Università degli Studi di Torino
Dipartimento di Studi Umanistici
Corso di laurea in Scienze della Comunicazione
THE AMERICAN SADNESS:
INCLUSIONE ED ESCLUSIONE
NEL REPORTAGE NARRATIVO
NORDAMERICANO CONTEMPORANEO
Relatore
Candidato
Prof.ssa Daniela FARGIONE
Serena BERTOGLIO
Anno accademico 2014/2015
Alle mie maestre,
che mi hanno insegnato
la letteratura
e l’America
INDICE
Introduzione ........................................................................................... 4
1.
Creative nonfiction e reportage narrativo
1.1 True stories, well told ........................................................................ 8
1.2 New Journalism e nonfiction novel ................................................... 14
1.3 Like jazz ............................................................................................ 19
1.4 Il reportage narrativo ......................................................................... 22
2.
Luci e ombre del sogno americano
2.1 L’American sadness .......................................................................... 27
2.2 Un precedente illustre ....................................................................... 29
2.3 L’American sadness di In Cold Blood .............................................. 35
3.
Inclusione versus Esclusione
3.1 Joan Didion: l’American sadness dell’Inclusione ............................. 50
3.2 William T. Vollmann: l’American sadness dell’Esclusione ............. 59
3.3 Altri inclusi ed esclusi d’autore ........................................................ 67
4.
Convergenze: quando Inclusione ed Esclusione si incontrano
4.1 David Foster Wallace: l’American sadness in crociera .................... 77
4.2 George Saunders: l’American sadness tra Messico e Stati Uniti ...... 90
Conclusioni ............................................................................................. 102
Bibliografia ............................................................................................. 106
INTRODUZIONE
Nel nostro paese con il termine letteratura si intende in genere il prodotto
dell’invenzione di uno scrittore, che sia un romanzo, un racconto, una lirica o
un’opera drammaturgica. Al di là dell’oceano le cose vanno un po’ diversamente:
oltre a fiction, poesia e teatro da qualche decennio si è cominciato a includere nel
concetto di letteratura anche il vasto regno della creative nonfiction, della narrativa
non d’invenzione basata su fatti e circostanze reali.
Lo sviluppo della nonfiction è sostenuto da una delle più interessanti
tradizioni degli Stati Uniti, quella della stampa culturale periodica, che dagli albori di
fine Ottocento si espande intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso per
affermarsi definitivamente in epoca contemporanea. Tale tradizione comprende sia
riviste squisitamente letterarie – come The Paris Review, The New York Review of
Books o la più giovane McSweeney’s – sia magazine culturali a tutto campo,
spazianti dalla politica all’attualità, dalla letteratura al costume. È il caso di
istituzioni di lunga data quali The New Yorker, Harper’s Magazine o The Saturday
Evening Post, ma anche di periodici dai toni più pop come l’Esquire,
GQ,
Playboy o
Vanity Fair. Fiore all’occhiello di queste pubblicazioni sono i reportage narrativi,
lunghi articoli di cinque o seimila battute in cui i maggiori scrittori nordamericani si
calano nel ruolo di cronisti e offrono le loro corrispondenze dai più diversi luoghi del
pianeta. Accade così che le pagine delle riviste culturali americane accolgano opere
di piena dignità letteraria, che non di rado vengono raccolte e pubblicate in volume,
4
dando vita a un ambito di ricerca che in Italia non ha ancora ottenuto l’attenzione che
merita, ragione che soggiace alla scelta di assumerlo come argomento della presente
trattazione.
Per giungere alla formulazione della mia ipotesi di ricerca, ho definito
preliminarmente due poli, uno formale e uno tematico. Dapprima ho assunto il
reportage narrativo come oggetto d’indagine, quindi ho identificato il tema
dell’American sadness, con cui intendo uno stato di malessere che coinvolge gli Stati
Uniti, una condizione di disagio più o meno latente, una sorta di ombra che ammanta
il sogno americano. La mia ricerca si propone di dimostrare l’esistenza di una
correlazione tra i due poli, ossia che il reportage narrativo costituisca una forma
narrativa adatta all’indagine del tema dell’American sadness, e che la sua dignità
letteraria sia da ricercarsi proprio nella capacità di affrontare questioni fondanti per
gli Stati Uniti, come lo è prima di ogni altra quella relativa al sogno americano e alle
sue manchevolezze.
Nel primo capitolo ho articolato il discorso seguendo un procedimento di tipo
deduttivo. Muovendo dal generale al particolare, ho individuato il genere emergente
della creative nonfiction come campo d’indagine, definendolo nei suoi tratti
fondamentali. Ho poi compilato una breve panoramica diacronica tesa a ricostruire
per sommi capi l’evoluzione storica di tale ambito, individuando la doppia paternità
di New Journalism e nonfiction novel. A questo punto ho tentato di delineare una
tipologia, con lo scopo di chiarire l’esatta collocazione del mio oggetto di ricerca. Ho
identificato il reportage narrativo come sottogenere della creative nonfiction e ne ho
individuato le dimensioni costitutive. Infine, ho ristretto il campo al reportage
narrativo nordamericano contemporaneo, quindi ho optato per una selezione
tematica dei testi pertinenti.
Nel secondo capitolo ho definito il tema dell’American sadness. Ho osservato
come tale condizione di tristezza non riguardi solo il racconto dell’emarginazione
sociale – come si potrebbe prevedere – ma coinvolga ampi strati della società
americana, dalla middle class ai ceti più benestanti. In coerenza con tale
considerazione, ho individuato due assi concettuali, l’asse dell’Inclusione e l’asse
5
dell’Esclusione, che ho assunto come categorie d’analisi. Infine, ho ritenuto
opportuno osservare la declinazione della sadness anche a un terzo livello, ossia alla
convergenza dei due assi. Il mio percorso prende avvio con l’analisi di una delle più
celebri opere di nonfiction, In Cold Blood di Truman Capote, che ho incluso nella
trattazione in qualità di precedente illustre. Oltre che pertinente sul piano formale,
l’opera di Capote costituisce un riferimento tematico imprescindibile, prestandosi
all’analisi dell’American sadness secondo la totalità dei piani individuati: quella
interna all’asse dell’Inclusione, quella interna all’asse dell’Esclusione e quella
risultante dalla loro tragica convergenza.
Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati a testi redatti in anni più recenti, che
ho analizzato secondo un metodo di lavoro comprendente tre fasi: close reading
testuale, analisi della pertinenza formale e analisi della pertinenza tematica. Nel terzo
capitolo propongo un esame dettagliato di due reportage narrativi, uno per la sadness
interna all’asse dell’Inclusione, l’altro per quella interna all’asse dell’Esclusione. Nel
primo caso, la scelta è ricaduta su uno storico reportage di Joan Didion, “Some
Dreamers of the Golden Dream”, dedicato a un tragico omicidio che sconvolse le
cronache californiane degli anni Sessanta. Relativamente al secondo asse, ho optato
per un reportage narrativo sui generis come “Ladies and Red Lights” di William T.
Vollmann, che racconta le incursioni dell’autore nel quartiere a luci rosse di San
Francisco. Infine, ho completato la trattazione con una panoramica di ulteriori testi
pertinenti con il tema e collocabili distintamente su uno dei due piani.
Nel quarto e ultimo capitolo analizzo due reportage narrativi dedicati alla
sadness della convergenza. Il primo paragrafo ospita uno dei testi più celebri della
creative nonfiction nordamericana, “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again”
di David Foster Wallace: passeggeri ed equipaggio della “crociera extralusso” più
famosa di sempre allargano le fila di Inclusione ed Esclusione, e la nave su cui
viaggiano si erge a simbolo della loro triste convergenza. Il secondo reportage
oggetto d’analisi è “The Great Divider” di George Saunders, in cui l’autore racconta
la sadness al confine tra Messico e Stati Uniti, dove i destini degli immigrati
sudamericani incontrano quelli di vigilantes armati e impauriti.
Tante tappe per un unico percorso nella geografia reale e letteraria degli Stati
Uniti, sulle tracce dell’American sadness e dei suoi protagonisti. Il viaggio è lungo,
6
ma la valigia è vuota: strada facendo si riempirà di parole, di tristezza, ma – ne sono
sicura – anche di qualche prezioso sintomo di guarigione.
Relativamente al metodo redazionale, mi sono attenuta a una versione ridotta
dello standard
MLA,
secondo quanto disciplinato dalla guida “MLA (Style) Lite for
Research Papers” dell’autunno del 2009. Infine, specifico che le traduzioni dei passi
citati in lingua inglese sono mie, quando non indicato diversamente.
