Montani
(dal lavoro collettivo, coordinato dal filosofo, L’estetica contemporanea. Il destino delle arti
nella tarda modernità, Carocci, Roma 2004, fino al già citato Bioestetica).
23
24
142
FATA MORGANA
Appunti presi in fondo alle immagini (di finestre, di vento e di qualcosa dʼaltro)
alle altezze e al rigore compositivi di un Kiarostami (ABC Africa, 2001), il
digitale si offre paradossalmente come una delle più importanti opportunità
documentali che l’audiovisivo abbia oggi modo di percorrere. Si fa capace,
cioè, evidentemente più che in passato (la nostra immediata capacità di
produrre e diffondere immagini non può non rimandare all’utopia – che fu
dei kinoki come di uno Zavattini – di un cinema-documento cui chiunque
potesse dare corso), di accompagnare gli uomini, di formare i nostri sguardi
e, almeno in via di principio, di darci del mondo tutte quelle immagini che il
potere trascura o manipola o cancella. Sparse nella rete o capaci di giungere
fino alle nostre sale, in fondo a tutte queste immagini si dà forse allora un
qualche decisivo tratto di giustezza che nelle sue espressioni più elementari,
come in quelle più ardue e meditate, si configura come un fare etico aperto e
in corso nel cuore visuale del presente e che in esso insiste come una forza
contraria, qualcosa d’altro che torna a dirci che un’immagine, malgrado
tutto, è ancora capace di mostrare.
FATA MORGANA
143
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FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale:
i Bass per Scorsese
Daniela Angelucci
Paragonando i film di inizio Novecento e quelli degli ultimi decenni da
una prospettiva letteralmente marginale come quella dell’evoluzione grafica
dei titoli, è possibile osservare un grande cambiamento. La trasformazione
più concreta ed evidente che si è verificata nel corso degli anni è lo spostamento della maggior parte dei credits alla fine del film, a causa della
crescita del cast tecnico oltre che di quello artistico, così come delle nuove
richieste di visibilità da parte delle maestranze. Da un lato, i titoli di testa
divengono quindi sempre più brevi, dall’altro, quelli di coda subentrano al
termine del vero e proprio testo filmico senza che appaia la parola Fine,
scomparsa gradualmente a partire dagli anni Settanta proprio per lasciar
spazio al numero crescente delle informazioni. Cambiamenti dovuti, in
primo luogo, alla specializzazione delle figure professionali e all’aumento
dell’investimento economico sul prodotto cinematografico1.
L’evoluzione di ciò che rimane in apertura del film – a volte addirittura
soltanto il titolo dell’opera e il nome del regista – proprio in virtù di questa
nuova brevità, va nella direzione di una sempre più ampia libertà creativa
e di una ricerca estetica accurata. Se il riferimento a determinate tradizioni
figurative è stato un elemento costante della grafica dei titoli soprattutto
per i film di genere (pensiamo ai caratteri gotici da sempre utilizzati per
gli horror, o allo stile dei credits dei western), si assiste infatti, negli ultimi
decenni, ad uno studio sempre più attento in grado di creare uno stile ad
effetto per i titoli di testa, quando non una grafica specifica tesa a renderli
un vero e proprio logo commerciale (come, per esempio, nel caso della serie
di Guerre stellari, di G. Lucas, 1977-2005). In generale, all’immobilità che
Su questo argomento cfr. B. Di Marino, Ai margini della finzione. Per un’analisi dei titoli
di testa e di coda, in “Bianco e Nero”, n. 1/2 (2000); Id, Titolo, in Enciclopedia del cinema, vol.
V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2004, ad vocem.
1
FATA MORGANA
145
Daniela Angelucci
caratterizzava i fotogrammi su fondo neutro del primo periodo si sostituisce
il movimento e l’estro creativo, sia che il titolo venga presentato come elemento separato, sia che esso venga inserito, come sempre più spesso accade,
già all’interno del film, subito dopo la sequenza iniziale o in sovrimpressione
durante lo scorrere delle prime immagini. D’altra parte, anche l’apparizione
dei titoli di coda non sembra garantire della fine del film, che prosegue a
volte con scene a sé stanti concepite come una sorta di appendici, interne o
totalmente esterne alla storia raccontata. Un esempio recente, i titoli finali
del vincitore dell’ultimo Oscar The Millionaire (D. Boyle, 2008), in cui gli
attori si presentano al termine del film, ambientato in India, in un balletto
corale tipico delle produzioni indiane della cosiddetta Bollywood.
In questo contesto, il lavoro di graphic designers particolarmente creativi
può mostrare a volte possibilità artistiche inedite, dicendoci nello stesso
tempo qualcosa di significativo sulla dinamica degli scambi tra cinema e
pittura2. In particolare è stato Saul Bass (1920-1996), il più noto disegnatore
del cinema statunitense, a inventare un nuovo modo di concepire i titoli,
creando delle title sequences che rappresentano una sorta di sintesi di ciò
che seguirà, una «ouverture visuale in cui i temi, le metafore e i nodi narrativi dell’opera vengono a comporsi graficamente in un piccolo “film nel
film”, condensandone attraverso le immagini le ossessioni»3. La capacità di
anticipare le atmosfere del racconto attraverso dei simboli, raccolti in una
sorta di primo blocco narrativo, è legata alla grande versatilità che caratterizza la carriera di Bass. Dopo un esordio come grafico pubblicitario, fondò
un’agenzia specializzata in prodotti per il cinema (oltre ai titoli di testa,
marchi industriali, locandine e trailers) in cui poté dispiegare la sua abilità
creativa in invenzioni iconografiche di vario tipo. Oltre che disegnatore,
fu inoltre egli stesso regista di un lungometraggio e di vari cortometraggi,
due dei quali, in particolare, premiati in sedi prestigiose: The Searching
Eye, del 1965, e il documentario a soggetto Why Man Creates, del 1968,
che vinsero rispettivamente un Leone speciale alla Mostra del Cinema di
Venezia e un Oscar.
Il primo autore per cui Bass sperimentò la sua nuova concezione dei
titoli di testa fu Otto Preminger, con cui realizzò un sodalizio continuativo
e particolarmente fruttuoso, firmando dalla metà degli anni Cinquanta fino
alla fine degli anni Settanta i titoli di ben quattordici film del regista, tra cui
2
Cfr. A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, che tuttavia non si sofferma
sui titoli quanto sulla grafica nella cartellonistica cinematografica, pp. 79-96.
3
B. Roberti, Saul Bass, in Enciclopedia del cinema, vol. I, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma 2003, ad vocem.
146
FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale: i Bass per Scorsese
la celebre sequenza iniziale del braccio scomposto e ricomposto, tracciato
con linee bianche, per L’uomo dal braccio d’oro (1955). Il momento più
significativo per la crescita della carriera di Bass, passata attraverso incontri professionali con alcuni tra i registi più influenti di Hollywood come
Stanley Kubrick, Billy Wilder, William Wyler, fu tuttavia la creazione dei
titoli per tre tra i film più importanti di Alfred Hitchcock: La donna che
visse due volte (1958), dove il motivo del vortice (citazione della spirale
di Duchamp), ripreso nella scena culminante del film, ovvero la sequenza
onirica nella torre, viene presentato nei movimenti circolari di una spirale
bianca e rossa all’interno della pupilla di un occhio femminile; Intrigo
internazionale (1959), in cui gli spostamenti frenetici del protagonista nel
corso del film vengono anticipati nell’immagine del traffico caotico riflesso
su un grattacielo a specchi; Psycho (1960), che si apre con una serie di linee
bianche e nere, verticali e orizzontali, che oscillano incessantemente quasi a
introdurci nei pensieri ossessivi della psiche malata del protagonista Norman
Bates. Per quest’ultimo film, l’apporto creativo di Bass va oltre la sequenza
iniziale, essendo stato il disegnatore dello story board della famosa scena
dell’assassinio della donna, interpretata da Janet Leigh, nella doccia. Per
questa scena, che richiese diversi giorni di lavorazione, furono necessarie
ben settantadue differenti posizioni della macchina da presa: l’astrazione e
l’asciuttezza della sequenza create a partire dal tratto elegante di Bass, più
che edulcorare un momento narrativo la cui violenza trasgrediva le norme
cinematografiche di quegli anni su ciò che era o non era raffigurabile, offrono
un risultato ancora più incisivo e intenso, proprio attraverso la costruzione
visiva stilizzata.
Dopo un periodo durante il quale si dedicò prevalentemente alla regia
e alla produzione di cortometraggi, dalla fine degli anni Ottanta Bass riprese il lavoro di title designer, insieme alla moglie Elaine, e, tra gli altri
film, in particolare viene chiamato da Martin Scorsese per la realizzazione
dei titoli di Quei bravi ragazzi, uscito nel 1990, adattamento del libro Il
delitto paga bene scritto dallo stesso autore del romanzo Nicholas Pileggi
insieme al regista. Scorsese ne trae un gangster movie del tutto atipico, che
racconta i riti e le dinamiche di potere dell’universo mafioso italoamericano
destrutturando la forma narrativa classica, in un racconto che ha inizio dal
centro dell’azione per muoversi poi avanti e indietro nel tempo. Il susseguirsi frenetico e avvincente degli episodi dell’attività criminale – dai furti,
le rapine, fino agli omicidi cruenti e al “salto di qualità” che vede i “bravi
ragazzi” entrare nel traffico di stupefacenti – ma anche la vita familiare, le
cerimonie, le figure femminili e il tempo sospeso del carcere, sono narrati
dalla voce fuori campo di uno dei protagonisti ormai pentito e sottoposto
al programma di protezione, il «soldato semplice» della mafia Henry Hill
FATA MORGANA
147
Daniela Angelucci
(ispirato a un personaggio reale e interpretato da Ray Liotta), cui è preclusa
la scalata ai vertici dell’organizzazione criminale a causa delle sue origini
irlandesi. I protagonisti del film sono caratterizzati da una «meravigliosa
arroganza», già presente nel racconto di Pileggi e che Scorsese dichiara di
riconoscere per averla direttamente percepita e vissuta nell’ambiente dell’East Side durante la sua infanzia4: oltre a Hill, Jimmy Conway, gangster
incaricato di addestrare Hill, ma anche lui non completamente integrato
nel mondo della mafia a causa delle sue origini non italiane, interpretato
da Robert De Niro, e Tommy De Vito, spietato italoamericano entrato giovanissimo nel giro della malavita ed eliminato alla fine dai vertici a causa
della sua personalità violenta e ingovernabile, resa magistralmente da Joe
Pesci che per il ruolo ottenne l’Oscar.
Oltre alla voce narrante che sostituisce parti di dialogo, commenta l’azione e consente la rottura della linearità della narrazione – fino ad arrivare
all’interpellazione diretta dello spettatore da parte del protagonista durante
la scena del processo di cui sarà il principale imputato – elemento stilistico
fondamentale del film è l’uso ricorrente dei fermo-immagine, che immobilizzano e raggelano momenti significativi della storia ricreando l’impressione
di un ricordo infantile indelebile, di una situazione che si imprime nella
memoria segnando lo spettatore. Dichiara Scorsese al proposito:
Volevo che l’immagine si congelasse ogni volta che il protagonista
avesse raggiunto una tappa fondamentale della sua vita; ad esempio:
“Tocca a tutti prendere le botte prima o poi” – fermo immagine – e
ritorno alle cinghiate. Questo non è per ribadire come al solito che
il padre lo picchia e quindi che lui è cattivo; è per dire “Guarda, io
le posso prendere”5.
È piuttosto un indizio di quell’insolenza molesta e “grandiosa” che pervade
tutto il racconto, in virtù della quale il narratore alla fine del film non ha alcun
gesto di rimorso, nemmeno ipocrita, ma soltanto il semplice rimpianto che
«non ci si diverta più», che sia finito quello che, pur deviato e folle, sembra
presentarsi come una variante perversa del sogno americano. Se questi due
aspetti stilistici, voce fuori campo e fermo-immagine, dimostrano l’influenza
di un cinema che rinuncia alla linearità della narrazione, ovvero quello della
Nouvelle Vague, in particolare di Jean-Luc Godard e François Truffaut nei
4
Scorsese secondo Scorsese, a cura di I. Christie, D. Thompson, tr. it., Ubulibri, Milano
2003, p. 184.
5
Ivi, p. 186.
148
FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale: i Bass per Scorsese
primi anni Sessanta (Scorsese mostrò Jules e Jim, 1962, a Pileggi prima di
iniziare il lavoro della sceneggiatura), dichiarano anche allo stesso tempo l’intento documentaristico esplicitato dallo stesso regista, la volontà di realizzare
una sorta di cinéma-verité seguendo da vicino i personaggi e il loro ambiente
nel corso di quasi trent’anni. E lo stile fluido di Scorsese utilizza, accanto ai
fermo-immagine, piani-sequenza movimentati e fluenti, per esempio girando
con la steady-cam la scena in cui Hill, con la donna che diventerà sua moglie,
entra nel locale Copacabana senza aspettare il suo turno all’ingresso, ma passando dalle cucine attraverso l’affollatissima sala del ristorante fino ad arrivare
al tavolo, spostato in prima fila, di fronte al palco, appositamente per lui; una
ripresa ricca di dettagli, ariosa e mobile, che mostra la spregiudicatezza, il
potere del protagonista e la seduzione esercitata sulla donna. Ma anche più
in generale il fascino e l’energia che pervade quello stile di vita.
Ci doveva essere ancora più movimento che nei miei lavori precedenti, ha affermato il regista, e una certa frenesia nel trasmettere il più
possibile agli spettatori, arrivando quasi a sommergerli di immagini e
informazioni, in maniera tale che si sarebbe potuto vedere il film un
paio di volte e scoprire ancora cose nuove. In ogni inquadratura c’è
una grande quantità di dettagli, a causa della ricchezza di quello stile di
vita – e io ho un rapporto di amore-odio con quel modo di vivere6.
Questa dialettica tra movimento fluido e fermo immagine, componente
dominante dello stile con cui si dipana il racconto – è Scorsese stesso a
dichiarare di sentirsi “lacerato” tra l’ammirazione per i piani-sequenza di
Renoir e i tagli di montaggio di Hitchcock – è precisamente quello che Saul
Bass riesce a restituire con i suoi titoli, scritte bianche su fondo nero (con
i nomi dei produttori, del regista e degli attori principali) che si muovono
come saette da destra verso sinistra per poi fissarsi al centro dello schermo,
accompagnate dal rumore – che si rivelerà il rumore diegetico, ma che si
adatta perfettamente al movimento delle scritte – di macchine che passano,
appunto, sfrecciando. Subito dopo, ha inizio la prima scena del film (ambientata nel 1970, dunque a metà della narrazione) in cui i “bravi ragazzi”
in automobile vengono infastiditi da un rumore inaspettato; nella sequenza
successiva i tre sono fermi in piedi, illuminati dalla luce – rossa – dei fari
posteriori dell’auto parcheggiata tra la vegetazione al lato della strada, interdetti di fronte al portabagagli da cui il rumore proviene, a rivelare che quello
che doveva essere un cadavere è ancora vivo. Dopo l’omicidio cruento,
6
Ivi, pp. 185-186.
FATA MORGANA
149
Daniela Angelucci
perpetrato con alcune coltellate dal personaggio interpretato da Joe Pesci e
poi concluso sparando con freddezza dal più anziano De Niro, la voce fuori
campo pronuncia la prima frase del film: «Che io mi ricordi, ho sempre
voluto essere un gangster», e mentre ha inizio la musica (Rags to Riches,
di J. Ross e R. Adler, parte di un’eclettica colonna sonora, con canzoni per
la maggior parte degli anni Quaranta) sullo schermo appare, congelato per
alcuni secondi, il fermo immagine del volto di Ray Liotta. È a questo punto
che si inseriscono nuovamente, ancora sfrecciando e poi fermandosi, i titoli
del film – la scritta Goodfellas questa volta rossa su fondo nero, e successivamente le altre di nuovo in bianco – prima che la storia riparta dall’inizio,
ovvero dall’adolescenza del protagonista animata dall’ammirazione per i
boss del quartiere. Il rosso del titolo di Bass annuncia l’utilizzo ricorrente
di questo colore nel corso del film (e non solo in questo: è presente per
esempio anche in alcuni momenti di Cape Fear – Il promontorio della
paura, 1991), per il sangue mostrato nelle scene più cruente, ma anche negli
arredi e nelle luci soffuse dei night-club frequentati dalla banda durante la
sua caotica vita notturna. Lo sfondo rosso caratterizza anche alcune scene
clou, come lo sfondo del fermo immagine sul piano medio di Henry Hill
dopo l’occultamento del cadavere del boss ucciso incautamente, uccisione
che si rivelerà uno snodo narrativo della trama, o durante la scena della
sua riesumazione, che vede i due gangster più esperti ridere sguaiatamente
della reazione disgustata del giovane, mentre disseppelliscono il corpo in
un luogo isolato su cui si diffonde una sulfurea nebbia rossa.
Nel 1991 Scorsese accetta di realizzare Cape Fear – Il promontorio della
paura, remake del thriller del 1962 girato da J. Lee Thompson e interpretato
da Robert Mitchum e Gregory Peck, e per la seconda volta chiede a Saul
ed Elaine Bass di creare la title sequence. A partire da una sceneggiatura
a lui imposta dalla casa di produzione Universal, scritta da Wesley Strick
inizialmente per Steven Spielberg e considerata da Scorsese «più manichea
di quanto potessi accettare», il regista fu alla fine convinto a cimentarsi in
un tradizionale film di genere da Robert De Niro, eccezionale interprete
del vendicativo e ossessivo Max Cady, criminale uscito dalla prigione che
perseguita la famiglia borghese e perbene del suo avvocato (Nick Nolte),
effettivamente colpevole di non averlo difeso al meglio.
Il cambiamento più significativo voluto da Scorsese riguarda proprio la
caratterizzazione del nucleo familiare al centro del film, non più perfetto e
felice come nella sceneggiatura iniziale, ma mostrato nella sua debolezza:
da un lato, il malessere e la frustrazione di marito e moglie (Jessica Lange),
e il consumarsi del loro rapporto, dall’altro l’isolamento e lo scarso rispetto
nei confronti del padre da parte della figlia (una giovane Juliette Lewis). Se
questa fragilità interna della famiglia «fa quasi da richiamo per qualcuno
150
FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale: i Bass per Scorsese
che venga a smembrarla ulteriormente»7, il controllo costante da parte del
«demoniaco» Cady, che osserva continuamente i tre componenti, li spia e li
segue ovunque, sembra far affiorare proprio i lati moralmente più ambigui
degli altri personaggi, a tratti quasi convincendo lo spettatore della legittimità
del suo comportamento. Così, la scena in cui il criminale segue la giovane
fin nel teatro della sua scuola, nella prima sceneggiatura concepita come
una frenetica scena di inseguimento, diventa un momento terrificante ma
anche pieno di seduzione e di erotismo, in cui Cady coinvolge la ragazza
nella sua logica distorta, minando la fiducia che ha nel padre e mostrandole,
insieme al pericolo, l’attrazione che il male può esercitare.
Nella lunga sequenza del titolo realizzata dai Bass non ci sono questa
volta gli elementi stilistici del film come nel caso precedente, quanto i temi
ricorrenti dal punto di vista dei contenuti: le scritte bianche che indicano la
casa di produzione, il regista e gli attori appaiono sullo sfondo di un’acqua
mossa e cupa, nella quale si riflettono ombre, alberi e un’aquila ad ali spiegate; guidata dalla musica originale composta da Bernard Hermann, volta
a creare suspense in modo quasi invadente, la macchina da presa mostra
le fattezze sfumate di un volto nascosto dietro il velo dell’acqua, per poi
stringersi sul dettaglio di un occhio terrorizzato. Dopo l’apparizione confusa
di altri volti e figure intere, sempre irriconoscibili, l’acqua si tinge di rosso
e appare in primo piano lo sguardo, questa volta calmo e consapevole, di
Juliette Lewis, interprete della giovane figlia. Con uno zoom all’indietro la
macchina da presa arriva ad inquadrarla in piano medio mentre, rivolgendosi
direttamente allo spettatore, dà inizio al film vero e proprio raccontando
le notti d’estate sul fiume, a Cape Fear, il promontorio della paura, luogo
meraviglioso a cui è stato ingiustamente attribuito tale nome.
Quello che viene annunciato nei titoli con l’insistenza sul dettaglio degli
occhi è l’osservazione continua a cui i personaggi sono sottoposti da parte
del criminale, un esame in grado di svelare la natura reale dei loro rapporti,
ma anche il gioco incessante con il quale questo sguardo viene ricambiato
dalle vittime, che «cercano con gli occhi» la figura di Cady in modo ossessivo, per esempio scrutando i dintorni della loro casa nascosti dietro le
serrande delle finestre. E questo motivo torna più volte nel corso del film:
per esempio quando la moglie, dopo aver fatto l’amore con il marito in una
scena in cui i corpi sono mostrati attraverso una sorta di radiografia, di fronte
allo specchio si accarezza il contorno degli occhi chiusi con una specie di
amara stanchezza, per poi alzarsi e notare tra le veneziane lo sconosciuto
che osserva la loro casa seduto sul muro di cinta. Ma i riferimenti agli occhi,
7
Ivi, p. 198.
FATA MORGANA
151
Daniela Angelucci
allo sguardo, al guardare sono numerosissimi: la figlia che legge Angelo,
guarda il passato di Thomas Wolfe; che dice alla madre: «non servirà a
niente nasconderci agli occhi del mondo»; che guarda un film in bianco
e nero in cui una donna si copre gli occhi, e che, allontanata e isolata dai
genitori, continua ad osservarli da lontano. Ma è anche il padre, sfinito
dalla persecuzione di cui è vittima la sua famiglia, a stropicciarsi gli occhi
credendo di vedere Cady ovunque e, nel corso della lunga e cruenta scena
finale, a guardare inerme il tentativo di violenza sessuale subito dalla moglie, mentre la macchina da presa riprende il dettaglio del suo occhio tra le
veneziane delle finestre della barca battute dalla pioggia.
L’altro elemento al centro dei titoli di Bass, ovvero l’acqua, diviene
protagonista soprattutto nella lunga sequenza finale del film, criticata e
consapevolmente rischiosa per il regista, ma necessaria nella sua visione,
organizzata da numerosi disegni preparatori e girata in sei o sette settimane. Marito, moglie e figlia fuggono in macchina per raggiungere il fiume
dove è ormeggiata la barca, ma Cady – inverosimilmente nascosto sotto
la loro automobile per tutto il percorso – riesce a seguirli. Lungo la strada
compare il cartello con l’indicazione della località Cape Fear riflesso nell’acqua, una ripresa dei titoli iniziali a segnalare quasi un nuovo inizio del
film e della storia, che racconta l’estenuante lotta, ambientata nel battello
sul fiume sotto una tempesta scrosciante, al termine della quale la famiglia
Bowden, finalmente riunita, riesce a uccidere il suo nemico comune. Se la
scena incorre nella descrizione caricaturale della forza e della crudeltà di
Cady, che sembra invincibile e riappare per ben sette volte dopo essere stato
colpito e addirittura incendiato, Scorsese ne spiega la necessità come una
sorta di apologo religioso di una vicenda apocalittica, in cui il criminale,
incarnando a detta del regista «la colpa collettiva della famiglia», viene
pensato come «un’entità inarrestabile»8 che può essere sconfitta non con
la fuga ma soltanto in una battaglia frontale. L’ossessione religiosa e della
vendetta è d’altra parte uno dei tratti più insistiti del personaggio, che parla
citando la Bibbia e che sulla schiena mostra il tatuaggio di una croce e della
bilancia della giustizia. L’acqua della pioggia battente che scende dal cielo;
quella del fiume nel quale Cady scompare ed annega e in cui Sam Bowden
si lava le mani sporche di sangue al termine del film, rappresenta quindi
la redenzione, dopo la quale i personaggi non saranno più gli stessi, come
dice la voce fuori campo della ragazza, pronunciando la parola fine mentre
l’inquadratura si stringe sul dettaglio dei suoi occhi, un’inquadratura che
chiude il cerchio della storia riprendendo le prime immagini del film.
8
152
Ivi, p. 200.
FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale: i Bass per Scorsese
Nel 1993 Scorsese presenta alla Mostra del Cinema di Venezia L’età
dell’innocenza, tratto dall’omonimo romanzo di Edith Wharton ambientato nella New York degli anni Settanta dell’Ottocento. La storia racconta
dell’amore impossibile tra Newland Archer (Daniel Day-Lewis), avvocato
di un’aristocratica famiglia newyorkese, e la cugina della sua fidanzata
May Welland (interpretata da Wynona Ryder), l’affascinante Ellen Olenska
(Michelle Pfeiffer) la quale, reduce da un matrimonio sfortunato con un
conte polacco, torna nella sua città natale ormai non più avvezza alle rigide
norme che regolano i rapporti e l’esistenza dell’alta società americana. Se
l’annuncio di questa riduzione cinematografica, che il regista stesso ama
definire un film romantico, destò una certa sorpresa tra i critici stupiti dalla
scelta di Scorsese di raccontare un ambiente per lui inusuale, basta focalizzare il vero fulcro della storia per riconoscervi invece uno degli argomenti
più centrali e ricorrenti della sua produzione. Oltre al recupero di un periodo ormai dimenticato della storia della città e al motivo della passione
mai consumata, già presenti nel suo cinema, l’autentico tema del film è la
descrizione dettagliata di un sistema di codici e di comportamenti rituali
che sono alla base di un ambiente chiuso e protetto da regole. Motivo che,
curiosamente, sembra avvicinare L’età dell’innocenza alla trattazione che
si potrebbe definire di taglio quasi antropologico condotta sulla comunità
mafiosa italoamericana in Quei bravi ragazzi. In entrambi i film, infatti, si
tratta di analizzare la spietata chiusura di un gruppo di individui che vuole
perpetuare ad ogni costo i suoi schemi, di una società preclusa a chi non
riesce a decifrare i suoi codici, e in cui i rituali, in questo caso le «buone
maniere», nascondono la violenza necessaria a mantenere un certo stile di
vita. Personaggio emblematico di questa sorta di crudeltà nascosta sotto le
forme di una glaciale gentilezza, la moglie del protagonista, la quale, inizialmente rappresentata come ingenua e fragile, sottovalutata forse dallo stesso
marito, si manifesta infine come la figura più forte, pronta a nascondere fino
alla morte la sua consapevolezza del legame tra i due amanti per salvare le
convenienze e il sistema di vita posti a fondamento della comunità di cui fa
parte, e che la ricambierà proteggendo lei e il suo matrimonio.
Nella sequenza iniziale realizzata dai Bass, i titoli con l’indicazione
della casa di produzione, di regista e attori appaiono e scompaiono in sovrimpressione; sullo sfondo, dapprima un foglio di carta vergato con grafia
ricercata e indecifrabile, poi fiori rossi e gialli che sbocciano al ralenti e una
trama di merletto, che infine diviene il velo attraverso cui appare, di nuovo,
una pagina – lettera, invito o programma musicale – composta con scrittura
elegante. La prima inquadratura è ancora sui fiori, questa volta margherite
gialle, colore predominante nel corso del film, che si rivelano parte della
scenografia di un palcoscenico d’opera, uno dei molti rituali dell’alta società
FATA MORGANA
153
Daniela Angelucci
newyorkese del tempo. Sebbene questa sequenza, carica di rose e di trine,
sia apparentemente semplice, quanto di più consono e adatto a dare l’avvio
ad un film “romantico” e in costume, mi sembra già presente nel lavoro dei
titolisti il filo conduttore della storia. Se la rosa che sboccia appare come
l’ovvia metafora del tempo che passa e del rimpianto di un amore perduto,
l’insistenza sulla scrittura annuncia non solo l’importanza attribuita al sistema di regole di comunicazione tra aristocratici – sottolineata nel corso della
narrazione attraverso un fitto e quasi ostinato scambio di inviti, messaggi,
ringraziamenti, biglietti che accompagnano l’offerta di fiori – ma anche la
complessità, a tratti l’incomprensibilità di un codice che si mostra letteralmente cifrato già nelle immagini iniziali.
È proprio la rete di queste convenzioni a tenere legato Newland Archer
all’ambiente da cui proviene e di cui è il frutto, ed è quindi l’insistenza su
questi dettagli, nel romanzo di Edith Wharton come anche nel film, a significare la difficoltà e l’impossibilità per lui di allontanarsene. Questo è il
senso profondo dell’ossessione per gli oggetti e il loro «uso rituale» nel film,
frutto di un lungo lavoro preliminare di documentazione e ricerche storiche,
e della scenografia accurata di Dante Ferretti: i fiori, appunto, veri messaggi
in codice; i vestiti e la ricchezza dei colori, più o meno opportuni a seconda
delle occasioni (sempre eccentrici, affascinanti ma «sbagliati», quelli della
contessa Olenska); i dipinti, che raffigurano paesaggi e soggetti bucolici nelle
case delle famiglie più tradizionali, e sono invece originali e moderni rispetto
al gusto dell’epoca nella casa della contessa. Ma svela qualcosa sugli ospiti
e l’occasione del loro incontro anche la qualità più o meno raffinata del cibo
e delle bevande, descritte nei particolari nel corso di ben otto tra pranzi e
cene mostrati nel film, ognuno dei quali è funzionale tra l’altro a uno snodo
cruciale nella vicenda. Come ha affermato lo stesso regista:
Continuando ad aggiungere elementi a quest’immaginario di dettagli e spiegando il significato di ognuno di essi, nulla appare casuale
e si inizia a comprendere quanto sia difficile per Newland cominciare
ad agire. È stato educato in quel modo; se venisse dall’esterno tutto
questo non avrebbe alcun significato9.
Ci rimanda ancora alla presenza dei fiori nella sequenza dei titoli uno
degli snodi decisivi nella narrazione, la scena indicata dal regista come quella
che gli ha fatto realmente desiderare di realizzare il film, il momento-chiave
in cui appare con evidenza allo spettatore che Newland Archer rimarrà per
9
154
Ivi, pp. 220-222.
FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale: i Bass per Scorsese
sempre intrappolato nella vita che ha condotto finora. E poiché dal punto di
vista registico si tratta di una delle scene più meditate ed elaborate di tutto il
film, si può forse immaginare che Bass, nel colmare di fiori la sua sequenza
iniziale, avesse presente tutta la sua importanza. È il dialogo tra i due coniugi
durante il quale il marito esprime alla moglie la sua volontà di intraprendere un lungo viaggio, e May gli risponde che dovrà rinunciare e aspettare,
poiché sono in attesa di un figlio: un istante in cui attraverso la donna si
manifesta un potere più grande anche di lei, quello delle tradizioni, del senso
di colpa e del dovere al quale il protagonista non potrà che obbedire. Dopo
aver pronunciato la frase che suona come una condanna, May si alza dalla
sedia andando verso l’uomo, e il suo gesto ci viene mostrato in tre tagli, un
campo medio frontale in cui è ancora seduta, un’inquadratura laterale che ce
la mostra in movimento, e infine un’inquadratura nuovamente frontale nella
quale la donna è in piedi: tre differenti dettagli che danno l’impressione di
un ergersi maestoso, di una crescita di statura che ribadisce la sua posizione
di forza. Seguita da vicino dalla macchina da presa, la donna si avvicina
poi al marito e si siede ai suoi piedi, confessando con ingenuità e sottile
crudeltà di aver rivelato il suo segreto alla contessa Olenska, sebbene ancora
non ne fosse sicura, ben due settimane prima, nei giorni immediatamente
precedenti alla decisione di partire presa da quest’ultima.
L’idea che induce Scorsese a riprendere questa scena – la cui inquadratura
di partenza, mostrando i due uno accanto all’altro, ha un impianto quasi teatrale – dividendola in tre dettagli distinti è la convinzione che il protagonista
«non avrebbe dimenticato quel momento per tutto il resto della vita. Lo
avrebbe rivisto migliaia di volte», e dunque «quando lei si alza, noi avremmo
dovuto vedere la scena come la si rivedrebbe nel ricordo». L’immagine a
cui si è esplicitamente ispirato il regista nel filmare questo attimo, che attraverso la veste della formalità rivela una specie di brutalità nascosta e quasi
agghiacciante, rinvia curiosamente al motivo figurativo floreale:
C’era qualcosa nel movimento del suo vestito che ricordava lo
sbocciare di un fiore o qualcosa che cresce, che faceva sì che una
ripresa a ventiquattro fotogrammi al secondo fosse troppo veloce, ma
a quarantotto potesse funzionare meglio: un movimento non troppo
lento, ma un po’ rallentato, come se fosse girato a manovella10.
Se il sistema di vita narrato in L’età dell’innocenza riesce a perpetuarsi
sovrastando i singoli individui e i loro desideri, nel film successivo – Casinò,
10
Ivi, p. 225.
FATA MORGANA
155
Daniela Angelucci
del 1995 – Scorsese racconta la caduta e la distruzione di un intero mondo,
quello della Las Vegas degli anni Settanta, caratterizzato dagli eccessi e dal
potere senza limiti della malavita organizzata. Vedremo poi in che modo
i Bass riescono, ancora una volta, a «incatenare» il titolo al film e al suo
tempo, rendendolo il vero e proprio inizio del testo, la sua «genesi»11.
Il film è, ancora una volta, un adattamento da un romanzo di Nicholas
Pileggi ancora in fase di stesura, ispirato a fatti realmente accaduti: Sam
“Asso” Rothstein (De Niro) viene impiegato dalla mafia nella gestione di un
casinò insieme al suo guardaspalle e amico d’infanzia Nicky Santoro (Joe
Pesci), gangster incontenibile e senza scrupoli che ricorda il personaggio
interpretato dallo stesso attore in Quei bravi ragazzi. In questo vortice di
crimini, truffe e giochi d’azzardo, in cui nessuno ha la possibilità di fidarsi
di nessuno (e che il regista racconta così: «un gruppo di bari che sorveglia
un gruppo di bari che a sua volta sorveglia un altro gruppo di bari»12), si
innesta la storia d’amore tra Sam e Ginger, prostituta e truffatrice impersonata da Sharon Stone, che per questo ruolo vinse il Golden Globe. La scelta
di Sam – che decide di fidarsi della donna al punto da affidarle i suoi soldi
e la sua vita, trascinato dall’illusione che il suo potere possa cambiarla – si
rivela, come prevedibile, fatalmente errata. Ginger ingannerà il marito non
soltanto mantenendo la relazione con l’uomo che era stato il suo protettore
(James Woods), a cui rimarrà sempre inspiegabilmente legata, ma rubando
il suo denaro e infine tradendolo con Nicky proprio nel momento in cui tra
i due amici e “soci in affari” si consuma una rottura violenta.
Molti elementi connettono Casinò a Quei bravi ragazzi (insieme al precedente Mean Streets, del 1973, si è parlato di una “trilogia della mafia”):
oltre all’analogia tra i contenuti narrati, ossia l’ambiente malavitoso con la
sua violenza e le sue ambiguità, entrambi i film condividono il taglio «a metà
tra la fiction e un approccio più documentaristico»13, grazie al quale trapela
l’interesse di Scorsese per questo mondo, una fascinazione che si pone consapevolmente al di là del giudizio morale. Entrambi i film si contraddistinguono
per una narrazione circolare, a spirale, che parte a metà o alla fine della storia
per poi tornare indietro e procedere nuovamente, ruotando su se stessa; entrambi svelano i pensieri segreti dei personaggi attraverso il racconto della
voce fuori campo, che sembra assumere a volte la qualità dell’onniscienza
pur conservando il tono «confortevole» di chi racconta una fiaba e rivelando a
E. Ghezzi, Il nome sulla rosa, in Taormina arte ’94, Catalogo del XXIV Festival internazionale del cinema di Taormina, 1994, p. 204.
12
Scorsese secondo Scorsese, a cura di I. Christie, D. Thompson, cit., p. 239.
13
Ivi, p. 242.
11
156
FATA MORGANA
Il titolo come sintesi visuale: i Bass per Scorsese
tratti una sfumatura inevitabilmente ironica. Ascoltiamo così la testimonianza
di Sam, figura caratterizzata da una sorta di ossessione per il controllo e di
alienazione emotiva, ma anche i monologhi di Nicky, quasi delle prediche
volte a una esaltata giustificazione del crimine come stile di vita.
In questo film in particolare, a partire dalla questione generale della possibilità della fiducia in un mondo di eccessi, descritto con eccesso di musica
e di colori, Scorsese si concentra in modo più esplicito su alcuni elementi
anche in questo caso già presenti in altre sue opere. In primo luogo, al centro
del racconto è l’ossessione per il denaro, che alimenta l’intero sistema in
ogni sua componente e divora il personaggio femminile portandolo all’autodistruzione. Nella prima parte del racconto, mentre la voce off di Nicky
Santoro descrive i meccanismi su cui si fondava il controllo malavitoso dei
casinò di Las Vegas all’inizio degli anni Settanta, i soldi guadagnati dalla
gestione del gioco d’azzardo vengono seguiti con la steady-cam nel loro
percorso fino alla “stanza conteggi”, centro nevralgico del sistema in cui
il denaro viene ammassato, contato freneticamente, diviso in parti, riposto
nelle varie casseforti, e da cui poi verrà sottratta ogni mese, nella finta inconsapevolezza di tutti, la somma da consegnare ai boss di Kansas City. I
soldi sono naturalmente anche l’obiettivo dell’escalation di crimini e rapine
che porterà il gangster Santoro al declino e, più in generale, costituiscono
il motore della costruzione dell’intera città.
Una vera fissazione per il denaro consuma patologicamente anche la figura di Ginger, che Rothstein nota per la prima volta attraverso le telecamere
di sorveglianza del suo casinò proprio mentre raggira clamorosamente uno
dei clienti, per poi buttare in aria tutte le fiches da lui vinte durante la serata
al suo rifiuto di regalarle più denaro. Sam se ne innamora immediatamente
e l’inquadratura successiva ce lo mostra nell’atto di regalarle una spilla
preziosa. La ritroviamo poi, in un susseguirsi di scene, mentre divide i soldi
in parti, li ripone, li porta con sé per distribuire mazzette costruendo così
una rete di relazioni atte a perpetrare indisturbata le sue truffe. La valigetta
piena di gioielli che Sam offre alla moglie come regalo di nozze – insieme
al milione di dollari che le affiderà – è al centro di una delle scene più importanti ai fini della costruzione del personaggio, quella in cui Ginger ne
mostra il contenuto alla figlia: in primo piano una pesante collana d’oro,
e soltanto sullo sfondo il volto fuori fuoco della donna, quasi deformato
dalla brama. E l’oro ritorna nel vestito di lamé dorato, voluto appositamente
eccessivo e di cattiva fattura dalla stessa attrice, che il personaggio indossa
nell’ultima parte del film, disfatta dall’alcol e dalle droghe e vicina alla fine.
Un cattivo gusto che ritorna nel modo in cui lo scenografo, Dante Ferretti,
ha magistralmente arredato la casa dei due coniugi, un ambiente grandioso
e inquietante, in cui il letto maestoso è una sorta di fondale di seta di quella
FATA MORGANA
157
Daniela Angelucci
che si presenta come una battaglia all’ultimo sangue.
Il vero centro del film, tuttavia, è il tema religioso della caduta, della
cacciata da un universo al di sopra delle leggi che per alcuni costituiva un
paradiso, sebbene, naturalmente, un paradiso infernale. Scorsese ci mostra
infatti Sam Rothstein sul punto di ottenere il suo eden pagano in terra: si
trova nell’unico posto al mondo in cui per i suoi crimini non viene arrestato,
ma premiato come cittadino influente; e perderà tutto a causa dell’orgoglio
e dell’avidità. Si tratta, come dirà lo stesso regista, della storia dell’Antico
Testamento: quello che ci viene narrato dalla voce fuori campo è il crollo
di un mondo, la fine di un’epoca e di un vecchio modo di vivere.
È tutto questo che viene condensato nell’infernale title sequence dei Bass,
posta tra la prima scena e il resto del film. Dopo l’apparizione della scritta
bianca su fondo nero che indica la data, il 1983 (dunque siamo alla fine della
vicenda narrata), la prima inquadratura si sofferma su una porta lussuosa dalla
quale esce, fumando, un elegantissimo De Niro, la cui voce off pronuncia la
frase: «Quando ami una persona devi fidarti di lei, non c’è altro modo… E
per un po’ ho creduto di avere un amore così». Subito dopo, Rothstein entra in
macchina, mette in moto e l’auto esplode. Sullo sfondo delle fiamme e della
sagoma nera di un corpo che salta in aria cominciano a scorrere le scritte bianche dei titoli, mentre parte la musica sacra ed estrema della Passione secondo
Matteo di Bach. Inizia qui, senza soluzione di continuità, la sequenza girata dai
Bass: il fuoco si trasforma in uno sfavillio indistinto d’oro, di luci fluorescenti
e di brillanti figure fuori fuoco, che ruotano come roulette, lampeggiano e
si mostrano per qualche attimo come insegne e scritte laser di richiamo, ma
sfocate e riprese così da vicino da non poter essere decifrate. Questo sfondo
scintillante e nebuloso ritornerà a tratti nel corso del film, a incorniciare i
primi piani dei personaggi colti da vicino nelle loro scorrerie nella “città del
peccato”. Al termine della sequenza, di nuovo appare il fuoco, e la sagoma
nera, prima proiettata verso l’alto, ora cade verso il basso «precipitando lentamente verso l’inferno», come dirà nel suo commento al film la montatrice
Thelma Schoonmaker, definendo la sequenza un capolavoro.
La ripresa della musica di Bach collega questo inizio folgorante con
le immagini finali, che mostrano la demolizione dei palazzi di Las Vegas,
riunendo i temi conduttori della caduta e dell’ossessione del denaro: ma la
città in stile disneyano che soppianterà i vecchi edifici dopo il loro crollo
avrà in realtà ancora il guadagno come fine ultimo e supremo, seppure in
un contesto in cui la tipica famiglia americana si sostituisce alle figure del
passato, agli scommettitori, i gangster, i truffatori. «E mentre i bambini
giocano coi pirati – avverte la voce off di De Niro scampato, con un colpo
di scena finale, all’attentato che dà inizio al film – mamma e papà lasciano le
rate della casa e i soldi per l’università del piccolo nelle slot machines».
158
FATA MORGANA
L’immagine giocata.
Il dibattito sul videogame
e la questione del visuale
Ruggero Eugeni
I new media e l’esperienza del visuale
Questo intervento muove da due convinzioni di fondo. La prima è che ciò
che chiamiamo il “visuale” rimanda a un particolare tipo di esperienza che
facciamo delle immagini e con le immagini: più che di “visuale” in senso
generale parleremo dunque di “esperienza (del) visuale”. In secondo luogo
questo tipo di esperienza è emerso ed emerge a partire dall’uso dei cosiddetti
nuovi media: questo non implica necessariamente che l’esperienza visuale sia
legata in forma esclusiva ai nuovi media; ma è importante prendere nota del
fatto che le nuove forme dell’esperienza mediale hanno rivestito un ruolo di
rilievo nell’isolare e mettere a fuoco l’esperienza visuale. Queste considerazioni pongono il mio intervento all’interno della terza prospettiva disegnata
nell’Introduzione a questo numero di “Fata Morgana”, la prospettiva culturologica e mediologica; tuttavia ritengo che da questo punto di vista sia possibile
avanzare anche alcune osservazioni di ordine ontologico e gnoseologico.
In questo intervento intendo mettere a fuoco i tratti di fondo dell’esperienza visuale. Procederò analizzando un settore circoscritto del dibattito
intorno ai nuovi media: quello relativo al videogioco e al suo rapporto con
il cinema. In particolare isolerò due ampi approcci (correlati ma distinti) al
videogioco: il primo pone la questione della narrazione nel nuovo mezzo,
mentre il secondo affronta il problema della rimediazione al suo interno
di media precedenti e in particolare del cinema. Le ragioni della scelta del
videogioco quale oggetto di attenzione sono sostanzialmente tre: il dibattito
sul videogioco si presenta relativamente unitario e definito rispetto ad altri
ambiti dei new media; esso inoltre tocca e sintetizza molte questioni di più
ampia portata relative ai new media (quelle della digitalizzazione, della
simulazione, ecc.); ipotizzo infine che l’attività ludica riguardi direttamente
l’esperienza di relazione con l’immagine prospettata dai new media e aiuti
quindi in modo particolare una riflessione sull’esperienza visuale.
FATA MORGANA
159
Ruggero Eugeni
Videogioco e narrazione
Un approccio specifico di taglio teorico al videogioco (videogame,
computer game, digital game) si profila già negli anni Ottanta: i primi a
riflettere sul nuovo medium sono i game designers, come per esempio Chris
Crawford1. Occorre attendere tuttavia la seconda metà degli anni Novanta
per trovare una precisa attenzione ai videogames e individuare una prima
ondata di studi. Le opere più influenti sono quelle di Janet Murray, Marie
Laure Ryan e Espen Aarseth2. Tratto comune di questi lavori è il considerare
i videogiochi come oggetti esemplari di nuove tendenze della testualità e
della narrazione proprie dei nuovi media, e di leggerli quindi in connessione
con altri mezzi di comunicazione ipertestuali interattivi e multimediali. Una
distinzione tra i tre autori si disegna invece nell’intendere il potenziale innovativo dei videogiochi. Da un lato, Murray e Ryan collegano il videogioco
allo sviluppo della letteratura scritta e sottolineano la sua natura narrativa e
immersiva; i loro strumenti sono derivati principalmente dalla teoria della
letteratura e da quella della narrazione, in particolare dalle teorie dei mondi
di finzione. Dall’altro lato, Aarseth sottolinea che i videogiochi – come tutti
i nuovi tipi di cybertexts (ipertesti, MUDs, ecc.) – spostano l’attenzione dal
testo alle proprie pratiche di fruizione definite “ergodiche” (ovvero attive,
interattive, complesse): in tal modo essi aprono un orizzonte di studio di tipo
radicalmente nuovo e si connettono ad alcune pratiche sociali storicamente
attestate quali il gioco o l’interrogazione oracolare.
Questa distinzione viene radicalizzata dalla seconda ondata di studi sui
videogiochi, all’inizio del 2000. Nel 2001 Espen Aarseth dà vita alla rivista
1
C. Crawford, The Art of Computer Game, McGraw Hill-Osborne Media, Berkeley 1984,
disponibile on line http://www.vancouver.wsu.edu/fac/peabody/game-book/#game. Alcune ricostruzioni dell’evoluzione degli studi sul videogioco e sul panorama attuale sono in Introduction,
The Video Game Theory Reader, a cura di M.J.P. Wolf, B. Perron, Routledge, New York-London
2003, pp. 1-24; J. H. Smith, Computer Games Research 101. A Brief Introduction to the Literature,
in Game Research, posted December 1 2002, updated October 23, 2006, http://game-research.
com/index.php/articles/computer-game-research-101-a-brief-introduction-to-the-literature/; S.
Egenfeldt-Nielson, J. Heide Smith e S. Pajares Tosca, Understanding Video Games: the Essential
Introduction, Routledge, New York-London 2007, in particolare pp. 7-11.
2
E.J. Aarseth, Cybertext: Perspectives on Ergodic Literature, Johns Hopkins University
Press, Baltimore-London 1997; J. Horowitz Murray, Hamlet on the Holodeck: The Future of
Narrative in Cyberspace, MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1997; M.-L. Ryan, Possible
Worlds. Artificial Intelligence and Narrative Theory, Indiana University Press, Bloomington
1991; M.-L. Ryan, Narrative as Virtual Reality: Immersion and Interactivity in Literature and
Electronic Media, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 2001. Le posizioni di
Aarseth riprendono per alcuni aspetti il lavoro di Brenda Laurel, Computers as Theatre, Addison-Wesley, Readings (MA) 1993.
160
FATA MORGANA
Lʼimmagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale
on line Game Studies. Già nel suo editoriale del primo numero3 vengono
dichiarate posizioni e intenti della rivista: distinguere i videogiochi dal panorama dei new media e sottrarre il loro studio agli approcci mediali e di teoria
della letteratura o del cinema – una mossa al tempo stesso teorica, tattica e
di politica accademica. A proposito del secondo punto diviene centrale la
questione della presenza o meno di narrazione (narrative) nei videogiochi4:
in linea con l’intento “autonomista” di Aarseth, gli studiosi che a vario titolo
partecipano ai lavori della rivista tendono a negare la presenza di racconto
nel videogioco. Secondo Markku Eskelinen per comprendere i videogiochi
occorre concentrarsi sulla situazione di gioco (gaming situation), all’interno
della quale non si svolge alcuna narrazione: nessuno racconta a qualcun
altro una storia e non c’è quindi un’organizzazione discorsiva di eventi
in una serie cronologica e causale coerente5. Gonzalo Frasca sovrappone
all’opposizione gioco-racconto quella tra simulazione e rappresentazione
(narrativa): i giochi e i videogiochi condividono con la narrazione vari
elementi (personaggi, luoghi, eventi), ma la logica che unifica tali elementi
non è quella della rappresentazione narrativa quanto piuttosto quella della
simulazione, ovvero della modellazione di un sistema sorgente mediante
un sistema differente che mantiene alcuni dei comportamenti del sistema
sorgente6. Come osserva Aarseth:
3
E. J. Aarseth, Computer Game Studies, Year One, in “Game Studies”, n. 1 (2001), http://
www.gamestudies.org/0101/editorial.html. Per alcune disamine delle questioni legate alla polemica tra ludologi e narrativisti cfr. J. Newman, Videogames, Routledge, London-New York
2004, pp. 91-106; B. Neitzel, Narrativity in Computer Games the Essential Introduction, in
Handbook of Computer Game Studies, a cura di J. Raessens, J. Goldstein, MIT Press, Cambridge
(Mass.)-London 2005, pp. 227-245; D. Buckingham, Studying Computer Games in D. Carr, D.
Buckingham, Computer Game: Text, Narrative and Play, Polity Press, Cambridge 2006, pp.
1-14; S. Egenfeldt-Nielson, J. Heide Smith, S. Pajares Tosca, Understanding Video Games, cit.,
pp. 189-294; I. Simons, Narrative, Games and Theory, in “Game Studies”, n. 1 (2007) http://
gamestudies.org/0701/articles/simons; S.E. Jones, The Meaning of Video Games: Gaming and
Textual Strategies, Routledge, New York-London 2008.
4
«As questions go, this is not a bad one: Do games tell stories? Answering this should tell
us both how to study games and who should study them. The affirmative answer suggests that
games are easily studied from within existing paradigms. The negative implies that we must
start afresh», J. Juul, Games Telling stories? A Brief Note on Games and Narratives, in “Game
Studies”, n. 1 (2001), http://www.gamestudies.org/0101/juul-gts/, ora in Handbook of computer
game studies, a cura di J. Raessens, J. Goldstein, cit., pp. 219-226.
5
M. Eskelinen, The Gaming Situation, in “Game Studies”, n. 1 (2001), http://www.gamestudies.org/0101/eskelinen/.
6
G. Frasca, Simulation versus Narrative. Introduction to Ludology, in The Video Game
Theory Reader, a cura di M.J.P. Wolf e B. Perron, cit., p. 223.
FATA MORGANA
161
Ruggero Eugeni
The computer game is the art of simulation. A subgenre of simulation, in other words […]. Simulation is the hermeneutic Other of
narratives: the alternative mode of discourse, bottom up and emergent
where stories are top – down and preplanned. In simulations knowledge and experience is created by the player’s actions and strategies,
rather than recreate by a writer or a movie maker7.
Contro queste posizioni altri autori (per esempio Murray, Ryan o Kücklich8) hanno d’altro canto riaffermato la natura narrativa e la funzione di
storytelling dei videogiochi e quindi la rilevanza degli strumenti narratologici
nella loro analisi.
La successiva evoluzione del dibattito in una terza ondata di studi ha
visto via via attenuarsi un’opposizione troppo netta tra giochi e narrazioni.
Alla base di tale ripensamento sta un fondamentale spostamento teorico: da
un’idea di narrazione come struttura narrativa a vario titolo “depositata”
all’interno del testo, si è passati all’idea di narrazione in quanto forma e
strumento di una esperienza. Questo spostamento, che parte da una generale
insoddisfazione per termini e concetti adoperati nel dibattito precedente9,
conosce differenti e più o meno radicali versioni.
Una prima strategia, molto diffusa, consiste nello spazializzare il racconto, e considerarlo non in quanto costituzione di strutture lineari ma piuttosto
in quanto esperienza di costruzione ed esplorazione di mondi finzionali. Per
esempio Jesper Juul ha sostenuto che «[…] Videogames are two different
things at the same time […]. To play a videogame is […] to interact with
real rules while imagining a fictional world, and a videogame is a set of
E. Aarseth, Genre Trouble: Narrativism and the Art of Simulation, in First Person: New
Media as Story, Performance and Game, a cura di P. Harrigan, N. Wardrip-Fruin, MIT Press,
Cambridge (Mass.)-London 2004, p. 52.
8
J. Murray, From Game Story to Cyberdrama, in First Person: New Media as Story, Performance and Game, a cura di P. Harrigan, N. Wardrip-Fruin, cit., pp. 2-11; M.-L. Ryan, Avatars of
Story, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2006, J. Kücklich, Literary Theory and
Digital Games, in Understanding Digital Games, a cura di J. Rutter e J. Bryce, Sage, Thousand
Oaks (Calif.) 2006, pp. 95-111.
9
Come riassume Frasca, «In order for the debate to advance, it seems that narrativists need an
alternative definition of narrative», G. Frasca, Ludologists love stories, too: notes from a debate
that never took place, 2003, http://www.ludology.org/articles/Frasca_LevelUp2003.pdf. Occorre
aggiungere che l’affievolirsi della discussione è anche determinato da nuovi interessi di studio, in
particolare per le pratiche di gioco multiplayers on line e in genere per il saldarsi dei fenomeni di
videogioco con le varie forme di social networking all’interno del web 2.0: cfr. The Video Game
Theory Reader 2, a cura di M.J.P. Wolf, B. Perron, Routledge, New York-London 2008.
7
162
FATA MORGANA
Lʼimmagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale
rules as well a fictional world»10. All’interno dell’esperienza di gioco la
consapevolezza delle regole e la relazione con un mondo finzionale sono
compresenti, competono e interagiscono costantemente.
Il tentativo più coerente di definizione degli spazi del videogioco in
funzione narrativa è quello di Henry Jenkins11. Secondo l’autore gli aspetti
narrativi dell’esperienza di gioco derivano dagli aspetti spaziali, proseguendo una tradizione radicata nel romanzo fantastico dell’Otto e Novecento
di “spatial stories” o “enviromental storytelling” che ha preso la forma del
racconto di viaggio, esplorazione, fuga o ricerca (quest)12: «It makes sense
to think of game designers less as storytellers than as narrative architects»13.
L’esperienza spaziale genera quella narrativa in base a quattro possibili
modalità: gli Evocative Spaces presentano segnali evocativi e citazionismi
di mondi finzionali già conosciuti dal giocatore; nel caso delle Enacting
Stories, invece, il racconto emerge nella forma di singoli episodi legati
al soddisfacimento di uno specifico obbiettivo o nella risoluzione di uno
specifico conflitto, che possono risultare isolati o connessi a uno sviluppo
più ampio; nel caso delle Embedded Narratives la comprensione narrativa
del giocatore è legata al reperimento di indizi “incapsulati” nello spazio finzionale (ciò che peraltro rende possibili, contro il parere di alcuni ludologi,
anche effetti di flashback nel videogioco, per esempio in Myst o in alcuni
giochi investigativi); infine gli Emergent Narratives fanno riferimento a
giochi di simulazione, come The Sims, costituiti da storie aperte, in costante
evoluzione, i cui principali vincoli derivano dalle possibilità di esplorazione
dello spazio da parte dei personaggi.
Una seconda strategia propria della terza ondata di studi sul videogioco
radicalizza ulteriormente l’idea che il racconto vada pensato in relazione
allo svolgimento di una esperienza: gli autori focalizzano ora l’esperienza
J. Juul, Half-Real: Video Games between Real Rules and Fictional Worlds, MIT Press,
Cambridge (Mass.)-London 2005. In modo analogo M. Maietti, Semiotica dei videogiochi,
Unicopli, Milano 2004, propone un’analisi dei “mondi possibili videoludici” sulla base delle
categorie di U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979.
11
H. Jenkins, Game Design as Narrative Architecture, in First person: New Media as Story,
Performance and Game, a cura di P. Harrigan, N. Wardrip-Fruin, cit., p. 121.
12
Si tratta di un’idea molto vicina a quanto espresso da E. Aarseth, Quest Games and PostNarrative Discourse, in Narrative Across Media, a cura di M.-L. Ryan, University of Nebraska
Press, Lincoln (Nbr.) 2004, pp. 361-376 e da C. Pearce, Story as Play Space: Narrative in Games,
in Game on: The History and Culture of Videogames, a cura di L. King, Universe Publishing, New
York 2002, pp. 112-119. Cfr. anche M. Fuller, H. Jenkins, Nintendo© and the New World Travel
Writing: A Dialogue, in Cybersociety: Computer Mediated Communication and Community, a
cura di S.G. Jones, Sage, Thousand Oaks (Cal.)-London 1995, pp. 57-72.
13
H. Jenkins, Game Design as Narrative Architecture, cit., p. 129.
10
FATA MORGANA
163
Ruggero Eugeni
stessa, rinunciando a pensarla in relazione allo spazio definito dal testo; la
radicalizzazione sta dunque nel passaggio deciso da un paradigma testuale
a una paradigma esperienziale. Il contributo più chiaro al proposito mi
sembra quello di Torben Grodal14. L’idea di fondo di Grodal è che i media
non “contengono” storie (secondo il punto di vista classico, che si riferisce
in particolare ai media scritti, rappresentato da studiosi citati sopra quali la
Brenda Laurel e Marie-Laure Ryan), ma piuttosto permettono al loro fruitore
di vivere in forma simulata l’esperienza della narrazione che si produce nella
immersione diretta, situata e corporea nel mondo. Per Grodal
A story is sequence of events focused by one (a few) living
being(s); the events are based on simulations of experiences in which
there is a constant interaction of perceptions, emotions, cognitions
and [motor] actions. […] The experience of the stories is based on
central embodied mental mechanisms. […]
The story experience need not to have any verbal representation,
as the ability to “hold” the story in the consciousness (including ideas
of future possibilities) that is important for prolonged action patterns
can take place on a nonverbal perception–emotion–motor level15.
A partire da qui il racconto (narrative) non viene più descritto in relazione
alle particolari realizzazioni mediali, ma piuttosto in riferimento all’esperienza di vita reale; e le stesse «media representations [and narratives] are better
described as different realizations of basic real-life experiences», in base a
un paradigma di studi presente nel campo del cinema già nella riflessione
di Hugo Münsterberg (1916). In particolare Grodal riprende esplicitamente
alcune idee del neurologo Antonio Damasio: secondo Damasio la forma
14
T. Grodal, Stories for Eye, Ear and Muscles. Video Games, Media and the Embodied
Experience, in The Video Game Theory Reader, a cura di M. Wolf, B. Perron, cit., pp. 129-155,
ora rifluito in Id. Embodied Visions: Evolution, Emotion, Culture, and Film, Oxford University
Press, New York 2009. Vicino a queste posizioni si colloca anche l’intervento di Marsha Kinder
che, contro la concezione narratologica formalista e “cyber strutturalista” di Manovich, assume
un’idea ampia di narrazione in quanto legata alla messa in forma dei dati informativi e le cui
funzioni sono estetiche, ideologiche e cognitive: «with these interwoven functions, narrative maps
the world and its inhabitants and locates us within this changing textual landscape, constantly
broadening our mental cartography. The broader definition of narrative enables us to see games as
a special kind of narrative, rather than a rival form» M. Kinder, Narrative Equivocations between
Movies and Games, in The New Media Book, a cura di D. Harries, British Film Institute, London
2002, in The Video Game Theory Reader, a cura di M. Wolf, B. Perron, p. 122.
15
T. Grodal, Stories for Eye Ear and Muscles. Video Games, Media and the Embodied Experience, in The Video Game Theory Reader, a cura di M. Wolf, B. Parron, cit., pp. 130-132.
164
FATA MORGANA
Lʼimmagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale
basilare di narrazione consiste nella descrizione delle relazioni in fieri tra il
nostro organismo (ovvero il sistema unitario di mente e copro) e il mondo
esterno: si tratta di una narrazione in prima persona, non verbale (Damasio
parla di un “film nel cervello”), che si svolge al presente, assume la forma
della modulazione di mappe somatiche e lega intimamente percezione, cognizione, emozione e controllo motorio-attivo. Queste narrazioni “nucleari”
sono transitorie, ma vengono rielaborate ed entrano a far parte di costruzioni
narrative “autobiografiche” a più ampio raggio16.
Possiamo a questo punto tirare qualche conclusione del dibattito sulla
presenza o meno del racconto nel videogioco. Esso ci ha mostrato che una
componente narrativa è senz’altro presente nei giochi digitali; ma che essa
non si può cogliere mediante gli strumenti narratologici tradizionali di derivazione testuale (strutture narrative, relazioni tra fabula e intreccio, ecc.
– neppure se aggiornate e adattate ai nuovi media in base all’idea di ipertesto).
Occorre piuttosto effettuare un cambio di paradigma e ripensare la narrazione e il racconto in relazione all’esperienza di fruizione del videogioco.
Da questo nuovo e differente punto di vista la narrazione appare come una
pratica cognitiva ed emotiva, situata e incorporata, necessaria per monitorare
e controllare nel loro svilupparsi le relazioni tra organismo e ambiente.
Videogioco e rimediazione
Alla fine degli anni Novanta, più o meno in contemporanea con la prima
ondata di studi specifici sul videogioco, David Bolter e Richard Grusin
pubblicavano il loro volume sulla rimediazione17. Veniva avviata in tal
modo una discussione sulle relazioni tra new e old media, sull’effettiva
novità dei new media e in sostanza sulla stessa definizione di medium, che
era destinata a svilupparsi negli anni successivi. Tale discussione coinvolge
anche i videogiochi (in particolare per le loro relazioni con il cinema), si
configura come un secondo approccio a tale oggetto di studio e ripropone in
chiave più ampia18 rispetto alla discussione sul racconto la questione della
loro novità e specificità rispetto ai media precedenti.
16
6 e 7.
A.R. Damasio, Emozione e coscienza, tr. it., Adelphi, Milano 2000, in particolare capp.
17
Cfr. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e
nuovi, tr. it., Guerini e Associati, Milano 2003.
18
Più ampia nel duplice senso che considera altri componenti oltre alla narrazione e che
abbraccia altri new media oltre il videogioco.
FATA MORGANA
165
Ruggero Eugeni
Come è noto il libro di Bolter e Grusin si basa su due idee di fondo. La
prima è che la cultura dei media digitali esprime una doppia pulsione: da
un lato verso una cancellazione della presenza dei media e quindi verso
una immediatezza trasparente; dall’altro verso una presenza proliferante
dei dispositivi mediali e quindi verso una ipermediazione. La seconda idea
di fondo del libro è che nella cultura digitale si assiste in continuazione alla
“rappresentazione di un medium all’interno di un altro medium”, ovvero al
processo di rimediazione19.
Osserviamo di sfuggita (riprenderemo questo punto nelle conclusioni) che
l’intervento dei due autori non fornisce criteri e indicazioni né per connettere
chiaramente le due idee di base né per spiegare in che modo si risolva la
tensione tra trasparenza e ipermediazione. Alla base di questo vuoto teorico
sta a mio avviso l’assenza di una discussione su cosa sia e come sia possibile
definire un medium. La definizione offerta da Bolter e Grusin (un medium
è «ciò che rimedia. Un medium si appropria di tecniche, forme e significati
sociali di altri media e cerca di competere con loro o di rimodellarli in nome
del reale»20) evita di affrontare la questione se tale definizione deve essere di
tipo essenzialista e ontologico oppure di tipo culturologico ed esperienziale
(o, nel caso si accettino entrambi i criteri, che legame vi sia tra essi). Nel
primo caso il medium verrebbe definito in base ai suoi caratteri intrinseci,
eventualmente legati alle modalità di produzione e riproduzione dei materiali sensoriali che esso veicola (per esempio le modalità di produzione,
manipolazione ed esibizione dell’immagine digitale); nel secondo caso il
medium verrebbe definito in base al tipo di esperienza che esso procura
e quindi in relazione alle specifiche competenze culturalmente situate (di
tipo percettivo, cognitivo, emotivo e operativo) che richiama nel fruitore
(per esempio la riattivazione di competenze legate alla fruizione televisiva
o cinematografica pur in presenza di immagini digitali).
Rispetto a una simile alternativa, il noto intervento di Lev Manovich
sui Linguaggi dei nuovi media si muove verso una concezione di tipo
culturalista21 (per quanto anch’esso non espliciti la questione teorica della
definizione di medium). Manovich parte dall’idea che il computer, in quanto
nuovo mezzo espressivo, è un “meta medium”; esso nasce dalla convergenza
delle tecnologie informatiche e digitali con quelle mediali ma, soprattutto,
dalla convergenza di forme e competenze culturali legate all’uso di media
J.D. Bolter e R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e
nuovi, cit., p. 73.
20
Ivi, p. 93.
21
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, tr. it., Olivares, Milano 2002.
19
166
FATA MORGANA
Lʼimmagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale
precedenti; tra questi un posto di particolare rilievo viene occupato dal
cinema, che costituisce una “interfaccia culturale” privilegiata:
Un elemento dopo l’altro, il cinema viene letteralmente travasato
nel computer: prima la prospettiva lineare da un unico punto di vista,
poi la cinepresa e l’inquadratura rettangolare, poi le convenzioni cinematografiche e di montaggio; e, ovviamente, i personaggi digitali basati
su convenzioni recitative prese a prestito dal cinema, a cui seguiranno
il trucco, la progettazione del set e le stesse strutture narrative. Invece
di essere solo uno dei tanti linguaggi culturali, il cinema sta diventando
l’interfaccia culturale: una scatola degli attrezzi per tutta la comunicazione culturale, che viene a prendere il posto della parola stampata22.
L’intervento di Manovich ha avuto negli ultimi anni un buon successo: esso
per un verso ha aperto la possibilità di affrontare i new media a partire dalla
“scatola degli attrezzi” messa a punto dai film studies (ritualizzando concetti
e strumenti di analisi quali il punto di vista, la mise en scène, la dialettica tra
racconto e attrazione, ecc.), mentre per altro verso ha contribuito a legittimare
un approccio accademico ai videogames23. Tuttavia alcune critiche hanno
messo in luce il carattere “conservatore” della proposta di Manovich: la sua
interpretazione dei new media si basa sulle forme di rimediazione culturale
degli old media, in particolare del cinema; in tal modo esso non riesce a
cogliere l’effettiva novità dei new media. Questa scelta, comprendiamo ora,
giustifica anche la scelta di una definizione culturalista ed esperienziale del
nuovo medium rispetto a una essenzialista: a livello di pratiche è più facile
cogliere la continuità di usi e abitudini di fruizione e obliterare la novità
radicale legata alla natura digitale dell’immagine algoritmica24.
Ivi, p. 118.
G. King, T. Krzywinska, ScreenPlay: Cinema/videogames/interfaces, Wallflower Press, LondonNew York 2002; F. Grigoletto, Videogiochi e cinema: interattività, temporalità, tecniche narrative
e modalità di fruizione, CLUEB, Bologna 2006; G. King, T. Krzywnska, Film Studies and Digital
Games, in Understanding Digital Games, a cura di J. Rutter, J. Bryce, cit., pp. 112-128; S. Keane,
CineTech: Film, Convergence and New Media, Palgrave Macmillan, Basingstoke (England)-New York
2007; A. Meneghelli, Dentro lo schermo. Immersione e interattività nei god games, Unicopli, Milano
2007; Schermi interattivi: il cinema nei videogiochi, a cura di M. Bittanti, Meltemi, Roma 2008.
24
La tensione tra una definizione essenzialista/ontogenetica del medium digitale e una definizione fenomenologica/esperienziale è al centro dell’intervento di D.N. Rodowick, Il cinema
nell’era del virtuale, tr. it., Olivares, Milano 2008 – cui rinviamo anche per un esame della
bibliografia di area film studies sull’argomento. Nel caso di old media quali fotografia, cinema e
televisione, tra le due definizioni si è assistito a una ricomposizione (per cui il tipo di esperienza di
uso e di fruizione risulta consapevole della natura e delle forme di riproduzione dell’immagine);
22
23
FATA MORGANA
167
Ruggero Eugeni
Questo tipo di critica a Manovich e, al contempo, il tentativo di elaborare
una teoria esperienziale dell’immagine digitale che ne valorizzi i caratteri
innovativi rispetto all’immagine analogica, innervano un recente libro di
Marc Hansen25. L’intervento di Hansen, molto ampio e complesso, riguarda
direttamente la new media art, ma di fatto analizza le nuove forme artistiche
come tali da manifestare qualità e tendenze generali dell’immagine digitale
e come tale ci sembra pertinente al nostro discorso.
Alla base del discorso di Hansen sta la convinzione che i new media, e
in particolare la natura digitale dell’immagine su cui essi si basano, costituiscono per il fruitore una forma inedita di esperienza incorporata26. La
novità di tale esperienza consiste nell’avvertire l’immagine non più come
il risultato unitario di un processo, ma piuttosto in quanto processo non
unitario in atto; in quanto tale, l’immagine viene sentita come intimamente legata al corpo del soggetto quale attore di una percezione “enattiva” e
l’immagine digitale si sottrae invece (almeno per il momento) a un simile allineamento: da un
lato le modalità di produzione e la natura dell’immagine digitale sono radicalmente differenti
da quelle di fotografia e cinema, ma per altro verso assistiamo (secondo l’idea di Manovich)
alla «persistenza di un’idea di cinema nei nuovi media come loro modello culturale ed estetico
predominante, con lo scopo di aiutare la visione e l’immaginazione degli spettatori. Ma questo
significa anche che è difficile immaginare quali tipi di esperienze estetiche verranno introdotte
dai processi computazionali una volta che questi si saranno emancipati dalla metafora cinematografica e avranno iniziato a esplorare le loro forze creative autonome», pp. 115-116.
25
M.B.N. Hansen, New Philosophy for New Media, The MIT Press, Cambridge (Mass.)London 2004. Sono molto grato a Francesco Casetti per avermi segnalato questo volume e per
avermi informato del dibattito che esso ha suscitato nel mondo anglosassone.
26
Non possiamo addentrarci troppo nei presupposti teorici dell’intervento di Hansen. Sia
sufficiente ricordare che egli intende riprendere, sulla scia del lavoro di Deleuze sul cinema, la
lezione del Bergson di Materia e memoria adattandola però alle sollecitazioni offerte dei nuovi
media. In particolare Hansen sottolinea come l’idea bergsoniana del corpo in quanto centro di
indeterminazione all’interno di un aggregato o flusso di immagini acentrico, e l’assegnazione al
corpo di un ruolo di filtro e di selettore in riferimento all’azione di cui esso è portatore, connette in
modo profondo e radicale corpo e percezione. Una simile posizione implica alcune mosse teoriche
rilevanti. Da un lato Hansen mette in atto una valorizzazione “ermeneutica” della percezione e della
affezione che sono estranee allo stesso Bergson (operazione effettuata da Hansen sulla scia di altri
teorici dell’embodiement in chiave culturalista, in particolare B. Massumi, Parables for the Virtual:
Movement, Affect, Sensation, Duke University Press, Durham 2002. Le idee di Massumi sono state
applicate al videogioco da E. Shinkle, Corporealis ergo sum. Affective response in Digital games,
in Digital gameplay: essays on the nexus of game and gamer, a cura di N. Garrelts, McFarland
& Co., Jefferson (N.C.) 2005, pp. 21-35). Dall’altro Hansen torna criticamente sulla riflessione
che Deleuze dedica al cinema, con l’intento di “reincorporare” il soggetto bergsoniano rispetto
all’operazione di “disembodying” effettuata dal filosofo francese: «Our effort to redeem Bergson’s
embodied conception of the center of indetermination will ultimate require us to reverse the entire
trajectory of Deleuze’s study , to move not from the body to the frame, but from the frame (back)
to the body for New Media», M.B.N. Hansen, New Philosophy for New Media, cit., p. 7.
168
FATA MORGANA
Lʼimmagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale
sensomotoria – specchio, documento o reperto indiziario vivo e fluido del
proprio prodursi mediante i processi percettivi in atto:
If the digital image is an accumulation of […] discontinuous
fragments, each of which can be addressed independently of the
whole, there is no longer anything materially linking the content of
the image with is frame, understood […] as a cut into the flux of the
real […]. We must accept that the image […] demarcates the very
process through which the body, in conjunction with the various
apparatuses for rendering information perceptible, gives form to or
in-form informations. In sum, the image can no longer be restricted to
the level of surface appearance, but must be extended to encompass
the entire process by which information is made perceivable through
the embodied experience27.
Di qui, come dicevamo, la critica a Manovich. Secondo Hansen l’impostazione scelta da Manovich implica la deprivazione del carattere di
novità dei nuovi media i quali non farebbero che riprendere, prolungare
e amplificare i caratteri culturali di media precedenti e in particolare del
cinema. Alla radice di questa posizione sta la mancata valorizzazione del
nuovo tipo di relazione tra soggetto e immagine implicata dall’immagine
digitale. Manovich secondo Hansen coglie bene il carattere operativo e
operazionale delle immagini digitali, ma non giunge a comprendere che
il carattere dell’immagine digitale è radicalmente processuale: «It is not
simply that the image provide a tool for the user to control the “infoscape”
of contemporary material culture, as Manovich suggests, but rather than the
“image” has itself become a process and, as such, has become irreducibly
boud up with the activity of the body»28.
Possiamo a questo punto tirare qualche conclusione circa questo secondo
approccio teorico al videogioco, considerato in quanto luogo di rimediazione
tra vecchi e nuovi media. Anche in questo caso – anche se per ragioni differenti rispetto al dibattito sulla presenza o meno di racconto nei videogames
– l’analisi dell’esperienza di fruizione si è dimostrato un luogo cruciale
per cogliere natura e processi dei nuovi media. Come gli altri new media,
il videogioco si presenta per un verso come un dispositivo che richiama e
chiede di mobilitare competenze fruitive proprie dei media precedenti (in
particolare del cinema); per altro verso come un dispositivo che innesta tali
27
28
Ivi, pp. 10-11.
Ivi, p. 10. Cfr. anche pp. 32-46.
FATA MORGANA
169
Ruggero Eugeni
richiami su una base inedita e su nuove forme di percezione dei materiali
sensoriali esibiti. Nell’avvertire questa novità giocano un ruolo chiave la
percezione della natura non unitaria, fluida, manipolabile e processuale
dell’immagine digitale.
Giocare (con) le immagini. Per una definizione dell’esperienza visuale
Ripercorriamo rapidamente le conclusioni cui siamo giunti alla fine
dei due percorsi di approccio al videogioco. Entrambi orientano la riflessione verso l’esperienza del giocatore e del fruitore di new media, intesa
come esperienza situata, incorporata, culturalmente incapsulata. Tuttavia
i risultati appaiono per certi versi opposti. La riflessione sulla narrazione
ritiene opportuno, con Grodal, applicare all’esperienza di gioco gli stessi
meccanismi narrativi propri dell’esperienza diretta del mondo, consistenti
nella costruzione e modulazione di configurazioni che consentano, orientino e sostengano il monitoraggio delle cangianti relazioni tra organismo
e ambiente. La riflessione relativa alla rimediazione ritiene, con Hansen,
che l’esperienza di fruizione dei new media sia un’esperienza di relazione
con dei materiali discorsivi: con immagini la cui caratteristica principale è
quella di recare una traccia costitutiva del gesto di produzione da parte del
fruitore a partire dal loro carattere fluido, non unitario e processuale.
In altri termini i new media vengono in ogni caso pensati in relazione alle
forme di esperienza, ma nel primo caso tale relazione riguarda un mondo,
mentre nel secondo riguarda dei materiali discorsivi, delle immagini. Sembra
che in tal modo siamo ricondotti all’opposizione individuata e non risolta
da Bolter e Grusin tra trasparenza e ipermediazione, senza avere ancora gli
strumenti per superare o conciliare tale opposizione.
Giunti a questo punto di apparente stallo, intendo suggerire che tale opposizione può e deve essere superata facendo interagire le due concezioni, e
che a partire da tale superamento è possibile cogliere gli aspetti caratteristici
dell’esperienza visuale. La mia idea infatti è che l’esperienza del visuale
consista esattamente nell’esperire l’immagine – nella sua consistenza e nel
suo spessore di oggetto di mediazione discorsiva – come un mondo. L’immagine non è più semplicemente uno strumento (più o meno trasparente)
che apre un mondo (finzionale, possibile, ecc.): essa assume in sé, senza
perdere il suo statuto di oggetto di discorso, alcuni aspetti e alcune qualità
di un mondo.
Questo approccio presuppone l’idea che ogni esperienza mediale e
mediata implichi la costituzione e la messa in relazione di tre campi di oggetti intenzionali: il mondo esperito direttamente, o mondo diretto, in cui
170
FATA MORGANA
Lʼimmagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale
si muove il fruitore; il mondo esperito indirettamente, o mondo indiretto,
aperto e regolato dai materiali sensoriali veicolati dagli apparati mediali; e
il discorso, oggetto di mediazione tra mondo diretto e indiretto29. Il discorso, all’interno dell’esperienza mediale classica, può essere configurato in
vari modi: come produzione discorsiva in atto, come intreccio di materiali,
come oggetto fisico dotato di estensione spaziale e/o temporale; in ogni caso
esso rimane qualitativamente differente dai mondi che media. Al contrario,
l’esperienza visuale è caratterizzata dal passaggio di alcune qualità dei
mondi all’immagine in quanto oggetto discorsivo. Come il mondo esperito direttamente, l’immagine è ora costantemente soggetta a produzioni e
riproduzioni, trasformazioni e interventi diretti da parte del fruitore: è una
immagine che offre e attende occasioni di intervento, che si modella e si
trasforma in base a tale presenza attiva del fruitore, che costantemente rinvia.
Come il mondo esperito indirettamente, d’altro canto, l’immagine esiste
nei confini regolati dello schermo ed è vincolata da regole di produzione e
manipolazione prefissati30. In altri termini l’esperienza visuale è vincolata
all’immagine come punto di sintesi di discorso e mondo, senza che possa
esservi una riduzione reciproca di un termine all’altro.
Due osservazioni conclusive. In primo luogo l’esperienza visuale è
culturalmente situata, ed è legata in particolare al parziale superamento di
un modello di esperienza mediale e mediata basato sull’unitarietà e sulla
stabilità degli oggetti discorsivi costituiti all’interno dell’esperienza stessa.
D’altra parte una serie di scarti rispetto a tale modello sono sempre stati
presenti: il potere dell’immagine di farsi viva, di animarsi e di agire/interagire con il proprio fruitore – in una parola: di farsi mondo e in quanto tale
non solo stare nel mondo per essere guardata ma “riguardare” il proprio
spettatore – ha costituito uno dei miti e dei motivi di riflessione ricorrenti
della storia delle immagini e della loro esperienza31.
29
Nell’impossibilità di rendere conto dettagliatamente dell’idea di immagine in quanto oggetto
e degli sviluppi teorici recenti in materia, rinvio all’ottima antologia, Teorie dell’immagine. Il
dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Raffaello Cortina, Milano 2009.
30
Sull’esperienza mediale come distinzione e articolazione di relazioni tra i tre campi di
oggetti intenzionali del mondo diretto, discorso e mondo indiretto a partire dai tre strati della
qualificazione sensoriale, dell’ordinamento relativo e della sintonia relazionale cfr. R. Eugeni,
Semiotica dei media. Teoria e analisi dell’esperienza mediale, Carocci, Roma, in corso di stampa. Per un inquadramento storico e teorico dell’esperienza filmica e delle sue trasformazioni
recenti (soprattutto in chiave di “rilocazione” degli schermi) cfr. F. Casetti, Filmic experience,
in “Screen”, n. 1 (2009), pp. 56-66.
31
Indico solo G. Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les Éditions de
Minuit, Paris 1992 e V. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, tr. it., il Saggiatore, Milano 2006. Ai fini del mio discorso è importante distinguere l’idea
FATA MORGANA
171
Ruggero Eugeni
In secondo luogo l’esperienza del visuale è caratterizzata da uno stato di
fluidità, di “mercurialità”, ma anche di ripetibilità, di riavvio, di rebooting:
proprio come la sequenza di un videogioco, la relazione con l’immagine
può essere annullata e fatta ripartire (il termine tecnico è appunto il “reboot” del gioco), azzerata e fatta rinascere ex novo. Si tratta dunque di una
esperienza leggera, il cui modello sembra, più che la caméra-stylo, una
caméra-crayon cancellabile e riscrivibile; una esperienza di prova, di aggiustamento sperimentale di azioni e atteggiamenti: di simulazione, come
ritengono i teorici del videogioco. Un giocare con le immagini, ma anche
un giocare le immagini: un farsi beffa della loro rigidità e sacralità, per fare
ripartire di nuovo l’esperienza che esse ci offrono.
che alcuni soggetti del mondo indiretto escano dallo schermo – cornice per interagire con
il proprio spettatore – dall’idea (che riguarda direttamente l’esperienza del visuale) che sia
l’immagine a farsi viva, e che il discorso si animi e prenda a palpitare, vibrare, luccicare.
172
FATA MORGANA
Ritorno alla madrepatria.
La sala cinematografica
in un’epoca post-mediatica
Francesco Casetti
Anna e Nicole si sono date appuntamento al cinema. Ma sono finite in
due sale diverse: la prima a vedere Questa è la mia vita (1962) di Jean-Luc
Godard, l’altra a vedere The Adjuster (1991) di Atom Egoyan. Anna si mette
in contatto con Nicole attraverso un SMS dal suo cellulare; Nicole lo riceve,
e risponde. Nel film di Godard che Anna sta seguendo, Nana, la protagonista, è entrata in una sala cinematografica, dove proiettano La passione di
Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer. Uno spettatore si siede accanto a Nana,
interessato a lei anziché al film; nello stesso momento, anche nel film che
Nicole sta guardando, una donna al cinema è accostata da uno spettatore,
poco dopo una scena d’orgia forse filmata da qualcuno. Nana continua a
vedere La passione di Giovanna d’Arco: un frate, interpretato da Antonin
Artaud, incalza Jeanne, che gli risponde; Nana si commuove alle lacrime.
Anna invece, che vede queste stesse immagini ospitate dal film di Godard, è
colpita dalla bellezza di Artaud. Sempre con il suo cellulare, riprende allora la
scena, e la invia a Nicole, che si trova così a seguire un secondo film, oltre a
quello per cui ha pagato. Nel momento in cui nelle immagini che le arrivano
sul telefonino viene pronunciata la parola “mort”, ecco che sullo schermo
davanti a lei passa una sequenza di The Adjuster con un grande rogo.
Artaud Double Bill (2007) di Atom Egoyan1 è un film che in tre minuti
* Questo testo nasce da una doppia occasione. Mi è stato chiesto per il libro Film - Kino
- Zuschauer: Filmrezeption / Film - Cinema - Spectator: Film Reception, a cura di I. Schenk,
M. Tröhler, Y. Zimmermann, Schüren Verlag, Marburg 2009/10, nel quale uscirà in tedesco; e
costituisce la base del key-note speech chiestomi da Annette Kuhn per la “Screen Conference”
del cinquantenario della rivista, nel luglio 2009. Ringrazio entrambe, Margrit Tröhler e Annette
Kuhn, per il permesso accordatomi di pubblicarlo in italiano su “Fata Morgana”. Del resto il
testo prosegue una riflessione che avevo cominciato proprio per il numero della rivista dedicato
all’Esperienza, e in cui avevo avanzato la nozione di rilocazione su cui ho nel frattempo continuato a lavorare. Desidero ringraziare Sara Sampietro per le sue osservazioni e suggerimenti,
indispensabili per la versione finale di questo saggio.
FATA MORGANA
173
Francesco Casetti
crea un incredibile gioco di incastri. Abbiamo due spettatrici dei nostri
giorni, Anna e Nicole, che siedono in due sale separate ma che partecipano
l’una alla visione dell’altra; abbiamo due film, Questa è la mia vita e The
Adjuster, che appartengono a due fasi diverse del cinema ma che richiamano
entrambi quanto succede davanti a uno schermo; abbiamo in particolare
Questa è la mia vita che ospita al proprio interno un altro film, La passione
di Giovanna d’Arco, anch’esso di un’epoca precedente; abbiamo di conseguenza Anna, spettatrice odierna del film di Godard, che vede quello che
vede anche Nana, protagonista del film di Godard e dunque spettatrice degli
anni ‘60; abbiamo degli avvenimenti in ciascun film che si richiamano e si
completano l’un l’altro (l’aggressione sessuale, il rogo); abbiamo lo schermo
di un cellulare che catturando e trasmettendo delle immagini prolunga lo
schermo cinematografico; e abbiamo delle parole, sempre sul cellulare, che
descrivono quello che le due amiche stanno vedendo2. Il gioco degli incastri
crea un piccolo capogiro: il mondo sembra vacillare, e noi perderci. Ma
nell’infilata delle situazioni che si rispecchiano reciprocamente, emergono
comunque delle precise indicazioni su che cosa può significare oggi vedere
un film in una sala cinematografica.
Seguiamo allora il triangolo costituito da Anna, Nana e Nicole, attenti alle
divergenze che sembrano istituirsi tra Anna e Nana, spettatrici dello stesso
film, ma su piani diversi, e alle convergenze che sembrano crearsi tra Anna
e Nicole, spettatrici di film diversi, ma ansiose di trovare delle sintonie.