7
Capitolo primo
CREATIVE NONFICTION E REPORTAGE NARRATIVO
1.1 True stories, well told
Creative nonfiction, literary nonfiction, narrative nonfiction. E ancora:
faction, journalit, the other literature, the literature of fact, the fourth genre. Non è
facile approdare su una terra che non possiede un nome: cresce l’ambiguità, non si
scorgono i confini, ci si sente disorientati. Il primo dato che emerge muovendo
qualche timido passo sul terreno della letteratura nordamericana non d’invenzione è
lo statuto incerto del campo d’indagine e del suo perimetro. Per ragioni di chiarezza
espositiva, di qui in avanti si è deciso di adottare la locuzione creative nonfiction,
non perché risulti preferibile alle altre sulla base di qualche criterio ma in coerenza
con la letteratura di settore, che tende a considerarla come l’“accepted term”
(Gutkind, “#38”), come “the name of choice” (Hesse 18). Dal punto di vista
meramente quantitativo, si tratta dell’opzione terminologica ricorrente sia in sede
accademica e critica sia più genericamente in ambito giornalistico e culturale. Infine,
va considerata l’adozione della medesima espressione da parte di un’istituzione
formale come il National Endowment for the Arts.1 In ogni caso, permane il limite
epistemologico insito nell’adozione di un termine – nonfiction – identificato a partire
da ciò che non è, come se si definisse la
TV
una non-radio (Root citato in Sunstein
14), per giunta entro il contesto di un apparente ossimoro.
1
Il National Endowment for the Arts (NEA) è un’agenzia federale indipendente istituita nel 1965 dal
Congresso degli Stati Uniti. Si occupa di finanziare, promuovere e supportare progetti artistici di vario
genere, con l’obiettivo di incentivare la diffusione della cultura presso la comunità.
8
Allo stesso modo, non esiste una definizione precisa e univoca di creative
nonfiction (CNF). Osservando un qualsiasi articolo, saggio o testo critico redatto in
materia, emerge quasi una prassi: l’autore si serve dei paragrafi introduttivi per
battezzare il campo, individuando di volta in volta dapprima un nome, quindi
avanzando la propria proposta di definizione. Ne risulta un pastiche in cui le voci si
moltiplicano e sovrappongono. Di seguito ne saranno proposte alcune, a partire da
quelle offerte dai fondatori delle tre principali riviste specializzate, cioè dedicate
esclusivamente alla nonfiction: l’obiettivo non sarà quello di raggiungere
un’improbabile definizione pacifica e onnicomprensiva (con il rischio connesso di
generare sterili tautologie) ma quello di osservare gli elementi comuni per astrarre i
tratti fondamentali della categoria in analisi.
Sul primo numero della sua rivista,2 Lee Gutkind – “the godfather behind
creative nonfiction”3 – propone una definizione nel solco del New Journalism degli
anni Sessanta: la moderna
CNF
ne raccoglie l’eredità, mantenendo la prerogativa di
porsi come ricca combinazione di reportage e stile (“#1”) e come tipo di prosa in cui
la presenza dell’autore non solo è permessa ma del tutto incoraggiata (“#6”). Nei
numeri a seguire, le definizioni proposte sono associate sempre più di frequente a
brevi slogan, simili a pay-off commerciali. La formula “true stories, well told”
(“What is Creative Nonfiction?”) può essere considerata la summa della concezione
di Gutkind, e accompagna in una nota editoriale la seguente definizione di CNF: “The
word ދcreative ތrefers to the use of literary craft, the techniques fiction writers,
playwrights, and poets employ to present nonfiction – factually accurate prose about
real people and events – in a compelling, vivid, dramatic manner”4 (ibid.). Seguono
altri due cavalli di battaglia: “Make nonfiction stories read like fiction” (ibid.), per
fare in modo che i fatti riescano a rapire il lettore al pari della fantasia, e “you can’t
make this stuff up” (ibid.), pur precisando la compatibilità tra aderenza ai fatti e
2
Creative Nonfiction è una rivista trimestrale fondata nel 1993 da Lee Gutkind. È stata la prima a
pubblicare esclusivamente e regolarmente nonfiction di alta qualità, ed è ancora oggi la rivista
specializzata più popolare e diffusa.
3
Come è stato soprannominato, non senza intento polemico, dal critico e giornalista James Wolcott
sulle pagine di Vanity Fair.
4
“Il termine ދcreativa ތriguarda l’impiego degli strumenti letterari e delle tecniche adottate da scrittori
di narrativa, drammaturghi e poeti per comporre nonfiction – prosa accurata e aderente ai fatti su
persone ed eventi reali – in uno stile convincente, vivido e drammatico”.
9
utilizzo dell’immaginazione, tra rispetto dell’accuratezza e ricorso alla propria
creatività.
Fourth Genre: Explorations in Nonfiction5 esplicita la sua ambizione a partire
dal titolo. La
CNF
è definita come un quarto genere degno di fare ingresso nel regno
della letteratura al pari di fiction, poesia e teatro. Emerge così l’intento di enfatizzare
l’elemento letterario più che quello giornalistico, differenziandosi dalla posizione
assunta da Creative Nonfiction: “At first, I wanted to be an alternative to Lee
Gutkind’s philosophy, which, briefly stated, is that
CNF
is primarly a spinoff of the
New Journalism of the ‘60s . . . I wanted Fourth Genre to be a journal of literary
nonfiction, with the emphasis on the ދliterary ތpart”6 (Root 149), chiarisce il
fondatore Michael Steinberg. Sintomatica in questo senso è la scelta dell’aggettivo
literary, preferito al più vago creative. La definizione si completa osservando il
sottotitolo della rivista: la volontà è quella di esplorare il genere ed estenderne i
confini, di essere il più possibile inclusivi, ampliando il proprio spettro a livello di
temi e stili. Qui la continuità con Gutkind è maggiore, così come lo è nel riconoscere
il ruolo dell’immaginazione: lungi dall’essere una prerogativa esclusiva della
letteratura d’invenzione, essa è anzi lo strumento che permette all’autore di
esprimere se stesso pur raccontando della realtà. Ne risulta un tipo di scrittura che –
quando non scade nel narcisismo – permette anche al lettore di soddisfare un bisogno
intimamente avvertito in un’epoca di comunicazione impersonale e di massa: quello
di ascoltare ancora una voce individuale e umana, “the singular first person” (156)
che esperisce e racconta dal proprio punto di vista.
Completa la triade River Teeth,7 il cui statement “good writing counts and
fact matters” ricalca quello di Gutkind. Anche in questo caso la definizione si colloca
su un doppio binario; allo stesso modo gli scrittori di
CNF
sono chiamati a
5
Fourth Genre: Explorations in Nonfiction è un magazine letterario semestrale fondato da Michael
Steinberg nel 1999, anch’esso totalmente dedicato alla nonfiction. Si distingue per la vocazione
esplorativa e la ricerca dell’innovazione, come suggerisce lo stesso sottotitolo.
6
“In primo luogo, volevo essere un’alternativa alla filosofia di Lee Gutkind, che in breve considera la
CNF soprattutto come un derivato del New Journalism degli anni Sessanta . . . Volevo che Fourth
Genre fosse una rivista di literary nonfiction, ponendo l’enfasi sulla componente ދletteraria”ތ.
7
River Teeth è una rivista fondata nel 1999 da Joe Mackall e Dan Lehman, la terza in ordine di
pubblicazione a occuparsi in modo esclusivo di nonfiction.
10
comprendere “their responsability to facts as well as their commitment to literary
style”8 (Mackall e Lehman).
Altre definizioni degne di nota sono quella formulata da Douglas Hesse9 in un
saggio intitolato “Imaging a Place for Creative Nonfiction” e quella proposta da
Philip Lopate10 nel contesto di un keynote speech in occasione della “NonfictionNow
Conference” del 2005, pubblicato poi per esteso su The Iowa Review. La definizione
di Hesse è efficace perché all’argomentazione tecnica fa precedere un’immagine
suggestiva e originale. In apertura del suo saggio, egli invita il lettore a figurarsi il
mondo della scrittura come diviso in due continenti: da un lato la Terra Facta o
Terra Argumenta, dall’altro la Terra Imagina, “the land of fiction, from the prairies
of drama to the foothills of fiction to the peaks of poetry” (Hesse 18). Dove si
approda leggendo un testo di
CNF?
In nessun posto, o al massimo sulla Terra
Incognita, quella da cui ogni esploratore si tiene alla larga perché popolata da mostri.
Fuor di metafora, Hesse definisce la
CNF
come “writing that is ދtrueތ, grounded in
reality but aesthetically rich, factual writing meant to be savored rather than simply
exhumed or endured”11 (21). Anch’egli rimarca il ruolo dell’immaginazione
applicata ai fatti – fondamentale perché permette alla pura realtà di volgersi in arte –
e il valore della presenza autoriale come artefice di tale processo.
Lopate si pone in polemica con la definizione di Gutkind. Pur
condividendone alcuni aspetti (il ricorso alle tecniche tipiche della fiction, la
commistione tra componente oggettiva – i fatti – e componente soggettiva – la
presenza dell’autore), sono enfatizzati soprattutto gli elementi di divergenza.
Secondo Lopate, lo scopo della
CNF
non è di farsi leggere come fosse fiction, né di
rendere la scrittura più drammatica o cinematografica. Fiction e nonfiction
costituiscono due esperienze irriducibili: da un lato c’è il sogno (la fantasticheria a
8
“La loro responsabilità verso i fatti così come il loro impegno per uno stile letterario”.
Douglas Hesse è professore di Letteratura inglese e direttore dei programmi di Scrittura creativa
presso l’Università di Denver. Precedentemente ha insegnato presso l’Illinois State University. È
saggista, scrittore e co-autore di diversi libri, tra cui Creating Nonfiction (2009), un’antologia di CNF
curata con Becky Bradway.