Il primo tratto che certo colpisce è che se Nana nel film di Godard guarda
il film di Dreyer e basta, Anna, nel film di Egoyan, si trova davanti a un
oggetto più complesso. Innanzitutto vede il film di Godard e, dentro il film
di Godard, il film di Dreyer: è spettatrice di una doppia serie di immagini.
Poi vede La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer ma anche Nana che
vede le stesse immagini: è spettatrice di una visione. Ancora, vede nel film
di Godard qualcosa – Nana accostata da uno spettatore – che ha luogo anche
nel film visto dalla sua amica, e forse alla sua amica stessa: è spettatrice di
una storia che ha un ulteriore sviluppo. Infine vede un film e insieme manda
e legge messaggi sul proprio cellulare: è spettatrice e insieme lettrice. Nicole,
1
Si tratta di un episodio del film Chacun son cinéma ou Ce petit coup au coeur quand la
lumière s’éteint et que le film commence (2007). Il film, prodotto dal Festival di Cannes, è diretto
da una quarantina di registi, da Théo Anghelopoulos a Zhang Yimou.
2
Oltre al fatto che Egoyan è l’autore sia di Artaud Double Bill che di uno dei due film che
le due spettatrice vanno a vedere, The Adjuster, aggiungo altri due dati sintomatici: Anna, spettatrice del film di Godard, porta il nome dell’attrice, Anna Karina, che lo interpreta; e Nicole,
spettatrice del film di Egoyan, ne è anche l’interprete. Specie il secondo fatto complica oltre
misura il gioco degli incastri.
174
FATA MORGANA
Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
la sua alter ego, si trova in una situazione del tutto analoga: anche lei vede
il suo film e il brano di Dreyer che le invia la sua amica; anche lei vede
cose viste da altri; anche lei vede cose che completano altre (il rogo che si
sovrappone alla condanna a morte di Giovanna); anche lei vede e legge.
Il fatto è che Nana da un lato, e Anna e Nicole dall’altro, si misurano
con due oggetti diversi. La parola “film” per loro non significa la stessa
cosa. Per Nana è un’opera singola e ben definita: è “questo” film, e non un
altro, da fruire singolarmente e direttamente. Per Anna e Nicole invece è
un discorso che ospita altri discorsi, che si affianca ad altri discorsi, e infine
che genera altri discorsi: è “questo” film, ma è anche una diversa pellicola
in cui ci si può imbattere, magari grazie alla mediazione di qualcuno che ti
aiuta a raggiungerlo; così come è anche una serie di immagini che spingono
a scrivere un SMS che riflette quanto si sta vedendo; è una serie di situazioni
che si ritrovano o si completano in altri film, o magari nella vita; ed è un
catalogo di situazioni tipiche (l’orgia, il rogo) che può funzionare anche
come un album di immagini del tutto personale (il primo piano di Artaud
per Anna). Insomma, se Nana, spettatrice tradizionale, si confronta ancora
con un testo, le due spettatrici moderne si confrontano con un ipertesto, con
le sue diverse componenti, i suoi link, le sue possibili espansioni3. O anche
con una rete di discorsi sociali, capace di allineare e insieme di incastrare
occorrenze, generi, regimi e livelli discorsivi diversi, ed entro cui il film in
senso stretto può giocare un ruolo rilevante ma non certo esclusivo4.
Il secondo tratto investe non l’oggetto della visione spettatoriale, ma le
sue modalità. Nana indirizza completamente il suo interesse verso il film che
sta vedendo: è letteralmente tutt’occhi. Anna invece ha un atteggiamento più
articolato: segue il film, ma nel frattempo si preoccupa di capire dove è finita
l’amica, le scrive quello che prova vedendo Questa è la mia vita, isola un
dettaglio del film, lo cattura con il suo cellulare, fa emergere le sue passioni
cinefile, ecc. Insomma, mentre Nana si concentra, Anna si decentra.
Questo decentramento ha qualcosa della percezione distratta che Benjamin attribuiva al cinema, e che dopo Benjamin è stata attribuita meglio alla
3
Sull’ipertesto, si vedano i classici lavori di G.P. Landow, in particolare Hypertext 2.0: The
Convergence of Contemporary Critical Theory and Technology, The Johns Hopkins University
Press, Baltimore 1997, e Hypertext 3.0: Critical Theory and New Media in an Era of Globalization, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2006.
4
Sulla rete dei discorsi sociali, si veda F. Casetti, Cinema, letteratura e circuito dei discorsi
sociali, in Cinema e letteratura: percorsi di confine, a cura di I. Perniola, Marsilio,Venezia 2002,
pp. 21-31; e Id., Adaptations and Mis-adaptations: Film, Literature, and Social discourses, in
A Companion to Literature and Film, a cura di R. Stam, A. Raengo, Blackwell, Malden-Oxford
2005, pp. 81-91.
FATA MORGANA
175
Francesco Casetti
televisione5. Siamo agli antipodi della contemplazione che la vecchia opera
d’arte sembrava pretendere, e prossimi appunto a una apprensione più occasionale, meno coinvolgente, quale i media chiedono di sviluppare. In questo
senso, usando rispettivamente i termini di John Ellis e di Stanley Cavell,
possiamo ben dire che Anna e Nicole non riservano al film uno sguardo in
senso proprio (gaze), ma delle occhiate (glance);6 non si impegnano in una
osservazione (viewing), ma passano in rassegna (monitoring) quanto incontrano7. Nel far questo tuttavia le due donne non rinunciano all’attenzione:
piuttosto la indirizzano su una pluralità di oggetti e di pratiche. Ecco infatti
che seguono la storia ma la abbandonano anche per dei dettagli, badano al
film ma anche al loro cellulare, reagiscono alle immagini ma anche a quello che sta loro accanto. Dunque, a dir il vero, esse non si “distraggono”:
semplicemente passano da un fronte all’altro; moltiplicano i loro obbiettivi;
modulano il loro sguardo. Attivano appunto un’attenzione “decentrata”, e
cioè senza un centro obbligato, ma con molti bersagli e molti scopi; un’attenzione multitasking8. Nel far questo, in ogni caso, esse si impediscono
di “risacralizzare” il film che hanno di fronte (come invece fa Nana, lei sì
pronta a contemplare il mondo che le si spalanca davanti agli occhi); lo
guardano come si può guardare uno dei tanti oggetti che si incontrano nel
proprio mondo di vita, ora da prendere e ora da lasciare.
Di qui un terzo tratto. Nana non solo si concentra sul film che sta vedendo:
vi si immerge. Attraverso un esplicito gioco di identificazioni e proiezioni,
la protagonista di Questa è la mia vita si cala nella vicenda raccontata da
Dreyer fino a sentirsene parte. La conseguenza è lo scattare della catarsi. Lo
vediamo nella lacrima che le riga il volto alla didascalia “mort”: nel destino
di Giovanna d’Arco, Nana vede il proprio destino; piange per la Pulzella
e insieme piange per sé. Anna, al contrario, resta alla superficie di quanto
vede: afferra i particolari che le interessano, li isola dal resto, e li spedisce
alla sua amica. Insomma, più che tuffarsi nel film, vi scivola sopra, onda
dopo onda, in una specie di surfing. Ciò impedisce la realizzazione di una
5
Sulla percezione distratta, si veda W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Id., Opere complete VI. Scritti 1934-1937, tr. it., Einaudi, Torino 2004,
p. 301.
6
L’opposizione gaze/glance è proposta da John Ellis in Vedere la fiction. Cinema, televisione,
video, tr. it., Nuova ERI, Torino 1988, e conoscerà un largo successo nel campo dei film studies.
Sul dibattito, si veda M. Fanchi, Spettatore, Il Castoro, Milano 2005, pp. 38 sgg.
7
L’opposizione viewing/monitoring è proposta da Stanley Cavell in The Fact of Television,
in “Daedalus”, n. 4 (1982); poi in Cavell on Film, a cura di W. Rothman, Suny Press, Albany
2005, pp. 59-85.
8
Sullo sguardo multicentrico, si veda M. Fanchi, Spettatore, cit., pp. 43 sgg.
176
FATA MORGANA
Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
qualsiasi catarsi: Anna non si identifica e non si proietta né in Giovanna, né
in Nana; rimane se stessa, distante e distinta rispetto ai personaggi che ha
davanti9. Semmai, ha una reazione di tipo estetico: è colpita dalla bellezza di
Antonin Artaud. Ma si tratta appunto di una reazione epidermica, nel senso
che mobilita una sensazione, non certo dei significati; e che dunque tiene
lontano da una vera adesione a ciò che si mostra. Insomma, Anna guarda,
ma ciò che vede non la riguarda.
Sotto questo aspetto – usando la bella espressione di Roland Barthes
– possiamo ben dire che Anna è uno spettatore che non riesce a “incollarsi”
allo schermo10. Essa non entra nel mondo diegetico; al massimo lo attraversa. Non prende parte alla storia; al massimo ne prende una parte. Del resto
le circostanze non la aiutano: l’assenza della amica le pesa; il bisogno di
contattarla la distrae. Anna, per restare a Barthes, non riesce dunque neppure a “decollare”, e cioè ad approfittare della situazione in cui si trova per
aggiungere al fascino del film il fascino della sala. Rimane “scollata” dall’uno e dall’altra. La conseguenza è una caduta della ritualità della visione:
quest’ultima evidenzia la sua natura occasionale, provvisoria, irregolare.
Vedere un film diventa un’avventura senza basi d’appoggio.
Ho parlato dell’ambiente: il quarto tratto riguarda appunto la sala. Nana
cerca nel cinema una sorta di rifugio: entra per isolarsi dal mondo esterno,
per fuggire dalle proprie vicende quotidiane. Così facendo, si metterà in
qualche modo in trappola: vedendo il film di Dreyer scoprirà che anche
lei è destinata alla morte. Ma questa illuminazione le è consentita proprio
perché si è allontanata dal suo universo; solo un personaggio del tutto altro
qual è la Pulzella le può far capire che cosa la aspetta. Anna al contrario è
entrata nella sala per passare del tempo con l’amica: considera il cinema non
un’alternativa, ma una prosecuzione del suo mondo quotidiano. Perciò nel
momento in cui si accorge che l’amica non la ha raggiunta, si mette subito
in contatto con lei: proprio perché in continuità con il mondo esterno, la
sala è anche una postazione in cui si può restare collegati agli altri. Non
stupisce allora che quanto appare sullo schermo possa poi migrare altrove.
Ecco infatti che il primo piano di Artaud, catturato da Anna, finisce sul
telefonino di Nicole. Ancora, ecco che l’aggressione sessuale adombrata
Sulla catarsi cinematografica e sulla sua attuale caduta, si vedano le belle osservazioni
di Gabriele Pedullà, In piena luce. I nuovi spettatori e il sistema delle arti, Bompiani, Milano
2008, pp. 219 sgg. Pedullà riprende e porta avanti una preziosa intuizione di Stanley Cavell
in L’elusione dell’amore, raccolto ora in Id., Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nel teatro di
Shakespeare, tr. it., Einaudi, Torino 2004.
10
R. Barthes, Uscendo dal cinema, in Leggere il cinema, a cura di A. Barbera, R. Turigliatto,
tr. it., Mondadori, Milano 1978, pp. 454-457.
9
FATA MORGANA
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Francesco Casetti
in Questa è la mia vita ha luogo anche in The Adjuster. E infine, ecco che,
come Nana, forse anche Nicole è avvicinata da un uomo con intenzioni
equivoche. Tuttavia nessuna di queste corrispondenze risulta decisiva.
Mentre la condanna di Giovanna rivelava a Nana il senso della sua vita,
questi richiami appaiono a Anna e Nicole come dei semplici spunti con cui
confrontarsi. Schegge di immaginario a disposizione di tutti, legate tra loro
da una catena più casuale che misteriosa.
Detto meglio, la sala di Nana è un luogo eterotopo nel senso classico del
termine11: è un recinto chiuso, che offre una passerella verso un mondo altro,
da cui traiamo risorse per il mondo nostro. Nella sala di Anna e di Nicole,
invece, l’eterotopia gioca in una maniera diversa: non c’è un recinto in senso
proprio, ma una zona che rimane aperta sul mondo quotidiano; in questa zona
continuiamo a trovare dei varchi affacciati su universi differenti da quello
in cui abitiamo, ma non siamo mai chiamati a passare delle vere e proprie
soglie, oltre le quali peraltro potremmo scoprire noi stessi; gli elementi con
cui ci confrontiamo rappresentano d’altra parte degli eventi possibili, non
delle chiavi di lettura di quanto ci sta capitando; e questi elementi sono accessibili anche a molti altri spettatori, quale sia il film che stanno vedendo.
Insomma, mentre la sala di Nana circoscrive un pubblico che riscopre sullo
schermo l’essenza della propria vita, grazie a una rappresentazione che pur
sembra lontana dalla realtà, la sala di Anna e di Nicole tiene insieme un
pubblico disperso, più simile all’audience televisiva o ai partecipanti a un
social network – un pubblico che si confronta con delle immagini che non
funzionano necessariamente come delle rivelazioni, ma a cui in cambio può
accedere anche a distanza, cogliendovi dei significati che possono emergere
in un punto qualunque della rete degli spettatori.
Dunque la fruizione di un testo, a cui si contrappone la fruizione di un
ipertesto, o di una rete di discorsi sociali; una visione concentrata sul film,
a cui si contrappone una visione decentrata, che coinvolge più oggetti e
più attività; la possibilità di immergersi nella vicenda raccontata, a cui si
contrappone un restare più sulla superficie; lo scattare della catarsi, a cui si
contrappone un’attività più simile al bricolage; un luogo chiuso, che circoscrive un pubblico, a cui si contrappone un luogo più aperto, che funziona
come snodo di una rete ideale; la rappresentazione di un mondo “altro”,
che però parla del mondo “reale”, a cui si contrappone la rappresentazione
di un mondo “possibile”, che può trovare ovunque la sua “realizzazione”.
Sull’eterotopia si veda il fondamentale intervento di Michel Foucault, Eterotopie, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, tr.
it., Feltrinelli, Milano 1998.
11
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FATA MORGANA
Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
Artaud Double Bill disegna un campo preciso: triangolando tra Nana, Anna
e Nicole, ci ricorda che cosa è stata la visione del film nel passato e che cosa
è diventata nel nostro presente. Ora, di fronte a questo ritratto offertoci da
Egoyan, quale lezione possiamo trarre?
Diciamo innanzitutto che sia nel caso di Nana che nel caso di Anna e di
Nicole, non siamo di fronte a quella che si è soliti chiamare una ricezione
(reception). Per quanto il termine sia consacrato nel campo degli studi sul
film, esso appare profondamente inappropriato. Nessuna delle tre spettatrici
infatti “riceve” delle immagini e dei suoni: semmai li “vive”, e cioè si misura
con essi, vi reagisce, li inserisce nel proprio quadro di vita, cerca di appropriarsene, ecc. Per questo più che di ricezione vorrei parlare di esperienza
filmica: chi è davanti allo schermo viene sorpreso e preso da quello che gli
si presenta agli occhi (e alle orecchie), e nello stesso tempo, riflessivamente,
cerca di riconoscere cosa gli si presenta e cosa gli sta capitando, fino ad
assumere appunto il profilo di uno spettatore.
Contemporaneamente, però, Nana, Anna e Nicole ci dicono anche che
i profili dell’esperienza filmica sono profondamente mutati dagli anni ’60
a oggi. Abbandoniamo per un attimo il film di Egoyan, e guardiamo più in
generale al campo della spettatorialità. Se c’è una cosa chiara è che siamo
alla fine di un modello che ha dominato a lungo, quello per cui uno spettatore “assisteva” a un film. Assistere (to attend) significa porsi di fronte a
qualcosa che non dipende necessariamente da noi, ma di cui ci troviamo a
essere testimoni. Si tratta dunque di essere presenti a un evento, e insieme
di aprire gli occhi su di esso, sia per poterlo accogliere, come si fa con un
dono, sia per poterlo acquisire, come si fa con una conquista12. Oggi questo
modello non sembra più tenere: la visione di un film comporta sempre più
spesso un intervento diretto dello spettatore, che si trova a dover letteralmente gestire sia ciò che ha di fronte, sia l’ambiente in cui si muove, sia
infine se stesso.
Lo fa ad esempio scegliendo gli strumenti da usare: può trattarsi dell’apparato tradizionale, pellicola-proiettore-schermo, ma anche di un DVD
player o del proprio computer. Ancora, lo fa modulando tempi e luoghi della
propria visione: un film può essere fruito tutto intero, ma anche a frammenti,
differendone la conclusione, o limitandosi a godere le scene madri. Oppure
lo fa dando tutto lo spazio necessario alla propria situazione: un film può
servire a soddisfare un desiderio di spettacolo, ma anche a riempire il tempo
12
Stanley Cavell riassume assai bene questa condizione quando ad esempio osserva che al
cinema «we wish to see […] the world itself» e nello stesso tempo «we are wishing for the condition of seeing as such», Id., The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film, Harvard
University Press, Cambridge 1979, pp. 101-102.
FATA MORGANA
179
Francesco Casetti
morto di un viaggio o a soddisfare la curiosità di un navigatore su internet.
Soprattutto lo fa ridefinendo il campo di gioco: un film può essere oggetto
di visione, ma anche oggetto di collezione, di culto13, di manipolazione o
di scambio grazie a programmi di file sharing. La presenza di opzioni là
dove prima regnava un’abitudine, la necessità di esplicitare le regole del
gioco là dove prima esse apparivano implicite, lo stretto collegamento con
il proprio mondo di vita là dove prima si operava un distacco, e infine un
allargamento di prospettiva là dove prima il campo era delimitato, sono
tutti elementi che dicono quanto il quadro complessivo sia cambiato14.
Se lo spettatore tradizionale si faceva modellare dal film, ora è lui che lo
modella o lo rimodella su di sé, grazie a un insieme di pratiche puntuali e
mirate, che investono l’oggetto, le modalità e le condizioni della visione.
L’effetto è quello di diventare protagonista del gioco, e protagonista attivo.
Lo spettatore non è più qualcuno cui si chiede di essere presente a una
proiezione con gli occhi spalancati, ma qualcuno che agisce: l’attendance
lascia il posto a una performance15.
Dunque il vedere si trasforma in un fare – in un fare molteplice, che
coinvolge diversi aspetti della fruizione, e che tende anche ad andare al
di là della mera attività scopica, al di là dell’esercizio della vista16. Tra le
pratiche chiamate in causa dalla visione di un film, alcune possono apparire tradizionali, se non fossero esse stesse declinate in un modo nuovo. Ad
esempio, continuiamo ad attivare un fare sensoriale, che investe la nostra
attività percettiva, ma questo fare allarga decisamente i suoi confini. Oltre a
impegnare la vista, ci troviamo infatti sempre più a coinvolgere anche altri
13
Rispetto alle odierne pratiche di collezione e di culto, si rimanda a Barbara Klinger, The
Contemporary Cinephile: Film Collecting in the Post-Video Era, in Hollywood Spectatorship.
Changing Perceptions of Cinema Audiences, a cura di M. Stokes, R. Maltby, BFI, London 2001,
pp. 131-151.
14
Secondo Mariagrazia Fanchi al nuovo spettatore filmico si apre un ampio spazio negoziale:
si trova anzitutto a dover definire una propria cartografia dei media, poi si trova ad assegnare a
queste piattaforme ruoli e funzioni, infine è chiamato a svolgere un’azione demiurgica sull’apparato, definendone i tempi, i modi, le situazioni d’uso. M. Fanchi, L’esperienza della visione,
in F. Casetti, S. Salvemini, È tutto un altro film. Più coraggio e più idee per il cinema italiano,
Egea, Milano 2007, p. 90.
15
Il termine performance è usato da Timoty Corrigan in A Cinema Without Walls. Movies and
Culture after Vietnam, Rutgers University Press, New Brunswick 1991. Qui comunque provo a
dare al termine una diversa estensione e un diverso contenuto.
16
Régis Debray, trattando il passaggio alla “videosfera”, parla apertamente di “fine dello
spettacolo”, associandola anche a un più generale indebolimento del ruolo della vista. Cfr. Id.,
Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, tr. it., Il Castoro, Milano
1999, pp. 228 sgg.
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Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
sensi: l’udito (vedere un film è entrare in un ambiente sonoro); ma anche il
tatto (se il film è visto sul DVD player o sul personal computer, lo spettatore
deve intervenire con la propria mano…)17. Allo stesso modo, continuiamo ad
attivare un fare cognitivo, grazie a cui interpretiamo quanto stiamo vedendo,
ma esso per così dire si decentra. Più che “comprendere” un film, oggi lo
spettatore si trova o, a monte, a “esplorare” quanto si ha di fronte, per potersi
meglio orientare (penso al bisogno di afferrare il genere del film che si sta
vedendo, una volta dato per scontato, e oggi sempre più incerto); oppure,
a valle, ad accumulare elementi da tenere in riserva per successive visioni,
magari più selettive (come quando si estraggono da un DVD le “scene
madri” che hanno fatto più godere). Stessa cosa anche per il fare patemico.
Da sempre il film “tocca” il suo spettatore18. Oggi tuttavia le componenti
emozionali e passionali connesse alla visione sembrano acquisire un peso
abnorme: per un verso si va sempre più al cinema per essere sopraffatti dagli
effetti speciali; per un altro verso, la presenza di scene particolarmente intense porta a spezzare la trama del racconto, e a guardare il film “a blocchi” o “a
frammenti”. Ma la performance coinvolge anche e soprattutto nuovi livelli
del fare. Ad esempio, c’è un fare tecnologico: là dove l’accesso al film non
è diretto, ma mediato da un device che lo spettatore deve attivare (è il caso
del VHS, del DVD, dell’Home Theatre, ecc.), o da un device attraverso cui
sceglie cosa e come vedere (il video on demand, MySky, ecc.), si richiede
tutta una serie di operazioni sulla apparecchiatura per le quali ci vuole una
specifica competenza19. C’è un rilevante fare relazionale: soprattutto fuori
della sala, quando lo spettatore apparentemente è solo, spesso è spinto a
costruirsi un gruppo con cui spartire la propria esperienza; di qui la messa
in opera di un sistema di contatti che accompagna la fruizione, si tratti di
una telefonata, o di un messaggino inviato a Twitter. C’è un rilevante fare
17
Sul coinvolgimento sinestisico dello spettatore si rinvia al saggio di A.J.J. Cohen, Virtual
Hollywood and the Genealogy of its Hyper-Spectator, in Hollywood Spectatorship. Changing
Perceptions of Cinema Audiences, a cura di M. Stokes, R. Maltby, cit., pp. 131-151.
18
Sulla dimensione patemica, si veda Passionate Views. Film, Cognition, and Emotion, a cura
di C. Plantinga, G.M. Smith, The John Hopkins University, Baltimora 1999; e in una prospettiva
diversa, Kinogefühle. Emotionalität und Film, a cura di M. Brütsch, V. Hediger, U. von Keitz,
A. Schneider, M. Tröhler, Schüren Verlag, Marburg 2005.
19
Su questo tipo di fare, si veda Terre incognite. Lo spettatore italiano e le nuove forme
dell’esperienza di visione del film, a cura di F. Casetti, M. Fanchi, Carocci, Roma 2006. Rispetto
alla possibilità del soggetto di interagire con il device si rimanda alla ormai classica categorizzazione dei livelli di interattività presente in J.A.G.M. van Dijk, L. de Vos, Searching for the Holy
Grail. Images of interactive television, in “New Media & Society”, n. 4 (2001), pp. 443-465;
ma anche a E.J. Downes, S.J. McMillan, Defining Interactivity. A Qualitative Identification of
Key Dimensions, in “New Media & Society”, n. 2 (2000), pp. 157-179.
FATA MORGANA
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Francesco Casetti
espressivo: se la visione di film di culto come The Rocky Horror Picture
Show (J. Sharman, 1975) o Guerre stellari (G. Lucas, 1977) era già spesso
accompagnata da un “mettersi in maschera”, oggi l’esibizione di sé si celebra
anche attraverso un post che lo spettatore mette su un blog20 o in qualche
social network21, in cui racconta le proprie personali reazioni a quanto sta
vedendo o ha visto. E infine c’è un fare testuale, determinato dal fatto che
lo spettatore ha sempre più la possibilità di manipolare il film che fruisce,
non solo nel senso di “aggiustarlo” alla propria visione (come quando sul
proprio video sceglie di mantenerne il formato o di trasformarlo, di vederlo
in bassa definizione o in alta definizione, ecc.), ma anche nel senso di intervenirci sopra espressamente (è quel che succede con i filmati rimontati
e risonorizzati che popolano YouTube)22.
In questa breve descrizione del nuovo spettatore, siamo inevitabilmente
scivolati dalla sala cinematografica ad altri ambiti e ad altri dispositivi, fino a
scavalcare i confini stessi della visione. Vedere un film non è più un’attività
localizzata, e non è più solo un’attività scopica. È un fare che scatta al di
là della presenza di un grande schermo, e che va oltre la semplice apertura
degli occhi. Ora è interessante notare come gli aspetti più innovativi della
nuova spettatorialità sembrano nascere proprio da pratiche che si sviluppano
fuori della sala e fuori dagli stretti confini della visione – a ridosso magari
di altri media, e in altri quadri di azione. Prendiamo l’attività esplorativa,
quella che risponde a un bisogno di orientarsi più che di capire: non c’è
dubbio che essa sorga dal contatto con media come la televisione o la radio, in cui ci si confronta con un flusso di immagini o di suoni che rischia
20
Rispetto ai processi di costruzione identitaria nei blog si rimanda a J. Schmidt, Blogging
Practices: An Analytical Framework, in “Journal of Computer-Mediate Communication”, n. 4
(2007), pp. 1409-1407; e a S.C. Herring, L.A. Scheidt, E. Wright, S. Bonus, Weblogs as a bridging
genre, in “Information Technology & People”, n. 2 (2005), p. 142-171.
21
Rispetto alla costruzione del sé nei social network si veda D.M. Boyd, N.B. Ellison, Social
Network Sites: Definition, History, and Scholarship, in “Journal of Computer-Mediated Communication”, n. 1 (2007), http://jcmc.indiana.edu/vol13/issue1/boyd.ellison.html; S. Livingstone,
Taking risky opportunities in youthful content creation: teenagers’ use of social networking sites
for intimacy, privacy and self-expression, in “New Media & Society”, n. 3 (2008), pp. 393-411;
e B. Scifo, Prácticas y rituales de consumo de la telefonía mόvil multimedia entre los jόvenes
italianos, in Sociedad mόvil. Tecnología, identidad y cultura, a cura di J.M. Aguado Terrόn, I.J.
Martínez Martínez, Biblioteca Nueva, Madrid 2008, pp. 239-263.
22
Rispetto al fare testuale del pubblico si rimanda a N. Abercrombie, B. Longhurst, Audiences.
A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, London-Thousand-Oaks 1998.
Sempre rispetto al tema dell’agire manipolatorio del pubblico può risultare interessante anche
il richiamo alla figura del prosumer descritta da Alvin Toffler, La terza ondata, tr. it., Sperling
& Kupfer, Milano 1987; e da Derrick De Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato,
tr. it., Baskerville, Bologna 1993.
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Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
a ogni passo di travolgerci, e su cui si interviene con dispositivi come il
telecomando (remote controller). Ma prendiamo anche l’attività accumulativa, quella che porta a selezionare e a mettere in riserva porzioni di film di
particolare interesse: essa trova indubbiamente la propria origine in pratiche
come quelle messe in opera dai fan, che grazie a strumenti di cattura delle
immagini come i videorecorder costruiscono e si scambiano degli “album
di immagini” altamente personalizzati23. Prendiamo egualmente la visione
patemizzata, quella che ruota attorno a una forte intensificazione del “sentire”: essa trova il proprio background soprattutto nella presenza di una
enorme quantità di stimoli sia nel mondo mediatico, sia nel mondo urbano
– stimoli che da un lato ci chiedono di alzare il nostro livello di “sintonizzazione”, dall’altro ci possono anche costringere a una sorta di isolamento dal
mondo, con l’effetto in entrambi i casi di farci uscire definitivamente dalla
dimensione tradizionale del sublime. Quanto alla capacità di selezionare ciò
che si vuol vedere usando tutte le tecnologie a disposizione, essa ci rimanda ad esempio alla crescente abilità del pubblico di muoversi tatticamente
on line, alla ricerca di contenuti e informazioni per lui salienti; mentre la
capacità di sganciarsi dagli obblighi della programmazione è certo aiutata
dalla diffusione di piattaforme mobili, che consentono visioni everywhere
ed everytime24. Quanto alla attività di manipolazione, che vede lo spettatore
intervenire sui mezzi della propria visione, essa nasce apertamente dall’uso
di dispositivi come l’Home Theatre, che richiedono una continua regolazione e manutenzione. L’attività relazionale, che vede lo spettatore costruirsi
un proprio gruppo di appartenenza, nasce invece dal progressivo peso dei
social network, vere e proprie comunità virtuali grazie a cui si trova una
rete di appartenenze. Questi stessi social network alimentano anche l’attività
“espressiva”, quella che porta a costruire ed esporre un sé: è su YouTube che
i soggetti sociali hanno sperimentato fino in fondo il piacere di raccontarsi
e insieme la possibilità di “far commercio” del proprio io. Infine il fare
testuale è indubbiamente alimentato dalla possibilità di catturare ciò che si
vede e insieme di rimontarlo sul proprio computer grazie a programmi a
23
Sull’attività dei fan, non solo di accumulo di brani, ma anche di vera e propria ricostruzione
del loro oggetto di culto, si veda il classico studio di Henry Jenkins, Textual Poachers. Television
Fans and Participatory Culture, Routledge, New York-London 1992.
24
Si veda J. Urry, Sociology Beyond Societies. Mobilities for Twenty-First Century, Routledge,
London-New York 2000; e M. Sheller, J. Urry, The new mobilities paradigm, in “Environment
and Planning A”, n. 2 (2006). Per una trattazione esaustiva del concetto di mobilità in ambito
italiano si veda B. Scifo, Culture mobili. Ricerche sull’adozione giovanile della telefonia cellulare,
Vita & Pensiero, Milano 2005 e G. Mascheroni, Le comunità viaggianti. Socialità reticolare e
mobile dei viaggiatori indipendenti, Franco Angeli, Milano 2007.
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Francesco Casetti
basso costo. Insomma, lo spettatore filmico d’oggi trova fuori della sala la
sua palestra e la sua scuola. È lontano dal cinema e dai suoi luoghi canonici
che sembra arrivare a formarsi.
E tuttavia… Se è vero che oggi si diventa spettatori filmici cercando il
cinema dove non era mai stato, è anche vero che è proprio là dove il cinema ha stazionato a lungo che lo spettatore trova fino in fondo se stesso. Le
pratiche di cui abbiamo parlato, e che hanno il loro terreno di incubazione
in altri ambienti e a ridosso di altri media, sono pronte a rifluire dentro la
sala cinematografica, e a ridisegnare le forme tradizionali dell’esperienza
filmica. Marche di una spettatorialità ormai migrata altrove, ritornano là
dove la visione del film aveva assunto i suoi tratti costitutivi; rientrano insomma nella madrepatria, un po’ sull’onda della nostalgia, ma soprattutto
per offrirle una lezione appresa nel frattempo.
È esattamente quello che Artaud Double Bill ci dice con grande nettezza, mostrandoci due spettatrici odierne che, per quanto si comportino
in modo apparentemente anomalo, stanno guardando il loro film proprio
in una sala. Ma il disegno può essere allargato. Basta pensare ai gruppi di
spettatori che si ritrovano al cinema a seguito di un fitto scambio di mail o
telefonate, degno di un social networking. O all’accendersi dei numerosissimi telefonini, pur silenziati, che tengono vivo il contatto con l’esterno. O
alla sempre più frequente distribuzione all’ingresso di critiche e commenti,
quasi a fornire un prodotto multimediale. O alla prosecuzione della visione
nelle chiacchiere post-film, mentre si mangia una pizza assieme a coloro che
ci hanno accompagnato. O all’acquisto del DVD del film appena visto, da
rivedere una volta a casa. Insomma, se è vero che stanno emergendo pratiche
extra-sala ed extra-film, è anche vero che queste pratiche sono anche pronte
a reinstallarsi in sala, rinnovando anche lì i tratti dell’esperienza filmica.
Con la conseguenza che anche nel tempio dell’attendance il vedere un film
diventa una performance.
Dunque un rientro nella madrepatria. Chiamerò ri-rilocazione questo
rientro: a significare un doppio movimento, la fuoriuscita della sala alla ricerca di nuovi ambienti e di nuovi dispositivi (rilocazione), e il ritorno nella
sala ricchi di un nuovo patrimonio accumulato nel frattempo (ri-rilocazione,
appunto). Aggiungo, per completezza, che questo doppio movimento mette
in realtà in luce l’emergere di uno scacchiere complesso. Non ci sono infatti
solo i nuovi ambienti e i nuovi dispositivi verso cui il cinema converge,
arricchendo e trasformando l’esperienza di visione. Né c’è solo la sala a cui
il cinema ritorna, portando con sé nuove pratiche di visione. Ci sono anche
nuovi ambienti e nuovi dispositivi che nell’accogliere il cinema cercano il
più possibile di conservare i tratti della visione tradizionale (è il caso di un
salotto attrezzato con un Home Theatre, in cui guardo un film accomodan184
FATA MORGANA
Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
domi nella mia poltrona, abbassando le luci, e chiedendo il silenzio attorno
a me, e dunque riproducendo quasi alla lettera la visione più tradizionale).
E c’è la sala che rifiuta l’introduzione di nuovi modi di visione, per conservarsi il più possibile qual era (cosa che avviene soprattutto in situazioni
“cerimoniali” come un festival, una “prima”, o una rassegna per cinefili
doc, in cui si chiede allo spettatore di continuare ad “assistere” a un film e
nient’altro). Ne derivano più traiettorie: oltre alla rilocazione che possiamo chiamare innovativa (verso nuovi ambienti e devices), avremo anche
un movimento di rilocazione conservativa (verso ambienti e devices che
ripropongono l’esperienza tradizionale); e oltre alla ri-rilocazione (ritorno
in sala che rinnova i modi della visione), avremo anche una non-rilocazione
(il cinema dentro la sala ma che chiude le porte a ogni possibile novità).
Ma concentriamoci di nuovo sul caso che stavamo esaminando. Perché
ritornare alla madrepatria, portando con sé il nuovo che si è acquisito? Il
quadro complessivo ci agevola una risposta. Alla base della ri-rilocazione,
mi pare infatti che ci siano almeno quattro buone ragioni, che rispondono
tutte a delle esigenze di fondo.
La prima riguarda un “bisogno di territorialità”. Vedere un film è sempre
stata, e continua a essere, una questione di luogo – un “dove” vedere, oltre
che un “cosa” vedere. Ora i nuovi modi di fruizione offrono allo spettatore
solo una “bolla esistenziale” in cui rintanarsi (penso al viaggiatore sul treno
che guarda un film sul suo DVD player e si isola dal contesto semplicemente
indossando delle cuffie e ignorando quanto gli succede attorno); una “bolla”
fragile, precaria, che basta un nulla per rompere (il controllore che chiede il
biglietto, il treno che arriva in stazione…). Per contro, la sala costituisce un
territorio più solido, più definito, più protetto. In particolare, essa continua
ad associarsi all’idea di “abitare”, sia in quanto spazio in cui si sosta assieme ad altri (un tetto per la comunità), sia in quanto spazio in cui ci si trova
immersi in un immaginario comune (heideggerianamente, il linguaggio che
ci ospita). Luogo fisico e insieme simbolico, la sala è quella dimora che il
cinema e il suo spettatore continuano a cercare.
La seconda risposta mette invece in luce un “bisogno di domesticazione”.
La rilocazione introduce indubbiamente un cambiamento: minimizzato, come
nel caso della rilocazione che abbiamo chiamato conservativa, o massimizzato, nella rilocazione innovativa. Sia in un caso che nell’altro, ne deriva
comunque una sfida ai modi tradizionali – che rischiano non tanto l’estinzione, quanto il fatto di non essere più riconosciuti come elementi propri della
visione filmica. La ri-rilocazione, il ritorno in sala, serve allora a far sì che le
novità vengano letteralmente “incorporate” in una esperienza che mantiene
esplicitamente vive le sue radici: riconfluendo in un luogo “tipico”, queste
novità appaiono “accettabili” e insieme “familiari” – praticabili e insieme
FATA MORGANA
185
Francesco Casetti
consuete. In questo modo la visione come performance – per quanto lontana
possa sembrare dalla tradizione – riceve un pieno riconoscimento, nel senso
doppio del termine: viene accolta quale modalità appropriata di vedere un film
(riconoscimento come legittimazione) e insieme viene esibita quale esempio
a cui chiunque si può rifare (riconoscimento come identificazione).
In terzo luogo il ritorno alla madrepatria mette in luce un “bisogno di
istituzione”. La visione del film sui nuovi device e nei nuovi ambienti, anche là dove mantiene il più possibile i caratteri dell’esperienza tradizionale,
rischia di farci entrare su un nuovo terreno: quello in generale dei media,
anziché quello specifico del cinema. Questi device e questi ambienti infatti
accorpano parecchie attività: spesso servono anche a seguire la TV, ad
ascoltare la radio, a telefonare, a inviare delle immagini e dei suoni, ecc.
Così come accorpano parecchi prodotti: vi si possono vedere anche dei
documentari didattici, dei filmati promozionali, dei clip, ecc. La visione del
film tende dunque a sconfinare oltre i confini della visione e oltre i confini
del film. Questo doppio sconfinamento riflette bene la convergenza25 che
marca la nostra epoca: i vecchi apparati (compreso quello cinematografico,
legato allo schermo/proiettore/pellicola) si dissolvono a favore di piattaforme multifunzionali (l’esempio tipico è il pc); i vecchi prodotti legati al
singolo medium (compreso il lungometraggio di finzione) si dissolvono a
favore di una ricca gamma di prodotti multipiattaforma, crossover, ecc. (il
film da vedere in sala, il director’s cut da collezionare, il clip da scaricare
sul proprio cellulare, ecc.). Ora, in epoca di convergenza, tener fermo il
recinto del cinema e il profilo del film può sembrare una impresa disperata.
Ebbene, la ri-rilocazione serve ad assicurarci che un medium a cui siamo
stati a lungo affezionati continua ad avere un suo luogo e una sua identità.
Per quanto i modi e gli oggetti della visione cambino, e per quanto il cam25
La convergenza opera a più livelli. Sul piano tecnologico emergono device disponibili a ospitare e far circolare contenuti mediali diversi grazie all’indifferenza tecnologica che li caratterizza; si
rimanda a tal proposito ai primi testi che hanno contribuito alla diffusione del concetto di “digitale”:
N. Negroponte, Essere digitali, tr. it., Sperling & Kupfer, Milano 1995; R. Fidler, Mediamorfosi.
Comprendere i nuovi media, tr. it., Guerini, Milano 2000; T. Feldman, An Introduction to Digital
Media, Routledge, London 1997. Sul piano della produzione si tende a dar vita a prodotti sempre
più malleabili e flessibili che si sviluppano su più livelli, riuscendo a massimizzare l’impatto sul
pubblico; rispetto a questo argomento si rimanda a S. Murray, Brand Loyalties: Rethinking Content Within Gobal Corporate Media, in “Media, Culture & Society”, n. 3 (2005), pp. 415-435; e a
I.D. Askwith, Television 2.0: Reconceptualizing TV as an Engagement Medium, Thesis, Master of
Science in Comparative Media Studies, Massachusetts Institute of Technology 2007 (http://cms.mit.
edu/research/tese/IvanAswith2007). Infine sul piano della fruizione cresce la capacità dei singoli
soggetti di attivare pratiche multipiattaforma, dando vita a diete sempre più dinamiche e articolate,
perché capaci di adattarsi a diversi contesti e situazioni di consumo; sul tema si veda The Audience
Studies Reader, a cura di W. Brooker, D. Jermyn, Routledge, London 2003, pp. 323-325.
186
FATA MORGANA
Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in unʼepoca post-mediatica
biamento colpisca anche la sala, agganciarsi a quest’ultima aiuta a pensare
che il cinema continua a esistere, e a esistere come cinema.
In quarto luogo, quello che ho chiamato il ritorno alla madrepatria mette
in luce un “bisogno di esperienza”. Il punto è il più delicato, ma anche il più
decisivo. La migrazione verso nuovi ambienti e verso nuovi devices presenta
un doppio rischio: da un lato, come ho accennato, scioglie l’esperienza filmica
in una più generica esperienza mediale; dall’altro costringe questa esperienza
dentro dei binari obbligati – quei binari che si impongono soprattutto nel caso
di tecnologie fortemente predeterminate, vuoi a causa del funzionamento del
dispositivo, vuoi a causa del modo in cui lo usano gli utenti26. Nel primo caso
la visione filmica perde la sua peculiarità, e con essa la sua forza; nel secondo
perde la sua imprevedibilità, e dunque la sua libertà. La ri-rilocazione pone
un rimedio a questa situazione. Offre delle condizioni ambientali che ridanno
forza alla visione: il grande schermo, sovrastando lo spettatore, lo interroga,
anziché obbedirgli docilmente come fa il display di un telefonino o di un
computer. E richiede un atteggiamento che ridà libertà alla visione: il fatto di
doversi spostare per vedere un film, anziché farselo recapitare in mano (questa
è la ri-rilocazione), consente allo spettatore di operare delle scelte più nette e
impegnative. L’esperienza filmica riacquista un senso preciso e personale.
Possiamo anche essere più radicali: un po’ di attendance può sostanziare
un’esperienza che la performance spesso promette ma non realizza. Una
visione che si intreccia con un fare sembra mettermi al centro del gioco, ma
questa centralità – e questo gioco – rischiano anche di apparire illusori. Per un
verso questo fare mi riporta alle pratiche quotidiane, e dunque tende a colorarsi
di indifferenza. Penso al mio computer, che mi offre un film come potrebbe
offrirmi qualunque altra cosa. Per un altro verso questo fare mi assorbe a tal
punto, che non ho più spazio per affrontare quello che mi si presenta, e cioè
per vedere davvero ciò che incontro. Penso alle pratiche di file sharing, che
spesso sembrano esaurirsi nel puro e semplice scambio del materiale; o alle
pratiche di remix, che spesso servono solo a dimostrare la propria abilità. In
queste situazioni, cosa veramente mi sorprendere e mi prende? E come riesco
a riacquistare una consapevolezza di me e di quel che ho di fronte? Insomma,
vivo davvero un’esperienza – quell’esperienza che per essere tale richiede
uno stupore e un riconoscimento? Nell’attendance lo spettatore si misurava
ancora con un mondo – sullo schermo e attorno allo schermo – capace di
interrogare e insieme di fornire risposte. Di qui il senso di un incontro non
Sulla canalizzazione dell’esperienza operata dai media contemporanei, si veda la bella
analisi di Pietro Montani in Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’epoca della globalizzazione, Carocci, Roma 2007.
26
FATA MORGANA
187
Francesco Casetti
scontato, e nello stesso tempo la possibilità di impadronirsi di ciò che si
incontrava. Sui nuovi devices, invece, lo stupore lascia assai spesso il posto
all’autocompiacimento, e il riconoscimento all’abilità. Non c’è sorpresa, ma
piacere di sé; non c’è consapevolezza, ma virtuosismo. Lo spettatore opera,
ma il suo operare tende ad apparire fine a se stesso. Il ritorno alla madrepatria,
per quanto porti con sé i nuovi modi di guardare, sembra riconsegnarmi le
condizioni per cui lo stupore e il riconoscimento possono riprendere quota. In
una sala, infatti, il film continua ad apparire come un evento con cui mi trovo
a dovermi misurare, e a partire dal quale posso riscoprire quanto mi circonda.
Basta pensare a come lì, più che altrove, esso non si riduca del tutto a qualcosa
di ordinario, di consueto – conserva una salienza rispetto alla quotidianità. O a
come esso mi costringa a dei passi per incontrarlo – uscire di casa, prenotare
un biglietto, mescolarmi a una folla – che danno valore a ciò che sto facendo.
O a come esso si faccia condividere con altri a fianco di me, in una sorta di
piccolo privilegio. O a come esso mi imponga un ritmo, e insieme mi immetta
un rito27. Sì, nella sala più che altrove, il film è un evento: e in questo senso un
piccolo enigma che mi provoca, e che insieme può restituirmi una coscienza
di me e di quanto mi circonda. Il risultato è che per quanto la mia visione sia
intessuta di un fare – e dunque ormai lontana dal semplice fronteggiare un
oggetto – essa potrà recuperare il senso di un’esperienza – quell’esperienza
che il fronteggiare un oggetto faceva comunque scattare. Qualcosa torna a
sorprendermi e a prendermi; e io torno a far spazio alla mia consapevolezza. Insomma, grazie alla ri-rilocazione, l’attendance ci consegna un lascito
– abbiamo parlato di dono e conquista – che colma i buchi della performance.
Vedere un film non rischierà più troppo di diventare un esercizio narcisistico,
né di affondare nell’indifferenza.
Ecco: un evento; il permanere di una sorpresa e di un riconoscimento; il
resistere al narcisismo e all’indifferenza. La ri-rilocazione, sovrapponendo
attendance e performance, intrecciando tradizione e novità, si apre meglio di
qualunque altro gesto a una dimensione esperienziale. È questa dimensione di
esperienza la posta vera in gioco. È questa dimensione ciò che vale la pena.
In questo quadro, può essere interessante notare la parallela tendenza del pubblico televisivo a spostarsi fisicamente nel luogo in cui si svolgono le riprese, a partecipare a grandi
eventi on the ground relativi a singoli programmi o a un intero canale (es: l’evento Mtv Day).
Rispetto a questo tema si veda N. Couldry, The View from Inside the “Simulacrum”: Visitors’
Tales from the Set of Coronation Street, in “Leisure Studies”, n. 2 (1998), pp. 94-107; e M. Hills,
Cult Geographis. Between the “Textual” and the “Spatial”, in Id., Fan Cultures, Routledge,
London 2003. La riflessione sul tema è poi ripresa anche in A. Sfardini, Reality tv. Pubblici fan,
protagonisti, performer, Unicopli, Milano 2009.
27
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Cosa vediamo quando vediamo
un video di Bill Viola?
Antonio Costa
Cosa mostrano i video di Bill Viola? Visioni interiori, suggerisce il titolo
della prima retrospettiva italiana a lui dedicata1. Cosa fa sì che l’immagine
dispersiva, senza forma del video acquisisca una carica di interiorità, una
dimensione che non ha uguali, forse, nella contemporanea produzione di
video? Nei suoi video-dipinti, come li ha definiti Salvatore Settis2, Bill Viola
lavora sul movimento e sui modelli di riferimento dell’immagine. Il risultato
è che a essere attivato è il tempo: il tempo delle immagini e, soprattutto, il
tempo nelle immagini. Nel qui e ora del visibile si apre un varco da cui si
può guardare al pulsare di un’altra temporalità: il tempo interiore e il tempo
storico delle immagini: «and you are staring at the true image, which is not
visual»3. Nel presente saggio mi occuperò della particolare relazione che,
nella produzione video di Bill Viola, si stabilisce tra immagine pittorica
e moving pictures, nel tentativo di dare un contributo alla discussione sul
rapporto tra il visibile e il visuale introdotta dalla conversazione con Georges
Didi-Huberman che apre questo fascicolo.
Living Man Walking
In The Crossing (1996), prima opera che vedo nella mostra romana, l’uomo che cammina è il luogo geometrico dell’incontro tra i quattro elementi:
la terra designata dalla linea d’orizzonte da cui procede la figura che avanza,
Palazzo delle Esposizioni, Roma 21 ottobre 2008-6 gennaio 2009.
S. Settis, Bill Viola: i conti con l’arte, in Bill Viola. Visioni interiori, a cura di K. Perov,
Giunti, Firenze 2009, p. 35.
3
Da una dichiarazione di Bill Viola nel video Bill Viola. The Eye of the Heart. A film by
Mark Kidel (2002).
1
2
FATA MORGANA
191
Antonio Costa
l’aria che l’uomo attraversa e che a tratti ho la sensazione di percepire nel
flusso dei pixel che danno “respiro” all’immagine e, infine, l’acqua e il fuoco,
con miriadi di gocce e scintille che, infine, mi appaiono come la materia
di cui l’immagine è fatta e in cui essa si dissolve. La struttura a chiasmo
dell’installazione può essere percepita solo a posteriori come a posteriori
potrò riflettere sul significato simbolico del corpo umano, letteralmente
“trascorso” e “disperso” dall’(nell’)acqua e dal(nel) fuoco. Tornato sui miei
passi, posso riflettere anche sulla commistione tra effetti speciali elettronici
e simbolismo pre-socratico, tra forza d’attrazione di immagini e suoni (il
fragore sonoro) e il potere catartico dell’acqua e del fuoco, ma quello che
non può lasciarmi indifferente e che continua a prendermi è la visione di
un uomo che cammina in un tempo che mi appare inedito e inaudito. E,
davanti a The Crossing, mi chiedo se avevo mai visto prima d’ora un uomo
che cammina. Infinite volte, il cinema mi ha mostrato immagini come questa.
E tuttavia quest’uomo che viene verso di me da una distanza indefinita fino
a guadagnare, con indicibile lentezza, una prossimità altrettanto indefinita
non mi ricorda nessuna altra immagine di uomo che cammina visto al cinema. Ma mi ricorda piuttosto le immagini cronofotografiche di Muybridge e
Marey. Sul momento, non capisco perché. Lo capirò alla fine del percorso
della mostra Visioni interiori, quando mi risulterà chiaro che Bill Viola ha
trovato il modo di attivare, far scorrere e rendere visibile il tempo di cui le
lastre della cronofotografia ci restituiscono la sezione immobile. Così come
ha trovato il modo di attivare, far scorrere e rendere visibile il tempo entro
una serie di modelli iconografici della tradizione pittorica rinascimentale.
Questa figura che cammina verso di me mi appare come l’uomo che, in
Hatsu-Yume (First Dream, 1981), emergeva dall’informe pulsare della notte
di Tokyo e che, dopo un percorso indicibilmente lento, raggiungeva il piano
ravvicinato, acquistava a un distributore automatico dei fiammiferi e faceva,
infine, esplodere il bagliore di una fiamma, il «dispendio improduttivo» di un
piccolo fuoco. Forse è per il fiammifero, forse è per la straniante familiarità
di questo ralenti che non assomiglia a nessuno slow motion visto al cinema,
ma mi trovo a pensare con insistenza a L’acinema di Lyotard, un titolo la
cui alfa privativa mi introduce in quello spazio in cui non ha più luogo la
norma-normalizzazione del cinema, in cui ho accesso all’«irrapresentabile
della rappresentazione»4.
4
J.-F. Lyotard, L’acinema, in L’acinema di Lyotard, a cura di A. Costa, R. Kirchmayr, in
“aut aut”, n. 338 (2008): il fascicolo contiene, oltre alla traduzione di due testi di Lyotard sul
cinema, una serie di saggi dedicati principalmente ai rapporti tra il filosofo francese e la teoria
del cinema (si vedano in particolare i contributi di C. Eizykman e G. Fihman, P. Bertetto, D.
Chateau e A. Costa).
192
FATA MORGANA
Cosa vediamo quando vediamo un video di Bill Viola?
A partire da Lyotard
In questo testo dei primi anni Settanta, nato da un lavoro di riflessione
teorica e di sperimentazione pratica5, Lyotard sostiene che il cinema, prima
ancora di normalizzare nella convenzione della rappresentazione-narrazione
la gamma vastissima delle sue potenzialità, normalizza la materia di cui è
fatto: il movimento. Rispetto all’infinita varietà di movimenti possibili, la
produzione del film comporta, secondo Lyotard, l’esclusione di una moltitudine di mobiles. A essere sistematicamente esclusi sono i limiti estremi, vale
a dire l’immobilità e l’eccesso di movimento6. Il movimento viene, secondo
Lyotard, selezionato e reso funzionale alla rappresentazione-narrazione,
escludendo pertanto tutto ciò che resta (deve restare) estraneo alla costituzione del sistema rappresentativo-narrativo. Sviluppando e approfondendo
tali idee in direzione di un’economia politico-libidinale del cinema, Claudine Eizykman ha stabilito una contrapposizione tra cinema sperimentale,
caratterizzato dal dispendio improduttivo, e quello che viene da lei definito
il NRI, cioè il cinema «narrativo-rappresentativo-industriale»7. Lyotard cita
il caso del bambino che accende un fiammifero [la visione di Hatsu-Yume
(First Dream) di Bill Viola me lo ha fatto tornare in mente] per il puro piacere
dell’esplosione di luce/calore e non per accendere il gas: pur nella sua estrema
semplicità, l’esempio introduce con una evidenza assoluta la contrapposizione tra il principio di piacere e il principio di realtà derivato dalla teoria
freudiana. Esiste per il cinema, per tutto il cinema, il problema di riattivare
ciò che la norma-normalizazzione espunge: come abbiamo già visto, l’immobilità e l’eccesso di movimento. Quale esemplificazione diretta di questa
implicazione dell’“irrapresentabile della rappresentazione”, Lyotard fa riferimento, da una parte, all’attenzione di Pierre Klossowski al tableau vivant e,
dall’altra parte, alla pittura dell’espressionismo astratto (Rothko e Pollock).
Lyotard non esclude però che ci possano essere anche nel cinema corrente
momenti particolari in cui, in deroga alla norma della rappresentazione (il
movimento ripreso a 24 fotogrammi al secondo, deve poi essere restituito/
proiettato alla stessa cadenza) che sfruttano effetti di immobilizzazione (o
di ralenti) o di parossistica esaltazione del movimento8. Secondo Eizykman
A. Costa, Da “L’autre scène” a “L’acinema”: lavoro del film e teoria del cinema, in ivi,
pp. 6-16.
6
J.-F. Lyotard, L’acinema, in ivi, pp. 17-18.
7
Cfr. C. Eizykman, La jouissance-cinéma, Union Générale d’Editions, Paris 1976.
8
Lyotard analizza brevemente due sequenze di La guerra del cittadino Joe (1970) di John
G. Avildsen, in cui «questi due effetti, uno di immobilizzazione, l’altro di eccesso di mobilità,
5
FATA MORGANA
193
Antonio Costa
e Fihman il termine acinema ha il merito di «evocare la natura paradossale
del dispositivo cinematografico» che consiste nel produrre il movimento
mediante l’immobilità: il cinema infatti riprende e restituisce il movimento
attraverso la sua soppressione9. Le ricerche sperimentali e d’avanguardia
direttamente o indirettamente connesse alla teoria di Lyotard hanno lavorato
per mettere in evidenza i limiti del dispositivo di rappresentazione, far emergere gli scarti e i residui della convenzione rappresentativa, mostrare quanto
veniva occultato dalla norma-normalizzazione, e avevano una forte valenza
dimostrativa, un carattere di esibita esemplarità: mostrare che era possibile
restare ai margini della norma-normalizzazione del cinema “istituzionale”,
attraverso la riproposta di un’analisi, metalinguistica e autoreferenziale,
dei codici percettivi e del dispositivo. La ricerca di Bill Viola si è orientata
verso l’immobilizzazione dell’immagine in movimento, non tanto per denunciare i limiti della sintesi convenzionale del movimento e dei processi di
identificazione indotti dalla convenzione realistica, quanto per far emergere
il potenziale di intensificazione percettiva e “soggettivazione” determinati
dall’adozione di differenti parametri dell’immagine in movimento (ralenti,
astrazione lirica), a partire da modelli presi dalla tradizione pittorica. Come
ha bene messo in evidenza Jean Wainwright a proposito di The Greeting
(1995), c’è una sostanziale differenza tra la strategia del modernismo e quella
di Bill Viola per il quale il lavoro sulla durata ha per fine «l’inserimento di
un significato simbolico nell’immagine, che sostanzialmente è quello che
accadeva nella pittura rinascimentale e medioevale»10.
Zeitlupe
Il metodo di Bill Viola può essere seguito analiticamente, prendendo le
mosse dal saggio dedicatogli da Salvatore Settis nel catalogo della mostra
sono ottenuti in deroga alle norme della rappresentazione, che esigono che il movimento reale,
impresso sulla pellicola a 24 fotogrammi al secondo, sia restituito in proiezione alla stessa
velocità», Id., L’acinema, in “aut aut”, cit., pp. 24-25. In una sintesi-commento di L’acinema,
Dominique Chateau (Cinéma et philosophie, Nathan, Paris 2003, p. 126) introduce delle possibili
esemplificazioni che possono aiutare forse con maggior efficacia a comprendere le implicazioni di
questo ritorno del rimosso della rappresentazione; e cita, a proposito del tableau vivant, Passion
(1982) di J.-L. Godard e, a proposito dell’esaltazione lirica, il cinema di Carmelo Bene.
9
C. Eizykman, G. Fihman, L’occhio di Lyotard da “L’acinema” al postmoderno, in “aut
aut”, cit., p. 46.
10
J. Wainwright, Tempi rivelatori. Una rivisitazione: The Greeting, in L’arte di Bill Viola,
a cura di C. Townsend, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 121.
194
FATA MORGANA
Cosa vediamo quando vediamo un video di Bill Viola?
romana11. Prima di tutto, Bill Viola sceglie di ancorare il formato del video
(o se preferite del cinema), predisposto per una visione dispersiva e distratta,
a un formato prestabilito, fortemente codificato in una tradizione che sarebbe limitativo definire solo pittorica. Quindi il formato (o genere) precede e
condiziona la scelta del modello (o soggetto) iconografico, che viene colto
nel suo sistema compositivo, nella sua organizzazione spaziale piuttosto
che nei suoi significati letterali (deposizione, storie di santi, adorazione,
ecc.): giustamente sono state evidenziate le valenze architettoniche, plastiche (scultura) e “rituali” delle installazioni di Bill Viola, sia quando sono
state esibite in veri e propri spazi storici, come nel caso di Ocean Without
A Shore (2007), i cui tre elementi occupavano il posto di pale d’altare nella
chiesetta di S. Gallo a Venezia, sia nel caso in cui erano collocate in uno
spazio appositamente progettato e organizzato come Room for St. John
of the Cross (1983). Tuttavia, vorrei concentrarmi su quelle opere che, a
partire dall’adozione dello schermo piatto LCD (Liquid Crystal Display) e
dall’abbandono del tradizionale CRT (Cathode Ray Tube), hanno consentito
a Viola di radicalizzare il suo rapporto con il modello pittorico e quindi
di rendere più vincolante il rinvio a un formato predefinito; il quale può
essere quello della predella (Catherine’s Room, 2001), del trittico (The City
of Man, 1989; Nantes Tryptych, 1992), dell’affresco (Emergence, 2002),
di un intero ciclo o della stanza affrescata (Going Forth By Day, 2002). E
solo a partire da qui, a partire dalla stabilizzazione di modelli prefissati,
statici, che egli introduce il movimento. Se ci concentriamo su The Greeting, vediamo che il nesso tra il dipinto di Pontormo e il video-dipinto di
Viola riguarda meno la replica del soggetto evangelico della visitazione
della Vergine Maria a Santa Elisabetta («appena Elisabetta ebbe udito il
saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo», Luca, I, 39-48) che
il motivo del “movimento delle figure”: la sfida che Bill Viola affronta in
quest’opera è di (ri)produrre filmicamente la figura del movimento che nel
quadro è resa pittoricamente, a partire dal riconoscimento che è appunto
il movimento delle figure il vero soggetto della rappresentazione. In altri
termini, non si tratta di una riproposta in abiti moderni di un soggetto classico, quanto piuttosto dell’attivazione dentro un’immagine contemporanea
della “figura del movimento”, attraverso un lavoro sulla durata, vale a dire
sul tempo (slow motion, ralenti). Sviluppando suggestioni benjaminiane,
Didi-Huberman ci ricorda che il termine tedesco Zeitlupe, con il quale si
indica il ralenti, significa letteralmente «lente d’ingrandimento tempora11
S. Settis, Bill Viola: i conti con l’arte, in Bill Viola. Visioni interiori, a cura di K. Perov,
cit., pp. 15-35.
FATA MORGANA
195
Antonio Costa
le», cioè «qualcosa di simile a una macchina per ingrandire visivamente
il tempo»12.
La vita delle immagini
Mi è capitato in passato di definire «effetto dipinto» quell’insieme di
procedimenti grazie ai quali abbiamo l’impressione di trovarci di fronte
più che a un piano cinematografico a una pittura. Definivo allora questo
effetto attraverso tre parametri: tempo sospeso, spazio definito, astrazione
cromatica. Ciò che contava nella definizione di tale effetto non era tanto il
riferimento pittorico riconoscibile e la citazione ben identificabile, quanto
piuttosto il modello di riferimento, la “pittoricità” dell’inquadratura, prima
ancora che il dipinto citato13. Se nell’effetto dipinto il percorso va dal cinema
verso la pittura, nelle videoinstallazioni di Bill Viola si è andato progressivamente chiarendo un percorso inverso: dalla pittura verso il cinema, o meglio
dalle immagini fisse del dipinto alle moving pictures o più esattamente forse
alle living pictures. Commentando The Greeting presentato a Venezia nella
Biennale del 1995, Giorgio Agamben ha scritto:
Se si dovesse definire in una formula la prestazione specifica dei
video di Viola, si potrebbe dire che essi non inseriscono le immagini
nel tempo, ma il tempo nelle immagini. E poiché, nel moderno, non
il movimento, ma il tempo è il vero paradigma della vita, ciò significa
che vi è una vita delle immagini, che si tratta di comprendere14.
Bill Viola lavora sulla resa del movimento nel suo stato aurorale, «before words, before language», per usare le sue parole15. Ciò comporta una
precisa intenzionalità, basata su due esclusioni: da una parte, si tratta di
svincolare lo svolgimento dell’evento dalla sua fonte letteraria (significato iconografico, storico e religioso); dall’altra, si tratta di impedire il suo
12
G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo dell’immagine, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 138.
13
A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, pp. 293-326.
14
G. Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 10.
15
Dichiarazione contenuta nel video Bill Viola. The Eye of the Heart. A film by Mark Kidel.
Si veda, a questo proposito, una possibile convergenza con la polemica che Didi-Huberman nell’intervista che apre questo numero fa con la pretesa, secondo lui implicita nel termine stesso di
visibile, di ricondurre ciò che posso vedere a ciò che posso leggere, cioè il visibile al leggibile.
196
FATA MORGANA
Cosa vediamo quando vediamo un video di Bill Viola?
assorbimento nella logica della narrazione. In altri termini, Viola libera le
immagini in movimento tanto dal loro referente storico (storia sacra, storia
dell’arte) quanto dalle loro funzioni narrative. Attraverso la circolarità della
rappresentazione (struttura a loop), Viola sottrae le immagini in movimento
alla linearizzazione del significante (temporale), cioè a uno dei procedimenti
che stanno alla base del modo di rappresentazione istituzionale, secondo
la definizione di Noël Burch16. Al tempo imposto dal(nel) dispositivo rappresentativo-narrativo del cinema istituzionale si oppone il tempo esposto
dell’installazione: è in questa dimensione che il movimento delle immagini
si dà a vedere, come esperienza originaria in cui si fondono memoria (il
passato) e desiderio (il futuro), prima o comunque fuori delle convenzioni
del visibile.
16
N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, tr. it., Pratiche, Parma 1993.
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FATA MORGANA
La camera oscura:
dal caso Moro ad Abu Ghraib
Alessia Cervini
Come la macchina fotografica è una sublimazione
della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio sublimato,
un omicidio in sordina, proprio di un’epoca triste, spaventata
Susan Sontag
Se fotografare è un po’ come uccidere, c’è morte in ogni fotografia che
viene scattata. «Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della
vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa)»1.
Si dice che una cosa o una persona sono state immortalate, per indicare il
processo specifico che le ha portate a essere il soggetto di una fotografia.
Ogni scatto dona così immortalità a tutto ciò che, volontariamente o in
modo del tutto fortuito, finisce dentro lo spazio della rappresentazione
fotografica. Ma immortale il soggetto fotografato lo è solo perché esso non
può morire due volte: la morte lo coglie, infatti, nel momento stesso in cui
la sua immagine è impressa sulla pellicola o (come è il caso di dire oggi)
sui pixel di uno schermo digitale. È a partire dal quel frammento di secondo
che esso ha accesso a qualcosa che possiamo definire warburghianamente
“vita postuma” delle immagini.
Se tutto ciò è valido per ogni fotografia, lo è ancor di più nel caso particolare in cui un prigioniero condannato a morte sia al centro dell’inquadratura. «È morto e sta per morire»: scrive Roland Barthes a commento di
una foto di Alexander Gardener, Ritratto di Lewis Payne2. Costituisce lo
studium di questa immagine il fatto che Gardener abbia fotografato nella
1
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it., Einaudi, Torino
2004, p. 15.
2
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 1980, p. 97.
FATA MORGANA
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Alessia Cervini
sua cella un condannato, accusato di tentato omicidio, in attesa della propria impiccagione. «Ma il punctum è: sta per morire. Io leggo nello stesso
tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore
in cui la morte è posta in gioco»3.
Le parole di Barthes pongono l’accento soprattutto su quella delicata
questione che, come è noto, Bazin ha definito «ontologia dell’immagine
fotografica»4: la questione che riguarda, cioè, la definizione dell’essenza
della fotografia, in funzione del rapporto privilegiato che essa sa intrattenere
con ciò che definiamo “reale”, considerato non in opposizione a qualcosa
come la “finzione” (la quale, d’altro canto, non può non contribuire alla
costruzione e poi alla conoscenza del reale stesso), ma in stretto rapporto
con la “vita” e il suo continuo scorrere davanti e dietro l’obbiettivo di una
macchina fotografica o da presa. Almeno fino all’invenzione del digitale,
che complica, da questo punto di vista, enormemente le cose, all’immagine
fotografica non poteva, infatti, essere negato in alcun modo un potere attestativo, sulla base del quale risultava addirittura infondato ogni dubbio relativo
all’attendibilità e alla veridicità del dato fotografato. Qualcosa “è stato” e
l’occhio fotografico semplicemente l’ha ripreso, facendone un’immagine e
creando un corto circuito temporale come quello di cui parla Barthes.
Ora, questa capacità attestativa che va riconosciuta alla fotografia è
esattamente ciò che attribuisce a essa un valore specificamente politico.
Nella storia d’Italia del secondo dopoguerra, una fotografia, apparsa sulle
prime pagine dei maggiori quotidiani nazionali, ha contribuito a dare, proprio in virtù della sua forza testimoniale, una svolta rilevante alla politica
del nostro Paese.
Pubblicata appena tre giorni dopo il suo sequestro da parte delle Brigate
Rosse, la foto di Aldo Moro attesta con indubitabile certezza che il presidente della Democrazia Cristiana è ancora vivo. Titola così il quotidiano “La
Repubblica”: «Moro è vivo, ecco la foto». Sin qui Barthes: nella fotografia
si vede anzitutto uno straordinario documento, capace di mostrare a tutti
gli italiani un uomo «in buone condizioni, camicia bianca aperto sul collo,
il capo leggermente piegato»5. È proprio questo il punto. Come osserva
Marco Belpoliti, di fronte a quella foto «nessuno si preoccupa di leggere la
costruzione dell’immagine di Aldo Moro, il suo messaggio recondito. Al
Ivi, p. 96.
A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id., Che cosa è il cinema?, tr. it., Garzanti, Milano 1999, pp. 3-10.
5
Sono le parole di Giorgio Battistini, nell’articolo che apriva le pagine di “La Repubblica”,
il 19 marzo 1978.
3
4
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La camera oscura: dal caso Moro ad Abu Ghraib
contrario, tutti si sforzano di trarre […] il massimo d’informazione sullo stato
di salute e sul possibile destino dell’esponente democristiano»6. I brigatisti,
più consapevolmente di quanto non fosse all’epoca possibile immaginare,
avevano invece costruito un’immagine, un vero e proprio tableau, «la scritta
sullo sfondo, il volto stanco e rassegnato dell’uomo politico in primo piano,
la testa reclinata, e soprattutto quella camicia slacciata […] che lascia intravedere la canottiera»7, in cui l’uomo di potere era ridotto alla condizione
dell’uomo comune. Fu così che, nella figura di Aldo Moro, tutti videro, per
la prima volta, un volto estremamente familiare.
È qui che si nasconde la potenza, possiamo dire già la violenza, politica
di una fotografia come questa. Essa anticipa non solo, in qualche modo, la
condanna a morte del presidente della Democrazia Cristiana (vista ora quell’immagine, come quella di Lewis Payne, dice che Moro è morto e sta per
morire), ma decreta al contempo la fine di un modo di intendere la politica
e la società. Con l’uccisione di Moro, ha inizio quella notte della politica,
a cui allude il titolo del film di Marco Bellocchio dedicato proprio a quella
tragica vicenda, Buongiorno, notte (2003).
L’esposizione del corpo discinto di un uomo di potere, destituito del ruolo
istituzionale che gli apparteneva, si può dire abbia dato vita a nuove forme
politiche che proprio sulla confusione fra pubblico e privato continuano a
fondare la propria forza. Non è un caso, allora, che ancora delle foto riportino
oggi l’attenzione dell’opinione pubblica sul senso, specificamente politico, di tale commistione. Le immagini, pubblicate dal quotidiano spagnolo
“El Pais”, che ritraggono il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in
atteggiamenti disinvolti con giovani ragazze ospiti nella sua villa in Sardegna, non sono che l’ultimo passo di quel lungo processo che negli anni ha
gettato discredito sulla politica e su chi ne è protagonista. Al contrario di
Moro, mostrato suo malgrado nei panni dell’uomo comune, Berlusconi ha
fatto consapevolmente dell’esposizione del proprio corpo e della familiarità/commerciabilità del proprio aspetto uno dei punti di forza del modo in
cui egli riesce a gestire il potere, nella sua forma propriamente politica, ma
anche in quella economica e soprattutto mediatica8.
Così intesa, l’operazione complessiva delle Br, che con l’uccisione di
Aldo Moro arriva a compimento, ma che già nella circolazione delle foto
dalla prigionia trova un momento davvero significativo, si rivela essere una
lotta senza quartiere non solo nei confronti delle istituzioni dello Stato, ma
M. Belpoliti, La foto di Aldo Moro, nottetempo, Roma 2008, p. 11.
Ivi, p. 14.
8
Cfr. M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda, Milano 2009.
6
7
FATA MORGANA
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Alessia Cervini
contro il senso più autentico dell’agire politico. Senso che si faceva risiedere,
ancora negli anni Settanta, in un confronto, sebbene dai toni a volte molto
accesi, che aveva nella forma dell’argomentazione la sua unica modalità
d’espressione. Ciò che spesso colpevolmente si ignora è invece il fatto che
l’utilizzo, sempre più diffuso, di immagini sapientemente costruite in ambito
politico ha comportato una radicale mutazione di quella sfera che Arendt
definiva “vita activa”. La pubblicazione della foto di Aldo Moro segna un
primo importante passo in questa direzione: il ridimensionamento dello
spazio politico nei limiti dello spazio rappresentativo. In questo senso, la
violenza dell’immagine, specie (come abbiamo visto attraverso le parole di
Susan Sontag) di quella fotografica, diventa violenza del politico.
L’immagine è violenta perché «può intromettersi, invadere, trasgredire,
distorcere, sfruttare»9, violando sistematicamente la distanza che deve tenere
distinta la posizione di colui che guarda da quella di colui che è guardato. È
esattamente qui che la questione da teorica si fa politica. Tale violazione, infatti, «è il risultato di strategie spettatoriali che confondono, volontariamente
o no, la distinzione degli spazi e dei corpi, al fine di produrre un continuum
confuso in cui si smarrisce ogni possibile alterità»10. Accade proprio questo
con la pubblicazione della foto di Aldo Moro. L’intrusione dell’obbiettivo
nella prigione allestita dalle Brigate Rosse cancella, mostrando l’immagine di un uomo nell’intimità che precede il momento della sua esecuzione
(non ancora decisa, ma certamente già paventata), ogni possibile distanza
fra quell’uomo e gli occhi di tutti coloro che avrebbero maneggiato la foto
che lo ritraeva “con il collo della camicia slacciato e la testa leggermente
reclinata”. In quella deliberata e costruita violazione sta l’inizio della notte
della politica.
C’è un’altra ragione per cui, secondo Mondzain, l’immagine ha una natura violenta. Essa va fatta risalire alla «sua immediatezza, la sua resistenza
originaria alla mediazione»11, che è anzitutto mediazione linguistica. È perché abolisce questo spazio di mediazione (spazio che vale la pena tornare
ad aggettivare come propriamente politico) che l’immagine può diventare
violenta. «La violenza del visibile non ha altro fondamento che l’abolizione,
intenzionale o no, del pensiero e del giudizio»12.
La foto di Moro conferma decisamente questa ipotesi. Essa anticipa,
infatti, il fallimento di tutti i tentativi di mediazione che le Brigate Rosse
S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 12.
A.-J. Mondzain, L’image peut-elle tuer?, Bayard, Paris 2002, p. 54.
11
Ivi, p. 59.
12
Ivi, p. 47.
9
10
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La camera oscura: dal caso Moro ad Abu Ghraib
cercarono a più riprese di portare avanti con le istituzioni dello Stato e
quelle della Chiesa, nel tentativo di salvare la vita del loro prigioniero e
conservare credibilità e rispettabilità fra quanti avevano creduto nella lotta
terroristica prima maniera. Il dialogo mancato fra le due parti arrocca la
politica, in nome del rifiuto di ogni compromesso con chi non era disposto a
riconoscere l’autorità dello Stato, su posizioni di cieca chiusura e condanna
al contempo le Brigate Rosse al loro meritato fallimento. Al di là di ogni
possibile attribuzione di responsabilità, ciò che più importa in questa sede è il
riconoscimento che il mancato confronto fra le posizioni, attraverso i mezzi
dell’argomentazione politica, aprì le porte a un’epoca in cui la comunicazione, e con essa l’uso sempre più diffuso dell’immagine a fini propagandistici,
ha occupato lo spazio che in precedenza spettava al politico.
Alla forza argomentativa del logos, l’immagine sostituisce la violenza
del desiderio e del pathos, ciò che le permette di «agire direttamente su un
soggetto al di là di ogni mediazione linguistica»13. Tale capacità permette
alla Pathosformel di cui parla Aby Warburg di presentarsi come una sorta di
eredità incastonata nella memoria che riemerge, di volta in volta, attraverso
la creatività dell’artista, ma non solo.
Stefen Eisenman ha rintracciato, infatti, la sopravvivenza di questa stessa forma patetica anche nelle fotografie che qualche anno fa svelarono le
torture che i detenuti nella prigione di Abu Ghraib erano costretti a subire
per opera dell’esercito americano. Secondo tale lettura, più che a modelli
che si potrebbero rintracciare nella pornografia sado-maso o in forme di
sottocultura largamente diffuse in internet (grandi autori come Slavoj Zižek
e Artur Danto hanno sottoscritto, per esempio, questo tipo di interpretazione)14, le fotografie tristemente note di Abu Ghraib sarebbero da inserire in
una lunga tradizione in cui la forma del pathos ha trovato espressione anche
in grandi capolavori della storia dell’arte. Il che non significa, ovviamente,
che i soldati americani avessero bisogno di «conoscere l’Altare di Pergamo
per replicarne il linguaggio, la formula di pathos: essi l’avevano negli occhi
e nelle mani, se la sentivano nei muscoli e nelle ossa»15.
Senza necessariamente far ricorso a specifici prototipi visuali a cui i
fotografi di Abu Ghraib avrebbero fatto più o meno volontariamente riferimento, si può dire, come ha fatto Eisenman che «la lunga storia occidentale
della rappresentazione della tortura ha contribuito a inscrivere l’ideologia
oppressiva del padrone e dello schiavo sui nostri corpi e sui nostri cervelIvi, p. 23.
Cfr. S. Eisenman, The Abu Ghraib Effect, Reaktion Books, London 2007, pp. 31-32.
15
Ivi, p. 100.
13
14
FATA MORGANA
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Alessia Cervini
li, mostrandosi capace di provocare una sorta di dimenticanza o paralisi
morale»16. È questa la capacità più rilevante della Pathosformel intesa alla
maniera di Warburg: essa sopravvive e fa riemergere, di volta in volta, la
mai sanata contrapposizione fra autorità e subordinazione sulla quale per
secoli si sono fondate la storia e la cultura dell’Occidente.
Ogni immagine, proprio perché carica di tale inesauribile forza patetica,
agisce sui corpi: li scuote, li plasma, fino a farli addirittura suoi prigionieri. E
se il biopotere altro non è che il tentativo di rendere sempre più controllabile
il ritmo e i movimenti dei corpi, esso non può non trovare nell’immagine
un servitore fedele. Alla politica rimane poco spazio, forse solo quello angusto di una prigione. Immaginare la liberazione dei corpi, come ha fatto
Bellocchio sognando la scarcerazione di Moro, significa ridare respiro al
senso più autentico del politico.
16
204
Ivi, p. 99.
FATA MORGANA
Edward Weston:
la forma fotografica del visibile
Emanuele Crescimanno
Due cose sono essenziali per il poeta e lo scrittore.
Deve elevarsi sopra la realtà e allo stesso tempo
rimanere dentro il mondo dei sensi.
Quando ambedue le esigenze
sono soddisfatte in misura equa, c’è l’arte
Friedrich Schiller
Pochi anni dopo la Fontana (1917) di Duchamp il fotografo statunitense
Edward Weston trae ispirazione dall’osservazione delle forme del WC della
propria casa messicana e ne fa soggetto di una fotografia (Excusado, 1925).
Annota nel proprio diario il 21 ottobre 1925:
Sto facendo delle fotografie al nostro WC, quel lucido ricettacolo
smaltato di straordinaria bellezza. Qualcuno potrebbe anche sospettare
che ci sia del cinismo in me, vista la scelta di un soggetto del genere,
quando avrei potuto dedicarmi alle belle donne o alle meraviglie della
natura. Oppure pensare che nella mia mente si nascondano immagini
lascive suscitate da appetiti repressi.
Ma no! Si tratta solo del mio senso estetico che risponde con
entusiasmo alla forma. Da tempo avevo in mente di fotografare
questo utile ed elegante accessorio igienico della vita moderna, ma
è solo quando ho contemplato effettivamente l’immagine sul vetro
smerigliato che mi sono accorto delle possibilità che avevo davanti.
Ero emozionato! Lì c’era ogni curva sensuale della “divina forma”
umana ripulita da ogni più piccola imperfezione.
Neanche i greci avevano mai trovato una sintesi più significativa
della loro cultura, e questo oggetto, nelle sue magnifiche e caste sinuosità, nel suo dilatarsi, restringersi, nel movimento progressivo dei
FATA MORGANA
205
Emanuele Crescimanno
contorni, mi ha ricordato in qualche modo la Nike di Samotracia.
E tuttavia, come ciechi, continuiamo a rivolgerci all’epoca
classica per trovare l’arte! Ora aspetto con ansia lo sviluppo della
pellicola.1
Conosciuto come il fotografo della quintessenza, per i potentissimi
nudi della compagna Tina Modotti, fuggito da Los Angeles per il Messico
alla ricerca di tranquillità e di una pratica fotografica libera da eccessivi
condizionamenti, figlia della ricerca e capace di sfruttare sino in fondo lo
specifico del medium, seppure con intenzioni del tutto differenti dall’ironico e rivoluzionario gesto di Duchamp, Weston si trova a riflettere sulla
forma e sul valore di (una fotografia di) un WC2. Con le proprie fotografie
e con le continue annotazioni sul proprio diario Weston ha meditato sul
significato della rappresentazione fotografica, sul senso e sul valore che un
oggetto comune assume una volta che richiama l’attenzione del fotografo
e cattura il suo sguardo sino a divenire una fotografia. Si tratta innanzi
tutto di un mutamento delle modalità di visione del fotografo capace, su
sollecitazione del reale, di andare al di là dell’immediatamente visibile,
di ciò che quotidianamente sta sotto i propri occhi e viene visto per la
funzione specifica che ha: il fotografo è piuttosto capace di scoprire in
un oggetto conosciuto, per mezzo di una migliore focalizzazione dello
sguardo attirato dalla forma, che questo è visibile in un’altra prospettiva,
in una maniera differente e, a partire da questa, è capace di rappresentarlo
fotograficamente.
La tradizione fotografica in cui Weston si inserisce è riconducibile, con
le dovute differenze, a quella della straight photography di Stieglitz e di
Camera Work: sebbene infatti la rivista di Stieglitz faccia capo a New York
e l’attività di Weston si sia svolta tra la costa della California e il Messico
e i contatti siano stati limitati, è possibile individuare un comune intento
teorico nel loro approccio alla fotografia basato sulla fedeltà alla forma
vista per mezzo dell’obiettivo della macchina fotografica – potremmo dire
alla forma vista fotograficamente: un approccio che consente una visione
e una precisione capaci di prefigurare già sul vetro smerigliato della macchina fotografica il risultato della stampa del negativo; lo scopo comune
in fondo potrebbe essere indicato nell’intento di creare immagini fedeli
al medium, immagini specificamente fotografiche risultato dello specifico
E. Weston, Ritratti al vivo, tr. it., Pratiche, Milano 1999, p. 192.
Non risulta che Weston conoscesse l’opera di Duchamp, seppure questi avesse esposto presso
la galleria 291 di Stieglitz. Cfr. G. Dyer, L’infinito istante, tr. it., Einaudi, Torino 2007, p. 81.
1
2
206
FATA MORGANA
Edward Weston: la forma fotografica del visibile
di questo mezzo con cui il fotografo si relaziona con la realtà3. Sfruttare a
pieno il potenziale del medium fotografico che «ha certe qualità che le sono
proprie – una di queste è la chiarezza del dettaglio» significa utilizzare «uno
strumento che ti permettere di estendere la tua visione»4: non dunque una
interpretazione della realtà ma una visione di questa in maniera fotografica
e la conseguente celebrazione delle forme fotografiche presenti nella realtà. Le fotografie quindi non sono «semplici riproduzioni di immagini, ma
fotografie studiate, intenzionali»5 suscitate dall’emozione, dalla meraviglia
innanzi a una forma percepita; non si tratta neanche di creare forme piacevoli o fini a se stesse, una sorta di compiaciuto manierismo che svuota di
identità l’oggetto rappresentato, pratica che confinerebbe con l’astrattismo,
bensì di procedere lungo la strada del realismo. Catturare un’espressione
sul volto, una forma di una nuvola, la forma di un oggetto che si impone
allo sguardo, è quanto di specifico può fare, e mostrare in più rispetto alla
realtà, la fotografia:
mi chiedo perché dovrebbe suscitare l’emozione di qualcuno,
e per quale motivo io sia stato indotto a fotografarla. Si sarebbero
potute fare molte fotografie di questa palma, e ciascuna sarebbe stata
una semplice fotografia di una palma; in effetti questa immagine è la
fotografia di una palma più qualcosa – qualcosa – e non mi riesce di
dire cosa sia questo qualcosa: chi è in grado di dirmelo?6
Lungi da approdare a posizioni metafisiche, di disvelamento di una presunta verità delle cose, la fotografia può evidenziare un quid dell’oggetto
connesso alla sua forma, una nuova connessione tra soggetto percipiente e
realtà tale da consentire non solo una riconfigurazione del mondo ma, per
mezzo dell’immagine, un surplus di conoscenza che arricchisce il mondo
per mezzo del potere creativo dell’immagine. La macchina fotografica non
Cfr. E. Weston, Ritratti al vivo, cit., pp. 27, 113 e, per un più ampio approfondimento e
inquadramento storico, B. Newhall, Storia della fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 1984, pp. 235
sgg. Per comprendere le analogie con la poetica del gruppo di Stieglitz a proposito del rapporto
fotografia-forma, cfr. Camera Work. Un’antologia, a cura di M. Vanon, tr. it., Einaudi, Torino
1981, pp. 100 sgg. e R. Krauss, Stieglitz. Equivalenti, in Id., Teoria e storia della fotografia, tr.
it., Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 127 sgg.
4
E. Weston, Ritratti al vivo, cit., p. 31.
5
Ivi, p. 39.
6
Ivi, p. 139. Weston fa riferimento alla fotografia di una palma (Palma Cuernavaca, 1925)
che vede così carica di intensità da obbligarlo a lavorarci febbrilmente sino a rispondere «dovevo
farlo» alla domanda sul suo legame con l’oggetto di questa foto (ivi, p. 202).