10
Philip Lopate è critico, saggista, romanziere, poeta e insegnante. Ha insegnato Scrittura creativa e
Letteratura presso diverse università americane. Le sue numerose pubblicazioni comprendono saggi,
raccolte di poesia e tre romanzi. I suoi interventi sono apparsi sulle maggiori riviste letterarie
americane e su diverse antologie di nonfiction. Lopate scrive anche di architettura, urbanistica, viaggi
e cinema per alcuni magazine di settore.
11
“Una scrittura che è ދveraތ, basata sulla realtà ma esteticamente ricca, che si attiene ai fatti ma
destinata a essere assaporata e non solo semplicemente riesumata e sopportata”.
9
11
occhi aperti, l’astrazione dalla realtà), dall’altro la consapevolezza (il processo
cognitivo, la mente al lavoro che crea o segue una linea pensiero). La formula
coniata rivendica così l’importanza della ragione: secondo Lopate,
CNF
significa
nient’altro che “consciousness plus style” (5).
Oltre che per la mancanza di un nome univoco e di una definizione precisa, la
CNF
soffre per la scarsità degli studi critici dedicati: secondo Barbara Lounsberry12
“the artistry of nonfiction is the great unexplored territory of contemporary criticism”
(xi). Le ragioni sono da ricercarsi nel naturale ritardo della critica sulla letteratura,
ma anche nella difficoltà a individuare un nome soddisfacente per identificare il
campo. Inoltre, la
CNF
risente ancora di una condizione di subalternità rispetto alla
fiction, una sorta di “fiction envy”: non a caso, gli autori che hanno ricevuto
maggiore attenzione dalla critica sono anche dei romanzieri, per cui si è giunti a
conoscerne la produzione di nonfiction solo in seconda battuta.
Alle debolezze individuate nei paragrafi precedenti fanno da contraltare
alcuni punti di forza, legati alla crescita della CNF nordamericana sul piano editoriale
e accademico.
In primo luogo, è osservabile un consistente aumento della circolazione di
testi di nonfiction, a partire almeno dai primi anni Novanta. Fondamentale in questo
senso è stato il contributo delle riviste, dagli slick magazine ai literary journal fino
alle riviste specializzate nominate in precedenza. La popolarità della
CNF
sulla
stampa periodica ha stimolato la ripubblicazione della medesima sotto forma di libro,
raccolta o antologia. Inoltre, sono stati istituiti concorsi e premi dedicati. Nonostante
le difficoltà rilevate, per Lounsberry la seconda metà del XX secolo è stata “the age of
nonfiction” (ibid.); secondo Gutkind la
CNF
è ormai “the fastest growing genre”
(“What is Creative Nonfiction?”), la forma dominante sulle riviste, sempre più
presente anche sulle pagine dei quotidiani. Sostanzialmente, si è passati dalla
pubblicazione di saggi sulla letteratura alla pubblicazione di saggi come letteratura
(Root 148).
Sul piano accademico la
CNF
ha acquisito maggiore autorevolezza e
migliorato sensibilmente il proprio status. Negli anni Settanta essa si trovava ancora
12
Barbara Lounsberry è professoressa e critico letterario. È autrice dell’antologia di nonfiction The
Art of Fact (1990).
12
in una posizione di marginalità: lungi dal considerarla come art, l’accademia si
limitava a tollerarla in qualità di craft, dimostrando le proprie resistenze nel
riconoscerne il valore letterario (Gutkind, “#24/25”). In altre parole, la fiction
garantiva passaporti, la nonfiction umili visti (Lopate 4). A questa fase ne ha fatto
seguito un’altra di segno opposto: quasi a voler recuperare il tempo perduto, nei
decenni successivi si assiste a un’esplosione della
CNF
in ambito universitario.
Proliferano master e dottorati, la nonfiction compare nei programmi di Scrittura
creativa di ogni livello, il dibattito e la conversazione sulla materia acquisiscono
proporzioni paragonabili solo a quelle assunte dai medesimi in seguito all’avvento
del romanzo nel XVIII secolo (Root 155).
Evidenziati i punti deboli e le ragioni di forza, è ora possibile identificare la
CNF
nordamericana nei suoi tratti fondamentali.
- In primo luogo, per
CNF
si intende un genere letterario emergente che
ambisce al medesimo livello di dignità e autorevolezza di cui godono fiction,
poesia e teatro. La sua legittimazione come quarto genere non può dirsi del
tutto compiuta, e tale natura in fieri ne accresce l’interesse come oggetto di
studio.
- La natura di tale genere letterario è quella di coniugare due polarità:
creatività vs fattualità, arte vs fatti, stile vs sostanza. Con un prestito dalla
semiotica, si può dire che il polo creative riguarda il piano dell’espressione e
il polo nonfiction il piano del contenuto.
- Il polo creative permette di sgombrare il campo dall’errata convinzione che
narratività e cura stilistica siano attributi esclusivi della fiction. Anche alla
nonfiction è concesso raccontare storie in bella forma, purché siano basate su
eventi reali. D’altra parte, il polo nonfiction solleva questioni etiche connesse
al trattamento della realtà: quanto è consentito inventare? Qual è il confine
tra verità e invenzione? Complessivamente, tale natura bifronte è da
intendersi in positivo, come privilegio esclusivo del genere di prendere “the
best of both worlds” (Lounsberry xviii).
- L’elemento distintivo del genere è la presenza dell’autore sulla pagina, pur
nella totale varietà di forme che questa può assumere. Non esiste alcun
13
legame di necessità tra scrittura non d’invenzione e scrittura oggettiva, così
come l’utilizzo dell’immaginazione è compatibile con il rispetto dei fatti. A
un estremo si colloca una presenza esplicita e costante, con la narrazione in
prima persona e l’autore nel ruolo di personaggio principale (si pensi a
un’autobiografia); all’estremo opposto un’apparente assenza dell’autore, in
cui questi resta nell’ombra, narra in terza persona e si mostra “solo” per via
implicita tramite la selezione dei fatti e la scelta della prospettiva con cui
proporli al lettore. Nel mezzo, le possibilità sono pressoché illimitate: l’autore
può entrare e uscire di continuo dalla pagina, oppure irrompere di tanto in
tanto per comunicare pensieri e riflessioni, o ancora può interrompere la
narrazione per offrire informazioni aggiuntive (il cosiddetto framing), e così
via.
Nel 2008 David Foster Wallace insegna Letteratura inglese al Ponoma
College (Claremont,
CA).
Il syllabus del suo corso di
CNF
contiene una definizione
del genere che fa da riepilogo e conclusione a quanto esposto finora:
The term’s constituent words suggest a conceptual axis on which these sorts of prose works
lie. As nonfiction, the works are connected to actual states of affairs in the world, are “true”
to some reliable extent . . . At the same time, the adjective creative signifies that some goal(s)
other than sheer truthfulness motivates the writer and informs her work . . . Creative also
suggests that this kind of nonfiction tends to bear traces of its own artificing; the essay’s
author usually wants us to see and understand her as the text’s maker. This does not,
however, mean that an essayist’s main goal is simply to “share” or “express herself” or
whatever feel-good term you might have got taught in high school. In the grown-up world,
creative nonfiction is not expressive writing but rather communicative writing.13 (“Wallace’s
syllabus”)
1.2 New Journalism e nonfiction novel
La
CNF
è un genere solo relativamente giovane. La sua tradizione è invero
molto antica, e ne esistono illustri esempi nel canone classico della letteratura: dai
13
“I termini che compongono la locuzione suggeriscono la presenza di un asse concettuale su cui
giacciono questi testi di prosa. Come nonfiction, i testi sono collegati a reali stati del mondo, sono
“veri” sotto qualche affidabile punto di vista . . . Allo stesso tempo, l’aggettivo creativa indica che un
altro scopo (o scopi) oltre la pura e semplice veridicità motiva lo scrittore e ispira il suo lavoro . . .
Creativa implica anche che questo tipo di nonfiction tende a presentare traccia del suo stesso artificio;
di solito l’autore del saggio vuole farsi vedere e intendere come il creatore del testo. In ogni caso,
questo non significa che il principale scopo del saggista sia semplicemente di “condividere” o
“esprimere se stesso” o qualsiasi altro piacevole termine che potreste aver imparato al liceo. Nel
mondo adulto, creative nonfiction non è scrittura espressiva ma piuttosto scrittura comunicativa”.
14
viaggi nel Mediterraneo raccontati da Erodoto nelle sue Storie, ai Saggi in prima
persona di Michel de Montaigne, fino ad arrivare alle opere sulla natura di Ralph
Waldo Emerson e al Walden di Henry David Thoreau, autentico memoir ante
litteram. Pertanto, ciò cui si assiste negli Stati Uniti a partire dalla metà del XX secolo
non è da intendersi come la nascita di un genere, ma come la sua riscoperta dopo
secoli di monopolio del romanzo. Manca una prospettiva storica, quasi si sia
dimenticato che i grandi scrittori del passato sono stati anche autori di nonfiction
(Lounsberry xiii): solo nel Novecento, basti pensare ai reportage di guerra di George
Orwell ed Ernest Hemingway, o ai Diari di Virginia Woolf.
Limitando lo sguardo alla letteratura nordamericana contemporanea, è
possibile attribuire due paternità alla moderna CNF: il New Journalism di Tom Wolfe
e il nonfiction novel di Truman Capote.