3
FATA MORGANA
207
Emanuele Crescimanno
è dunque un dispositivo passivo ricettore di una forma determinata, ma
strumento che deve registrare quello che il soggetto sente e riceve nella
relazione con l’oggetto fotografato7: paradossalmente dunque l’oggetto fotografato di per sé conta poco a vantaggio della reazione che questo suscita
nel soggetto e che è mediata dalla macchina fotografica capace di vedere
più e in maniera diversa dagli occhi stessi8. È bene dunque comprendere al
meglio cos’è questo aspetto quintessenziale che Weston ricerca nella sua
fotografia: innanzitutto esso è figlio di una perfetta padronanza del mezzo
tecnico e della coscienza della specificità del medium fotografico; in secondo luogo la quintessenza dell’oggetto fotografato dipende dalla capacità di
rendere nell’immagine la forma nella sua parvenza, in maniera specifica;
date queste condizioni, è possibile che l’immagine valga al contempo sia
per il singolo oggetto fotografato sia per quel qualcosa che di essenziale
e comune ha tutta la sua specie. E poco importa se si tratta di un WC, del
nudo di un giovinetto o di una donna, di un peperone, un cavolo o una
conchiglia, di un ritratto o delle forme che le nuvole assumono nel cielo:
l’obiettivo di Weston è acquisire la padronanza di esprimere esteticamente,
visivamente, la propria visione, di esprimerla fotograficamente cioè rappresentare quelle «linee, forme e volumi magnifici»9 che appaiono al proprio
sguardo dall’osservazione della realtà. Nei Diari spesso i termini essenza
e quintessenza vengono connessi alla bellezza delle fotografie, alla buona
riuscita di esse, all’interesse e al valore che oggetti comuni assumono una
volta fotografati: Weston nella stessa giornata passa da una seduta di ritratti
all’ennesima seduta sui peperoni sempre capaci di accrescere il suo stupore
e la capacità di vedere non solo l’oggetto fotografato ma grazie a questo
anche gli altri oggetti che lo circondano. A questo punto non appare in
contraddizione l’estrema concretezza delle immagini così prodotte, la materialità che da esse emerge, con una certa tendenza che a partire dagli anni
’30 si riscontra nelle pagine dei Diari: la ricerca di un qualcosa di mistico
negli oggetti fotografati, un aspetto simbolico che quasi si contrappone all’impressione che le fotografie suscitano; l’apparente distonia è spiegabile
poiché la fotografia deve mostrare, evidenziando le forme degli oggetti, sia
lo specifico del singolo oggetto, sia quanto vi è di universale; deve mostrare
infine, attraverso la forma che assume, un contenuto che va al di là della
7
A questo proposito infatti Weston, insoddisfatto dal punto di vista tecnico della stampa
di un proprio negativo, lamenta l’impossibilità di farne un altro anche se l’oggetto ripreso è
inanimato poiché non è possibile ricreare le medesime condizioni in un’altra seduta fotografica,
cfr. ivi, pp. 141-142, 157.
8
Cfr. ivi, p. 174.
9
Ivi, p. 198.
208
FATA MORGANA
Edward Weston: la forma fotografica del visibile
semplice fedeltà alla forma, allo stesso modo di un ritratto ben riuscito che
non esibisce solamente la fisionomia del soggetto fotografato.
Una conferma di questa posizione può venire dal confronto con Brancusi, artista a cui Weston fu accostato per un comune interesse per la «forma
astratta»10: definizione quasi ossimorica che ben può individuare l’obiettivo
della ricerca di entrambi gli artisti. Ambedue infatti – oltre all’interesse per
la materialità del reale, per le forme che esso assume, per le forme semplici
ma frutto di un intenso lavoro e della cura maniacale di ogni singolo dettaglio
– si proponevano di andare direttamente a registrare la forma così come
appare in natura senza alcuna interferenza, senza alcuna interpretazione
dell’artista ma mirando a una presentazione oggettiva; da qui l’obiettivo
di mirare all’essenza ma senza idealizzare o trasfigurare l’oggetto, bensì
evidenziandone le forme naturali11. Dunque la visione della forma pone una
sorta di dialettica tra la realtà e l’essenza delle cose che si manifesta nella
rappresentazione in cui forma e contenuto coincidono: Brancusi lamenta
che «solo gli imbecilli dicono che il mio lavoro è astratto. Quello che chiamano astratto è il più realista possibile perché quello che è reale non è la
forma esteriore, ma l’idea, l’essenza delle cose»12. E così risponde Weston
all’accusa di imitare il lavoro dello scultore sulle forme naturali:
con la mia macchina fotografica io vado direttamente alla fonte di
Brancusi. Io trovo pronto all’uso, selezionato e isolato, ciò che egli
deve “creare”. Qualcuno potrebbe ben dire sia che Brancusi imita la
natura, sia accusare me di imitare Brancusi; solo perché trovo queste
forme di prima mano in natura13.
Ma torniamo a Excusado: il diario di quei giorni è ricco di annotazioni
sui problemi tecnici di ripresa e di stampa dell’immagine, sugli stimoli che
10
E. Weston, The Daybooks of Edward Weston. II. California, New York, Aperture 1990,
p. 194. Lo stesso Weston inserisce, in un’altra pagina del diario, lo scultore rumeno in un breve
elenco di artisti (insieme a Stieglitz, Kandinsky, Van Gogh ed El Greco) le cui opere ha lungamente
osservato e che hanno segnato il suo modo di operare: è interessante che Weston utilizzi il termine
«guardare» a discapito di un più abusato «ispirato a» per sottolineare una sorta di educazione a
scorgere nella realtà delle forme che accomuna questi artisti (cfr. ivi, p. 234).
11
Cfr. ivi, p. 194.
12
C. Brancusi, Aforismi, tr. it., Abscondita, Milano 2001, p. 18. Degna di nota è inoltre l’attività
di fotografo di Brancusi: lo scultore era solito fotografare le proprie opere nel suo atelier, luogo
ideale per la loro migliore collazione grazie alla giusta illuminazione che ne determinava la corretta
visione (cfr. Brancusi. L’opera al bianco, a cura di P. Mola, tr. it., Skira, Milano 2005).
13
E. Weston, The Daybooks of Edward Weston, cit., pp. 239-40.
FATA MORGANA
209
Emanuele Crescimanno
l’attenta osservazione di un oggetto quotidianamente sotto gli occhi può
suscitare una volta che la sua forma ha stimolato l’interesse; Weston ricorda
inoltre che questa è una delle sue fotografie «studiate con più sensibilità»14,
che immediatamente suscita l’ammirazione degli amici (Diego Rivera in
primis): le annotazioni più interessanti vertono sulla natura dell’oggetto
fotografato e sul rapporto di questo con la sua rappresentazione. Quello
che è in gioco in questa immagine è come «il modo di presentare una cosa
possa influire sulla reazione emotiva»15, come funziona quel mix di calcolo
e intuizione mediato dalla padronanza del mezzo per produrre un’immagine
bella in cui
la consistenza, la qualità fisica delle cose è resa con la massima
precisione: le cose ruvide sono ruvide, quelle morbide sono morbide,
la carne è viva, la pietra è dura.
Le cose hanno proporzione e peso definiti, e sono poste a una
distanza chiaramente determinata l’una dall’altra. In una parola, la
bellezza che queste fotografie di Weston posseggono è la Bellezza
Fotografica16.
Pochi giorni dopo il rompicapo di Excusado, Weston, quasi controvoglia,
si ritrova a fare una serie di nudi di A.: mai soggetto potrebbe sembrare più
distante dal precedente ma invece è la stessa esigenza di mostrare la quintessenza, la vita del soggetto fotografato che ne guida l’azione17; la fotografia
ha infatti la possibilità di mostrare «frammenti di intensità emotiva»18 che
altre pratiche non sono in grado di fare. Weston insiste continuamente sulle
proprietà specifiche della fotografia di relazionarsi con la realtà, di scoprire
14
E. Weston, Ritratti al vivo, cit., p. 194. Vale la pena ricordare che la poetica di Weston
prevede che il risultato dello scatto si previsualizza già sul vetro smerigliato della macchina
fotografica poiché l’immagine deve essere ottenuta al momento stesso dell’esposizione; il negativo è preminente rispetto alla stampa, sua semplice trasposizione senza alcuna manipolazione
o ritocco.
15
Ivi, p. 195.
16
Ivi, p. 188: è il testo di una recensione di Alfaro Siqueiros a una mostra di Weston a Guadalajara nell’autunno del 1925 riportata dal fotografo nel proprio diario.
17
Per comprendere l’identità di intenti cfr. per esempio le due foto che presenta nella stessa
pagina Newhall (B. Newhall, Storia della fotografia, cit., p. 256), un Nudo del 1925 e Nuvole
in Messico dell’anno successivo: tale accostamento rivela in maniera immediata ed evidente
l’unità di intenti della ricerca che sta alla loro base. Cfr. inoltre G. Dyer, L’infinito istante, cit.,
pp. 81-82.
18
Ivi, p. 92.
210
FATA MORGANA
Edward Weston: la forma fotografica del visibile
il significato di una forma, «di prendere la vita così com’è»19: una posizione
che pone dunque l’equivalenza tra la bellezza e la forma come coerenza
e buona struttura dell’immagine, come capacità di mostrare qualcosa del
reale che altrimenti sfuggirebbe, espressione di un determinato e cosciente
punto di vista. La fotografia ha dunque creato un tipo di sguardo, ha insegnato a vedere in un certo modo la realtà, gli oggetti quotidiani, e questa
nuova modalità di visione si è riverberata sul modo di fare fotografie: «ciò
che un tempo era visibile soltanto da un occhio molto intelligente, ora lo
vede chiunque»20 poiché grazie al valore paradigmatico che l’immagine
assume, la stessa realtà ci appare più ricca e maggiormente dotata di senso.
Si tratta dunque di pensare visivamente, di riconoscere che già la visione è
un’attività conoscitiva, un’operazione cognitiva che si fonda sull’intrinseca
interazione con il pensare: «la virtù grandissima della visione è che non solo
si tratta di un “medium” estremamente articolato, ma che il suo universo
offre informazioni inesauribilmente ricche circa gli oggetti e gli eventi del
mondo esterno. Pertanto la vista è il “medium” primario del pensiero»21.
Una fotografia come quella di Weston attiva quindi un processo di rimandi
continui tra la realtà e l’immagine, stimola a pensare fotograficamente la
realtà e a rappresentare nell’immagine ciò che c’è di essenziale nella realtà:
comporre un’immagine è già un modo di vedere la realtà in maniera prospettica e con l’intenzione di significare, senza sovrapporre la personalità
dell’artista all’oggetto fotografato, non una interpretazione ma una rivelazione della natura, della forma che un determinato oggetto può assumere, la
comunicazione di una esperienza soggettiva del rapporto fotografo-oggetto
fotografato attraverso l’immagine. Ecco dunque manifesto l’approccio
specificamente fotografico di guardare, conoscere e rappresentare la realtà:
«Per mezzo della fotografia vorrei presentare il significato dei fatti, così
essi sono trasformati da oggetti visti a oggetti conosciuti. La padronanza
del mezzo – la macchina fotografica – rende manifesta questa conoscenza,
questa rivelazione, in forma comunicabile allo spettatore»22.
Il surplus di conoscenza che la fotografia consente rispetto alla visione
binoculare nel quotidiano (modalità che percepisce un flusso continuo
di eventi) è infatti dovuto al fatto che la macchina fotografica cattura un
momento isolato e fa sì che su di esso si concentri l’attenzione; in più le
Ivi, p. 209.
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it., Einaudi, Torino
2004, p. 87.
21
R. Arnheim, Il pensiero visivo, tr. it., Einaudi, Torino 1974, p. 24.
22
E. Weston, The Daybooks of Edward Weston, cit., p. 241.
19
20
FATA MORGANA
211
Emanuele Crescimanno
differenti focali o le carte di differente gradazione, capaci di accentuare o
diminuire il contrasto, fanno sì che quello della fotografia non sia un semplice guardare bensì un guardare con intenzione, con scopo, uno sguardo
studiato sulla realtà capace di trasmettere una conoscenza dal fotografo a
colui che guarda le sue immagini.
212
FATA MORGANA
L’invisibilità del visibile:
Me/We, Okay di Ahtila
Antonietta Petrelli
Il dono stesso del linguaggio,
potrebbe essere assunto come una
prova del fatto che l’uomo è per natura
provvisto di uno strumento capace di
trasformare l’invisibile in una apparenza
Hannah Arendt
Il visibile nell’arte è legato indissolubilmente ad un lavoro ermeneutico
del soggetto spettatore, capace di accordare nella fruizione il passato dell’esperienza e il presente dell’opera. L’esperienza ermeneutica messa in atto
dallo spettatore è dunque «il vero fulcro dell’azione artistica senza di cui
quest’ultima non avrebbe senso né luogo»1. Come scrive Merleau-Ponty
ne L’occhio e lo spirito:
[…] l’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e
visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere
in ciò che allora vede l’altra faccia della sua potenza espressiva. Si
vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso.
È un sé, non per trasparenza come il pensiero, che può pensare una
sola cosa assimilandola, costituendola, trasformandola in pensiero,
bensì un sé per confusione, narcisismo, inerenza di colui che vede
a ciò che vede, di colui che tocca a ciò che tocca, del senziente al
sentito, dunque un sé che è preso nelle cose, che ha una faccia e un
M. Senaldi, Zuschauendes Bewusstsein. La coscienza spettatrice da Hegel a Wharol, in Il
luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, a cura di A. Somaini,
Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 347.
1
FATA MORGANA
213
Antonietta Petrelli
dorso, un passato e un avvenire. […] Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del
mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si
muove, tiene le cose intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un
suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della
sua piena definizione2.
Questo meccanismo della comprensione come legata ad un andirivieni
tra la memoria e il presente, è rintracciabile in Me/We e Okay (1993), opere
cinematiche di Eija-Liisa Ahtila, videoartista finlandese. Esso è riscontrabile
su due livelli: sul piano della rappresentazione e sul piano dello spettatore.
Partiamo dal primo aspetto. Le due opere sono costruite sul binomio vittima-carnefice. In Me/We il carnefice è rappresentato dalla figura paterna,
presente in scena, che s’impone e racconta, attraverso le bocche di tutti gli
altri componenti del nucleo familiare, il deterioramento dei loro rapporti.
Similmente, in Okay, la protagonista è vittima delle parole del suo innamorato, senza volto, che palesa la conflittualità che connota la loro relazione
destinata a morire. In entrambe le opere i protagonisti, dunque, non dicono,
ma sono detti da un io dominante.
Ahtila in Me/We e in Okay mostra la condizione dissociativa in cui
versa il soggetto utilizzando il meccanismo della disgiunzione tra parole,
che provengono dal passato, e azioni, strettamente legate al presente. Paradossalmente la parola, soprattutto nella forma enunciativa, che dovrebbe
sancire l’essere nel mondo del locutore, è in realtà pronunciata da un alter
ego strisciante, che s’insinua nel corpo dei protagonisti, mentre il corpo
agisce su un livello presente, come difesa ad un rimosso che deve restare
tale. Ne sono dimostrazione le espressioni serene e le azioni quotidiane che
compiono le vittime, come per esorcizzare la potenza del monologo imbastito dell’altro dominante. Ciò deriva dal fatto che il corpo, nel presente, è
affetto solo passivamente dal tempo, mentre la memoria trattiene il tempo,
l’avvolge su se stesso mentre scorre; prepara, così, assieme a esso, un avvenire che contribuirà a creare.
Le azioni, dunque, sanciscono l’ancoraggio al presente, sono espedienti,
privi di ogni finalità nell’immediato o di fini strettamente narrativi. In Okay,
per esempio, la protagonista percorre freneticamente lo spazio claustrofobico del suo appartamento, ripetendo, come in un rituale, gli stessi gesti e
pronunciando, quando ancora l’alter ego non ha colonizzato la sua voce,
frasi sconnesse che hanno, tuttavia, la funzione di modulare il ritmo delle
2
214
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, tr. it., SE, Milano 1989, pp. 19-20.
FATA MORGANA
Lʼinvisibilità del visibile: Me/We, Okay di Ahtila
immagini. A sancire sul piano visivo «la performatività del verbo».
Anche la scelta di ambientazioni legate a spazi privati e delimitati sembra
sottolineare la resistenza del soggetto dall’invasione dal di fuori del passato.
Ma è attraverso il riconoscimento di questa dissociazione passato-presente,
voce-azione, che il soggetto è messo in grado di venire in contatto con il
proprio sé, di vedersi. Il sé dunque non è nel tempo, ma è il tempo stesso,
inteso come luogo di raccordo tra passato, presente e futuro3. Il soggetto,
l’io per Husserl, tiene insieme i tre livelli temporali: «Io sono sempre nel
presente, ancora nel passato e già nel futuro. Sono sempre qui e allo stesso
tempo altrove. Io come ego, finisco tra queste due modalità. Sono solo in
questo sdoppiamento ed emergo in questo spostamento»4.
È, dunque, nella visione del tra l’agire e l’esser detti dei soggetti che
essi possono ricongiungersi con il rimosso, che ora si connota nel presente.
Per sintetizzare con Lacan potremmo dire che l’identità è sempre implicata
nel «campo dell’altro»5.
La dissociazione tra altro rimosso e essere agente è operata anche sul
piano della fruizione. Athila, nelle sue opere, imbriglia lo spettatore in una
rete di segnali confusi; i suoi testi pongono costantemente delle domande
da interpretare e reinterpretare, per trovare la strada della comprensione
non legata alle regole classiche dell’ontologia filmica. Il corpo a corpo del
soggetto con l’opera, o l’esperienza dell’urto, come la definisce Gadamer,
coincide con il momento della sua ri-formulazione attraverso un lavoro
di recupero dell’esperienza del fruitore e di attualizzazione dei contenuti
estetici. Ciò è dovuto anche alla mancanza di un’istanza narrativa predominante, sostituita dalla presenza di tracce narrative in preda ad una logica
combinatoria ogni volta da ricostruire. Ciò non è dissimile dal carattere di
enunciabilità dell’immagine di cui parla Deleuze. L’immagine, scrive il
filosofo, «è una condizione, virtualmente anteriore a ciò che condiziona.
Non è un’enunciazione, non sono degli enunciati. È un enunciabile»6. «È il
concetto fondamentale di enunciabilità che permette di pensare l’immagine
nell’unico modo possibile, cioè a dire come spazio virtuale di volta in volta
3
Si veda per l’approfondimento di questo concetto applicato all’opera di Ahtila: D. Birbaum,
Cronologia. Tempo e identità nei film e nei video degli artisti contemporanei, tr. it., postmediabooks, Milano 2007, pp. 9-28.
4
R. Sokolowsky, Displacement and identity in Husserl’s phenomenology, in Husserl-Ausgabe und Husserl-Forschung, a cura di S. Ljsseling, Kluwer, Dordrecht-Boston-Londra 1990,
p. 180.
5
J. Lacan, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, tr. it., Einaudi,
Torino 1979, p. 86.
6
G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 43.
FATA MORGANA
215
Antonietta Petrelli
attualizzabile e attualizzato nell’interpretazione che ne diamo»7.
Potremmo dire che lo spettatore riconfigura a partire da sé il messaggio
sotteso nell’opera, muovendosi tra passato e presente, per ricongiungersi
ancora una volta con se stesso, poiché l’esperienza estetica è «un modo
dell’autocomprensione»8. Ovviamente il processo ermeneutico è orientato
nelle due direzioni: l’opera dà al fruitore esattamente come il fruitore dà
all’opera in un processo che, sempre con Gadamer, potremmo definire fusione di orizzonti. «Il concetto di fusione di orizzonti allude al fatto che, sulla
base di una fondamentale familiarità e penetrabilità, la cosa da interpretare
presenta un’estraneità che l’atto ermeneutico deve superare»9, sulla base di
uno schema articolato in domanda e risposta. La struttura dialogica negozia,
tra le istanze dettate dall’opera e quelle del soggetto fruitore, il margine del
non(ancora) detto che l’arte custodisce.
Ad un’analisi più approfondita, però, la struttura di domanda e
risposta si rivela molto più complessa: da un lato, infatti, […] la domanda che l’interprete pone (al testo) è già a sua volta risposta ad un
appello domanda che il testo stesso gli rivolge. Dall’altra parte, […]
il testo è già dal canto suo […] risposta a una domanda più radicale,
che è ricostruibile soltanto a partire da esso, e che va ricostruita perché
si possa dare una vera comprensione10.
È questo mutuo evolvere del senso nell’esperienza estetica che scongiura
il pericolo di una deriva semantica, poiché «chi vuol comprendere […] dovrà
mettersi […] in ascolto dell’opinione del testo, fino al punto che questa si
faccia intendere in modo inequivocabile […]»11.
L’estetica videografica, che in queste opere è mescolata a quella cinematografica (riconoscibile soprattutto nell’uso del bianco e nero) e ad
altri linguaggi, da qui il neologismo cinematiche, è un’estetica che allerta
costantemente la capacità rielaborativa dello spettatore. «Il fruitore si fa,
per così dire, più sensibile al mondo, più ricettivo nei confronti delle cose,
più esposto al c’è, alla ricchezza donativa del dato»12. «[…] la videoarte
R. De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Bulzoni, Roma 1996, p. 73.
H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it., Bompiani, Milano 2000, p. 227.
9
Ivi, p. 48.
10
Ibidem.
11
Ivi, p. 557.
12
P. Montani, Video e racconto, in Le storie del video, a cura di V. Valentini, Bulzoni, Roma
2003, p. 186.
7
8
216
FATA MORGANA
Lʼinvisibilità del visibile: Me/We, Okay di Ahtila
[…] ha una movenza tipicamente incoativa, ci fa sentire il farsi del senso,
lo spessore di un esperire allo stato nascente»13. L’esperienza che tale arte
propone è simile a quella che offre la visione di un quadro cubista, in cui lo
spettatore deve ricomporre i tasselli del racconto frammentario, sparsi nello
spazio e organizzati secondo una logica non lineare. Da questo incontro il
senso è destinato a rinnovarsi continuamente. L’arte video, a differenza del
cinema (penso in particolare al cinema classico) che cerca di celare la natura
linguistica alimentando «un sentimento d’intimità con l’estraneo»14, vuole
far sentire la distanza, l’artificialità. «Lo spettatore è relegato in una assoluta
distanza […]. Questa distanza è però, in senso autentico distanza estetica,
giacché significa distanza necessaria per vedere, che rende possibile un’autentica e completa partecipazione a ciò che davanti a noi si rappresenta»15.
In questo senso, essa è meno rassicurante per lo spettatore e richiede costantemente la sua rielaborazione. Proprio in questo potenziamento del lavoro
ermeneutico risiede il discrimine tra arte e comunicazione. È da rilevare, in
questo senso, che le opere visuali sono costruite come spot pubblicitari, da
qui l’articolazione in soli 90 secondi per ciascuna e la velocità delle sequenze.
Da questa forma, Ahtila vuole assorbire la matrice empatica che è in grado di
suscitare nello spettatore, per dirigerla non verso un prodotto o un messaggio,
bensì verso lo smascheramento della passività in cui la forma-spot trascina
il fruitore. In tal modo la dissolve dall’interno, poiché lo spettatore, sospinto
fuori dal meccanismo persuasivo della pubblicità, smaschera l’inganno della
spettacolarizzazione dell’informazione visuale ed è portato a riconoscere la
condizione in cui è relegato, scongiurando il pericolo dell’alienazione dello
spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato.
In questo senso le opere cinematiche diventano una sorta di meta-spot,
emblema della bellezza e della positività del mondo delle apparenze, qui
delle azioni e dei volti, mentre dalla voce, del passato, emerge il contaminato. Le vittime di Me/We e di Okay, difatti, sentono la presenza del
dispositivo che li riprende, sanno di essere ripresi e anche per questo, pur
di preservare l’idillio pubblicitario, fingono di vivere una situazione felice, sconfinando nel grottesco. Tuttavia l’dea che tentano di veicolare nel
visuale si traduce nel suo contrario, come a sancire, di contro all’opinione
corrente dello strapotere del visivo, che il visuale è demandato, in ultima
istanza, alla rielaborazione operata dallo spettatore, che ricostruisce le storie
Ivi, p. 190.
R. Diodato, Spettatore virtuale, in Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella
cultura delle immagini, a cura di A. Somaini, cit., p. 275.
15
H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 279.
13
14
FATA MORGANA
217
Antonietta Petrelli
sottese, che premono per essere raccontate. In Me/We e in Okay, la storia
dell’invisibilità delle vittime.
Concludendo, ancora una volta rifacendoci al pensiero di Gadamer, potremmo dire che l’arte è, dunque, una forma di comprensione che si definisce
solo entro l’universale modo di essere dell’essere ermeneutico come forma
particolare di esperienza ermeneutica16.
16
218
Cfr. ivi, pp. 969 sgg.
FATA MORGANA
Naqoyqatsi: mito e fusione testurale
nell’immagine sonora
Carlo Serra
Tema e morphing: il regime di omogeneità narrativa
Vi sono opere che vivono in un regime di profonda ambiguità narrativa,
legata agli intenti simbolici, che animano le scelte stilistiche che sostengono la loro costruzione. Un riferimento al piano del visuale, inteso come
modo costitutivo della forma narrativa di tipo cinematografico, ma anche
come piano su cui si riverberino tutte le componenti sensibili, che danno
movimento alla struttura filmica, potrebbe guidarci all’interno di un’opera
come Naqoyqatsi (2003), che stringe in simbiosi la musica di Philip Glass
con il montaggio tematico delle immagini, caratteristico del cinema di Godfrey Reggio. Il continuo piano di integrazione fra dimensione musicale,
che deve sostituire il riferimento realistico al piano del rumore, e la scelta
di una narrazione per blocchi di immagini che alludono alla forma documentaristica, senza esplicitarla fino in fondo, fa di questo film un oggetto
particolarmente interessante per rileggere l’integrarsi del rapporto suonoimmagine, in un contesto narrativo che, da un lato, rinuncia programmaticamente al ricorso alla parola, dall’altro non vuol senza perdere presa su
un intento mitico-didascalico, che ne segna irrimediabilmente le forme di
coesione interna. Narrare senza parole, valendosi solo di immagini che
scavino nella funzione paradigmatica della loro capacità simbolica, come
accade per la prima sequenza in cui la moltitudine relativa dei linguaggi
viene intesa come forma di pura dispersività, che si costituisce come utopia
perduta e pietrificata nell’immagine del dipinto di Bruegel raffigurante la
Torre di Babele, analizzato nella sua testualità interna, significa costruire una
drammaturgia filmica che punti l’attenzione sulla funzione metalinguistica
dell’immagine, sull’illustrare non tanto ciò che si mostra, ma le relazioni
di valore che ne determinano il significato. La forza dell’immagine, muta,
deve così trovare un rafforzamento nel modo di organizzazione dei flussi
sonori che la commentano, creando un rafforzamento semantico, o una atFATA MORGANA
219
Carlo Serra
tenuazione dei caratteri simbolici, in un controcanto che agita il piano del
riferimento, lo sfrangia, cercando di piegarne la mobilità interna, o la forza
rappresentativa, al piano metanarrativo della musica, che ne commenta la
fruizione. Il suono musicale, in questo modo, diventa forma espressiva del
sentimento dell’ascoltatore, modalità che commenta la fruizione dell’immagine dall’esterno, modalità dello straniamento.
La poetica del film si riduce così ad una forma di rappresentazione, tipica
delle drammatizzazioni di tipo rituale: costruito attorno a solidi nuclei simbolici (la nozione di numero e di accumulazione, come motore perverso di
un doloroso regime di guerra continua, che caratterizza il modo di abitare il
mondo, contrapposta alla nozione, di fragilità, di espressione, di natura come
animalità pulsante, che abita la bellezza del movimento plastico dei corpi, fino
alla sterilità e alla tragedia della guerra), il montaggio del film ricorre ad un
raggruppamento tematico di immagini, che va dalla appena ricordata evocazione della torre di Babele di Breugel, alle sue concrezioni mineralizzate, dal
circolo delle spirali di fumo, che si muovono ora in un senso, ora in un altro,
per rimandare alla circolarità del tempo, che vive nelle proprie deformazioni
tramite morphing, un effetto digitale che prende forma nella trasformazione
fluida tra immagini diverse, traducendo in modo efficace la definizione del
suono come processo e la sua durata, in una pulsazione interna che permette
di scivolare da un’immagine ad un’altra. La manipolazione pensata sul suono
agisce così sulle immagini, manipolando il tempo visivo, i tagli prospettici, la
configurazione lineare tra eventi attraverso velocizzazione o rallentamenti del
montaggio che entrano in una dialettica sincronica o asincronica con l’organizzazione ritmica del brano musicale. Il parallelismo suono-montaggio tocca
così non solo il piano verticale delle modalità narrative, ma quello orizzontale
della sintesi testurale fra la materia che l’immagine cinematografica coglie e
la potenza timbrica del suono. Sterilità lapidaria e fluidità acquorea, che sono
uno dei temi ricorrenti del film, giocato sull’idea di un conflitto insanabile
che tiene unite le cose del mondo, trovano nell’articolazione sonora con cui
verranno orchestrate le melodie che le commentano, il senso interno che ne
costituisce la densità narrativa, il valore simbolico, e la portata emozionale,
che debbono evocare, mettendo capo ad un registro di omogeneità narrativa
non ovvio. Si apre così un terreno di fusione inedito, di coesione fra diversi
regimi narrativi, che trovano il loro fondamento costitutivo nella grana del
suono, e nella pastosità materica dell’immagine: la forma in movimento e
l’articolazione tematica debbono plasmarsi attorno alle proprietà materiali
del momento raffigurativo, proprietà materiali che mettono in gioco la consistenza di corpi e suoni, facendoli interagire sullo stesso livello: il piano
formale sprofonda all’interno della costituzione attiva dell’immagine intesa
come oggetto, e di tutta l’inquietudine narrativa legata alla sua costituzione
220
FATA MORGANA
Naqoyqatsi: mito e fusione testurale nellʼimmagine sonora
materiale, nel tempo e nello spazio. I gradienti qualitativi determinati dall’accentuazione del piano musicale, che guida l’architettura delle sequenze,
facendo prender forma alle immagini, assecondando la spinta che la trama
temporale che costituisce l’articolazione musicale in grado di dar loro voce;
determinano la riapertura di una serie di problemi tecnici, che toccano la
costituzione dell’immagine visiva, rispetto al suo analogon, la figurazione
musicale. Se è frequente rilevare che tutti pensano, a torto o a ragione, di
saper individuare a colpo sicuro quale sia la valenza visiva di un’immagine usata come tema, potrebbe essere meno intuitivo parlare di potenziale
immaginativo, riferendoci al suono: vi è infatti un carattere eminentemente
temporale, legato al processo sonoro, che sembra renderlo refrattario alla
sua riduzione all’immagine, tanto più in una musica così poco descrittiva,
qual’è quella esplicitata dalle ricerche del minimalismo americano, eppure,
se vogliamo avvicinarci alla natura della correlazione fra grana del suono e
articolazione dell’immagine, dobbiamo affondare nel terreno costitutivo di
quella pratica compositiva, basata sull’iterazione sempre variata di piccole
cellule, che si sviluppano attraverso una proliferazione di piccoli episodi, che
vanno lentamente modificando il senso di una melodia, rendendolo sempre
più complesso, articolato e spesso.
Spesso e articolato: se il secondo termine sembra non porre problemi,
l’uso di un aggettivo legato alla dimensione del corporeo, per trattare dello
sviluppo modulare di una musica, può sembrare sorprendente, ma è proprio
tale carattere che dà l’impronta alla dimensione visuale, e recettiva, del film.
Ispessire un melodia vuol dire svilupparla, attraverso un’enfatizzazione della
scrittura timbrica, o mediante il variare della contestualizzazione, in cui essa
appare: si deve agire anzitutto sulla sua testuralità, sulla grana sonora in cui
si articola, sulle forme della sua contestualizzazione nello spazio sonoro,
sulla sostituzione progressiva delle cellule che la compongono con altre,
in una lentissima delibazione del suo trasformarsi, che implica fatalmente
una perdita della forma, un suo decomporsi in una struttura affine, ma deformata, che prepara il passaggio alla linea melodica successiva. Il regime
metamorfico che sostiene le tendenze interne al materiale lavora tanto sulla
compressione e sulla dilatazione della linea, che sull’idea di un condensarsi
della materia, lasciando la propria traccia sulle elementari strutture articolatorie che la sostengono: la strategia compositiva attraverso cui si snodano
le immagini del film diventa così un doppio della pratica musicale, meglio
ancora di una procedura compositiva, in una riproposizione metaforica
della totalità dell’opera d’arte, come appello alla pietas del mondo. La forma sonora si fa immagine, perché l’immagine prende forza a partire dalla
materialità stessa del suono, dalla sua corposità, e quel lavoro sulle cellule
tematiche va proprio in quella direzione.
FATA MORGANA
221
Carlo Serra
Un ritorno esplicito al piano della fonetica1, rafforzato dall’uso imponente
delle percussioni, che in questa partitura creano continuamente tappeti ritmici
cangianti, legati al peso specifico che assume il lavoro sulla densità timbrica
nell’incrocio dei disegni che sostengono asincronicamente il montaggio dei
vari piani sequenza. Fin dall’inizio, il gioco è riproposto programmaticamente, lavorando sull’articolazione visuale degli eventi: un esempio efficace,
e, come spesso accade in quest’opera, un poco didascalico, è il lavoro di
articolazione ritmica della scansione dei numeri: in una rappresentazione del
mondo come grande rete internet, dominata da codici binari, l’occhio dello
spettatore viene guidato da punti luminosi che enfatizzano il rilievo delle
cifre, attraverso un appoggio sulla pulsazione ritmica che prepara l’entrata
delle formule melodiche. È un procedimento che, nella sua elementarità,
può richiamare la logica plastica del cartone animato, le famose deformazioni timbrico-materiche, che sostenevano le elaborazioni musicali di Carl
Stalling, ma l’impianto rigorosamente tridimensionale dell’immagine, il
flusso interno che sostiene il suo venire verso lo spettatore, danno a queste
luminescenze un’incisività molto più profonda, determinando una sintesi
così complessa sul piano immaginativo, da portare immediatamente oltre
l’immagine.
La consistenza sonora come grana del mondo
La modalità di tali cesure, che passano attraverso la testuralizzazione
delle componenti visive (il punto che si fa più luminoso rimanda al prender
presenza del corpo, al suo individuarsi dall’interno, mentre la drammaturgia
è, di fatto, sostenuta dalla semplice pulsazione musicale, che va, a sua volta,
organizzandosi, nell’attesa delle linee ritmico melodiche, che dovranno
svilupparsi in parallelo con il racconto), è il motore che si affianca al montaggio delle sequenze, facendo riverberare sulle immagini la consistenza
1
Il procedimento materico ora evocato sta dietro all’elaborazione musicale delle immagini
nelle culture primitive, e fa tutt’uno con l’evocazione del punto di vista che sostiene il registro dei
piani emotivi sollecitati dalla narrazione, che determina i registri emotivi del canto. Per un’analisi
di questo problema, vedi le preziose osservazioni sviluppate da Steven Feld, in Suono e sentimento, tr. it., il Saggiatore, Milano 2009, pp. 150-152. Le modalità intonative che determinano
la resa espressiva dei sintagmi linguistici nel canto in una frase come «Padre dove stai andando»,
portano ad una condensazione dei significati, che rievocano il dolore per la morte del padre, il
lutto della comunità, l’angoscia di chi è stato abbandonato, in un sincretismo che apre la via del
metalinguistico. Il materiale sonoro, e le proprietà timbrico-mimetiche del suono, la sua grana,
aprono la via all’immagine, come al processo identificatorio, in una fusione inscindibile.
222
FATA MORGANA
Naqoyqatsi: mito e fusione testurale nellʼimmagine sonora
timbrico-sonora, che sosterrà l’evolversi delle cellule melodiche. Al suono
oggetto, a cui corrisponde l’enfasi delle immagini rallentate si coordinerà
un suono flusso, che troverà un riverbero nell’incrementarsi del regime
pulviscolare del loro scorrimento: gli aspetti caratteristici del montaggio
trovano ora una eco nella drammaturgia che disegna movimenti e consistenze
fisiognomiche delle cose e dei corpi, la fusione di morphing e montaggio
si fa, ingenuamente, mimesi, con alcune conseguenze interessanti sul piano della moralizzazione rappresentativa. La riplasmazione delle durate, il
fondersi del tempo di scansione dell’immagine con l’ossatura timbrica della
pulsazione, può così cercare un punto di contatto, un momento fecondo, in
cui tematizzare lo scorrimento parallelo dei due piani narrativi, lavorando
sulle costituzioni sincroniche, ed asincroniche, del movimento dei flussi,
e l’aprirsi di questa fusione tematica fra suono, montaggio e musica, può
ora esplodere nella testuralizzazione dell’immagine, nel tentativo, spesso
riuscito, di tradurre la grana timbrica della musica nell’immagine, se il suono
permette di tracciare profili interni all’immagine, la consistenza sonora sta
avviandosi a diventare la grana del mondo, il luogo in cui il lato sensibile
dell’immagine, la sua capacità di evocare la tridimensionalità, si appoggia
alle sintesi determinate dal suono. Potremmo allora dire che il piano metaforico si trasforma in indice visuale, ma non potremmo negare che sia
l’insieme a determinare una rievocazione della funzione mitica del racconto,
giocando sui nessi sintetici che stringono la fruizione dell’immagine alla
testualità musicale: il piano della suggestione si pone dunque all’interno
di queste potenti correlazioni, che ora vanno pensate criticamente, rispetto
alla forza rappresentativa della sintesi prescelta.
Dobbiamo così commentare la lunga sequenza dedicata ai corpi, e alla
poesia del gesto atletico, per dar ragione di tutto il problema: i risultati
espressivi legati alla tecnica di deformazione delle durate, e di fusione tra
sequenze di suono e struttura articolatoria dello svolgimento dell’immagine,
trovano in questo contesto una celebrazione particolarmente potente, che
non esita a rievocare affettuosamente le prime forme di rappresentazione
cinematografica del movimento, e a costruire loro una sorta di piccolo
tempio della memoria, all’interno del nuovo metodo elaborativo: storia
del cinema e nuove forme della narrazione sono dunque affiancate, in un
gesto esemplarista, che chiama un confronto. Tutta la sezione in grande
evidenza il tema dell’acqua, dell’amniotico, rievocato puntualmente (o forse suggerito) dalla struttura della melodia che, nell’orchestrazione giocata
sugli ottoni, si carica di eco e di ribattuti. La melodia sembra così sempre
sul punto della propria dissoluzione testurale, si gonfia e si ripiega indietro
come un’onda, caricandosi di una patetismo che ne vorrebbe disambiguare
i caratteri: è questa mobilità che accompagna le circonvoluzioni di acqua
FATA MORGANA
223
Carlo Serra
e fluidi corporei, vita e morte, organico e scheletrico, che si fa struggente
quando il violoncello e la melodia si colorano di inflessioni in minore
per accompagnare la rappresentazione tridimensionale del corpo umano
in rotazione, che funge da filtro, per quanto seguirà, rimandando all’idea
di vanitas, o per sottolineare i movimenti straniati di un gruppo di bimbi,
fino all’insistita evocazione della fecondazione artificiale, attraverso capra
e legni, secondo quell’intransigente atteggiamento didattico, che rende il
cinema di Reggio, alle volte, incredibilmente ingenuo. I tempi sono maturi
per una nuova cesura: proprio da questa caduta gnomica, inizia un processo
di sincronizzazione drammaturgica fra suono ed immagine, che toccherà il
proprio punto apicale nella meravigliosa sequenza del movimento dei corpi
degli atleti, che avrebbe probabilmente entusiasmato Deleuze.
Una danza, dove alla poesia dei movimenti dei corpi rallentati, presi
nello sforzo della corsa, del salto, della lotta e alla pratica del montaggio,
si aggiunge l’artificio musicale del rafforzamento ritmico della melodia,
che la trasforma progressivamente in marcia: nulla di nuovo dal punto di
vista cinematografico, se non fosse che il contesto spaziale ora reagisce
al salto di registro narrativo, come attesta l’attenzione sui gesti corporei
che trasformano la materia, lasciando un’impronta del movimento e della
tensione cinetica, come accade per il tartan percosso dal piede, drammatizzato nell’elasticità della sua risonanza rispetto al riverbero oscillatorio
dell'arto che si solleva e che lo ripercuote, o per l’acqua battuta dalla mano
del nuotatore, che ribolle nella sua rifrazione ottica. Tali relazioni, macroscopiche nel caso dell’acqua, appena percepibili nel caso della pista da
corsa trovano un’eco nel colore timbrico che tinge l’irreversibilità ritmica
dell’accompagnamento musicale, in una forma di completamento di senso
di tipo mimetico, che, per un felice paradosso legato alla musica, trasfonde
il suo senso in un lirismo, che trascende il didascalico dell’immagine. La
materia, la drammatizzazione dello spazio è catturata dall'immagine mentre
accoglie il movimento rifrangendolo: nasce così una drammaturgia visiva,
legata al morphing, che trascina lo spettatore nell’azione, in un intreccio di
sensi determinato dal rapporto suono immagine, che ora muove gli spazi
ottici dell’inquadratura, e i contesti materiali ove prendono corpo le relazioni cinetiche. La drammatizzazione della spazialità è particolarmente
potente, e l'attenzione alla comporsi plastico del movimento corporeo,
che si fa estrinsecazione espressiva della modalità vitale con cui il corpo
mette sotto presa la spazialità cricostante, diventa particolarmente intensa:
si pensi alla trasformazioni dell’acqua, a quella fluidità trasparente che,
scossa, si fa schiuma, gorgo, schizzo, stringendosi attorno al movimento del
nuotatore ripreso dal basso, mentre il tintinnare metallico delle percussioni
sembra catturare la rifrazione di quel movimento nella massa liquido che
224
FATA MORGANA
Naqoyqatsi: mito e fusione testurale nellʼimmagine sonora
quel corpo va riplasmando. Nulla di più lontano dall’immagine osmotica
della medusa che danza facendo propria l'acqua che la circonda, così cara
a Paul Valéry. Descrittivismo? È difficile rispondere in modo netto, ma la
coesione di tutta la sequenza è legata ai nessi dialettici fra suono ed immagine, e al mutare dei registri drammaturgici, come accade quando la stessa
melodia, cantata in modo quasi vocalizzante dal violoncello di Yo-Yo-Ma,
sembra voler proteggere il suggestivo bianco e nero, che colora la rassegna
di gesti, espressioni, piccoli movimenti oculari, nella lunga rassegna dedicata ai volti e ai gesti dell’uomo, secondo un’alternanza che costituisce
un poco tutta la cifra poetica del film, e la sua intraducibilità. Il canto, la
voce intima, introduce e protegge quella dimensione privatissima, e a tutti
visibile, che prende forma nel modificarsi dell’espressione di un viso. È un
campo di enorme fragilità, di totale mancanza di difese, ed è pubblico, quasi
incontrollabile, come le emozioni che corrono nell’intonazione della nostra
voce: è significativo che la stessa musica ci accompagni al limitare più intimo della dimensione del privato, del pre-linguistico dove la fisiognomica
delle espressioni, mai pienamente esplicitabile sul piano linguistico (non
posso descrivere un’espressione triste, posso solo farmene attraversare),
entra in dialettica con la potenza straniante e protettiva del suono, in una
evocazione quasi kantiana delle debolezze e della tenerezza delle cose del
mondo. Questa sequenza ci lascia sospesi, come accade nella vita di fronte
allo spettacolo dell’emozione. il visuale si raccoglie stilisticamente attorno
ad un suono, che non può rispondere, ad un canto senza parole: è lo stesso
morphing a sottrarsi al piano della narratività diretta, entrando nel mondo
dell’intermittenza del senso, e velando, asua volta, di ambiguità profonde i
portati narrativi della musica, in una situazione che rievoca l’irraggiugibile
enigmaticità dei personaggi concettuali, che ci parlano dalle regioni sorridenti ed enigmatiche che ci ha donato l’ultima fase creativa di Deleuze.
FATA MORGANA
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FATA MORGANA
Inoculati
Lorenzo Esposito
Non ci si interroga mai abbastanza sulla franosità della precipitazione
verticale che chiamiamo parola e immagine. Non lo si fa perché, lungo il
piano di frattura, si verrebbe inesorabilmente costretti a elencare lacune, ad
accumulare irregolarità, a scivolare fra le pieghe e il vuoto. Più semplice,
definendola magari una volta per tutte comunicazione, supporre (o imporre)
una presunta automatica rappresentatività sociologica della parola. Che poi
questo faccia continuamente scambiare la causa con l’effetto, è considerato
il male minore. Si prenda per esempio la cosiddetta rivoluzione digitale.
Fingendo che sia la causa di tutte le cose, immediatamente se ne manca la
cosa. E giù parole: abbattimento dei costi, incremento dell’accessibilità,
liquidità e ramificazione del circuito opera/autore/pubblico, valore aggiunto
spostato dai contenuti ai contesti, identità fra produttore e distributore e
dunque fra originale e copia, ricezione sostituita dall’attività nodale di rete,
modificazione sottesa alla diffusione, economia della consegna, convergenza
delle piattaforme (cui segue ovviamente una specificazione tecnica della
terminologia secondo tutte le sue usiliarità). Ma gli usi e le gratificazioni
tecnologiche, così come l’eterno inseguimento fra parola e immagine, sono
l’effetto, non la causa. L’idea stessa degli zombi di George A. Romero,
l’inferno che risale dagli abissi e si fa (paradiso in) terra, permette di riflettere su questo rovesciamento nel visuale e non solo a partire dall’energia
tecnologica di contesto, cui l’ultimo capitolo Le cronache dei morti viventi
(2007) sembra fare esplicito riferimento. Telecamere e telecamerine, visori cellulari e webcam, video di sorveglianza, intermittenze e continuità
televisive, radar: è solo della dispersione e moltiplicazione delle fonti, fino
alla sparizione del soggetto autore, che si sta parlando, oppure, più a fondo,
dell’assoluta friabilità dello spettro sismico che è l’immagine? Del campo
tecnico o della tecnica frattale con cui istantaneamente l’immagine ripete e
origina rughe crolli derive frammenti trasparenze enigmi fragilità dei nostri
incontri e del nostro eterno venir meno? Romero su questo è subito lucidisFATA MORGANA
227
Lorenzo Esposito
simo, scontando inoltre la melassa dell’armamentario socio-politico che di
volta in volta si consola sperando che gli zombi siano metafora anti-razziale
o analisi della società dei consumi, solo perché il protagonista è un nero o
tutto il film è ambientato in un centro commerciale: questo pus risorto che
ha la nostra stessa faccia e che avanza lento e zoppicante come uno specchio
scuro, è la zombità del visuale in sé, una sorta di fantasmagoria del ritorno e
del mancato, del registrato e del perduto, degli addensamenti e delle fughe,
del presente e dell’assente. Il nulla? No, la tragedia di non esser mai nulla
(la tragedia della cultura, diceva qualcuno). E se nel tentativo di ridurre la
distanza fra ciò che accade o è accaduto e la sua restituzione spettacolare,
d’un tratto l’accensione di tutte le telecamere coincide con la fine di ogni
controllo, non solo l’invasione è in atto, ma noi ne siamo i protagonisti,
la filmiamo e la facciamo, e mentre la facciamo la montiamo, e mentre la
montiamo la facciamo vedere, e mentre la facciamo vedere proseguiamo
l’invasione, e mentre proseguiamo l’invasione siamo invasi. Le cronache
dei morti viventi, appunto.
Tuttavia, non si vede nulla. L’atto è anche l’apparenza. Gli zombi sono
così poco interessanti, relegati in un eterno campo lungo per sonnambuli,
spiati dal foro dell’obiettivo o dalla striscia di assi di legno malmesse o da
una panic room; noi stessi (gli umani?) siamo ininfluenti, le nostre morti e
resurrezioni assomigliano a un telegiornale qualunque, a un nastro casuale
del repertorio terrestre. Addirittura siamo convinti che questo sia il film
della nostra vita, cui ci consegnamo come documenti che aspettano la loro
fiction, moriamo per “lui”. Cessa subito così la volontà di potenza dell’essere in rete, dell’esserne noi la proliferazione necessaria. I vivi e i morti si
affollano verso la luce e vedono un surrogato globale – l’immagine – brillare
più di loro. L’unica battaglia reale, in carne e ossa, è fra lo sguardo della
macchina e quello degli zombi che le vanno incontro. Entrambi di debolissima energia: la telecamera è sempre sul punto di finire le batterie (chi
vedrà, allora?) e gli zombi avanzano lentissimi e sonnolenti o galleggiano
nel fondo di una piscina come lucciole d’acqua. Laconicamente Romero fa
coincidere questa incerta deambulazione catatonica con l’iperveloce sottilissima sua diffusione. Non è questa la storia dell’immagine? Il processo per
cui le cose si svuotano di significato per riemergere inattese in altro punto
del tempo e dello spazio e, nella riemersione, darsi come nuova sintesi e
nuova disgiunzione insieme (appunto: come immagini). Non a caso un falso
movimento, non una dialettica, ma un arresto, come avevano già intuito,
quasi contemporaneamente, Benjamin e Warburg. Decifrare, interpretare,
sono già reminescenze, cataloghi inconsci delle risalite dal fondo, sintomo
spaziale di qualcosa che perdura: il tempo. Inferire e infierirci le immagini
nello spettro di nome film, è il modo per studiare gli incroci di posizioni e
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FATA MORGANA
Inoculati
le diverse velocità di risalita, ancora il modo in cui il tempo si instaura. In
Le cronache dei morti viventi Romero ci dice che i reticolati dell’immagine incarnano il regime discontinuo spazio-temporale, ben prima della sua
discontinuità e discrezione tecnologica. Si lavora per crolli, utilizzando gli
smottamenti per riedificare piccole zone di territorio. Si tratta sempre di
guardare cose in vista di cose assenti. Di cosa si sta parlando, infine? Dell’essere umano. Del modo in cui svolge (riavvolge) il pensiero, seppellendo
ciò che preme per uscire. Si sta parlando della vita e della morte.
FATA MORGANA
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FATA MORGANA
“Fiat veritas, et pereat mundus”.
A proposito di Redacted di De Palma
Dario Cecchi
L’ultimo film di Brian De Palma, Redacted (2007), si presenta come
una raccolta di immagini “reali”, apparentemente senza alcun intervento
d’autore: in realtà, si tratta di immagini di finzione. Attraverso questo
escamotage De Palma vuole denunciare che tutte le immagini della guerra
e dell’occupazione in Iraq sono sottoposte a controllo (redacted) nel momento stesso in cui sono prodotte, al punto che nessuna verità può emergere
oltre le immagini.
La vicenda narrata è realmente accaduta: si tratta dello stupro di una
ragazza e dell’uccisione della sua famiglia da parte di alcuni soldati statunitensi. De Palma riprende aspetti del suo film Vittime di guerra (1989), come
l’accostamento della guerra con la violenza sessuale e la narrazione di un
fatto vero1. Redacted si concentra, tuttavia, sul tema della manipolazione
delle immagini. De Palma si distanzia da quei registi che, come Michael
Moore, denunciano l’uso delle immagini da parte di un determinato potere
politico. In Redacted, quella che si può chiamare con Benjamin “estetizzazione della politica” non è identificata con la volontà di un soggetto (un
governo, una rete terroristica) di controllare il consenso pubblico attraverso
il flusso mediatico delle immagini.
Baudrillard ha indicato, nel Delitto perfetto2, la tendenza delle immagini,
svincolate dall’intenzione di un soggetto politico, di sostituire la realtà. La
questione è: a quali condizioni le immagini possono sostituire la realtà?
L’antica condanna platonica, che vedeva nelle immagini un’ombra della
verità soprasensibile, ammette ancora che queste intrattengano un qualche
1
Lo nota Luc Lagier nella sua monografia dedicata a De Palma: L. Lagier, Les mille yeux
de Brian De Palma, Les Cahiers du Cinéma, Paris 2008, pp. 182-184. Lagier segnala anche le
differenze esistenti tra i due film.
2
J. Baudrillard, Il delitto perfetto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1996.
FATA MORGANA
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Dario Cecchi
riferimento ad una realtà, seppure sensibile e, per così dire, di secondo grado:
è sul possibile ruolo di mediazione tra realtà sensibile e realtà soprasensibile
che si è giocata la strategia delle immagini di ampliamento di prospettive
della realtà sensibile.
Redacted fa i conti con la crisi di questo paradigma, per tornare sul
terreno da cui è sorta la condanna platonica delle immagini: la politica. È
necessario ripensare il ruolo giocato dalle immagini nella costruzione dello
spazio pubblico, se è vero che queste riescono a mettere in scacco la nostra
capacità di fare esperienza della verità, impedendoci così di agire politicamente in modo consapevole, essendo cioè guidati da convinzioni profonde
sul mondo che ci circonda e sulla nostra capacità di modificarlo.
I livelli di immagine che incontriamo in Redacted sono così ordinabili: i
video amatoriali di uno dei soldati, Salazar, aspirante regista; un documentario francese; le telecamere a circuito chiuso della base americana; blog con
video degli insorgenti; webcam attraverso le quali i soldati comunicano con
i familiari; la denuncia dello stupro da parte di un uomo incappucciato, in un
video su YouTube; il filmato, sempre su YouTube, di una giovane pacifista.
In Redacted il ricorso a diversi tipi di immagine non lascia trasparire una
pluralità di prospettive: l’assenza di prospettive e l’apparente oggettività
delle immagini – sono, infatti, gli stessi fatti e le stesse persone narrati da
diversi media, il che dovrebbe aumentare il nostro senso di affidabilità delle
immagini – mostrano, piuttosto, l’impossibilità di approfondire il senso
della narrazione filmica.
In questo senso, come nota Montani3, Redacted si colloca nel punto
antitetico a Nella valle di Elah (P. Haggis, 2007), che racconta la ricerca
della verità sulla morte del figlio soldato da parte di un militare a riposo: la
scoperta della verità si concretizzerà nella ricostruzione finale della scena
della morte del giovane. In Redacted è assente, per così dire, un’agnizione
finale, che renda possibile una comprensione, per quanto dolorosa, degli
eventi. Lagier scrive, a conclusione della monografia su De Palma:
Contrariamente a tutti i precedenti film di De Palma, i personaggi
(ed il cineasta) non propongono di scegliere, di assemblare le immagini come per miracolo sotto i nostri occhi per svelare una verità chiara
e limpida. Spetta allo spettatore scegliere le immagini. A lui solo4.
3
P. Montani, L’arte contemporanea e la funzione testimoniale delle immagini, in Enciclopedia
Treccani. Nuovo Millennio (in corso di pubblicazione).
4
L. Lagier, Les mille yeux de Brian De Palma, cit., p. 185.
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FATA MORGANA
“Fiat veritas, et pereat mundus”. A proposito di Redacted di De Palma
In realtà, le cose sono più complesse. È vero che De Palma rinuncia a
dare senso alle immagini attraverso la finzione narrativa, ma non è evidente il modo in cui lo spettatore si riappropri del potere di configurare le
immagini: piuttosto, sono le immagini a determinare l’orizzonte di senso
della storia.
È quello che accade nella prima scena di Redacted. Il soldato Salazar
filma con una videocamera i commilitoni in un momento di riposo. Uno di
loro, McCoy, reagisce filmando Salazar. Il film si apre, così, con un patto
di testimonianza reciproca, che dovrebbe garantire un vincolo di verità: in
realtà, il patto sancisce l’accettazione incondizionata della realtà, così come
è offerta dalle immagini. L’immagine non è menzogna ma eliminazione
della verità come tale. Lo statuto della verità, una volta che l’immagine
la sostituisce come elemento strutturale della realtà, si fa incerto. Montani
scrive:
L’originalità del film di De Palma è dunque da vedere nel gesto
estremo che consiste nell’assumere davvero questo involucro mediale
come l’orizzonte esclusivo della referenza – come se davvero non ci
fossero più i fatti ma solo le loro iscrizioni – per giungere alla fine a
lacerarlo dall’interno5.
La questione è: quale dispositivo Redacted mette in campo per fare sì
che un «orizzonte della referenza» (ossia un orizzonte della verità) si lasci
intravedere attraverso la «lacerazione dell’involucro mediale» che avvolge
l’informazione e la testimonianza della guerra in genere? In Redacted si può
registrare un doppio movimento: alla decostruzione dello statuto dell’immagine come finzione che arricchisce la realtà, corrisponde la ricerca di un
nuovo uso della nozione di verità in rapporto all’immagine. Questo doppio
movimento conduce ad un punto: il riconoscimento del carattere eminentemente politico della verità che accetta il confronto con l’immagine.
Quando Redacted propone immagini che sembrerebbero arricchire di
senso la realtà, ad esempio nel documentario francese, «con il suo indulgere»
scrive Montani «in immagini ricercate ma dozzinali (controluce, tagli accurati, voce fuori campo) e in citazioni visive e musicali abusate rappresenta
il livello ufficiale e connivente, convenzionale e banalmente estetizzante»6.
Su questo piano lo spettatore è rimandato all’immediatezza della reazione
emotiva, capace solo di una comprensione stereotipata della realtà e fa5
6
P. Montani, L’arte contemporanea e la funzione testimoniale delle immagini, cit.
Ivi.
FATA MORGANA
233
Dario Cecchi
cilmente controllabile da qualsiasi rete voglia intercettarne in consenso7.
Bisogna introdurre la distinzione, sostenuta da Arendt in Verità e politica,
tra due diversi regimi di verità per accedere ad un livello di comprensione
più profondo delle questioni sottese al film.
Il primo regime concerne le “verità di ragione”, che precedono qualsiasi esperienza e sono assolute: le verità etiche, ad esempio. Il secondo
concerne le “verità di fatto”, che dipendono dalla verifica d’esperienza8.
Le verità di fatto sono più fragili delle verità di ragione: mentre, infatti,
le verità di ragione si fondano sull’opposizione di verità e menzogna, le
verità di fatto dipendono dalla differenza, fondata solo nella contingenza,
tra fatti ed opinioni.
La testimonianza si è tradizionalmente fondata sull’opposizione di verità
e menzogna, con la conseguenza che, quando la politica è stata minacciata
non da un’opinione non suffragata dai fatti, ma da un’ideologia costruita
secondo una logica che eliminava contraddizioni al suo interno, la capacità
di discernere la verità ed agire di conseguenza è stata minata. Il compito
delle immagini di testimoniare la verità non può più rifugiarsi nella logica
o nell’etica delle verità “di ragione”.
Redacted assolve il compito di testimonianza in modo esemplare, senza
percorrere la strada dell’appello etico al riconoscimento della verità: le
immagini del film non restituiscono la verità dei fatti, sono anzi dichiarate
false. Le immagini corrispondono addirittura, in alcuni casi, ad una verità
propagandistica: si veda il dialogo tra McCoy ed il padre, intriso di retorica
patriottica, o i video jihadisti.
L’unico fatto di cui le immagini testimoniano la realtà, è l’eliminazione
dell’orizzonte di referenza ai fatti: le immagini mostrano una tendenza “naturale” a costruirsi secondo una logica interna, priva di qualsiasi eccedenza
in un fuori campo. Il “talento” delle immagini ad organizzarsi secondo una
logica che sfugge ad un senso esperibile si traduce in un’impersonalità9 di
principio: Redacted mostra questa caratteristica delle immagini nelle due
scene chiave del film.
Nella prima scena, quella dello stupro, le posizioni di McCoy e Salazar
si trovano l’una contrapposta all’altra. McCoy condanna la violenza che
De Palma non ricorre a quella che Boltanski chiama «topica estetica»: l’insieme di mezzi
che la produzione artistica mette in campo per rendere il dolore e la rabbia sentimenti passibili
di una comprensione. Cfr. L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2000.
8
Cfr. H. Arendt, Verità e politica, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 44-45.
9
Su questo aspetto, vedi P. Montani, L’arte contemporanea e la funzione testimoniale delle
immagini, cit..
7
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FATA MORGANA
“Fiat veritas, et pereat mundus”. A proposito di Redacted di De Palma
sta per avere luogo, ma per questo è costretto ad uscire di scena, dunque a
non essere testimone diretto dei fatti. Salazar vuole documentare i fatti – ha
nascosto la sua videocamera sul casco, perciò la videocamera costituisce un
occhio impersonale sulla vicenda –, ma non è mosso da una motivazione
etica: il suo scopo è raccogliere materiale utile per farsi ammettere nella
scuola di regia dove spera di entrare, tornato a casa.
Nella seconda scena, il rapimento di Salazar da parte di un gruppo
jihadista che vuole vendicare lo stupro, assistiamo all’azione attraverso la
videocamera di Salazar, il quale si sta riprendendo per raccogliere gli ultimi
ricordi dell’Iraq prima del rimpatrio. La videocamera costituisce, di nuovo,
un occhio impersonale ed incorporeo, al quale è impossibile compiere il
passaggio dalla visione all’azione.
Il film perde, in parte, compattezza nel finale, quando si chiude con due
finali diversi, apparentemente contraddittori: il primo più conciliatorio, il
secondo che radicalizza il carattere di denuncia del film. Nel primo finale
McCoy, il soldato che non ha perso la sua integrità morale, festeggia il ritorno a casa con la moglie e gli amici: la commozione del soldato che evoca
l’ingiustizia della guerra, accompagnata dalla musica dell’aria pucciniana E
lucean le stelle, è in linea con un sistema mediatico che, per immunizzarsi,
integra e mette in immagine anche il dissenso, ma attraverso un usurato
estetismo.
Il secondo finale apre ad una diversa prospettiva. Dopo la scena della
commozione di McCoy, appare una serie di foto che mostra gli effetti devastanti della guerra e dell’occupazione in Iraq. De Palma premette alle
foto una didascalia, in cui è detto che si tratta di immagini “vere”. Accade,
però, che, frammista a queste immagini, ci sia l’immagine di una donna
ferita dai soldati statunitensi, di cui abbiamo seguito la vicenda nel film (in
particolare nel documentario francese): dunque, non si tratta di un’immagine
vera, bensì redacted.
È solo in virtù di questa “finzione”, assunta responsabilmente dal regista,
che può essere riaperto l’orizzonte di referenza necessario per parlare dei
fatti oltre le immagini. Se non fosse già stato stigmatizzato nella scena finale
del pianto di McCoy, potremmo sospettare che si tratti di un atteggiamento
di dissenso “esteticamente integrato” al resto delle immagini che abbiamo
visto. La “finzione consapevole” di una foto redacted fatta passare per vera,
illumina a ritroso le immagini del film: il regista, a differenza dei personaggi
di cui narra le vicende, esce dalla realtà “senza fuori campo” delle immagini
e recupera la libertà di scegliere le immagini che esibiscono la verità dei
fatti. Ciò è possibile soltanto attraverso l’esibizione problematica di questo
spazio di oscillazione tra finzione e realtà: è l’unico spazio in cui una “verità
politica” può costituirsi.
FATA MORGANA
235
Dario Cecchi
Si potrebbe obiettare che le scelte di De Palma siano politiche nel senso
di un pregiudizio nei confronti di determinate posizioni (quelle dell’amministrazione Bush, ad esempio). Redacted non è, però, costruito per dimostrare
un teorema e, se De Palma mostra a volte una propensione didascalica, la
struttura del film, che propone immagini che sono e non sono dell’autore,
permette di cogliere questo aspetto in chiave ironica.
Inchiodare Redacted alle griglie del politicamente corretto o della par
conditio giornalistica non ha senso. Il film mostra chiaramente l’orrore
prodotto in Iraq da diversi soggetti politici, ma altrettanto chiaramente si
scaglia contro la politica americana ed i suoi effetti più lontani nella vita dei
singoli individui. Chiedere a De Palma di cercare un equilibrio in nome della
verità dei fatti avrebbe significato chiedergli di rientrare completamente nella
logica che vuole, invece, denunciare, che è quella della neutralizzazione di
qualsiasi presa di posizione politica attraverso la riproduzione fedele della
“guerra di immagini” che domina la politica internazionale dall’attentato
alle Torri Gemelle.
De Palma evita questa neutralizzazione mediatica della forza delle immagini, a cui ci stiamo sempre più assuefacendo, e lo fa non restituendo
esemplarità alle immagini attraverso un dispositivo di finzione, che va celato quanto più possibile, ma esibendo proprio la finzione cui le immagini
possono dare luogo. Soltanto in questo modo, sembra possibile a De Palma
recuperare il potere di interpretazione della realtà (la ricerca della verità del
tempo in cui si vive) attraverso le immagini. Mostrare l’organizzazione della
realtà che si cela dietro le immagini e, allo stesso tempo, non rifiutare il
potere di denuncia delle stesse immagini è il primo presupposto, individuato
da De Palma, di un ritorno all’azione politica.
236
FATA MORGANA
Su un ricordo allucinatorio
in Valzer con Bashir
Antonio Russo
Un ragazzo costretto in una striscia di terra arida cerca in ogni modo
di oltrepassarne i confini inseguendo un uccello azzurro, ma viene puntualmente ricacciato indietro da una mano gigantesca che gli impedisce il
passaggio. Questo, in estrema sintesi, il soggetto del breve video Closed
Zone1 (2009), realizzato dall’illustratore e web designer israeliano Yoni
Goodman, a favore dell’organizzazione umanitaria Gisha – Legal Center
for Freedom of Movement. La striscia è quella di Gaza, il corto animato è
la forma scelta per trasmettere il disagio dei residenti alla ripresa del conflitto israelo-palestinese e, in particolare, in seguito all’intensificarsi delle
operazioni militari tra dicembre 2008 e gennaio 2009. Perché un corto animato? Per quale motivo l’animazione si rivela un mezzo così efficace, una
continua possibilità, una fonte inesauribile di nuovo senso da accordare ad
eventi pur largamente coperti, per certi versi e a più riprese, dalla cronaca
e dalla documentazione audiovisiva?
Yoni Goodman è anche direttore dell’animazione e tra i principali artefici, assieme al disegnatore di origini russe David Polonsky, del film Valzer
con Bashir (A. Folman, 2008), felice esperimento a cavallo tra disegno
tradizionale e computer graphic, ma ben lontano, nella tecnica e nella resa
finale, dalla fluida animazione statunitense come anche dall’anime giapponese. Il risultato, pur ricordando a un primo sguardo il rotoscope di certi
film di Linklater, non è frutto di questa tecnica, bensì di un lento procedere
ri-disegnando scene e personaggi reali punto per punto, immagine dopo
immagine. In questa scelta stilistica di fondo risiedono istanze ed esigenze
affatto particolari, ed è quanto si cercherà di dimostrare, sottolineando
come il contributo di Folman si inserisca perfettamente all’interno di un
genere di cinema (e letteratura) d’animazione capace di fornire, in modi
1
Il video è disponibile sul web all’indirizzo http://closedzone.org.
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Antonio Russo
imprevisti e inediti, importanti letture antropologiche di rapporti sociali e
realtà territoriali altrimenti inafferrabili.
Dialogando con quella tradizione europea che dalle bandes dessinées
di Caran d’Ache giunge fino al moderno graphic novel di una Marjane
Satrapi – piuttosto che con le comic streep statunitensi – Valzer con Bashir
offre uno spunto privilegiato per interrogarsi oggi sui rapporti tra cinema e
fumetto, e su quelli più tipicamente contemporanei tra animazione e computer graphic:
Le relazioni storiche fra fumetto e animazione [...] non possono
essere considerate, nello stadio del film digitale, dispiegate nelle stesse
forme e qualità di prima. Per una ragione semplice: ora è digitale,
animata (prodotto di animazione al computer) perfino l’immagine a
verosimiglianza ambientale e storica, o realistica-documentaria2.
L’attuale convergenza digitale, che investe tanto la fruizione quanto la
produzione di contenuti audiovisivi, comporta l’inevitabile conseguenza di
rendere, sì, tutto un po’ meno circoscritto e definibile, ma, d’altro canto, di far
emergere differenze profonde tra i diversi medium proprio perché del tutto
indipendenti dagli strumenti tecnici che fino a qualche tempo fa servivano a
tracciarne in modo meno problematico i confini. Per questo motivo, un film
che utilizzi indifferentemente disegni fatti a mano, animazioni vettoriali e,
solo nel finale, immagini televisive di repertorio non può che rappresentare, in questo senso, un riferimento teorico ideale, del tutto impensabile nei
termini del classico lungometraggio d’animazione. Alla ricerca, pertanto,
di un tratto realmente definitorio del disegno animato, un connotato che
resisti a quel processo centripeto di indifferenziazione avviato dal digitale,
una domanda può fare da guida nel caso specifico preso in esame: cos’è che
spinge un cineasta desideroso di fare un film – anche, ma non soltanto – di
guerra a scegliere, per la prima volta, la via dell’animazione? Ammesso che
tale opzione rappresenti banalmente la soluzione meno dispendiosa (e non
è affatto detto), si può esser certi che ben altre motivazioni che non quelle
puramente economiche stiano alla base della sua scelta?
In una sequenza decisiva di Valzer con Bashir il personaggio principale,
lo stesso Folman, ex-soldato ormai ultraquarantenne, è tormentato da un’immagine ricorrente, forse un ricordo, che lo riporta di forza ai giorni della
guerra in Libano: rivede sé stesso assieme a due commilitoni emergere, di
2
G. Frezza, Le carte del fumetto. Strategie e ritratti di un medium generazionale, Liguori,
Napoli 2008, p. 9.
238
FATA MORGANA
Su un ricordo allucinatorio in Valzer con Bashir
notte, dalla riva del mare, completamente nudi, e dirigersi verso la spiaggia
deserta illuminata a giorno dai razzi. È una sequenza centrale, fortemente
suggestiva, non si fatica a credere che possa essere l’immagine nucleare da
cui l’intero progetto abbia preso corpo.
Da lì, da questa immagine fulminante, un lungo processo di recupero
della memoria, un tentativo di sottrarsi volontariamente, attraverso l’arte e
il cinema, a quella rimozione meccanica di ogni evento doloroso. Folman
affida alle figure incorporee dell’animazione digitale il compito di restituire
non una verità documentaristica, né tantomeno una plausibile versione dei
fatti, bensì il ricordo lacerante di un evento che ha segnato le coscienze
di molti israeliani e che getta ombre inquietanti sui militari impegnati nel
primo conflitto libanese: il massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila
nel settembre del 1982.
Avanziamo un’ipotesi. Il disegno si dimostra una strada d’accesso particolarmente adatta a una riconfigurazione della sfera pubblica attraverso la
dimensione del privato. Tutta una tradizione di graphic novel, che dal Maus
di Art Spiegelman giunge fino a Persepolis della già citata Marjane Satrapi,
non ha fatto altro, per certi versi, che restituire le infinite sfaccettature di eventi
storici di carattere pubblico, quasi sempre traumatici per la comunità, attraverso
le particolari esperienze individuali, fatte di racconti e ricordi, reinterpretate e
rielaborate in modo spesso imprevedibile dalla sensibilità artistica dell’autore3.
A questo stadio di affermazione dell’individuale e del privato – la cui interpretazione grafica massimamente soggettiva, e poco o nulla legata alla sfera
pubblica, contraddistingue oggi un fortunato filone intimistico del graphic
storytelling4 – il disegno coincide spesso con una pura affermazione dell’io
autocosciente, un segno della propria presenza, un Io disegno originario che
afferma ogni volta con un tratto il proprio essere nel mondo qui e ora.
Il disegno dispone, in generale, un rapporto soprattutto emotivo
fra la nostra permanente infanzia [...] e il mondo, l’ambiente, in cui
Per quanto non sia preclusa, naturalmente, al cinema in genere la possibilità di trasformare, come nel capolavoro di Spiegelman, i nazisti in gatti e gli ebrei in topi, è semplicemente
impossibile pensare un film del genere senza il passaggio intermedio e decisivo dal disegno,
sia esso rappresentato dalla costruzione di maschere di scena o dall’uso dei più moderni effetti
speciali.
4
Si guardi, a titolo esemplificativo, all’opera, in larga parte autobiografica, dei fumettisti
statunitensi C. Thompson (Blankets, tr. it., Coconino Press, Bologna 2004) e P. Hornschemeier
(Mamma, torna a casa, tr. it., Tunué, Latina 2007; I tre paradossi, tr. it., Comma 22, Bologna
2008), ma anche il recente volume dell’italiano Gipi (Gian Alfonso Pacinotti), LMVDM. La mia
vita disegnata male, Coconino Press, Bologna 2008.
3
FATA MORGANA
239
Antonio Russo
viviamo. Proprio come il disegno infantile, il fumetto opera una fondamentale attività di costruzione del senso, con una forza evocativa
capace di agire a un livello primario per il sorgere dell’essere. [...]
Figurare nel fumetto non comporta solo “fornire delle informazioni”,
bensì “depositare una testimonianza”5.
Girando alla larga da qualsiasi posizione ideologica – e forse proprio
per questo riuscendo beffardamente a guadagnarsi certe antipatie e qualche
critica da ambo le parti –, il lavoro di Folman è, in effetti, una deposizione.
Quanto fedele, all’interno dell’orizzonte artistico entro cui merita di esser
letta, conta meno di quel semplice “io c’ero”, affermato a voce bassa ma
senza paura, recuperato a forza da un passato che, come sempre, come i canizombie nel sogno che apre il film, ritorna; un “io c’ero” che, pur ribadendo
con relativa perentorietà la mano assassina dei falangisti cristiani, non aggira
affatto responsabilità dirette o indirette della strage da parte dell’esercito
israeliano. Il disegno stavolta non è un filtro, ma una lente. L’animazione è
una postazione che offre e salva una prospettiva altrimenti destinata a due
soli esiti possibili: l’oblio o la falsificazione. Ed è certamente più immediata,
e onesta, la scelta di elaborare e presentare quel ricordo privato, fosse anche
un’allucinazione, come un disegno illustrato piuttosto che rischiare di falsificare una Storia traducendo e costringendo quel ricordo nelle strette maglie
di generi, per forza di cose, più esposti al rischio di presentare immagini
come verità storiche inconfutabili. L’unica verità è quella dei corpi nei campi
profughi, gli stessi che Folman decide di mostrare in chiusura, richiamando
alla mente, ma solo per un istante, un’operazione analoga compiuta con ben
altri scopi dal De Palma di Redacted (2007).
La differenza che intercorre tra un documentario televisivo e un prodotto
di animazione che tentino di descrivere uno stesso evento storico-naturale
può, entro certi limiti, tornare utile per mettere a fuoco la differenza che
contraddistingue il passaggio da una antropologia visiva a una moderna
antropologia visuale. Non è più evidentemente sufficiente ricorrere all’osservazione dell’immagine per afferrare la realtà antropologica sottostante; è
invece necessario guardare alle modalità stesse di produzione, rielaborazione
e interpretazione di immagini di una particolare comunità, sia anche essa
rappresentata dalla voce di un singolo individuo, per cogliere appieno le
dinamiche sociali che la percorrono dall’interno.
[...] soprattutto oggi, in un’epoca storica in cui si acutizzano i
5
G. Frezza, Le carte del fumetto. Strategie e ritratti di un medium generazionale, cit., p. 57.
240
FATA MORGANA
Su un ricordo allucinatorio in Valzer con Bashir
contrasti politici tra Occidente e mondo, in cui la costruzione di
identità di tipo etnico o sociale passa in modo determinante per la
produzione e l’auto-produzione di immagini, è illusorio pensare
l’osservazione come campo piano di estrinsecazione della visione,
come vettore privilegiato, e relativamente indifferenziato, delle
informazioni6.
L’opera di Folman non si contraddistingue, o non solo, per il suo essere
informazione sull’evento storico, bensì per l’essere quell’evento stesso
percepito, ricordato, ri-disegnato. Stabilisce un nesso, significante o meno,
nella forbice esperienza-visibilità-narrazione attraverso l’unica forma artistica che, dal punto di vista dell’autore, consenta di tenere un filo attraverso
quella triade.
Seconda ipotesi – sempre nel tentativo di fornire possibili risposte alla
domanda “perché il disegno?” – è che il disegno permetta una libertà di
invenzione teoricamente illimitata, non soltanto, né principalmente, sul
piano delle risorse economiche. Eccezion fatta per la natura del supporto,
sia esso un foglio di carta o una tavoletta grafica per computer, il disegno
non pone altri vincoli di ordine fisico alla creatività e al potere immaginativo dell’autore, fornendogli anzi la possibilità di ri-tradurre ogni volta di
nuovo la propria visione, consentendogli perfino di spostare continuamente
i confini di comunicabilità e interpretabilità della propria opera. D’altronde,
nel caso del fumetto – il medium che mediante montaggio rinuncia a parte
di quella libertà incondizionata dell’illustrazione – quei confini di lettura
sono, sovente, costruiti proprio a partire da regole cinematografiche.
Il movimento tecnico del cinema è mirato dai fumetti come un
proprio, ineguagliabile, “doppio” in grado di praticare ogni obbiettivo di visualizzazione narrativa e dinamica grazie alla sua potenza
tecnologica-spettacolare; mentre la libertà fantastica del fumetto è
irresistibilmente osservata dal cinema come origine di una qualità
audiovisiva e di un mondo narrativo fuori da qualsiasi condizionamento. In sintesi: il cinema fornisce al fumetto regole tramite cui
il movimento delle immagini diviene storia e racconto, come una
sorta di “manuale formativo” della struttura mitologica che sostiene
il montaggio fra vignette, parole e suoni. Il fumetto, dal suo canto,
tocca dimensioni della fantasia che la tecnologia del cinema non
6
F. Faeta, Strategie dell’occhio, Franco Angeli, Milano 2003, p. 22.
FATA MORGANA
241
Antonio Russo
sempre può rendere visibile, figurabile, percepibile, con la medesima
forza e pregnanza7.
A differenza del cinema, il disegno non vive, o non lo fa con la stessa
forza né con la stessa evidenza, quel conflitto inevitabile tra ciò che Rancière
definisce «lo sguardo d’artista che decide» e «lo sguardo macchinico che
registra», non conosce le stesse difficoltà, le mediazioni, i compromessi
nella «combinazione di immagini costruite e di immagini subite»8. Seguendo
questa direttrice, i disegni di Valzer con Bashir non sono, non possono essere
una mera forma di distacco da una realtà preesistente, ma al contrario il frutto
della volontà di rappresentare una realtà senza compromessi, la realtà di
un ricordo che si impone nel suo stato allucinatorio e a partire dal quale è
possibile tentare una difficile ricostruzione tanto più esatta quanto più fedele
alla natura non cristallizzata, non regolata della visione di partenza.
Il disegno è una zona di transito. Si colloca in quella fase di progettazione
intermedia in cui l’informe assume figura, la percezione cerca un segno appropriato e originario, la vertigine tra immaginabile e immagine si esaurisce
gradualmente. Lì, come nel sogno, e come negli incubi dei protagonisti di
Valzer con Bashir, tutto oscilla tra l’assolutamente indefinito – tutto-significante ovvero in-significante – e un senso in via di compimento.
Quella zona “media” occupata fra percezione e figurazione è
nucleo di una ricerca del non-ancora-definito fra figura statica e
indicazione del movimento; fra resa visibile, figurale, di frammenti
della percezione e ordinamento delle strutture medesime che ne forniscono la “rappresentazione”. È, nondimeno, la stessa zona “media”
in cui, contemporaneamente, si cela e si pone alla luce il rapporto fra
il percepibile e il narrabile9.
Il disegno fissa una scelta, e accorda, nello stesso tempo, all’immagine la
massima, non più privata, ambiguità possibile. L’immagine è libera, tratta
fuori dall’inaccessibile, frutto della facoltà individuale dell’immaginazione
ma non più schiava di essa.
G. Frezza, Le carte del fumetto. Strategie e ritratti di un medium generazionale, cit., p.
61-62.
8
J. Rancière, La favola cinematografica, tr. it., ETS, Pisa 2006, p. 216.
9
G. Frezza, Le carte del fumetto. Strategie e ritratti di un medium generazionale, cit., p. 34.
7
242
FATA MORGANA
Il gigolò allo specchio:
The Walker di Schrader
Marco Grosoli
La diffidenza di Serge Daney verso American Gigolo (1980) alla sua
uscita sorprende poco1. Il film è infatti una specie di critica ante litteram
al crinale, che Daney formalizzerà solo anni dopo2, tra Immagine e Visivo
(visuel in originale). L’Immagine è il cinema, è l’alterità del mondo che
non solo rompe il soddisfatto auto-equilibrio del soggetto-spettatore, ma
che pone egli stesso non voyeuristicamente di fronte ma dentro di essa: è il
lacaniano extimo3, sullo schermo vedo una cosa che è più “me stesso” di ciò
che c’è dentro di me. Il Visivo assomiglia invece al lacaniano stadio dello
specchio4, l’Immaginario (le pulsioni disordinate del bambino che si ricoagulano grazie alla propria immagine vista allo specchio in un’unità tuttavia
mai definitiva): nel video (e oltre) l’alterità scompare dietro la perfezione
liscia dell’immagine, che è lì solo per essere semplicemente riconosciuta,
e che dunque è mero supporto alla compiaciuta riconferma di un sé, quello
del soggetto-spettatore, che ormai è egli stesso null’altro che diretta emanazione di quella impersonale e globale potenza tecnico-spettacolare che crea
quelle stesse immagini dentro cui quel soggetto-spettatore si specchia. Non
trovando limiti a questa perenne riconferma, il soggetto-spettatore rincorre
affamato sempre nuovi pretesti visivi alla propria glorificazione narcisistica,
in una infinita coazione al consumo.
American Gigolo parte dall’Immaginario, con le sue levigatissime suS. Daney, American Gigolo, in “Cahiers du cinéma”, n. 314 (1980), pp. 51-52.
Cfr. specialmente S. Daney, Avant et après l’image, in “Revue des etudes palestiniennes”,
n. 40 (1991) e S. Daney, Il carrello di Kapò, in Id., Lo sguardo ostinato, tr. it., Il Castoro, Milano
1995, pp. 23-44.
3
Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi
1964, tr. it., Einaudi, Torino 2003.
4
Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore dell’Io, in Scritti, a cura di G.B.
Contri, tr. it., Einaudi, Torino 1974.
1
2
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Marco Grosoli
perfici visive, e col suo ricco e compiaciuto gigolò maniaco degli specchi,
del body building e del ben vestire, per reintrodurre l’Alterità al proprio
interno grazie all’Immaginario stesso, ovvero grazie all’egoismo capitalista
che si rivolta contro il protagonista. Così, i lindi cieli della California sono
sempre più noir rimanendo azzurri; la solida unitarietà della superficialità
chic dell’immagine allo specchio si rompe, senza incrinarsi, nella scena
di sesso (una serie di strettissimi dettagli dei corpi)5, che cita un Bresson
ritrovato poi nel finale con le citazioni da Pickpocket (1959) della carezza dietro le sbarre e delle dissolvenze in nero multiple. Il visivo, che per
Daney è la mania incontentabile del “di più”, cercandosi trova invece
il “di meno”: lo stile in sottrazione di Bresson. Immaginario (Lacan) è
diventare la propria figura esteriore, quella che si guarda allo specchio
– l’immagine che si ri-trova sullo specchio insieme a un inevitabile residuo che sente non essere lì. Dunque, l’Immaginario l’alterità la trova
eccome: la trova ricollegandosi alle proprie premesse, cioè alla natura
stessa dell’Immaginario. Cioè guardandosi allo specchio. Julian spettatore
di quel sé ipercurato allo specchio che diventa spettatore di quel sé fittizio
(l’omicida che viene accusato ingiustamente di essere) che un inafferrabile
complotto poliziesco/criminale gli cuce addosso più perfetto di un double
knit. L’Immaginario che diventa Immaginario: per Lacan l’Immaginario è
infatti, inseparabilmente, sia l’immagine del soggetto allo specchio che il
risultato di un gioco d’interazione intersoggettiva di chi gli sta intorno. Dalla
passività cinica di essere strumento sessuale per fare soldi, alla passività
di essere ciò che il ribollire intersoggettivo della società decide (sempre
per soldi) che siamo. L’alterità è lì, nel transito dallo stesso allo stesso,
da Immaginario a Immaginario, che poi è il visivo daneyano: l’immagine
che, pur immutata, si rivede differente allo specchio. Cioè su quella liscia
e lussuosa superficialità che è lo stile visivo schraderiano.
Slavoj Žižek però puntualizza che questa accezione di intersoggettività,
decisiva per l’Immaginario, è solo quella del primo Lacan.
[…] per il quale l’oggetto è ridotto a simbolo totalmente insignificante in se stesso, poiché importa solo in quanto punto nel
quale i miei desideri e quelli dell’Altro si intersecano, [diversamente
dal]l’ultimo Lacan, per il quale l’oggetto è precisamente ciò che è
5
«Nell’utopia pornografica l’unità dell’auto-esperienza fisica viene magicamente dissolta,
così che lo spettatore percepisce i corpi degli attori non come totalità unificate ma come una
sorta di agglomerato di oggetti parziali ambiguamente coordinato», S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, tr. it., Meltemi, Roma 2004, p. 250.
244
FATA MORGANA
Il gigolò allo specchio: The Walker di Schrader
“nel soggetto più che il soggetto stesso”, ciò che io immagino che
l’Altro (affascinato da me) veda in me. Così, non è più l’oggetto a fare
da mediatore tra il mio desiderio e il desiderio dell’Altro; è piuttosto
il desiderio dell’Altro stesso a fungere da mediatore tra il soggetto
“barrato” e l’oggetto perduto che il soggetto “è” – e che garantisce
un minimo di identità fantasmatica al soggetto. Qui si può vedere
in cosa consiste la traversée du fantasme: nell’accettare il fatto che
non c’è alcun tesoro segreto in me, che il mio supporto (il soggetto)
è puramente fantasmatico6.
In The Walker (2007), novello American Gigolo, non c’è più la donna
(Michelle, il cui amore è la Grazia che redime il Peccato e scagiona Julian)
come mediazione tra il desiderio di Julian e una società che lo vuole criminale. Ora l’ultraelegante cinquantenne Carter Page Terzo (da ora CPT),
accompagnatore casto (e gay) di facoltose anziane di Washington incriminato
per un omicidio politico (di un trafficone che ricattava un patrizio locale) da
lui non commesso, è lui stesso mediatore – non gigolò ma walker: quello
che porta le signore da un posto all’altro. È CPT stesso l’oggetto: il suo
cammino sarà infatti lo scoprirsi oggetto dello sguardo dell’Altro, riconciliarsi con l’essere solamente: «A grown man acting on the fears of a child,
trying to impress a father dead ten years». Carter Page Primo e Secondo
furono infatti grandi capitalisti “fondatori” degli USA, di cui CPT ha sempre
sofferto il peso edipico ma soprattutto la consapevolezza delle loro sporcizie
morali nascoste dietro alla riconosciuta patina di grandezza. Per questo CPT
accetta di essere apertamente quel “depravato” che i suoi avi fingevano di
non essere; per questo, quando la società cercherà di scaricare le proprie
malefatte su di lui, lui starà immobile, accetterà quel ruolo, non si opporrà
alla menzogna, ma la subirà, e proprio da questo arriverà la grazia che lo
salva. Bressonianamente, il vento soffia dove vuole: rifiutandosi di reagire,
lasciando magari che siano amici e amanti a indagare sulle sue false accuse,
la stessa catena di intrighi all’ombra del Campidoglio che lo ha incriminato
finirà per mettergli in mano le prove della propria innocenza. “Immaginario”, naturalmente, significa anche quella forma primordiale di racconto che
occulta le contraddizioni originarie – anche a livello sociopolitico. «People
want a story. A good American story. And maybe a murder story»: questo
dice il politico dietro il complotto contro CPT per coprire le proprie magagne. CPT se ne salva rifiutandosi di agire: si salva dall’Immaginario (dalla
fantasia sociale) soltanto essendolo fino in fondo – ciò che i suoi ipocriti
6
Ivi, pp. 22-23.