Il New Journalism è “un movimento, di breve durata ma di grandi effetti,
sviluppatosi all’inizio degli anni sessanta nella stampa americana . . . che stravolse il
modo di scrivere tradizionale e provocò aspre polemiche negli ambienti sia
giornalistici sia letterari” (Papuzzi 167). L’obiettivo esplicito dei giornalisti che
partecipano a questo movimento è di “fare della vera letteratura giornalistica,
introducendo nel reporting criteri estetici, e creare in questo modo una nuova forma
letteraria” (ibid.). Si badi che l’innovazione perseguita è da collocarsi sul piano dello
stile di scrittura e non a livello di concezione della notizia: “I’m talking about
technique”, dichiara Tom Wolfe, teorico del movimento. Il rispetto dei fatti resta il
criterio principe, pur nell’adozione di uno stile più letterario. Anzi, il “nuovo
giornalismo” dovrebbe condurre a un incremento dell’accuratezza: secondo Gay
Talese, uno dei primi scrittori ad accogliere le proposte di Wolfe, “the new
journalism, thoug often reading like fiction is not fiction. It is, or should be, as
reliable as the most reliable reportage, although it seeks a larger truth than is possible
through the mere compilation of verifiable facts, the use of direct quotations and
adherence to the rigid organizational style of the older form”14 (vii). A livello di
propositi, la continuità tra New Journalism e CNF appare evidente.
14
“Il nuovo giornalismo, anche se spesso si legge come fosse fiction, non è fiction. Esso è, o dovrebbe
essere, affidabile quanto il più affidabile dei reportage, benché ricerchi una verità più ampia di quella
ottenibile attraverso la mera raccolta dei fatti, l’uso diretto di citazioni e l’aderenza al rigido stile
organizzativo della forma precedente”.
15
Al nuovo giornalismo sono associabili tre caratteri principali: l’impiego di
“tecniche ed espedienti della fiction per scrivere articoli, in particolare feature
articles”15 (Papuzzi 167); la qualità di immersion journalism, che prevede il
coinvolgimento del reporter in loco anche per lunghi periodi, lasciandosi assorbire
dalle vicende nel tentativo di coinvolgere per questa via anche il lettore; la qualità di
subjective journalism, un giornalismo fatto in soggettiva, assumendo il punto di vista
delle persone coinvolte nella vicenda. Sotto questi aspetti si notano affinità e
divergenze rispetto alla
CNF:
in particolare, quest’ultima porta alle estreme
conseguenze il processo di rottura dell’obiettività tipica del giornalismo tradizionale,
allargando lo spettro della soggettività fino a includere anche quella dello stesso
autore.
The New Journalism è un’antologia di testi curata da Tom Wolfe e pubblicata
nel 1973. Raccoglie articoli ed estratti di autori illustri quali lo stesso Wolfe, Truman
Capote, Joan Didion, Norman Mailer, Gay Talese e Hunter S. Thompson (fautore del
gonzo journalism, una variante interna). L’introduzione di Wolfe – costituita da
alcuni articoli pubblicati precedentemente su rivista – è riconosciuta come manifesto
del movimento. Wolfe individua quattro artifici tecnici, mutuati dalla fiction,
necessari per creare lo stile del New Journalism: la costruzione del testo scene by
scene, come in un montaggio cinematografico, per dare al lettore l’impressione di
essere dentro la vicenda che si sta raccontando (be there); l’impiego diffuso del
dialogo, di modo da trasformare le fonti in caratteri simili a quelli di un romanzo;
l’uso del punto di vista in terza persona, o punto di vista interno, cioè la
presentazione di ogni scena attraverso gli occhi di un particolare carattere; la
descrizione realistica, fin nei minimi dettagli (169).
Il concetto di nonfiction novel16 va tenuto distinto da quello di New
Journalism, sebbene Wolfe includa l’opera del suo ideatore – Truman Capote –
all’interno della propria antologia. Nonostante le ambizioni, per Capote il New
15
Nel giornalismo, termine utilizzato in opposizione a news. Le features sono “articoli che informano
su avvenimenti reali oltrepassando i dati di cronaca e costruendo una storia di cui si può cogliere
anche l’atmosfera, ed elementi in apparenza non registrabili e non misurabili come emozioni, passioni,
reazioni psicologiche e significati simbolici” (Papuzzi 165).
16
Di seguito, si notino le formule creative journalism, creative reportage, o i più generici reportage o
reporting, utilizzati da Capote in sostanziale analogia col concetto di nonfiction novel. Il corrispettivo
italiano è romanzo-verità o romanzo giornalistico, anche se tali traduzioni non risultano del tutto
equivalenti.
16
Journalism resta un’esperienza confinata nel campo del giornalismo, a causa della
mancanza di talento letterario dei suoi esponenti. In un’intervista del 1966 su The
New York Times Book Review, egli risulta piuttosto tranchant nel dichiarare:
They have nothing to do with creative journalism – in the sense that I use the term – because
neither of them, nor any of that school of reporting have the proper fictional technical
equipment. It’s useless for a writer whose talent is essentially journalistic to attempt creative
reportage, because it simply won’t work . . . The form, by necessity, demands that the writer
be completely in control of fictional techniques – which means that, to be a good creative
reporter, you have to be a very good fiction writer.17 (Plimpton 50)
Capote intende dar vita a una nuova forma d’arte a partire dal giornalismo; e
tale volontà lo accompagna negli anni fino a culminare nell’opera che ne costituisce
il compimento, In Cold Blood. In una prefazione degli anni Ottanta, egli ricorda: “Da
diversi anni mi sentivo sempre più attratto dal giornalismo come forma d’arte in sé . .
. Volevo presentare un romanzo giornalistico di ampio respiro che avesse la
credibilità del fatto reale, l’immediatezza del film, la profondità e la libertà della
prosa e la precisione della poesia” (Capote, Ritratti e osservazioni 615). Per Capote il
giornalismo letterario è un genere sottovalutato e poco praticato nonostante le enormi
potenzialità artistiche, anche nei confronti della fiction: “Reportage is the great
unexplored art form . . . I’ve had this theory that a factual piece of work could
explore whole new dimensions in writing that would have a double effect fiction
does not have – the very fact of its being true, every word of it true, would add a
double contribution of strenght and impact”18 (Newquist 40). E ancora: “What I think
is that reporting can be made as interesting as fiction, and done as artistically”19
(Plimpton 49). Nelle parole di Capote risuonano sia le ambizioni di letterarietà della
CNF
sia la ricerca di una posizione pari, autonoma e peculiare rispetto alla fiction.
17
“Non hanno niente a che fare con il giornalismo creativo – nel senso in cui uso il termine – perché
nessuno di loro né chiunque appartenga a quella scuola ha l’adeguato equipaggiamento tecnico della
fiction. È inutile per uno scrittore il cui talento è essenzialmente giornalistico tentare di cimentarsi in
un reportage creativo, perché semplicemente non funzionerà . . . Questa forma, necessariamente,
richiede che lo scrittore sia completamente in controllo delle tecniche della fiction – il che significa
che per essere un bravo reporter creativo devi essere uno scrittore di fiction molto bravo”.
18
“Il reportage è la grande forma d’arte inesplorata . . . Ho formulato questa teoria per cui un’opera
basata sui fatti potrebbe esplorare intere nuove dimensioni della scrittura e raggiungere un doppio
effetto che la fiction non scaturisce – il suo stesso essere vera, vera in ogni parola, le farebbe acquisire
un doppio contributo di forza e impatto”.
19
“Penso che il giornalismo possa essere reso interessante quanto la fiction, e composto altrettanto
artisticamente”.
17
Per nonfiction novel Capote intende “a narrative form that employs all the
techniques of fictional art but is nevertheless immaculately factual”20 (48). Anche in
questa definizione è riconoscibile la polarità individuata a proposito della concezione
di
CNF.
Capote individua tre caratteristiche costitutive del nuovo genere. In primo
luogo, la scelta di un tema che susciti un interesse duraturo nel tempo: è necessario
selezionare “a subject that [satisfies] the first essential of the nonfiction novel – that
there is a timeless quality about the cause and events. That’s important. If it’s going
to date, it can’t be a work of art”21 (62). In seconda battuta, l’obiettività: “The author
should not appear in the work. Ideally. Once the narrator does appear, he has to
appear throughout, all the way down the line, and the I-I-I intrudes when it really
shouldn’t”22 (55). Si noti a questo proposito l’importanza di evitare la
sovrapposizione tra giornalismo immersivo e giornalismo soggettivo: ci si può
immergere a fondo in una vicenda ma essere in grado di riportarla senza
intromissioni esplicite. L’esperienza di Capote stesso nel caso di In Cold Blood è in
grado di dimostrarlo: egli trascorse in Kansas più di cinque anni per raccogliere il
materiale, giungendo a stabilire forti legami emotivi con alcuni protagonisti della
vicenda; eppure, l’Io dell’autore non irrompe mai sulla pagina. Il narratore è
eterodiegetico e onnisciente, il racconto in terza persona, la prosa del tutto oggettiva.