FATA MORGANA
245
Marco Grosoli
avi non poterono fare7. Si salva palesando, in quanto oggetto dello sguardo
della società, la propria inconsistenza di soggetto – del resto è un dandy, il
sacerdote per eccellenza di questo tipo di inconsistenza, e tutto il film è fitto
di dialoghi wildiani che lo consegnano all’inazione, alla staticità. L’azione
(le manovre di palazzo di cui CPT non fa che subire le conseguenze), di
fatto, latita: il punto di vista su di essa è quello di CPT che rimane lontano
da essa, impotente e impassibile.
CPT non si ribella. Sta fermo e contempla il proprio crollo. Più spettatore di sé di Julian, che ancora sgomitava per opporsi. Infatti, The Walker
sottolinea con forza anche maggiore il parallelismo tra CPT e lo spettatore8.
CPT lo guarda sovente in macchina – una volta addirittura il punto di vista
dello spettatore coincide con lo specchio che sta guardando CPT. Se il visivo
daneyano vuole uno spettatore che passivamente contempla un’immagine
che riflette lui stesso, il visivissimo Schrader spinge il meccanismo talmente
in là (con tanto di specchio) da far contemplare allo spettatore la propria
stessa passività. Gli fa contemplare uno che è più spettatore di lui. L’effetto è
perturbante ed è di nuovo l’alterità ad affiorare. Così, Daney è ulteriormente
criticato dall’ex critico Schrader (che carrella di continuo per appiattire tutto
a mera superficie) che segue la lacaniana riposizione dell’intersoggettività
(dell’Immaginario).
La sostituzione dell’oggetto al posto del soggetto è così in un certo
senso ancora più primordiale della sostituzione del significante al posto del
soggetto: se il significante è la forma dell’“essere attivi attraverso qualcun
altro” [Michelle che scagiona Julian come lui non poté fare, N.d.A.], l’oggetto [CPT, colui che si scopre oggetto dello sguardo dell’Altro, N.d.A.] è
la forma dell’“essere passivi attraverso qualcun altro” […]. Così, ciò che è
insopportabile nel mio incontro con l’oggetto è che in esso vedo me stesso
in guisa di oggetto che soffre: quel che mi riduce ad affascinato osservatore
passivo è la scena di me stesso che sopporto passivamente. […] Trasferire la
mia stessa esperienza passiva su un altro è un fenomeno molto più inquietante
che essere attivi attraverso un altro: nell’interpassività vengo decentrato in
7
Žižek insiste, foucaultianamente, su come qualunque formazione ideologica (dunque “Immaginario”) si regga su qualcosa che sta al di fuori di essa. La legge stessa si regge su un suo
“doppio osceno”, su uno spazio di trasgressione regolata che tanto più le permette di catturare
chi crede di starne al di fuori. Per questo Žižek riconosce anche come spesso sia proprio l’aderenza letterale a una formazione ideologica a farla disgregare. Su tutto questo (la “trasgressione
intrinseca”) cfr. ivi, pp. 23-53.
8
Di per sé non inedito: anche Julian è «uno “spettatore” costretto ad assistere a una messa in
scena di cui lui non è l’autore», A. Canadè, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche
di regia nella New Hollywood, Le Mani, Recco (Ge) 2004, p. 160.
246
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Il gigolò allo specchio: The Walker di Schrader
un modo molto più radicale che nell’interattività, dal momento che l’interpassività mi priva del nocciolo stesso della mia identità sostanziale9.
Ciò che perturba è la pesantissima evanescenza del soggetto (CPT)
– che anche lo spettatore è. Non sono tanto le foto violente e scioccanti
dell’amante fotografo di CPT, che ne fa allineatissimo e pacifico mercimonio artistico. Ciò che perturba assai più di questo duro Reale è il possibile:
tanto l’inconsistenza strutturale del soggetto-CPT (e quindi dello spettatore) quanto quel desiderio solo ipotizzato, solo in potenza, che terremota il
film. Si tratta dei due momenti (uno incastrato nelle solite pickpocketiane
dissolvenze finali multiple in nero) in cui l’amica Lynn viene adocchiata
al ralenti e in dettaglio da CPT con inspiegabile lussuria, essendo gay. In
questi improvvisi ralenti, il film è squarciato da un’alterità che però non ha
più nulla a che vedere con alcuna “profondità” (come ancora le foto-shock
dell’amante), ma è un’alterità solamente di superficie – non a caso in The
Walker (a differenza di American Gigolo) anche i cadaveri maciullati sono
accarezzati dalla solita orizzontalità stilosa dei carrelli di Schrader.
Perché, come mostra l’inseguimento culminante, una foto (o meglio, il
flash dell’apparecchio che acceca l’inseguitore e lo fa sbandare) può uccidere. Il visivo non è solo quell’appagante placebo della società dello spettacolo
colto da Daney. Lo stile, come scrive Schrader in Note sul film noir10, è in
tale genere la naturale espressione e risposta a determinate impasse della
società. Vale anche per The Walker, con la sua resa estetizzante-dandystica
alla predestinazione disposta dal cieco gioco della società e della politica,
predestinazione da cui CPT viene condannato – ma anche salvato.
S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, cit., p. 170.
P. Schrader, Note sul film noir, tr. it., in I colori del nero, a cura di M. Fabbri, E. Resegotti,
Ubulibri, Milano 1989, pp. 169-177.
9
10
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Della vita e della morte: Palermo Shooting
Alessandro Canadè
Ogni foto è una rievocazione della nostra mortalità.
Ogni foto tratta della vita e della morte.
Ogni foto ha un’aura di sacralità.
Ogni foto è più dello sguardo di un uomo,
è superiore alle capacità del suo fotografo.
Ogni foto è anche un aspetto della creazione
al di fuori del tempo,
da una visuale divina
Wim Wenders
La fotografia, la Morte, Palermo sono i tre “Canti” attorno ai quali si
struttura Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders. La fotografia in quanto
memento mori – traccia presente di un evento passato, legata ontologicamente alla morte nel suo essere, da una parte, “arresto della vita nella sua
durata”1, e dall’altra, difesa contro il tempo, vittoria sulla morte, dunque
«immagine che produce la Morte volendo conservare la vita»2 – e Palermo
– quella dei Quattro Canti, dell’Archivio Storico, delle Catacombe dei
Cappuccini, del Trionfo della Morte – in quanto città-memoria3, deposito di
immagini e di storie, in cui si intrecciano e convivono temporalità diverse:
passato e presente, e ancora, vita e morte.
C’è una sequenza nel film in cui il rapporto tra questi tre elementi è parti1
Cfr. A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id., Che cosa è il cinema?, tr. it.,
Garzanti, Milano 1986, pp. 3-10.
2
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 1980, p. 93.
3
Cfr. M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp.
97-102.
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Alessandro Canadè
colarmente esplicitato: Finn, il fotografo tedesco protagonista della pellicola,
giunto nel capoluogo siciliano alla ricerca di un rapporto più “autentico”
con la sua vita e la sua arte, incontra, al Cortile della Morte, alla Vucciria,
una donna che imbraccia una vecchia macchina fotografica, una Leica. Le
si avvicina e le chiede:
«Tu sei una… fotografa?»
«Fotografo Palermo. La vita, la morte…»
«Tu fotografi la morte?»
«Si, tanti morti a Palermo»
«Perché, che cosa vuoi dire?»
«Per onorarli, per ricordarli… perché non si perdano nella memoria».
La donna è una vera fotografa, Letizia Battaglia, la fotoreporter palermitana che con i suoi scatti ha documentato i corpus delicti dei mafiosi morti
in strada e il dolore delle famiglie per questi corpi straziati.
Se la fotografia sin dalle sue origini ha corteggiato la morte, questo è
avvenuto anche perché l’atto stesso del fotografare è un atto di violenza.
D’altra parte è con l’utilizzo dello stesso verbo, to shoot, che la lingua inglese
indica il fotografare e lo sparare, l’atto di “mirare” a un soggetto e quello
di mirare a un essere umano (come è esplicitato dal titolo stesso del film,
Palermo Shooting)4. Secondo Susan Sontag: «l’atto di fare una fotografia
ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla,
vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che
essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere
simbolicamente posseduto»5. Il soggetto diventa allora oggetto e in quel
momento, ci dice Roland Barthes, «vivo una micro-esperienza della morte
[…]: divento veramente spettro»6. Se il noema della fotografia è la certezza
dell’«è stato», la presenza cioè «necessariamente reale» della cosa fotografata posta dinanzi all’obbiettivo, da cui deriva il suo valore testimoniale,
quest’immagine esprime però due tempi assenti: ciò che è stato nel passato
e ciò che sarà nel futuro (nella foto di Lewis Payne che aspetta la propria
imminente esecuzione, ciò che si legge è, come scrive sempre Barthes, «sta
L’assimilazione delle due azioni, fotografare e sparare, è presente in un altro film di Wenders, Alice nelle città (1973), in cui il protagonista, Phil, punta la sua Polaroid, proprio come un
fucile, contro l’editore («Sparare foto!... Abbattere tutto quello che non si sopporta!») che gli
rifiuta il suo libro sul paesaggio americano fatto soltanto di fotografie: «Una storia di cose che si
vedono… con le foto». Inoltre, To Shoot Pictures… è il titolo dello scritto di Wenders che apre
il suo libro di fotografie, Una volta (tr. it., Socrates, Roma 1993, pp. 20-27).
5
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it., Einaudi, Torino
2004, p. 14.
6
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 15.
4
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FATA MORGANA
Della vita e della morte: Palermo Shooting
per morire. […] questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro
anteriore di cui la morte è la posta in gioco»). In altre parole, ciò che la
fotografia dunque mostra è l’immagine della mortalità stessa, la “morte al
lavoro” o la «morte al futuro»7.
È il cinema che, con l’aggiunta della registrazione del movimento, come
è noto, porta a compimento questo processo di “ricreazione del mondo”:
perché se la fotografia «imbalsama il tempo, lo sottrae […] alla sua corruzione, [con il cinema] per la prima volta, l’immagine delle cose è anche
quella della loro durata e quasi la mummia del cambiamento»8. E il cinema
per Wenders partecipa di questa missione, baziniana-kracaueriana, di documentazione del mondo, di “redenzione” della realtà fisica. Realizzare un
film, o scattare fotografie (in entrambi i casi, shooting pictures), diventa un
atto di archiviazione del reale: di paesaggi, città, cose, situazioni incontrate
e fissate, “per sempre”, sulla pellicola. Il cielo sopra Berlino (1987), ad
esempio, è un archivio di luoghi che non esistono più: «quasi nessuno dei
luoghi in cui abbiamo girato si è conservato intatto. A cominciare dal ponte
su cui muore il motociclista, che non c’è più. Sulla piazza dov’era montato
il circo adesso ci sono delle aiuole. Della Potsdamer Platz non c’è neppur
bisogno di parlare. Il muro poi, si sa»9. Ma è con Nick’s Movie (1980), che
documenta il progressivo disfacimento fisico del regista Nick Ray, malato
di cancro, che il cinema di Wenders porta all’estremo questa missione di
“salvezza” propria del mezzo cinematografico, nel tentativo di prolungare
– rendere immortale – l’esistenza di un “condannato a morte” mostrandosi,
letteralmente, come “morte al lavoro sul corpo dell’attore”(-regista). Nick
Ray, come Lewis Payne, è “morto e sta per morire”.
Fin qui l’immagine analogica. Ma cosa accade con le immagini digitali,
quando cioè il collegamento indessicale con la realtà fisica viene indebolito,
o addirittura viene a mancare, e di conseguenza le immagini sono svuotate
del loro valore testimoniale? Perché, in Palermo Shooting, la riflessione
wendersiana sulla fotografia e sulla morte – che ha come punti di riferimento, Blow-up (1966) di Antonioni e Il settimo sigillo (1957) di Bergman, i
due registi ai quali il film è dedicato – è proprio su queste due tipologie di
immagini che si sofferma, sull’incapacità delle ultime a essere documento
del reale (della vita e della morte) e sul loro riconfigurare il rapporto tra
visibile e invisibile10.
Ivi, p. 78, 96.
A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id. Che cosa è il cinema?, cit., p. 9.
9
W. Wenders, L’atto di vedere, tr. it., Ubulibri, Milano 1992, p. 119.
10
Con le immagini digitali trova raffigurazione ciò che prima visibile non era: «come le
7
8
FATA MORGANA
251
Alessandro Canadè
Scrive Lev Manovich:
Nel suo studio sulla fotografia digitale, William J. Mitchell attira
la nostra attenzione su quella che egli chiama la mutabilità intrinseca
dell’immagine digitale: “La caratteristica essenziale delle informazioni digitali è la manipolazione, facile e rapida. Si tratta semplicemente
di sostituire nuove cifre alle vecchie […]. Gli strumenti di calcolo
automatico che permettono di trasformare, combinare, modificare e
analizzare le immagini sono essenziali per l’artista digitale come i
pennelli e i pigmenti per il pittore”. Come sottolineato da Mitchell, la
mutabilità intrinseca cancella le differenze tra fotografia e pittura11.
La manipolazione delle immagini, la loro elaborazione grafica è ciò che
caratterizza la produzione artistica di Finn, nella prima parte del film, quella
ambientata a Düsseldorf (i cui spazi architettonici asettici si contrappongono
al barocco carico di storia di Palermo). Lo dice chiaramente a una studentessa
che gli mostra le sue fotografie: «Mi sta dicendo che devo elaborare di più
l’immagine?», «Esatto. Potrebbe diventare un quadro». Il viaggio di Finn
verso Palermo è allora un percorso a ritroso verso la riscoperta di uno sguardo
diretto, “innocente” (riscoperta che metaforicamente avviene anche grazie
all’incontro con Flavia, pittrice, e soprattutto, restauratrice impegnata nel
restauro del Trionfo della Morte); di un’immagine ancora capace di essere
indice e non simulacro. Come già in Fino alla fine del mondo (1991), anche in Palermo Shooting la denuncia di Wenders è chiara: la proliferazione
delle immagini e degli strumenti per produrle (fotocamere ultracompatte,
camcorder, videofonini, che riempiono la prima parte del film), non costituisce un incremento di conoscenza del mondo ma, paradossalmente, ne
impedisce la visione conducendo alla cecità, come accade, letteralmente, al
personaggio di Sam nel film del ‘91 che perde la vista in seguito all’utilizzo
della speciale telecamera in grado di riprodurre i sogni12. Non è allora un
caso se Finn, arrivato a Palermo, abbandoni gli apparecchi fotografici digiimmagini prodotte dagli strumenti di brain imaging con cui viene visualizzata l’attività neuronale del cervello, o quelle impiegate nelle nanotecnologie per visualizzare strutture materiche
assolutamente invisibili per l’occhio umano», A. Somaini, Introduzione. Teorie dell’immagine
e cultura visuale, in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A.
Somaini, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 25.
11
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, tr. it., Olivares, Milano 2002, p. 374.
12
È la posizione iconofoba di Kracauer che in un saggio del 1927 sulla fotografia (La fotografia, in Id., La massa come ornamento, tr. it., Prismi, Napoli 1982) denuncia gli effetti nocivi
dell’eccessiva presenza delle immagini fotografiche sulle riviste illustrate: «Mai prima d’ora
252
FATA MORGANA
Della vita e della morte: Palermo Shooting
tali utilizzati a Düsseldorf per riprendere in mano la sua vecchia macchina
a pellicola, Plaubel Makina, recuperando così l’idea della fotografia come
prolungamento dell’occhio del flâneur, che perlustra, esplora, percorre,
scopre lo spazio urbano.
Nel secolo che ha ospitato le carriere di Eugène Atget, Berenice
Abbot, Germaine Krull, Walker Evans, Robert Frank, Gary Winogrand e Lee Friedlander, la fotografia veniva definita non solo come
la pratica di una singola arte, ma anche come una poetica esistenziale
o uno stile di vita. Cercare immagini significava essere un viaggiatore, un flâneur urbano che attraversava il paese e percorreva strade,
oppure un corrispondente estero, in cerca di eventuali incontri con
il flusso della storia e della vita quotidiana. La passeggiata in città o
un viaggio erano l’emblema della duplice ossessione per gli eventi
catturati in un tempo sfuggente e per la registrazione su una superficie
fisica, esistente, materiale13.
Che cosa è se non un “cercatore di immagini” (o un “agente della Morte”,
secondo l’espressione barthesiana14) il fotografo-flâneur Finn, che Wenders
ci mostra nelle sue passeggiate urbane per i vicoli di Palermo alla ricerca
di un’identità smarrita? «Non so cosa fare. Mi sono smarrito», confessa
alla fotografa Battaglia nella sequenza già citata. Ciò che ha smarrito è
il rapporto diretto con la realtà: Finn, abituato a manipolare le immagini,
non riesce più a distinguere l’immaginario dal reale, il fisico dal mentale
(l’insonnia di cui soffre lo trasforma in un visionario). Si trova insomma in
quella zona di indistinzione, o meglio di “indiscernibilità”, tra i due poli della
veggenza: uno “constatativo”-oggettivo, l’altro “soggettivo”-mentale15. E
un’epoca è stata così poco informata su se stessa. Nelle mani della società dominante l’istituzione
delle riviste illustrate è diventata uno dei più potenti strumenti di protesta contro la conoscenza», ivi, p. 123. Come commenta Antonio Somaini: «Le parole di Kracauer […] possono essere
considerate come una delle tanti varianti di uno stesso Leitmotiv che ricorre nella riflessione
novecentesca sugli effetti della proliferazione delle immagini: una proliferazione che, causata
inizialmente dal sodalizio tra fotografia e stampa, è proseguita poi con l’avvento del cinema, della
televisione, di internet, e oggi con la continua comparsa di nuovi dispositivi capaci di produrre,
elaborare e trasmettere immagini in modo sempre più facile e immediato», Introduzione. Teorie
dell’immagine e cultura visuale, in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di
A. Pinotti, A. Somaini, cit., p. 23.
13
D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, tr. it., Olivares, Milano 2008, p. 169.
14
Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 93.
15
Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, pp. 11-36.
FATA MORGANA
253
Alessandro Canadè
il film adotta il suo punto di vista ricorrendo a quelle stesse manipolazioni
digitali delle immagini per dar corpo ai suoi fantasmi. Fantasmi di un passato
che riemerge, che “sopravvive” nel presente (entrambi i personaggi, Finn
e Flavia – il cui legame con il passato è sottolineato dalla sua professione
di restauratrice –, hanno un rapporto problematico con le loro radici, in
particolare con le loro madri). Ciò che dunque sembra emergere nel film è
una configurazione dell’immagine (foto-cinematografica), e della città di
Palermo, come «ritornanza fantasmale», «sopravvivenza»16 di temporalità
diverse. Ma questo è esattamente ciò che, secondo Georges Didi-Huberman
caratterizza l’esperienza visuale, che si compone appunto di un intreccio, o
meglio, di un «montaggio di temporalità plurali ed eterogenee»: un momento
«memoriale», che ha a che fare con il passato; uno presente, «assolutamente
im-pre-vedibile»; e uno legato al «desiderio e [al]la sorpresa del futuro»17.
L’immagine (foto-cinematografica) come traccia di vita passata e di “morte
al futuro”, come «segno della paura della morte» e, nello stesso tempo,
strumento che consente di superare quella paura, di guardare in faccia la
Morte18.
Quella Morte, “in persona”, che nell’incontro ultimo con Finn, così gli
si rivolge: «Tu hai paura del mondo reale. Della luce reale, dell’oscurità
reale. Tu vuoi dirigere. Tu vuoi imbellettare la realtà. O peggio: tu cerchi
di ricrearla. Questa è la paura della morte. La paura della vita è la paura
della morte».
A Finn non resta altro, per rigenerarsi, che ritrovare questo rapporto
con la realtà. Al cinema, e alla fotografia, non resta altro che tornare a
quell’originario e perduto rapporto con il mondo che le immagini digitali
hanno compromesso: spingersi fino al limite nel registrare la realtà fisica
(quello che, secondo Kracauer, è il compito del fotografo). Tornare a farsi
occhio prima che racconto. Senza inutili storie. Bisogna soltanto puntare,
mettere a fuoco e sparare19.
16
Cfr. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e
la storia dell’arte, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2006.
17
Cfr. Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman, a
cura di A. Cervini, B. Roberti, infra, p. 8.
18
Cfr. S. Kracauer, La fotografia, in Id., La massa come ornamento, cit., p. 123; Id., Teoria
del film, tr. it., il Saggiatore, Milano 1995, pp. 55-82.
19
Negli anni Sessanta, così recitava un’inserzione pubblicitaria della macchina fotografica
Yashica Electro-35 GT: «La Yashica Electro-35 GT è la macchina fotografica dell’era spaziale
che piacerà alla vostra famiglia. Fa splendide foto di giorno e di notte. Automaticamente. Senza
tante storie. Dovete soltanto puntare, mettere a fuoco e sparare. Il cervello elettronico e l’otturatore elettronico GT faranno il resto», citato in S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine
nella nostra società, cit., p. 13.
254
FATA MORGANA
Per una genetica dell’immagine
cinematografica.
A partire da Chromosomes di Cronenberg
Andrea Inzerillo
Il principio della rivoluzione estetica anti-mimetica non è allora un
“ciascuno a casa propria” che destinerebbe ciascuna arte al suo proprio
medium. È, al contrario, un “ciascuno a casa degli altri”
Jacques Rancière
Non di rado, nella storia del cinema, alcuni grandi autori hanno dovuto
abdicare ai propri progetti più ambiziosi. Di tali progetti si parla, tuttavia,
come se avessero una loro effettiva esistenza; come se l’immaginazione
dello spettatore non volesse fermarsi alla mera impossibilità pratica di
realizzazione dell’opera. Alcuni di questi sono particolarmente celebri, e di
essi possediamo anche dei frammenti: è il caso del Don Chisciotte (1954)
di Welles, che per Giorgio Agamben rappresenta i sei minuti più belli della
storia del cinema1. Di altri invece non esistono che sceneggiature, irrealizzate e irrealizzabili per ragioni che sono connaturate all’essenza stessa del
cinema: il suo essere pensiero e contemporaneamente industria. Progetti che
spesso rimangono, nella testa degli autori e nel cuore dei virtuali spettatori,
come la grande occasione mancata. David Cronenberg ha sognato a lungo
di realizzare un film sulla Ferrari; e, pur non essendoci mai riuscito, il film
ha continuato a esistere al di fuori della sala cinematografica, prima come
esposizione e poi come libro d’arte. Tale è infatti il progetto Red Cars, presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2005 e nucleo
germinale della più grande esposizione intitolata Chromosomes, presentata
a Roma nel 2008, della quale vorremmo trattare in questa sede2.
1
G. Agamben, I sei minuti più belli della storia del cinema, in Id., Profanazioni, nottetempo,
Roma 2005, pp. 105-106.
2
Devo a un confronto con Paolo Godani il chiarimento di alcuni punti fondamentali di
questo saggio.
FATA MORGANA
255
Andrea Inzerillo
Sembra inevitabile partire da due semplici domande: come mettere in
mostra l’opera di un cineasta, e soprattutto: perché farlo? È necessario fare
immediatamente alcune precisazioni per capire quale sia la posta in gioco. Non stiamo parlando di una mostra dedicata all’opera di un cineasta,
bensì di un cineasta che ripensa la sua opera per farne una mostra. Siamo
lontanissimi insomma da un progetto come quello curato da Hans-Peter
Reichmann su Stanley Kubrick3, nel quale venivano esposti materiali scenografici, immagini di backstage, lettere autografe ecc., e il cui filo conduttore
era costituito da spezzoni video dello straordinario documentario Stanley
Kubrick – A life in picture di Jan Harlan, che ripercorre cronologicamente
l’opera del grande regista. Per comprendere la diversità di Chromosomes
bisogna rifarsi al progetto del 2005, che non a caso occupava una delle sale
dell’esposizione romana. Red Cars è stato il primo tentativo del regista canadese di misurarsi con un linguaggio a lui estraneo: si trattava di provare a
dar vita, sotto tutt’altra forma, a un film che non avrebbe altrimenti mai visto
la luce. All’esposizione, tra le altre, di foto storiche della Ferrari, il regista
accostava una serie molto ravvicinata di foto di pezzi di motore, stilizzati,
separati, uno accanto all’altro. Sul muro campeggiava una frase: «basta
smontare un motore per entrare nella mente di chi l’ha ideato, e penetrare
nella cultura che lo ha prodotto».
Smontare un meccanismo per entrare nella mente del suo creatore: è
esattamente questa l’idea che sta alla base di Chromosomes, esposizione che
Cronenberg ha pensato e realizzato sul suo cinema. Sarebbe più esatto dire:
sul suo immaginario, che è essenzialmente un immaginario cinematografico,
un immaginario che si è sviluppato al cinema. Smontare l’opera per entrare
nella mente dell’autore: Chromosomes si compone dunque di 60 fotogrammi estratti dai suoi film, ingranditi e stampati su tela pittorica di 80x100
cm. La disposizione delle immagini non segue un criterio cronologico né è
organizzata per film, bensì presenta un accostamento tematico, per aria di
famiglia. All’interno dello spazio espositivo risuonano musiche tratte dalla
filmografia del regista, e sono presenti infine due video di 10 minuti nei quali
compaiono alcune delle sequenze da cui sono tratte le immagini.
Non si tratta dunque dell’esposizione ordinata e puntuale dell’opera di
un regista; Chromosomes è lo sconfinamento del cinema di Cronenberg nel
campo dell’arte figurativa. Qual è allora il senso di mostrare – mettere in
mostra – la propria opera? Ci sembra di poter affermare di essere di fronte
a un vero e proprio lavoro sulla natura dell’immagine, un ragionamento
articolato che è possibile affrontare da due diversi punti di vista del tutto
3
256
Anch’esso presentato a Roma, alla fine del 2007.
FATA MORGANA
Per una genetica dellʼimmagine cinematografica. A partire da Chromosomes di Cronenberg
complementari: il primo dei quali si può definire gnoseologico, il secondo
ontologico.
Partiamo dalla questione gnoseologica, e cioè quella che mette in gioco
il rapporto tra le immagini di Chromosomes e lo spettatore. Per schematizzare, potremmo immaginare due tipi di spettatore: quello che conosce i
film di Cronenberg e quello che non li conosce (tra i due sta evidentemente
lo spettro di tutte le restanti possibilità). L’esperienza del primo spettatore
sarà ben differente da quella del secondo: la musica di sottofondo, per cominciare, lo introdurrà fin da subito in un’atmosfera che riconoscerà come
cronenberghiana, e uno sguardo d’insieme alle immagini esposte basterà
a fargli riconoscere alcune di quelle che, grazie al regista, sono diventate
vere e proprie icone della cultura di fine millennio. Volontariamente o involontariamente, questo spettatore riuscirà difficilmente a sottrarsi al gioco
dell’agnizione che lo porterà a interrogarsi sulla provenienza di ciascuna
delle immagini. Da questo punto di vista egli risulterà in un certo senso più
“svantaggiato” del secondo tipo di spettatore che, non conoscendo il riferimento delle immagini che ha davanti, potrà immergersi in esse evitando
qualunque tipo di distrazione. Vantaggio e svantaggio potrebbero sembrare qui considerazioni soggettive, se non fosse necessario interrogarsi sul
motivo per cui Cronenberg abbia scelto di non apporre alcuna didascalia
alle immagini di Chromosomes. Le immagini in mostra sono affisse a una
certa distanza l’una dall’altra, come a richiedere una propria autonomia di
sguardo, anche all’interno di un determinato raggruppamento tematico. Il
gioco a cui ci chiama il regista non sembra dunque essere quello del riconoscimento (pur inevitabile, per il primo spettatore), bensì quello di provare a
mettere da parte ogni conoscenza pregressa per entrare in un’atmosfera, che
è quella del suo immaginario, l’immaginario creato dalle immagini esposte
in quella sala. Non è dunque importante conoscere i film di Cronenberg,
anzi, sarebbe quasi meglio non conoscerli: porsi il problema della provenienza delle immagini rischia infatti di compromettere l’apprezzamento
dell’originalità dell’operazione, mettendo a repentaglio la comprensione
di questo sconfinamento del cinema. Le immagini di Chromosomes sono e
non sono il cinema di Cronenberg: costituiscono piuttosto una morfologia
che, avendone manipolato dall’interno il DNA, rimanda a esso in maniera
non costrittiva.
C’è tuttavia almeno un’altra cosa che bisogna sottolineare, e che rende
la situazione più complessa: e cioè il fatto che delle 60 immagini, non tutte
sono esattamente delle icone. Tra le immagini selezionate dal regista ci sono
sì quelle più importanti, quei fotogrammi che permettono a prima vista di
riconoscere che si tratta di quel regista e non di un altro – ciò che può avvenire solo coi grandi creatori cinematografici –, ma anche delle immagini
FATA MORGANA
257
Andrea Inzerillo
assolutamente meno riconoscibili, degli interstizi che si pongono tra un’icona
e un’altra, tra una sequenza e l’altra; immagini non perfettamente funzionali
alla narrazione, insomma, che però sono presenti, volute dal regista e che
talvolta si ripetono anche nel corso dei film – piccole ossessioni secondarie
del regista canadese. Di queste immagini, anche lo spettatore più avvertito
avrà difficoltà a riconoscere la provenienza. Saranno proprio queste ultime
a riequilibrare la situazione, riconducendolo alla posizione del secondo
spettatore, liberandolo dal ruolo che la sua conoscenza sembrava imporgli e
permettendogli di porsi ingenuamente davanti alle immagini e concentrarsi
solo su di esse. Questo secondo tipo di immagini ha dunque la funzione,
fondamentale, di riequilibrare lo iato tra i due spettatori e riassumere in uno
la figura dello spettatore cinematografico tout court. Lo scarto tra le icone
e le immagini di passaggio sintetizza, infatti, per ogni tipo di spettatore,
quella che è l’essenza della percezione cinematografica: una percezione
distratta, che non permette al nostro occhio di ritenere tutto quello che gli
passa davanti. L’esposizione di Cronenberg mette in gioco così, da una
prospettiva che abbiamo definito gnoseologica, tutta una serie di meccanismi che riassumono l’esperienza del cinema: si può dunque affermare che
Chromosomes è il cinema messo in mostra.
La questione gnoseologica, dicevamo, è indissociabile da quella ontologica. Che tipo di lavoro sulle immagini è in opera, dunque? Anche in
questo caso ci limiteremo a offrire degli spunti, cominciando a ragionare
su che cosa diventi l’immagine cinematografica una volta che è messa in
mostra. Se il montaggio rappresenta la quintessenza del cinema, Cronenberg sottolinea l’importanza di questa pratica mettendo in atto una forma
particolare di smontaggio, un’operazione a ritroso che inverte non solo la
prassi di costruzione del film ma anche, in qualche modo, la sua genealogia.
È molto importante, infatti, che i fotogrammi estratti dal film diventino foto
singole di una certa inquadratura e siano poi stampati su tela. Un cinema
che diventa foto che diventa quadro, tela pittorica che viene esposta in un
museo. Operazione quantomeno singolare, che non può essere ricondotta
a una semplice scelta di materiali. Crediamo di poter ritrovare in essa un
ragionamento preciso su che cosa sia un’immagine, e che questo ragionamento comporti un ripensamento di alcune basi canoniche della teoria del
cinema.
In un saggio famoso4, André Bazin sosteneva che l’avvento della fotografia come luogo di rivelazione del reale avesse liberato la pittura dell’os4
A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id., Che cos’è il cinema?, tr. it., Garzanti,
Milano 1986, pp. 3-10.
258
FATA MORGANA
Per una genetica dellʼimmagine cinematografica. A partire da Chromosomes di Cronenberg
sessione della somiglianza; l’assenza di intermediazione soggettiva faceva
della fotografia – e delle arti che su di essa si basano, come il cinema – la
manifestazione oggettiva per eccellenza del reale. Ci si potrebbe chiedere,
tuttavia, che tipo di realtà metta in campo il fotogramma di un film (l’azione
degli attori di fronte a una macchina da presa, certo, bloccata in un istante: ma
cosa ci dice questo sull’immagine del corpo di Viggo Mortensen nella sauna
di La promessa dell’assassino, 2007, e sul senso della sua esposizione?).
In maniera radicale, le immagini di Chromosomes sembrano interrogarci
sull’utilità di un simile atteggiamento quando il riferimento è il cinema. Più
che considerare l’immagine come luogo di presentificazione di una realtà
assente (ciò che significherebbe assumere una prospettiva fenomenologica,
a partire dalla quale l’accento sarebbe posto sempre sull’oggetto trascendente, sul riferimento esterno dell’immagine e così via – cosa che in questa
sede sembra piuttosto fuorviante), bisognerebbe forse provare a mettere da
parte, per il cinema, il concetto di realtà: o ancora meglio, a considerare
l’immagine stessa come realtà, come costruzione di realtà che non necessita
di alcun riferimento al di fuori di sé5. Da questo punto di vista, ancora una
volta, il confronto tra icone e immagini di passaggio si rivela assai utile.
Se le immagini-icone hanno a che fare con ciò che del film appartiene più
propriamente alla dimensione della narrazione, e dunque di ciò che delle
immagini che compongono un film è più propriamente dicibile (immagini che rappresentano chiaramente qualcosa che ha una funzione precisa
all’interno del racconto di una storia), si potrebbe allora dire, sulla scorta
della terminologia che Didi-Huberman ha utilizzato a partire dallo studio
di un quadro di Beato Angelico6, che le immagini-icone rappresentano il
visibile del cinema di Cronenberg (il che ha verosimilmente una ricaduta
anche sulla potenza di memorabilità di tali immagini). Le immagini di
passaggio sarebbero invece quello che nel cinema, pur essendo presente
(e dunque non invisibile), oltrepassa la dimensione della dicibilità di una
storia nonché la potenza della memoria dello spettatore, e pertanto prende le
distanze dal visibile in quanto tale per attestarsi piuttosto sulla dimensione
5
In questo senso il cinema avrebbe meno a che fare con l’immaginazione di quanto non si
creda generalmente: cfr. a questo proposito le perplessità di Gilles Deleuze circa il concetto di
“immaginario”, che abbiamo utilizzato all’inizio per presentare il contenuto di Chromosomes:
«I concetti che la filosofia propone per il cinema devono essere specifici, devono cioè riguardare solo il cinema. […] Anche l’“immaginario”: dubito che si tratti di una nozione utile per il
cinema, perché il cinema produce realtà», G. Deleuze, Pourparler, tr. it., Quodlibet, Macerata
2000, pp. 82-83.
6
Cfr. G. Didi-Huberman, Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art,
Les Éditions de Minuit, Paris 1990, pp. 21 sgg.
FATA MORGANA
259
Andrea Inzerillo
di qualcosa che definiremmo come visuale: una lacerazione della struttura
rappresentativa dell’immagine, un’apertura che mette in crisi l’idea che ogni
immagine (e ogni suo aspetto) possa essere immediatamente tradotta nelle
forme mimetico-rappresentative che sono proprie del visibile. Respingendo
come riduttiva la dicotomia tra visibile e invisibile, insomma, la dimensione
visuale dell’immagine apre uno spazio per quegli elementi di un’immagine
o per quelle immagini di passaggio rispetto alle quali la domanda sul riferimento esterno semplicemente perde di senso. Alla luce di questo tipo di
immagini è possibile dunque rileggere e interrogare non solo ogni forma di
immagine cinematografica (e dunque anche ciò che nel visibile propriamente
detto consideriamo ancora rappresentazione di qualcosa), ma la genealogia
del cinema stesso, nelle forme con le quali, alla luce del realismo, viene
fatto derivare dalla fotografia; e a sua volta ripensare la fotografia nelle sue
relazioni con l’immagine pittorica, rispetto alla quale rappresenterebbe,
per una certa tradizione, una sorta di “forma perfezionata”. Il percorso di
smontaggio della propria opera effettuato da Cronenberg rimette in questione
l’ordine di questi tre punti e più ancora l’idea stessa di questa genealogia,
riportando paradossalmente il cinema alla dimensione pittorica, e sottraendolo dunque al suo luogo naturale per mostrarne il carattere più proprio.
Il dissidio tra visibilità e visualità dell’immagine, la messa in questione
dello statuto rappresentazionale del cinema e del nesso che lega in maniera
troppo semplicistica cinema e realtà sembrano dunque essere alcuni tra gli
spunti più significativi di questa esposizione. I fotogrammi geneticamente
modificati di Chromosomes mettono così in questione, dall’interno, tutta
una teoria e una pratica dell’immagine cinematografica, operandone una
deterritorializzazione che si costituisce come un radicale ripensamento
artistico delle potenze dell’immagine.
260
FATA MORGANA
Ciò che precede l’inizio.
Pechino 2008
Giorgio Lo Feudo
L’inizio delle Olimpiadi è sancito dall’accensione del braciere da parte
dell’ultimo tedoforo. Tale atto, che costituisce il segnale di svolta, lo spartiacque fra il prima e il dopo, è rappresentato dalla fiamma olimpica che,
ardendo per tutta la durata dei giochi, segnalerà la continuità delle attività
sportive che con essa e sotto di essa, avranno luogo.
Proviamo a domandarci: cosa succede prima che ciò accada? Che
configurazione semiotica è possibile riscontrare nei segni/comportamenti
che vengono posti in essere prima di dare il via alle esibizioni sportive?
Risponderemo a queste domande prendendo in considerazione una serie di
altri casi in cui il “prima dell’inizio”, risulta ben delineato e circoscritto. Per
farlo ricorreremo ad una nozione molto ampia di testo la quale, largamente
condivisa da numerosi semiologi1, non considera “testo” soltanto la configurazione lineare di una rappresentazione simbolica, ma classifica come
tale qualsiasi porzione di realtà significante2.
I riferimenti teorici dei quali si farà uso appartengono alle riflessioni sulla semiotica generativa, dovute a Algirdas Greimas e Jacques Fontanille negli anni ‘70 (A.J. Greimas, J. Courtes,
Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, tr. it., La Casa Usher, Milano 1986;
A.J. Greimas, J. Fontanille, Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo, tr.
it., Bompiani, Milano 1997; A.J. Greimas, Semiotica figurativa e semiotica plastica, tr. it., in
Leggere l’opera d’arte, a cura di L. Corrain, M. Valenti, Esculapio, Bologna 1991) e declinate
successivamente in Italia, tra gli altri, da Paolo Fabbri, Gianfranco Marrone (Semiotica in nuce,
a cura di P. Fabbri, G. Marrone, Meltemi, Roma 2000; Narrazione ed esperienza, a cura di G.
Marrone, N. Dusi, G. Lo Feudo, Meltemi, Roma 2007), Isabella Pezzini (Semiotica delle passioni, a cura di I. Pezzini, Esculapio, Bologna 1991), Maria Pia Pozzato (Semiotica del testo,
Carocci, Roma 2001).
2
La nozione ampia di testo non comprende soltanto i testi propriamente detti, ossia i supporti
materiali scritti di cui si occupano i filologi e nemmeno tutti i prodotti comunicativi di qualsiasi
altro linguaggio (gestuale, iconico, musicale, ecc.) ma, più in generale, qualsiasi porzione di realtà
significante che può venire studiata dalla semiotica, acquisendo quei tratti formali di coerenza,
1
FATA MORGANA
261
Giorgio Lo Feudo
Prima dell’inizio
Entrando in anticipo in una sala concerti per assistere ad una rappresentazione musicale, ci si troverà con molta probabilità al centro di una serie
di suoni striduli e fastidiosi; quasi dei rumori che proverranno in modo
confuso dai vari strumenti. Tale circostanza, che verrà avvertita come
una esperienza acusticamente fastidiosa, detiene tuttavia un ruolo ed una
funzione concettualmente fondamentale. Questi frastuoni sono in realtà
importantissimi: sono il segno della ricerca della sintonia che ogni singolo
orchestrale intende ottenere per il proprio strumento al fine di far scaturire da
esso, in accordo con tutti gli altri, un testo musicale coeso, coerente e accettabile, da offrire al piacere degli ascoltatori3. L’accordatura degli strumenti
è il risultato di una specie di calcolo4. È una presa di misure prodromica al
formarsi dei motivi armonici che l’insieme degli strumenti, una volta sintonizzati, forniranno all’evento musicale5. L’uscita da tale dimensione interna,
che appartiene ai singoli musicisti riuniti in gruppo ma che non è ancora
dell’insieme unisono degli orchestrali, e il successivo ingresso nel mondo
degli spettatori/ascoltatori, è segnata tradizionalmente da alcuni colpetti che
il direttore d’orchestra batte con la bacchetta sul suo leggìo6. Con tale gesto
coesione, articolazione narrativa, molteplicità di livelli, ecc. che si riscontrano con maggiore
facilità nei testi propriamente detti (ma che a ben guardare, li eccedono). Per comprendere
correttamente tale definizione, che di primo acchito può sembrare contraddittoria, occorre
riferirsi ad un’altra nozione cara ai testualisti: la figuratività. Con tale espressione s’intende
qualsiasi contenuto di un sistema di rappresentazione (verbale, visuale, ecc.), che abbia una
qualche corrispondenza a livello dell’articolazione del mondo naturale. L’osservazione e lo
studio dell’adeguamento tra la semiotica delle manifestazioni discorsive e il mondo naturale,
costituisce lo scopo della figuratività o Semiotica figurativa. Ovviamente, per poter compiere
tale osservazione, essa deve fare perno sulle contiguità e sulle pertinenze esistenti nelle e fra
le “cose” e riconosciute a partire dalla percezione. Un contributo in tal senso lo forniscono, fra
l’altro, lo studio semiotico dell’estesìa, della sinestesia o plurisensorialità: insomma, tutti gli
approfondimenti volti a semiotizzare il sensorio per connetterlo al discorso.
3
Barthes in Il piacere del testo (tr. it., Einaudi, Torino 1975), distingue il piacere del testo dal
suo godimento. Nel primo caso c’è un sentimento di agio, di soddisfazione per ciò che il testo propone al fruitore. Viceversa, si ha godimento nella misura in cui il testo provoca una vera e propria
scossa; uno smarrimento atopico di natura estetico/passionale.