Si noti inoltre come tale costruzione conduca a un uso più complesso – e non
all’assenza – del punto di vista: l’autore si mostra esclusivamente tramite la selezione
del materiale riportato, offrendo la propria personale prospettiva. La metafora di
Capote è esemplare: “It’s a question of selection . . . I’ve often thought of the book as
being like something reduced to a seed. Instead of presenting the reader with a full
plant, with all the foliage, a seed is planted in the soil of his mind. I’ve often thought
of the book in that sense. I make my own comment by what I choose to tell and how
I choose to tell it”23 (55-56). Così inteso, questo secondo elemento allontana solo
20
“Una forma narrativa che impiega tutte le tecniche dell’arte della fiction ma tuttavia è
impeccabilmente fattuale”.
21
“Un tema che soddisfi il primo elemento essenziale della nonfiction novel – che ci sia una qualità
senza tempo nelle cause e negli eventi. È importante. Se tende a diventare datata, non può essere
un’opera d’arte”.
22
“L’autore non deve apparire nell’opera. Idealmente. Una volta che appare, lo deve fare ovunque,
fino alla fine, e l’io-io-io si intromette dove non dovrebbe”.
23
“È una questione di selezione . . . Spesso ho pensato al libro come a un qualcosa di ridotto a un
seme. Invece di offrire al lettore un’intera pianta, con tutto il fogliame, si pianta un seme nel terreno
18
apparentemente Capote dalla soggettività tipica del New Journalism e della
CNF.
Infine, il terzo requisito del nonfiction novel è il rispetto dell’accuratezza fattuale:
“What is reported . . . is as accurate as many hours of questioning, over and over
again, can make it. All of it is reconstructed from the evidence of witnesses”24 (63).
Completano il quadro alcuni requisiti tecnici necessari al nonfiction novelist: capacità
di trascrivere verbatim intere registrazioni senza l’ausilio di registratori né note,
attenzione per i dettagli – un’attenzione fotografica ma estremamente selettiva – e
capacità di empatizzare anche con persone molto diverse da sé.
In conclusione, New Journalism e nonfiction novel costituiscono due
esperienze di convergenza tra giornalismo e letteratura, anche se agiscono in
direzione opposta: Wolfe intende rinnovare il giornalismo attraverso le tecniche del
romanzo, Capote intende rinnovare il romanzo attraverso le tecniche del giornalismo.
Entrambe però concorrono ad accrescere la dignità letteraria del genere che oggi si
identifica con il nome di CNF.
1.3 Like jazz
Identificato il genere della
CNF
come campo d’indagine, si tratta ora di
individuare uno specifico oggetto di ricerca all’interno dei suoi confini. Potrebbe
essere utile disporre di una tassonomia dei vari sottogeneri afferenti alla
CNF,
ma –
come per il nome e la definizione – non vi è accordo in materia: ognuno propone la
propria classificazione e isola categorie diverse.
Studiosi, critici e autori sono però concordi nel considerare flessibilità e
versatilità proprio come caratteri peculiari della
CNF:
secondo Hesse, essa si
configura come “umbrella term for a host of loosely related genres” (19), Steinberg
ne definisce i confini “as fluid as water” (v) e Wallace la indica come “broad
category” (“Wallace’s syllabus”). Insomma, mutuando ancora una volta le formule
efficaci di Gutkind, il genere in analisi è come il jazz, “a rich mix of flavors, ideas,
and techniques” (“What is Creative Nonfiction?”).
della sua mente. Spesso ho pensato al libro in questo senso. Faccio il mio commento attraverso ciò che
scelgo di raccontare e come scelgo di raccontarlo”.
24
“Ciò che è riportato . . . è tanto preciso quanto molte ore di interviste, fatte e rifatte ripetutamente,
possono rendere. Tutto è ricostruito a partire da prove testimoniali”.
19
Lee Gutkind propone una tassonomia a due livelli. Il primo distingue tra
personal e public side: nel primo caso il testo propone “the writer’s particular story,
nobody else’s. The writer owns it” (ibid.), nel secondo si tratta soprattutto della storia
di qualcun altro, e di essa potenzialmente si può appropriare chiunque, a patto che
abbia voglia e tempo di scriverne. Altrove, Gutkind interviene con una precisazione:
“Writers (the first person) may be included, observing and commenting, but they are
generally not the protagonists, the primary subjects of their stories”25 (“#32”). La
presenza dell’Io dell’autore come carattere principe della
CNF
non è dunque mai
messa in discussione. Il ramo personal è identificato con il sottogenere del memoir
(ossia l’autobiografia), mentre il ramo public ha un’identità più confusa: in una prima
classificazione, Gutkind lo fa coincidere in toto con il sottogenere del literary
journalism, ma successivamente egli crea un ulteriore livello di ramificazione e
distingue tra partecipatory journalism (quando l’autore salta letteralmente all’interno
dell’azione, a mo’ di Hunter S. Thompson), profile essay (basato su un soggetto che
non sia l’autore, come una celebrità, un membro della famiglia, un amico), travel
essay (quando un luogo non fa solo da sfondo ma costituisce il “personaggio”
principale del saggio), personal essay (che non viene definito specificamente), e
personal polemic essay (in cui la storia è strumentale alla costruzione di
un’argomentazione, come accade nella prosa di Joan Didion o di David Foster
Wallace). Se il primo livello classificatorio può essere utile a chiarire il campo, la
tipologia interna al secondo non risulta del tutto accettabile, perché basata su criteri
eterogenei: nel caso del giornalismo il criterio è quello della presenza dell’autore, nel
caso dei vari tipi di saggio si distingue a partire dal subject. Peraltro, i due criteri non
sono mutualmente esclusivi (per esempio, un saggio di viaggio può includere il
coinvolgimento in prima persona dell’autore) e – come si è visto – il carattere
partecipativo costituisce un elemento fondante del genere tutto e non solo di una sua
specifica declinazione.
Douglas Hesse individua quattro sottogeneri della CNF: il memoir (o meglio il
literary memoir, che va distinto dalle autobiografie sensazionalistiche e invadenti di
tante celebrità, non di rado compilate da qualche ghost writer), l’essay (il sottogenere
iconico della CNF, la cui etimologia deriva dal francese essayer – “provare” nel senso
25
“Gli autori (la prima persona) possono essere presenti, osservando e commentando, ma
generalmente non sono i protagonisti, l’oggetto principale delle loro storie”.
20
di “dimostrare” – e identifica un’opera in cui si riconosce una mente al lavoro, un
pensiero in formazione, e per questo si caratterizza per una componente più
riflessiva, analitica e digressiva), il literary journalism (definito nel solco di Wolfe e
Capote come quel tipo di prosa giornalistica attenta allo stile quanto ai contenuti, e
caratterizzata dalla presenza dell’autore) e il place o travel writing (focalizzato
sull’elemento geografico, tipicamente una località esotica ma anche un luogo
familiare, a patto che si sia capaci di vederlo con occhi nuovi). Hesse ha il merito di
corredare la tipologia con esempi di autori e opere, ma è proprio lì che emergono le
debolezze della sua classificazione. È nuovamente riscontrabile un problema di
sovrapposizione dei sottogeneri, causato dall’individuazione di criteri diversi: il
subject per autobiografia e scrittura di viaggio, l’atteggiamento dell’autore per saggio
e giornalismo letterario. Per esempio, “Ticket to the Fair” di David Foster Wallace è
classificato come saggio, ma potrebbe rientrare senza problemi nella categoria del
giornalismo letterario (sia per l’evidente presenza dell’autore sia per la cura dello
stile) o in quella della scrittura di viaggio (essendo la prerogativa del testo proprio
quella di posare uno sguardo rinnovato e colmo di interesse su un luogo familiare per
un autore Midwestern come la fiera agricola del proprio Stato). Allo stesso modo
viene offerto un estratto di carattere fortemente geografico come esempio di
giornalismo letterario e non di scrittura di viaggio.
Altre tipologie sono quella proposta da Cristiano De Majo – uno dei rari
autori italiani dediti alla nonfiction (personal essay, liric essay, reportage, memoir,
autobiografia, biografia, indagine/inchiesta), da Michael Steinberg (personal essay –
che include a sua volta nature, environmental e travel writing – memoir, literary
journalism, personal cultural criticism), da David Foster Wallace (il cui catalogo, in
linea con lo stile dell’autore, è pressoché interminabile: personal essay, memoir,
profile, nature and travel writing, narrative essay, observational essay, general
interest technical writing, argumentative essay, general interest criticism, literary
journalism e via di seguito), e dal critico Barbara Lounsberry (memoir, biographies,
histoires, travelogues, essays, works of journalism, nature and science writing).
Al netto di questa folta selva tassonomica, sembrerebbe impossibile
districarsi e isolare uno specifico sottogenere. Eppure, con uno sguardo attento si
21
nota come tutte le classificazioni individuino, tra le altre, due aree interne al public
side della CNF :
- un’area legata al nuovo giornalismo, inteso come giornalismo attento allo
stile e caratterizzato dalla presenza dell’autore (in cui è possibile far confluire
le categorie indicate come partecipatory journalism, literary journalism,
indagine/inchiesta e works of journalism);
- un’area legata all’elemento geografico, e più in generale al viaggio (in cui è
possibile far confluire le categorie indicate come travel essay, place o travel
writing, reportage e travelogues).
L’ipotesi è che sia possibile ricomprendere entrambi gli elementi all’interno
di un unico concetto o sottogenere – quello di reportage narrativo – che andrà a
costituire l’oggetto della ricerca e sarà argomento di discussione nel paragrafo che
segue.
1.4 Il reportage narrativo
Il reportage narrativo condivide le sorti del genere cui appartiene: come la
CNF,
anch’esso vive una condizione di successo editoriale non accompagnata da
un’adeguata riflessione critica. Secondo Nicola Bottiglieri26 e Roberto Baronti
Marchiò27 le cause specifiche di tale stato sono da ricercarsi nella convinzione che si
tratti di un sottogenere della più “alta” letteratura di viaggio, nella sua natura
commerciale (non di rado i reportage narrativi compaiono a fianco di guide turistiche
o tra gli scaffali delle agenzie di viaggio), nei legami col giornalismo (intesi in senso
dispregiativo, come sintomo di carattere effimero dei temi trattati e di mancanza di
qualità letteraria), nell’ambiguità stilistica e nel costitutivo ibridismo (elemento
centrale di cui si tratterà più diffusamente in seguito) (Bottiglieri 7; Baronti Marchiò
51-53).
26
Nicola Bottiglieri è scrittore, viaggiatore e professore di Lingua e Letterature ispanoamericane
all’Università di Cassino. Si è occupato di viaggi reali e immaginari nell’oceano Atlantico e ha scritto
numerosi saggi sulla letteratura latinoamericana contemporanea. In questo paragrafo si fa specifico
riferimento alla sua nota introduttiva agli Atti del Convegno Camminare scrivendo. Il reportage
narrativo e dintorni (9-10 dicembre 1999), volume da lui curato.
27
Roberto Baronti Marchiò insegna Letteratura inglese presso l’Università di Cassino. Si occupa
principalmente di modernismo e postmodernismo con una particolare attenzione per le avanguardie
artistiche e letterarie. Suo l’intervento cui si fa riferimento in questo paragrafo, dal titolo “Journey
Without Maps: il reportage narrativo”, rinvenibile all’interno del volume curato da Bottiglieri.
22
Non disponendo neanche in questo caso di definizioni suffragate
dall’accademia o dalla critica, si può tentare di identificare il concetto di reportage
narrativo a partire dagli elementi caratterizzanti ipotizzati, l’elemento del
giornalismo e quello del viaggio. Riguardo al primo, è evidente la filiazione del
reportage narrativo dal reportage di giornale, ossia dalla forma più nobile di
giornalismo. Si definisce reportage:
Un ampio pezzo che ha per oggetto una notizia già diffusa . . . Rispetto alla notizia, il
reportage procede per dilatazione, non per aggregazione: si prende un fatto o un particolare di
un fatto e lo si trasforma in una storia, dilatandone i confini, scavando in profondità . . .
sfruttando le capacità di scrittura del giornalista. La chiave del reportage è di portare il lettore
a fuoco nella vicenda. (Papuzzi 48, 49)
Molte di queste caratteristiche si ritrovano nel reportage narrativo: l’ampiezza
di respiro sia in senso orizzontale (dilatazione) sia in senso verticale (profondità), la
narratività, la cura dello stile, la ricerca della sensazione del be there, già rilevata da
Wolfe. Secondo Bottiglieri, i due tipi di reportage condividono anche la centralità
tematica dell’esperienza del viaggio e non di rado vivono in un rapporto di
sequenzialità, cioè spesso accade che l’uno funga da intertesto per l’elaborazione
dell’altro, il macrotesto derivante (8-9). Chiariti i punti di contatto, non vanno
sottovalutate le specificità, ossia i tratti che concorrono a distinguere il reportage
narrativo – opera di uno scrittore-reporter – dal reportage di giornale – opera di un
“semplice” cronista. Bottiglieri individua cinque criteri e altrettante differenziazioni:
l’elemento quantitativo e il tipo di architettura testuale conseguente (brevità vs
ampiezza e grado maggiore di strutturazione), il rapporto con il tempo (subject di
interesse contingente vs subject di interesse duraturo, come già aveva inteso Capote),
la base materiale (giornale o rivista vs libro vero e proprio, anche se tale criterio è
fortemente opinabile), la narratività (non necessaria vs imprescindibile), la
letterarietà dello stile (idem).28 Tra tutti, è chiaro che il distinguo principale sia quello
legato alla narratività, carattere determinante come il nome stesso del sottogenere –
reportage narrativo – interviene a ricordare: Bottiglieri insiste a ragione sul valore
aggiunto assicurato dalla presenza nel testo di “un progetto diegetico letterario, ossia
28
Riguardo allo stile, Bottiglieri aggiunge che entrambi i tipi di reportage si servono dello strumento
della rapidità, di calviniana memoria, anche se nel caso del reportage narrativo la valenza è meno
imperativa, nel senso che questi non ha da essere “rapido” a tutti i costi, essendo più importante che si
conformi al ritmo specifico dell’esperienza di cui racconta.
23
di una idea narrativa forte che inglobi il materiale accumulato e lo trasformi in un
racconto” (9).
In secondo luogo, un reportage narrativo non può dirsi tale se non contiene un
viaggio da raccontare. Lo scrittore-reporter è prima di tutto un viaggiatore. Tale
fondamentale esperienza, ancora secondo Bottiglieri, si compone di tre azioni:
andare, vedere e raccontare. Lo scrittore-reporter è colui che scrive con lo sguardo,
che trasforma la visione in parola (11). La ricchezza di un viaggio – e con essa di un
reportage narrativo – è tale perché comprende innanzitutto una dimensione empiricoconoscitiva (andare, vedere): osservare con i propri occhi, esplorare, conoscere,
immergersi, capire, e non importa quanto la meta sia vicina o lontana. Non meno
apprezzabile è la dimensione comunicativa (raccontare): lo scrittore deve tenere in
costante considerazione il proprio lettore implicito – non più un membro dell’élite
ma un nuovo lettore-massa nato insieme alla figura del turista – e deve essere capace
di portarlo sulla scena, di fronte all’evento. Infine, la dimensione esemplare: un
reportage narrativo è riuscito se da un frammento di realtà è possibile cogliere un
disegno più complessivo, se dall’elemento geografico si riesce a risalire a quello
sociale, finanche antropologico. Infine, l’elemento del viaggio avvicina il reportage
narrativo alla letteratura odeporica. Al di là della condivisione del tema, i due generi
sono invero ben distanti: il romanzo di viaggio ha una fabula (ossia una trama data
dalla successione temporale e causale degli eventi) e dunque è “chiuso”,
diversamente dicasi per il reportage narrativo, la cui trama è data solo dalla strada, e
pertanto è “aperto”. In più, il primo si colloca sul piano dell’invenzione (è perlopiù
un viaggio di fantasia, dentro la mente), il secondo su quello della realtà (è un
viaggio vero e proprio, fuori e nel mondo).
Dall’analisi condotta a partire dai primi due, emerge con chiarezza un terzo
elemento caratterizzante. Il reportage narrativo è un genere ibrido: in esso si
combinano e fondono giornalismo e romanzo, fact e fiction, mimesi e invenzione,
oggettività e soggettività. Tale condizione lo rende un “genere privo di statuto
estetico definito” (La Porta, “Il contatto ustionante”) ed è problematica perché
“ripropone e rinnova l’annosa questione del rapporto tra realismo e scrittura”
(Baronti Marchiò 53). In altri termini, si può fare della letteratura scrivendo della
realtà? Secondo Baronti Marchiò, il reportage narrativo ha avuto proprio il merito di
24
riabilitare il realismo nella scrittura dopo le derive autoreferenziali della stagione
strutturalista e post strutturalista (54). Il rapporto è stato però ristabilito in termini più
complessi: in primo luogo, la mera registrazione dei fatti non può più essere assunta
a giustificazione sufficiente; occorre andare oltre ad essi e produrre una conoscenza
più profonda, in cui ci si mette in gioco in prima persona. Inoltre, la realtà non è più
intesa come fonte di una verità oggettiva – perciò assoluta – ma come fonte di tante
verità soggettive – se non relative, almeno umane. Non c’è una verità dietro ai fatti,
ma solo quella sempre parziale dello scrittore-reporter, il punto di vista suo e di tutti
coloro che incontra. Come chiarisce Baronti Marchiò, “la grandezza di un reportage
narrativo non risiede nella sua pretesa fedeltà ai fatti, ma nella originalità del
percepire e del raccontare quei fatti stessi” (57). Insomma, l’ibridismo del reportage
narrativo – lungi dal costituire una tara – va inteso come punto di forza, perché
conduce alla ricomposizione di un equilibrio tra oggettivo e soggettivo, reale e
immaginario. Forse questa è la via da perseguire per superare la crisi attraversata dal
romanzo, per fronteggiare la crescente perdita di interesse nei confronti di una
letteratura esclusivamente immaginativa o autoreferenziale: “Sembra che nel nostro
tempo la letteratura si possa trovare al di fuori del concetto tradizionale di letteratura,
lì dove la realtà non viene inventata ma descritta, con sincerità, schiettezza, ed anche
con un po’ di immaginazione” (59).