4
In realtà ciò che sembra un suono stridulo e casuale è un La (440 vibrazioni al secondo),
eseguito dall’oboe principale e riprodotto da tutti gli altri strumenti dell’orchestra.
5
Nella lettera di Leibniz a Goldbach del 17 aprile 1712, è contenuta la celebre definizione
della musica come aritmetica incosciente: «musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis
se numerare animi» (la musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non si
rende conto di calcolare).
6
In ciò che precede l’inizio di ogni concerto, non c’è dimensione patemica ma solo cognitivo/pragmatica (cfr. oltre).
262
FATA MORGANA
Ciò che precede lʼinizio. Pechino 2008
egli richiama tutti al silenzio e all’ordine, invita gli astanti a sistemarsi, a
rivolgere lo sguardo alla partitura e, infine, suggella l’inizio della proposta
ossia della traduzione/rappresentazione del testo musicale.
Nel teatro di tradizione, il segnale di inizio/apertura verso il pubblico,
ha invece la conformazione di un vero ostacolo da rimuovere: il sipario.
La sua apertura segna l’inizio della rappresentazione e quando è chiuso
si pone come una barriera, o meglio, come un vero e proprio confine sul
quale di fatto si abbatte lo spazio della finzione teatrale. Sul palco, dietro
il sipario chiuso, c’è un mondo a parte, privato, fatto di preparazione delle
scene, di sistemazione degli strumenti e di messa in posa delle comparse.
Al contrario, dall’altra parte, dal lato della platea, c’è il pubblico: c’è lo
spettatore empirico che attende l’inizio dello spettacolo per trasformarsi e
modellarsi su ciò che coloro che compariranno sul palco, a sipario aperto,
decideranno di fornirgli e che, prima di ciò, solo in parte prevede7. Il sipario
chiuso è una barriera che separa il prima dal dopo e che avvia, con la sua
apertura, la costituzione fra pubblico e attori, di una sorta di stato di grazia
oggettivo e condiviso: un’atmosfera nella quale tutti, consapevolmente, si
ritroveranno in piena collegialità ed empatia; circostanza la prima e stato
d’animo la seconda, sollecitate dal rito al quale insieme prenderanno parte
e che promuoverà la contestualizzazione nell’intreccio narrativo, nonché
la ratifica, con suggestione, della esistenza della rappresentazione del testo recitato. Nel teatro la sistemazione degli attori e la collocazione degli
arredi coinvolge, anche prima dell’apertura del sipario, l’intera corporeità
dei protagonisti nonché tutta la spazialità delle scene. Ciò, come si è detto,
non accade per gli orchestrali, i quali, prima del concerto, allenano e esibiscono la propria individuale competenza e fanno ciò in maniera del tutto
sganciata dall’intreccio musicale che successivamente porranno in essere
e metteranno in comune.
Anche l’insegnante che accede in aula per tenere una lezione compie,
prima di entrare in argomento, una serie di atti preparatori: sistema il computer, la lavagna luminosa; compie insomma un insieme di azioni specifiche
che lo convertiranno visibilmente nell’aula ma che non lo convocheranno
ancora come attore del testo didattico che si appresta a formare8. Anche in
questo caso, tali gesti evidenziano la presenza dell’attante (docente), che
Il riferimento va alle nozioni di autore e lettore empirico nonché di autore e lettore modello,
per come affrontati da Umberto Eco (cfr. U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979).
8
Le nozioni di conversione e convocazione attengono alla teoria Greimasiana e sanciscono,
nell’ordine, il passaggio dal livello semionarrativo profondo a quello di superficie e il transito
da quest’ultimo al piano del discorso.
7
FATA MORGANA
263
Giorgio Lo Feudo
però non ha ancora assunto la posizione/ruolo di attore (il docente x). Come
per gli orchestrali e gli attori teatrali, al termine di tutto ciò avrà luogo la
messa in discorso del testo e la sua connessa fruibilità.
Colpetti sul leggìo al termine dell’accordatura; apertura/chiusura del
sipario; sistemazione degli attrezzi didattici e successivo avvio della lezione.
Sono azioni/comportamenti/segni volti a porre in essere un decisivo cambiamento di ruolo e di scopo. Sono i segnali di svolta con i quali si sottolinea
il passaggio dalla sfera generico/attanziale, più o meno disarticolata che
precede l’esibizione, al momento pubblico, specifico/attoriale, nel quale la
manifestazione/rappresentazione si aprirà agli estranei e diverrà tale.
Nel caso degli orchestrali che accordano gli strumenti, non c’è spazio per
alcuna semiosi interpretativa9. Ogni musicista, si è detto, sistema il proprio
strumento seguendo criteri di tipo numerico affinché possa produrre nel
miglior modo possibile le armonie che successivamente, suonandolo, si
andranno a comporre. C’è però, nell’atto di accordatura, una forte coesione di fondo, ma tale attività, anche se svolta in pubblico, non sottende né
costruisce alcuna coerenza tematica. Per quanto riguarda il teatro, il sipario
chiuso toglie alla vista del pubblico sia il palco che le scene. Col sipario
chiuso gli spettatori in sala non hanno contezza di ciò che da lì a poco gli
verrà mostrato. Quello che si svolge sul palco, dietro il sipario chiuso, non
attiene alla dimensione teatrale, del pensato per essere rappresentato, ma è
di esclusiva competenza degli attori i quali, in questo frangente, non sono
ancora performanti e quindi nei fatti ancora non esistono come tali. Ciò
che fa l’insegnante per accingersi a svolgere la lezione ha un senso sia per
lui che per il suo uditorio studentesco. Si tratta in questo caso di attività
coerenti e correlate che forniscono una serie di informazioni sia sul come
presumibilmente verrà strutturata, meglio, supportata, la lezione, sia sul
grado di autonomia/disinvoltura del docente.
Come si è detto, un caso particolare è costituito dalla cerimonia di inaugurazione dei giochi olimpici. Ciò che precede l’accensione del braciere, cioè,
prima dell’inizio delle gare, si discosta da tutte le altre manifestazioni che
prendono corpo in anticipo su quello che abbiamo testé definito segnale di
svolta. La fiamma olimpica, più che segnalare l’inizio della manifestazione
sportiva, sancisce la fine della cerimonia di apertura dei giochi la quale, a
differenza di tutti gli altri esempi, ha una fortissima coerenza interna che le
consente di essere letta dai fruitori sotto forma di evento/testo. Essa non è
confrontabile con gli altri esempi prima tratteggiati. È una manifestazione
9
Spazio che si delimiterà successivamente nel momento in cui l’orchestra eseguirà il concerto.
264
FATA MORGANA
Ciò che precede lʼinizio. Pechino 2008
nella manifestazione e, cosa che la rende particolarmente interessante, ha
poco o nulla a che fare con il tema sportivo che contraddistinguerà le prove
olimpiche. È, dunque, un testo nel testo. È dotata di un suo valore narrativo
e soprattutto tensivo, per cui la sostanza patemica, come vedremo, è particolarmente forte e questo la rende assolutamente differente e distinta dalle
suggestioni che le prove atletiche produrranno più tardi10.
Cognitivo/pragmatico e passionale
Ricapitoliamo. L’evento/argomento di cui ci si sta occupando (la cerimonia di apertura dei giochi olimpici) costituisce, in base alla definizione
testè data, un testo. Si è detto che i semiologi, non tutti ma tanti, riconoscono lo status, appunto, di testo a qualsiasi porzione di realtà che possa
essere colta e riconosciuta sotto forma di un insieme significante, coeso
e, auspicabilmente, coerente. Assegnano altresì un posto di rilievo alle
dinamiche interne sia del testo simbolico sia di quello “reale”, le quali, pur
ruotando intorno al rapporto fra soggetto e oggetto, vengono sostenute da
una forte componente passionale11. La questione attiene ad ambiti di ordine
testuale/generativo e soprattutto tensivo. Pertanto è importante illustrare lo
scenario teorico all’interno del quale i problemi ad esso correlati possono
ottenere una spiegazione sensata. Innanzitutto è opportuno sottolineare
il fatto secondo cui, in talune circostanze, gli aspetti patemici richiedono
un’attenzione particolare di gran lunga maggiore rispetto a quelli pragmatici.
Ciò accade in special modo nei casi in cui le manovre di manipolazione
non garantiscono la riuscita del programma narrativo12. È infatti noto che
Mentre l’accordatura degli strumenti e l’apertura/chiusura del sipario sono senz’altro
classificabili come paratesti – elementi di contorno tramite i quali si preannuncia il senso del
testo a cui essi risultano agganciati fisicamente o temporalmente (il concerto, la pièce teatrale, la
lezione del professore) –, la cerimonia di apertura delle olimpiadi brilla di luce propria. È coerente,
coesa, intenzionale, accettabile, informativa, situazionata, intertestuale (cfr. R.A. Beaugrande,
W.U. Dressler, Introduzione alla linguistica testuale, tr. it., il Mulino, Bologna 1994).
11
Introdotta da Greimas e Fontanille la dimensione patemica si fonda sulla timìa o disposizione affettiva di base. Essa giustifica e determina il passaggio dal simbolico al somatico e
viceversa (cfr. A.J. Greimas, J. Fontanille, Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati
d’animo, cit.).
12
Si tratta del percorso di generazione del senso teorizzato da Greimas, all’interno del quale
la manipolazione consiste nelle azioni/sollecitazioni poste in essere da ciò (o da colui) che aspira
a far congiungere il soggetto (che nel caso di specie si attorializza nello spettatore) all’oggetto
di valore (a sua volta attorializzato nei quadri tematici costituenti la cerimonia di inaugurazione
dei giochi olimpici). Tuttavia, una manovra manipolatrice, far fare qualcosa al soggetto, spesso
10
FATA MORGANA
265
Giorgio Lo Feudo
le passioni influenzano gli effetti di senso di un percorso narrativo al punto da riuscire in molti casi a condizionare sia le competenze modali del
soggetto sia il significato complessivo delle azioni esperite o osservate13.
Occorre poi illustrare le coordinate semantico-lessicali delle definizioni
che si stanno utilizzando a cominciare dalla coppia cognitivo/passionale
la quale, in coerenza con l’impostazione data a questo scritto, va letta col
vocabolario di Greimas. Egli infatti, con il termine cognitivo non intende
designare i criteri di ricerca dei processi effettivi della conoscenza umana,
di cui si occupano le scienze cognitive, bensì l’universo del sapere, ossia:
quel sapere particolare che diviene oggetto di valore, se, in presenza di due
attori che agiscono nel rispetto di uno schema narrativo riconoscibile, solo
uno di essi ne risulti dotato. Questo è il cognitivo greimasiano. Esso, fra
l’altro, spinge sempre l’attore a dominarlo, sia mediante l’adozione di una
serie di atti pragmatici raffigurati, nel testo simbolico, dalle funzioni evocate
dal significato dei verbi modali e contrassegnati, nel testo “reale”, dalle
azioni/comportamenti extra-linguistici da essi indotti; sia da uno spunto,
più o meno irruente, di tipo emotivo/passionale. L’attore sprovvisto del
sapere, riconoscerà/assegnerà a quest’ultimo un valore e subirà/agirà per
appropriarsene sottraendolo all’altro14.
Il passionale greimasiano consiste invece nella modulazione degli stati
del soggetto in relazione alle sensibilizzazioni provocate dall’oggetto. Esso
ha la precedenza. La sfera cognitivo/pragmatica è successiva. Prima c’è
una disposizione affettiva di base; c’è la timìa che è fondamentale perché
irrazionale e involontaria e perché contrassegna l’ancoraggio del passionale al corpo sensibile ed al suo ambiente15. Le manifestazioni determinate
dalla timìa possono essere di attrazione esercitata dall’oggetto sul soggetto
(semantizzata da Greimas col termine euforia) di repulsione (disforia) o,
è destinata all’insuccesso. Per cui, al fine di fugare tale rischio, è fondamentale considerare
la prospettiva patemica la quale, lungi dall’essere una semplice disposizione a comportarsi in
un dato modo, è in realtà importantissima nella fase di attribuzione/riconoscimento del valore
dell’oggetto.
13
Potere, dovere, sapere e volere sono le competenze modali grazie alle quali il soggetto (lo
spettatore) può tentare di appropriarsi dell’oggetto di valore, ossia, in questo caso: godere delle
suggestioni e dei coinvolgimenti emotivi promossi dalla cerimonia di apertura.
14
Le coppie riconoscere/assegnare e subire/agire, intendono sottolineare l’assenza o la
presenza di una spinta intenzionale. Le nozioni di oggetto, soggetto, valore e le pratiche di congiunzione, disgiunzione, ecc. ricadono tutte nell’alveo “pragmatico/cognitivo” della semiotica
generativa, al quale fa da contro altare la sfera passionale. Com’è noto, Algirdas Greimas è stato
il fautore di entrambi gli approfondimenti.
15
L’importanza riconosciuta alla timìa, mira a sancire il ruolo della cosiddetta figuratività,
ossia ad ancorare il passionale, in senso greimasiano, al somatico, al corporeo sensorio.
266
FATA MORGANA
Ciò che precede lʼinizio. Pechino 2008
infine, di neutralità e indifferenza (aforia). La conseguenza di tutto ciò consiste nella valorizzazione, appunto passionale, dell’oggetto il quale viene
assiologizzato in misura positiva (congiunzione fra soggetto e oggetto),
negativa (disgiunzione fra soggetto e oggetto), neutra (nessun cambio di
stato). Insomma, la semiotica delle passioni, più che mirare al cambiamento di stato, che attiene al fronte cognitivo/pragmatico della generazione di
senso, affronta gli stati d’animo del soggetto e in particolare le variazioni
che tali stati d’animo avvertono se sollecitati e sensibilizzati dall’oggetto.
Pechino 2008
L’ultima edizione dei giochi olimpici si è svolta dal 6 al 24 agosto 2008
a Pechino. La scelta della città è stata accompagnata, com’è noto, da una
serie di accesi dibattiti dovuti innanzitutto alle politiche di intolleranza verso
i diritti umani nonché alle conclamate limitazioni esercitate dal Governo
Cinese, con cruenta determinazione, sul popolo tibetano. La cerimonia di
apertura ha avuto luogo il 6 agosto ed è stata seguita in diretta televisiva da
milioni di telespettatori. La sua regia, dopo una girandola di nomi circolati
per molti mesi, è stata affidata a Zhang Yimou.
Chiediamoci: c’è modo migliore di approcciarsi all’analisi semiotica dei
momenti salienti della cerimonia di apertura dell’ultima edizione dei giochi
olimpici che non sia quella patemica?
La risposta è senza dubbio no. E le ragioni sono le seguenti. Si tratta di
un testo sincretico particolarmente coinvolgente/emozionante, che intende
sostanzialmente stupire, euforizzare, spingere il soggetto a localizzare e
accostarsi agli aspetti suggestivi che lo compongono e lo costituiscono sotto
forma di oggetto di valore. Questa è la ragione della marcata spettacolarità
delle coreografie, dei quadri e dei ritmi, con i quali viene fornita la cifra
dello spettacolo inaugurale e che mira a perseguire una serie di obiettivi,
il più importante dei quali consiste nel suscitare negli spettatori un vero e
proprio scoppio passionale. Tornando alla manipolazione ed all’importanza
che i fattori patemici rivestono, in special modo, nei casi in cui essa non
riesca a far muovere il soggetto verso l’oggetto, c’è da dire che, com’è noto,
non esiste alcuna tattica capace in maniera automatica di “far fare” o “fare
apprezzare” al soggetto ciò che il manipolatore desidera16. La manipolazione,
In realtà nel lessico greimasiano il termine manipolatore non compare. Esso è di fatto il
destinante ossia quel ruolo/personaggio che nello schema narrativo canonico, spinge il soggetto
ad avvicinarsi all’oggetto.
16
FATA MORGANA
267
Giorgio Lo Feudo
per poter sortire l’effetto dovuto, ovvero determinare il soggetto a godere
del congiungimento/disgiungimento con l’oggetto, deve sussumere sia l’esistenza di entrambi (soggetto e oggetto), sia dare per acquisita la volontà del
primo di unirsi al secondo. Il problema sorge nel momento in cui si dà per
scontata tale intenzione e, per non equivocare, occorre domandarsi: dove
sorge tale volontà? La risposta a questa domanda è la seguente: la volontà
di accostarsi all’oggetto di valore dipende da una precisa disposizione timica la quale, per potere assumere connotazioni diaforiche o anaforiche,
deve poter contare sulla presenza di alcuni precisi requisiti nell’oggetto di
valore, i quali dovranno fungere da attrattori per il soggetto e, allo stesso
tempo, concorrere, in modo evidente, a disporlo favorevolmente, non tanto
in chiave informativa bensì in termini, appunto, patemici. Nel caso di cui ci
stiamo occupando, la “disposizione” patemica preceduta, per come tratteggiato da Greimas e Fontanille nello Schema Passionale Canonico17, dalla
“costituzione” del soggetto in veste di attante patemico, trova concretezza
negli aspetti suggestivi e spettacolari che caratterizzano la manifestazione
di inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino. Tali aspetti risiedono, e
questo è il primo significativo dato oggettivo, nella perfezione geometrica
delle coreografie e dei quadri scenici, che raffigurano di fatto le caratteristiche salienti dell’intera manifestazione. Il valore patemico di tali esibizioni
è strettamente correlato alla perfezione ritmico/geometrica che sta alla base
della costituzione estetico/artistica, quindi patemica, dei quadri medesimi.
Così come la “costituzione” determina lo stile tensivo del percorso nel suo
complesso, la “disposizione” gli fornisce una coloritura unica e specifica.
Le perfezioni ritmico/geometriche dell’oggetto, divenuto, grazie ad esse,
“oggetto di valore”, tipiche della fase della disposizione, “patemizzeranno” il soggetto, determinando la modifica del suo stato timico. In questa
fase egli avvertirà la passione e, di conseguenza, comprenderà la causa
del suo turbamento che, di fatto, si placherà allorquando, la rettifica della
sua disposizione affettiva di base, produrrà una serie di implicazioni sul
fronte pragmatico/cognitivo. Lo stupore che il predetto spettatore proverà
nell’osservare i quadri artistico/musicali messi in scena nell’ambito dello
spettacolo/testo che sta guardando – si pensi ad esempio al percorso che
l’ultimo tedoforo compie “volando” per raggiungere il braciere –, rappresenta l’acme della patemizzazione. Esso segnala la comparsa dell’emozione
17
Costituzione, Disposizione, Patemizzazione, Emozione, Moralizzazione (cfr. A.J. Greimas,
J. Fontanille, Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo, cit.).
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FATA MORGANA
Ciò che precede lʼinizio. Pechino 2008
vera e propria la quale, secondo Greimas e Fontanille, indica il ritorno
dall’esterocettivo al propriocettivo. In tale situazione, ovvero nel momento
dell’emozione, il somatico rientra in gioco e, nel caso specifico, il visuale
spettacolare della cerimonia di inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino,
dispiega per intero il suo ruolo patemico. Quest’ultimo, grazie alla presa ed
alle suggestioni suscitate dalle danze e dai comportamenti/immagini, si è
infatti spostato dal corpo senziente e simbolico dello spettatore percipiente
verso l’oggetto di valore modellante/modellato18 e poi, successivamente, di
nuovo dall’oggetto al corpo del soggetto. Con la particolarità che, in tale
ultimo tratto, l’emozione ha avuto effetto e l’attenzione dello spettatore
ha lasciato la sfera simbolico/culturale per dare vita ad un personalissimo,
atopico, godimento.
18
L’oggetto di valore altro non è che l’intreccio, la trama visuale della cerimonia di inaugurazione di cui ci si sta occupando.
FATA MORGANA
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FATA MORGANA
Chiudere l’orizzonte del possibile:
Cremaster di Barney
Angela Mengoni
Ripensare Cremaster – il ciclo di cinque film realizzato da Matthew Barney tra il 1994 e il 2001 – nell’ambito di una riflessione sul visuale inteso
come dimensione capace di aprire l’immagine alla contingenza, significa
soprattutto riflettere sulle forme specifiche di quella chiusura dell’orizzonte
del possibile che contraddistingue questo lavoro al confine tra cinema e videoarte. Il cuore di questa chiusura non mi pare infatti legato, come spesso
si afferma, né ad una supposta “autoreferenzialità” dell’universo visivo
di Barney, né alla circolazione di elementi problematici su base tematica
(figure dell’artista-creatore prometeico, miti di fondazione, iniziazione
massonica, esoterismo etc.), bensì all’ancoraggio di un visibile tanto eterogeneo e ipertrofico ad una matrice profonda che si rivela essere l’operatore
di generazione e controllo di questo stesso universo, apparentemente così
marcatamente eterogeneo.
Il ciclo non ha uno sviluppo temporale lineare, prevede molteplici inizi
e conclusioni e vi si può accedere – secondo l’artista – da qualunque punto.
Si tratta di un progetto i cui tratti sembrano rinviare in modo letterale alla
struttura deleuziana del rizoma, contraddicendone però proprio il tratto di
non controllo e di libera proliferazione1; in effetti, la non coincidenza tra
1
«Un rizoma non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo. L’albero è filiazione, ma il rizoma è alleanza, unicamente alleanza. L’albero impone
il verbo “essere”, ma il rizoma ha per tessuto la congiunzione “e… e… e…” […] Dove andate?
Da dove partite? Dove volete arrivare? Sono domande davvero inutili», G. Deleuze, F. Guattari,
Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1987, p. 36.
Del resto, Barney è un “artista-scholar” (si laurea a Yale nel 1989) formatosi nelle università
americane in anni in cui circola il “canone” della cosiddetta french theory, tanto che alcuni elementi del suo lavoro paiono quasi un’illustrazione di alcuni concetti di questo orizzonte teorico.
Per una panoramica esaustiva sul ciclo, si veda: Matthew Barney. The Cremaster Cycle, a cura
di N. Spector, The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York 2003.
FATA MORGANA
271
Angela Mengoni
l’ordine cronologico della realizzazione ed i numeri seriali degli episodi
– si inizia con Cremaster 4 nel 1994, per proseguire con Cremaster 1 nel
1995, Cremaster 5 nel 1997, Cremaster 2 nel 1999 ed infine Cremaster 3
nel 2001 – non fa che rafforzare da subito l’idea di una struttura preesistente
nella quale il primo episodio è già precisamente inserito e che i successivi
episodi andranno via via a riempire e realizzare. Il ciclo presenta alcune
linee narrative molto elementari fondate per lo più sull’interazione tra attori
– antropomorfi e non – in assenza di dialoghi o di commenti, ma il tratto forse
più noto e più impressionante di Cremaster è la proliferazione figurativa, la
disinvolta convivenza tra universi figurativi di matrice biologica, mitica o
legata a differenti generi finzionali: l’universo delle api e quello del country, l’opera lirica e la rivisitazione dei miti e dei simboli dell’isola di Man,
il football americano e i musical degli anni Trenta, le vicende biografiche
del mago Houdini e di Gary Gilmore convivono in una proliferazione e un
intreccio di figure che hanno indotto a descrivere questo lavoro come un
universo barocco e visionario, due aggettivi che sembrano essere utilizzati
per lo più per indicare la forte eterogeneità e l’impronta di radicale invenzione ed idiosincrasia di Cremaster. È indubbio che i riferimenti multipli
che proliferano davanti agli occhi di uno spettatore cui non è fornito alcun
sapere costituiscano una sfida cognitiva e, in fin dei conti, una relazione
di tipo iniziatico con l’enunciatario. Tuttavia, accanto ad una competenza
strettamente simbolica e cognitiva, mi pare che il testo articoli anche in
forma propriamente visiva il nocciolo concettuale o, meglio, la matrice
astratta che regge l’intera opera, conferendole una coerenza e una chiusura
che va ben oltre un livello meramente tematico e che mi pare il tratto più
problematico di Cremaster.
Il nucleo concettuale attorno a cui ruota il ciclo è anzitutto un sapere
paratestuale, declinato nelle interviste, negli apparati che accompagnano
mostre e proiezioni, ma contenuto in nuce anche nelle prime performances
come Drawing Restraint (1988-93) in cui l’artista-atleta Barney, imbracato
e sospeso in uno spazio popolato da strumenti e oggetti ginnici, si sottomette
ad una serie di costrizioni e sforzi fisici per produrre un disegno. Egli trasla
così nel fare artistico la dinamica molto generale che fonda la pratica atletica: il potenziamento di determinati muscoli in funzione di una specifica
performance atletica si ottiene attraverso un esercizio che è ripetizione di un
movimento contro un limite e una resistenza, quella dell’attrezzo. La tecnica
sportiva, attraverso la reiterazione di una limitazione, produce quindi una
sofisticata differenziazione che consente di sfruttare a scopi funzionali e produttivi una massa muscolare la cui energia è, originariamente, indifferenziata.
Barney aveva creato per questa dinamica una triade concettuale articolata
in situation (che rinvia all’energia potenziale e indifferenziata, “a pure raw
272
FATA MORGANA
Chiudere lʼorizzonte del possibile: Cremaster di Barney
drive”), condition (il limite che canalizza e differenzia questa energia) e production, che indica l’esito produttivo frutto di un esaurimento dell’energia
indifferenziata. Ben presto però l’artista si concentra sul cortocircuito tra le
prime due polarità, una continua oscillazione capace di mantenere il sistema in una fase antecedente a qualunque esito produttivo e al conseguente
esaurimento del felice stadio energetico indifferenziato. Cremaster è il luogo
testuale in cui la dinamica astratta situazione/condizione produce, come una
matrice generativa, una serie di investimenti figurativi capaci di darle forma
sensibile. L’universo biologico ne fornisce l’articolazione più importante
sotto la forma del processo di differenziazione sessuale dell’embrione
detto “stadio dell’utero”. Esso corrisponde alle prime sei settimane di vita,
durante le quali l’identità sessuale del feto resta completamente indistinta
finché la discesa delle gonadi determinerà il sesso maschile del nascituro
formando i testicoli oppure, nel caso di mancata discesa, quello femminile.
Tuttavia, finché le gonadi restano sospese, tutte le potenzialità sono ancora
aperte e colte ad uno stadio virtuale. Si tratta di uno dei tanti riferimenti
che, proprio per la loro natura figurativa, forniscono una serie di relazioni
spaziali e narrative che Barney trasla da settori specifici – come la biologia,
l’esoterismo ed il mondo animale – all’universo spaziale, narrativo e materico dei suoi lavori. Questa dinamica, sebbene qui solo accennata, aiuta a
comprendere la ridondanza che attraversa l’eterogeneo universo figurativo
di Cremaster. Nel primo episodio ottanta ballerine compongono misteriose
coreografie nel campo da football del Bronco Stadium, mentre in due dirigibili sospesi sopra il terreno da gioco una sorta di folletto o fatina disegna
con chicchi d’uva le medesime coreografie. Il fondo figurale del disegno
biologico di sospensione delle gonadi appare, come in controluce, sotto le
figure dei dirigibili, delle coreografie delle ballerine e persino della porta
da football biforcata e ascendente, riducendo di fatto la varietà delle figure
ad espressione di un’unica matrice. Così come in Cremaster 5, episodio che
segna idealmente il punto di massimo esaurimento del sistema, appariranno
numerose figure della caduta e della discesa. Un ancoraggio visivo che, del
resto, è del tutto percepibile anche senza il riferimento esatto al tema dello
sviluppo dell’embrione, che non viene mai introdotto esplicitamente.
La produzione di distinzioni e differenze, non solo nei processi biologici,
è legata alla progressione lineare del tempo il quale, avanzando, realizza
progressivamente dei destini identitari irreversibili. L’ossessione centrale in
Cremaster è allora la possibilità di sottrarsi ai processi di differenziazione
e al modello di temporalità lineare che li accompagna, gli eroi di Barney
sono coloro che riescono a plasmare il tempo ed il destino attraverso una
capacità metamorfica. Il secondo episodio è esemplare e decisivo per
comprendere la messa in forma visiva di questa capacità metamorfica. Si
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tratta dell’episodio che, subito dopo la felice ascensione di Cremaster1,
introduce il conflitto, lo sdoppiamento e la radice di differenziazione nel
sistema, l’artista sceglie di mettere in forma a più livelli questo processo
e la capacità di sottrarvisi. A livello narrativo la vicenda di Gary Gilmore,
giovane mormone che “provoca” la propria condanna a morte assassinando
un benzinaio a sangue freddo, viene riletta in chiave country, mettendone
in scena l’esecuzione sotto forma di rodeo nelle saline di Bonneville, nello
Utah. Parallelamente Houdini e la medium Baby Faye LaFoe, presentati
come nonni di Gary, sono figure depositarie di un potere di metamorfosi cui
Gary si ricongiungerà, in un loop temporale, proprio attraverso il “destino
scelto” della propria condanna. Il problema è sempre quello di sottrarsi ad un
esito di distruzione attraverso un atto di volontà (self-will), rendendosi capaci
di superare i limiti imposti dal destino; il mondo delle api, onnipresente,
offre un ulteriore appiglio figurativo nell’opposizione tra il fuco, maschio
votato alla distruzione che si esaurisce nella funzione della fecondazione
per poi morire, e non tanto l’ape femmina bensì l’ape regina esito di una
metamorfosi che l’ha potenziata sino a farle trascendere i limiti degli altri
individui della specie. Se questo tipo di riferimenti è, ancora una volta, legato
a competenze cognitive di cui lo spettatore non è dotato e che lo pongono, di
fatto, nella posizione di un aspirante iniziato2, quel che ci interessa sono le
forme propriamente visive del sistema ideologico di Cremaster. La maggiore
di esse risiede, credo, nel trattamento cui è sottoposto l’universo figurativo
del film. Il momento cruciale dell’esecuzione di Gary e dell’innesco della
regressione temporale ci presentano anzitutto l’esecuzione sotto forma di un
rodeo in cui Gary-Barney doma un toro selvaggio che si accascia al suolo:
la morte, massimo esaurimento di energia, è equiparata al domare, un atto
che canalizza l’energia indistinta ed infunzionale dell’animale selvaggio
e la rende così docile e funzionale. Questa morte tuttavia, proprio perché
prodotta dallo stesso Gary, innesca un processo di inversione temporale che
lo ricongiunge con il nonno Houdini all’esposizione universale di Columbia
del 1893. Barney lo mette in scena con il montaggio alternato tra i paesaggi
delle saline di Bonneville e una danza country che due ballerini compiono
intorno ad una strana scultura dorata (Fig. 1). Il paesaggio è inizialmente
oggetto di una lunga e lenta carrellata da destra a sinistra. Si tratta di un
paesaggio speculare, attraversato da un raddoppiamento che lo scinde: una
2
Sulla costruzione strategica di uno “spettatore incompetente” in Cremaster 3 si veda N. Dusi,
Lo spettatore incompetente e la flagranza della performance: Cremaster 3 di Matthew Barney
tra cinema e videoarte in “E/C. Rivista on-line dell’AISS Associazione Italiana Studi Semiotici”,
http://www.ec-aiss.it, pubblicato in rete il 28 febbraio 2008, soprattutto i paragrafi 3, 4 e 5.
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Chiudere lʼorizzonte del possibile: Cremaster di Barney
catena montuosa si riflette, al crepuscolo, nelle acque immobili delle saline
di Bonneville, in Utah; uno straordinario raddoppiamento di forme e colori
la cui riconoscibilità non fa problema. Improvvisamente, però, la densità del
tessuto figurativo perde progressivamente la propria tenuta sotto la pressione
dei movimenti di macchina. L’inquadratura ruota, infatti, di novanta gradi,
trasformando l’asse orizzontale di simmetria tra le montagne e il loro riflesso,
in asse longitudinale e iniziando una lunghissima carrellata verticale (nei
materiali preparatori Barney aveva semplicemente ruotato e allineato delle
cartoline, Fig. 2). Le distinzioni che attraversano il paesaggio e la dualità
che lo scinde sono così ricomposte in una configurazione unitaria di sapore
piuttosto biologico. La rotazione provoca una prima sospensione della lettura
figurativa del paesaggio (con i tratti di specularità/raddoppiamento) ed apre
ad una lettura propriamente plastica del significante visivo che sfila “verticalmente” nel frame a velocità sempre più sostenuta. I filamenti delle nubi
crepuscolari non saranno più distinguibili in quelli di un cielo “reale” e di un
cielo riflesso, ma costituiranno i contorni di una forma che si allunga nello
spazio con un’area centrale rosacea e due ali più scure che la racchiudono
ai lati, come una lunga membrana uterina. La rotazione della macchina da
presa è l’operatore di uno scivolamento dalla lettura figurativa del mondo
ad un sostrato più astratto e informe.
Dobbiamo considerare questa frattura nel tessuto figurativo come
un’occorrenza di quella “immagine aperta” che vede proprio nell’irruzione dialettica dell’informe e del corporeo in rapporto alla figura una delle
sue grandi strategie3? Se l’apertura dell’immagine consiste anzitutto nella
trasgressione dei “limiti dell’imitazione” e della somiglianza per aprire un
luogo sintomale e tattile che la eccede, la frattura informe che la rotazione
dell’inquadratura fa emergere nel paesaggio sembrerebbe ascrivibile ad uno
spazio propriamente visuale, proprio di quella «economia dell’immagine del
tutto particolare […] in cui forme, aspetti, somiglianze si lacerano e lasciano
apparire, di colpo, una dissomiglianza (dissemblance) fondamentale»4. Ma
la potenzialità di questo rovescio visuale non ha niente di automatico e di
universalmente definibile e, infatti, nel caso di Cremaster, questa apertura è
del tutto funzionale all’esercizio di una ancor più salda chiusura. La frattura
3
Si veda: G. Didi-Huberman, La ressemblance informe ou le gai savoir visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris 1995 e Id., L’image ouverte. Motifs de l’incarnation dans les arts
visuelles, Gallimard, Paris 2007, soprattutto l’introduzione, “Ouverture”, in cui l’autore interpreta
retrospettivamente i saggi della raccolta e tenta una sistematizzazione del problema dell’apertura
dell’immagine in rapporto al “mistero dell’incarnazione”.
4
G. Didi-Huberman, L’image ouverte, cit., p. 35.
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informe che sorge dal paesaggio ha, in effetti, il ruolo di un “fondo” astratto
che, grazie alla bassa densità iconica che lo contraddistingue5, può aprirsi a
nuovi potenziali investimenti figurativi, soprattutto di radice biologica. Se è
vero che la metamorfosi consiste nella capacità di transitare liberamente tra
stati differenti, trasformando l’uno nell’altro, mi sembra che il trattamento
del paesaggio sia allora una forma propriamente visiva di metamorfosi, che
ripropone in forma non mediata cognitivamente il tema portante dell’intero
ciclo. La messa in crisi dell’universo figurativo è dunque riassorbita in un
movimento che la rende, ancora una volta, una mera espressione della matrice che valorizza il mantenimento dell’indifferenziato sul differenziato.
Un processo paragonabile accade anche per la scultura dorata ottenuta
rovesciando e coprendo di tessere dorate una sella americana che, tra l’altro,
lo spettatore ha visto utilizzare nel rodeo subito prima. Anche in questo caso
laddove il riconoscimento figurativo produceva differenze e identificava le
funzioni delle singole parti di questo oggetto, il rovesciamento e la copertura dorata lo rendono irriconoscibile in quanto figura, ma percepibile come
volume plastico aperto a nuovi possibili investimenti che gli fanno compiere
una metamorfosi: i quartieri laterali con le staffe si rovesciano, infatti, in
due forme ascendenti che rinviano alla conformazione delle gonadi, o alla
struttura ossea di un bacino o, ancora, a una farfalla.
De-figurare il mondo o proiettare sui suoi oggetti relazioni astratte,
significa aprirlo ad una potenziale metamorfosi, ma significa anche poter
“tradurre” qualunque elemento all’interno del sistema. Norman Bryson,
discutendo la capacità di Cremaster di “catturare” lo spettatore, parla della
difficoltà di distogliere lo sguardo di fronte alla sensazione «of there being
no material limitations»6, proprio come avviene nei musical di Busby Berkeley negli anni Trenta, fonte esplicita per Cremaster 1: qualunque oggetto
potrebbe apparire in quell’universo incantato in cui circolano centinaia di
ballerine, enormi cascate artificiali, strumenti musicali animati. Più che
un’assenza di limiti quantitativi mi pare però che Barney trovi in quei musical delle strategie enunciative capaci di neutralizzare i limiti qualitativi
che strutturano l’universo figurativo; le inquadrature dall’alto come anche
Il movimento di macchina provoca uno slittamento sull’asse di quella opposizione – graduale
e non categoriale – che, in una prospettiva semiotica di matrice strutturalista, mette in tensione le
polarità del figurativo iconico e del figurativo astratto: «è in maniera impercettibile che si passa
dall’uno all’altro e viceversa [ciò accade] quando i punti, i tratti, le forme, le superfici colorate
sono via via più difficilmente interpretabili, nominabili», J. Courtés, Analyse Sémiotique du
Discours. De l’énoncé à l’énonciation, Hachette, Paris 1991, p. 169.
6
N. Bryson, Matthew Barney’s gonadotrophic cavalcade, in “Parkett”, n. 45 (1995), p. 30.
5
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i travelling tipici del genere sono, a loro volta, strategie capaci di far glissare la figura verso la forma astratta, di trasformare le figure antropomorfe
e i loro attributi, in formanti geometrici e topologici che fanno parte di un
disegno astratto. Non solo i materiali prediletti di Barney (come la vaselina
e il teflon) ed il riferimento agli ambiti tematici dello sport e della medicina
mirano a cancellare la distinzione tra organico ed inorganico in Cremaster,
ma anche le strategie discorsive e enunciative e tutti questi elementi, a
livelli testuali differenti, si compattano intorno alla matrice astratta che
regge e genera l’intero ciclo. La proliferazione figurativa apparentemente
visionaria e incontrollata si rivela così retta da una coerenza pervadente e
profonda, da una chiusura generativa del testo che, proprio perché tale, gli
consente di nutrirsi di una spiccata apertura intertestuale, sempre però saldamente tradotta all’interno del sistema: Busby Berkeley, la defigurazione
del paesaggio nella Regione centrale (1971) di Michael Snow, i riferimenti
a Kubrick e Cronenberg, il concetto di campo (dal logo del ciclo detto field
emblem, all’arena del rodeo in Cremaster 2) che apre all’action painting,
le fluorescenze che rinviano a Dan Flavin, nessuno di questi elementi attraversa il testo come una reale alterità di cui si accoglie la memoria, essi
vengono piuttosto saldamente ancorati ad un universo mitico. La volontà di
creare un “sistema chiuso” è resa del tutto esplicita dallo stesso Barney, ma
la questione della chiusura non deve essere intesa come autoreferenzialità,
piuttosto come implosione autoimmune. Si tratta infatti di un progetto che,
come osserva Bryson, si costruisce sulla base di un fondo, una massa pronta
ad essere manipolata e scolpita a piacimento, un processo di “generazione
controllata”7. Il progetto ideologico di Cremaster e la sua ermetica chiusura consiste più nei dispositivi e nelle forme proprie di questa regolazione
sistematica, che nell’ambivalenza politica di certi riferimenti. Così come
tale progetto non è esauribile nella questione del genere e delle figure del
corpo che ne sarebbero depositarie8, ma è depositato nell’intero corpo del
7
«Come avviene in ogni progetto di mutazione controllata, dall’orticoltura all’eugenetica,
ogni nuova estensione ha i propri caratteri specifici, una gamma specializzata di funzioni prodotte
attenuando o esagerando i tratti presenti nello stoccaggio di base esente da modifiche (in the basic
unmodified stock)», N. Bryson, Matthew Barney’s gonadotrophic cavalcade, cit., p. 31.
8
Si tratta di una prospettiva fondamentale per comprendere un lavoro che si dà come titolo
il nome di un muscolo (il muscolo cremasterico) atto a proteggere i testicoli in relazione agli
stimoli esterni e, dunque, a preservare il patrimonio riproduttivo maschile; tuttavia, concentrandosi sulle figure del corpo e sulla questione del genere, gli interpreti più interessanti arrivano a
conclusioni opposte: per Ernst Van Alphen Cremaster attua una decostruzione ironica della produzione ideologica della maschilità e della sua proiezione sul sesso maschile (si veda il capitolo
dedicato a Matthew Barney in E. Van Alphen, Art in Mind: How contemporary Images shape
Thought, Chicago University Press, Chicago 2005); per Bryson, al contrario, nei corpi singolari,
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film, per così dire. Sono forse le parole di Barney a fornire, indirettamente,
la più lucida descrizione del proprio lavoro:
Sicuramente condivido il suo interesse [di Joseph Beuys] per lo
sviluppo di un sistema chiuso, ma forse più appropriato è un raffronto
con l’opera di Houdini – il modo in cui instancabilmente egli studiava
e maneggiava il lucchetto, al punto che, quando gli veniva imposto un
meccanismo straniero, lo “assorbiva” intuitivamente, trasformandolo
in un’autentica estensione del proprio corpo9.
Nell’infinitamente permeabile mondo di Cremaster non vi è spazio per
quel «turbamento dell’ordine del mondo visibile e dell’ordine classico
dell’imitazione»10 attraverso cui il visuale opera una decisiva apertura all’alterità del reale. L’apparente apertura originata da un sovvertimento della
figuratività a più livelli e da una sua proliferazione incontrollata, serve solo
a meglio esercitare una doppia chiusura capace di riassorbire potenzialmente
qualunque occorrenza nel sistema. Nessun residuo è possibile in Cremaster
poiché la differenza tra interno ed esterno, organico ed inorganico, figura
e figura è superata in virtù di un’operazione che si situa ad un livello più
astratto e profondo. L’“assorbimento intuitivo” di cui parla Barney diviene
allora la descrizione più efficace di un sistema capace di immunizzare programmaticamente qualunque potenziale intrusione del non-stesso11.
asessuati ed ibridi di Cremaster circolerebbe un medesimo «Ur-ormone maschile, presente in
diverse concentrazioni e capace di dare origine a diverse morfologie», N. Bryson, Matthew
Barney’s gonadotrophic cavalcade, cit., p. 32. Per quanto ci riguarda, quello del genere è solo
uno tra i possibili investimenti tematici della matrice ideologica del ciclo.
9
J. Siegel, Matthew Barney. Conversazione con Jeanne Siegel, in “Tema Celeste”, n. 41
(1993), p. 54, corsivo mio.
10
G. Didi-Huberman, L’image ouverte, cit., p. 207.
11
La riflessione filosofica sulla biopolitica ha descritto in termini di “immunizzazione preventiva” la capacità di neutralizzare a priori l’eccedenza e lo scarto irriducibile che attraversa un
sistema. Si tratta di una riflessione ampia molto utile per pensare le forme del fare artistico nella
tarda modernità: laddove nessuna distinzione tra sé e altro sia più possibile, poiché il sistema ha
messo in atto una strategia preventiva autoimmunizzante, si chiude radicalmente lo spazio vitale
dell’intrusione dell’alterità (si veda: R. Esposito, Bìos, Torino, Einaudi 2004; P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007).
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