A questo punto, è possibile ricapitolare le dimensioni costitutive del reportage
narrativo inteso come sottogenere della CNF:
- dimensione geografica (e – per estensione – dimensione sociologica e
culturale), il reportage narrativo come ritratto di un luogo e di chi lo abita;
- dimensione narrativa, il reportage narrativo come storia e racconto, ossia
come sequenza di eventi correlati tra loro secondo una qualche logica, posti
in successione in modo strutturato;
- dimensione oggettiva/dimensione soggettiva, il reportage narrativo come
racconto della realtà dal punto di vista dell’autore (o di un personaggio),
come inquadratura che include anche “l’ombra del cameraman” (Latronico);
- dimensione giornalistico-informativa, il reportage narrativo come servizio
offerto al lettore, che conosce ed esplora il mondo attraverso l’esperienza di
un altro, come viaggio virtuale compiuto restando seduti sulla propria sedia;
25
- dimensione stilistica, il reportage narrativo come oggetto estetico, curato
nella letterarietà e nello stile.
Di seguito si concentrerà l’attenzione sul reportage narrativo nordamericano
contemporaneo, intendendo con questa formula non solo la limitazione del campo
all’opera di matrice statunitense ma anche – in coerenza con la dimensione
geografica individuata – la considerazione esclusiva di reportage in cui l’autore si
dedica all’esplorazione del proprio paese, in cui inaugura o approfondisce la
conoscenza di un qualche luogo entro i pur enormi confini nazionali. Inoltre, la
selezione dei reportage sarà operata a partire dai tardi anni Sessanta, con riguardo
particolare per la produzione più recente, vale a dire degli ultimi venti o trent’anni.
Operata questa prima scrematura, il campo risulta ancora piuttosto vasto,
comprendendo – tra gli altri – i reportage di Tom Wolfe, Hunter S. Thompson,
Norman Mailer, Gay Talese, John McPhee, Joan Didion, Annie Dillard, Jon
Krakauer, Susan Orlean, William Langewiesche, Philip Gourevitch, David Foster
Wallace, Sarah Vowell, George Saunders, Dave Eggers, John Jeremiah Sullivan.
Nella consapevolezza che una trattazione complessiva ed esauriente dell’intero
panorama esuli dalle ambizioni del presente lavoro, si è optato per una soluzione
tematica: nel prossimo capitolo si individuerà cioè un tema, dunque si
selezioneranno i testi pertinenti, che saranno sottoposti ad analisi.29 Sarà come
estrarre un gomitolo da un’immaginaria sacca da cucito e provare a dipanarne il filo,
creando un percorso – uno solo tra i tanti possibili – all’interno del variegato mondo
del reportage narrativo e, con esso, anche nella geografia reale e letteraria degli Stati
Uniti d’America.
29
È chiaro che un’ulteriore selezione si dà per via “obbligata”, dovendo limitarsi a reportage narrativi
tradotti e pubblicati in Italia.
26
Capitolo secondo
LUCI E OMBRE DEL SOGNO AMERICANO
2.1 L’American sadness
In un’intervista del 1996 per Salon,30 Laura Miller domanda a David Foster
Wallace quali intenzioni lo abbiano spinto a cominciare il suo nuovo libro. Wallace
risponde così: “I wanted to do something sad”. E continua: “I wanted to do
something real American, about what it’s like to live in America around the
millennium”31 (Miller). Quando la giornalista chiede come ci si senta a vivere negli
Stati Uniti alle porte del nuovo millennio, lo scrittore chiama di nuovo in causa la
tristezza: “There’s something particularly sad about it”; quindi conclude dicendo:
“The sadness that the book is about, and that I was going through, was a real
American type of sadness”.32
Un genere di tristezza veramente americano. David Foster Wallace si
riferisce al tema di Infinite Jest, ma si trovano indizi di questa tristezza anche tra le
pagine di molti reportage narrativi. Nei loro testi, gli autori non solo raccontano di un
paese diverso e lontano da quello mediatizzato, dall’immagine classica degli Stati
Uniti e dell’American way of life; non solo propongono un ritratto critico e
imprevisto. Più radicalmente, essi intendono comunicare al lettore uno stato di
malessere, un disagio più o meno latente, quasi a volergli dire: “Questi siamo noi, gli
30
L’intervista è stata ripubblicata nel 2012 all’interno della raccolta Conversations with David Foster
Wallace, curata da Stephen J. Burn. In Italia, il volume è stato pubblicato nel 2013 col titolo Un
antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni.
31
“Volevo scrivere qualcosa di triste”. “Volevo scrivere qualcosa di veramente americano, parlare di
come ci si sente a vivere in America alle porte del nuovo millennio” (trad. M. Testa).
32
“C’è un che di particolarmente triste”. “La tristezza di cui si occupa il libro, e che stavo vivendo io,
era un genere di tristezza veramente americano” (trad. M. Testa).
27
Stati Uniti d’America. E c’è qualcosa che non va”. In effetti, c’è qualcosa che non va
in due disgraziati che uccidono “a sangue freddo”, così come nelle prostitute e negli
skinhead che popolano i bassifondi delle grandi città, o nelle tendopoli costruite ai
margini della prospera costa californiana. Ma c’è qualcosa che non va anche – e forse
soprattutto – nel rancore omicida covato in seno alla classe media, nella deriva dei
privileged American colti mentre organizzano spontanee ronde anti immigrazione a
tutela dei patri confini, o mentre si “divertono” su crociere extra-lusso; e ancora,
qualcosa non va nelle forme grottesche della ricreazione di massa alle fiere statali, a
Disneyworld, a festival musicali rigorosamente bianchi o a serate di celebrazione
estatica di reduci da reality.
A questo punto si può notare come questa tristezza, quest’ombra incombente
sul sogno americano, riguardi tanto la narrazione relativa agli inclusi (o supposti tali)
quanto quella relativa agli esclusi. Inclusione ed Esclusione sono due assi ancora ben
riconoscibili nella società americana, nonostante le professioni di egualitarismo e la
retorica del melting pot. Si può allora ipotizzare di assumerli come categorie
d’analisi per indagare l’American sadness, per riconoscerne aspetti specifici ed
elementi di trasversalità.
Le storie raccontate nei reportage narrativi permettono di spingersi oltre, e di
osservare la declinazione peculiare dell’American sadness anche nel punto più
delicato, ossia alla convergenza dei due assi. Quando il mondo degli inclusi e quello
degli esclusi collidono può succedere di tutto: la tristezza può assumere tinte tanto
fosche da volgere in malattia, il cono d’ombra estendersi fino a trasformare il sogno
in un incubo. Oppure, lo scontro può diventare incontro, occasione di conoscenza e
di revisione della reciproca distanza. Forse è proprio a questo punto che l’America
dovrebbe concentrare lo sguardo per cominciare a guarire la propria tristezza, e per
ritrovare la pienezza del fascino che pure non ha mai smesso di esercitare.
28
2.2 Un precedente illustre
In Cold Blood – il nonfiction novel di Truman Capote33 dato alle stampe nel
gennaio 1966 – non può essere certo inteso come un’opera contemporanea, specie
considerando che i fatti cui l’autore fa riferimento risalgono a un periodo ancora
anteriore, ossia al novembre del 1959. D’altra parte, il romanzo-verità di Capote
costituisce un riferimento storico imprescindibile, come si è intervenuti a ricordare
nel primo capitolo. Siamo al cospetto del precedente per antonomasia, della “pietra
miliare della non-fiction del Novecento, il modello assoluto” (Raimo). Ma le ragioni
soggiacenti alla scelta di includere l’opera di Capote nel corpus testuale della
presente trattazione non sono da ricercarsi nel mero ossequio al suo valore storico.
Esse hanno piuttosto a che fare con la pertinenza del testo per l’analisi che si intende
condurre, tanto sul piano formale quanto su quello tematico. In primo luogo, In Cold
Blood è a pieno titolo qualificabile come reportage narrativo, essendo nel testo
riconoscibili tutte le dimensioni costitutive del genere: geografica e informativa (il
Kansas e i suoi abitanti, ma anche un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti),
narrativa e stilistica (l’applicazione delle tecniche della fiction a un fatto di cronaca e
una prosa godibilissima a livello estetico), oggettiva e soggettiva (specie in
riferimento allo statement di Capote circa una totale accuratezza fattuale, con lo
strascico di polemiche che ne sono seguite). Inoltre, indubbia è la pertinenza
33
Truman Capote (1924 - 1984) nasce a New Orleans e cresce a Monroeville (Alabama), dove si
trasferisce dopo il divorzio dei genitori. La madre gli fa visita occasionalmente e il padre non si cura
di lui. L’infanzia e l’adolescenza sono poco felici, anche a causa di un’eccentrica fantasia e di modi
effeminati che lo allontanano dai compagni. Suoi unici conforti sono l’amicizia con Harper Lee e il
sostegno di un’insegnante del college, che ne riconosce e stimola il talento. Capote divora libri a ritmo
frenetico e all’età di dodici anni dimostra una preparazione letteraria degna di un adulto. Terminati gli
studi si trasferisce a New York, deciso ad avvicinarsi al mondo del giornalismo. Trova un impiego
come fattorino per The New Yorker, ma viene licenziato per essersi spacciato per giornalista. Inizia a
pubblicare racconti per alcune riviste: con uno di essi, “Miriam”, ottiene un inaspettato successo, che
gli apre le porte dei salotti della città. È l’inizio di una vita da protagonista del jet-set internazionale,
che lo porterà a stringere amicizia con personaggi famosi e lo renderà celebre in tutto il mondo, anche
per via dei modi da dandy e della dichiarata omosessualità. In pochi anni si afferma come scrittore:
compone i romanzi Other Voices, Other Rooms (1948), The Grass Harp (1951), Breakfast at Tiffany’s
(1958), oltre a raccolte di racconti, pezzi di nonfiction e sceneggiature. Dopo sei anni di minuziose
ricerche, nel 1965 esce a puntate il romanzo-verità In Cold Blood, pubblicato integralmente l’anno
successivo. L’opera consacra Capote come icona degli anni Sessanta, ma segna anche l’inizio del suo
declino. Lavora a un nuovo romanzo dedicato ai retroscena del jet-set – Answered Prayers: The
Unfinished Novel, pubblicato postumo nel 1986 – che gli procura crescenti inimicizie. Droga e alcol
accompagnano gli ultimi anni di vita dello scrittore, dimenticato da quasi tutti gli amici e abbandonato
da Jack Dunphy, suo compagno di sempre. Le condizioni di salute peggiorano rapidamente,
nonostante ripetuti tentativi di disintossicazione. Muore di cirrosi epatica all’età di 59 anni, mentre si
trova a Bel Air, ospite di una delle sue amiche più fedeli.
29
dell’opera relativamente al tema individuato: le pagine di In Cold Blood raccontano
le “tristezze” degli inclusi come quelle degli esclusi, colgono l’opposizione in cui
giacciono questi due mondi e – soprattutto – mostrano cosa accade al momento della
loro convergenza, quando per ironia della sorte accade che i due estremi collidano.
Prima di avviare l’analisi, è d’obbligo un breve richiamo all’occasione che ha
dato avvio alla stesura dell’opera. Formulata la teoria relativa al nuovo genere del
nonfiction novel, Capote si dedica alla ricerca del subject adatto per creare il suo
primo romanzo-verità. Dopo alcuni tentativi falliti, il mattino del 15 novembre 1959
si imbatte in un titolo del New York Times: “Wealthy Farmer, Three of Family
Slain”. È una notizia breve, nascosta nelle ultime pagine del quotidiano: Herbert W.
Clutter, sua moglie e due figli sono stati brutalmente e misteriosamente assassinati
nella loro tenuta in una zona remota del Kansas. Capote rimane istintivamente
colpito dalla notizia: “I didn’t select this Kansas farmer and his family; in a very real
sense, they selected me”34 (“Playboy Interview” 58). Una chiamata a William Shawn
– suo direttore al New Yorker – e tre giorni dopo lo scrittore si ritrova a Holcomb,
Kansas occidentale. L’intenzione è quella di scrivere un normale reportage
giornalistico, ma le cose vanno diversamente: Capote trascorrerà tra il Kansas e New
York i successivi cinque anni della sua vita, accumulando una mole enorme di
materiale (documenti, interviste, lettere, atti processuali, articoli di giornale) e
conoscendo a fondo tanto la comunità locale quanto gli artefici della strage, una volta
incarcerati. Il risultato vedrà la luce nell’autunno del 1965, in quattro puntate sulle
pagine del New Yorker, e sarà pubblicato in volume per Random House nel gennaio
dell’anno successivo. Per Capote sarà un successo senza precedenti, ma anche
un’esperienza devastante sul piano umano e artistico, tanto che In Cold Blood rimane
l’ultimo romanzo che l’autore abbia portato a termine.
La trama di In Cold Blood è riassunta nel sottotitolo: A True Account of a
Multiple Murder and Its Consequences.35 Il romanzo è strutturato in quattro “parti” –
come vengono definite dall’autore – di ampiezza uniforme. Nella prima si racconta la
scoperta dell’omicidio della famiglia Clutter. Da bravo giornalista, Capote applica la
regola delle Five Ws, e nel paragrafo di apertura rivela Where, When e What della
34
“Non ho scelto questo agricoltore del Kansas e la sua famiglia; nel vero senso della parola, sono
loro ad aver scelto me”.
35
Un racconto veritiero di un omicidio multiplo e delle sue conseguenze.
30
vicenda. Come giallista, egli si dimostra ben più anomalo, suggerendo al lettore
anche Who, ossia chi siano gli autori del quadruplice omicidio. Essendo anche un
romanziere, Capote svela il mistero con fine maestria: buona parte del primo capitolo
consiste infatti in una narrazione alternata del giorno precedente la strage, vissuto
dalle future vittime nella loro tranquilla vita di provincia e dagli assassini nella
meticolosa
preparazione
del
“colpo”.
Solo
alcuni
indizi
–
brevi
ma
straordinariamente efficaci – segnalano esplicitamente al lettore ciò che sta per
accadere. L’alternanza nella narrazione procede a ritmo sempre più serrato al fine di
creare la suspense necessaria per il momento di climax, quello della convergenza
delle due vicende fin qui parallele. Sul più bello, Capote interviene operando
un’ellissi: il lettore lascia i rapinatori a notte fonda sul punto di irrompere nella
tenuta dei Clutter e ritrova la famiglia assassinata il mattino successivo. La seconda
parte riguarda la fase iniziale dell’investigazione sul caso, quella in cui i colpevoli
risultano ancora “Persone sconosciute”. In questa sezione, la narrazione alterna tre
vicende: la fuga degli assassini verso il Messico, l’avvio delle indagini e le reazioni
degli abitanti di Holcomb all’inaspettata tragedia. La terza parte segna il compimento
della detective story, l’ottenimento di una “Risposta”: anche la polizia scopre che i
colpevoli rispondono ai nomi di Dick Hickock e Perry Smith. Capote ripropone la
narrazione a due, alternando il racconto del peregrinare sempre più disperato degli
assassini (che nel frattempo hanno fatto ritorno negli Stati Uniti) e quello dello
sviluppo delle indagini. Si creano così i presupposti per una nuova convergenza:
questa volta le aspettative non sono frustrate e Capote racconta senza omissioni il
momento della cattura e dell’arresto dei due. Il resoconto delle confessioni di poco
successivo è funzionale al recupero dell’ellissi della prima sezione: le attese sono
ripagate e il lettore scopre l’How degli omicidi fin nei minimi dettagli. È il momento
apicale della narrazione. La quarta e ultima parte racconta il processo, la condanna,
la detenzione e infine l’esecuzione degli assassini. La narrazione ritrova una piana
linearità: la storia è solo una, così come solo una delle Five Ws manca all’appello, il
Why. Capote si dedica integralmente all’indagine delle motivazioni profonde di un
delitto tanto efferato e apparentemente inspiegabile, “l’indagine criminale passa la
mano a quella sociale che a sua volta passa la mano a quella di teodicea: perché
questo male?” (Raimo).
31
L’opera di Capote ha dato impulso a un’autentica mole di studi critici,
ricerche e trattazioni. La maggior parte degli interventi ha come oggetto la questione
dell’accuratezza fattuale di In Cold Blood, ossia intende determinare se
effettivamente Capote abbia riportato la realtà sulla pagina o se abbia manipolato
parte di essa al fine di perseguire i propri intenti estetici e comunicativi. Simili
interrogativi proseguono a lungo e in generale includono la proposizione di una
questione etica, relativa al trattamento della “verità” da parte dello scrittore. È una
quest determinata dallo stesso Capote, come da più parti si è intervenuti a
sottolineare: “By insisting that ‘every word’ of his book is true, he has made himself
vulnerable to those readers who are prepared to examine seriously such a sweeping
claim”36 (Tompkins). Autoproclamando la sua prosa come “immaculately factual”
(Plimpton 48) e ribadendo lo statement fin nel sottotitolo, lo scrittore si vincola ad
aderire alla sua stessa asserzione di verità. Inoltre, è bene specificare come
l’accuratezza sia viziata alla radice dal peculiare metodo cui ricorre l’autore, che non
produce prova documentaria (né registrazioni né note in presa diretta) e di cui egli
stesso ammette le debolezze.37 Infine, la stessa assenza di Capote sulle pagine di In
Cold Blood può essere considerata come limite all’accuratezza del testo, o più latu
sensu alla sua presunzione di oggettività, come ricorda lo scrittore Emmanuel
Carrère in un’intervista: “Da quel libro [Capote] ha cancellato una cosa enorme: il
fatto che dopo la carcerazione, per quattro o cinque anni, è stato la persona più
importante nella vita dei suoi protagonisti” (Latronico).
L’invocazione di accuratezza e oggettività “assolute” conduce a ignorare
un’assunzione ormai nota, quella per cui non esiste verità senza interpretazione:
“Facts do not speak for themselves” – insegna la sociologia – ma il principio vale
anche per la nonfiction. Non a caso, l’ibridismo è stato individuato come elemento
distintivo del genere del reportage narrativo, entro cui si colloca anche In Cold
Blood. La pura oggettività è una chimera che abbaglia per primo lo stesso Capote. In
36
“Insistendo che ‘ogni parola’ del suo libro sia vera, egli si è reso vulnerabile nei confronti di quei
lettori preparati a ispezionare seriamente un’affermazione così radicale”.
37
Capote riferisce che le sue capacità di memorizzazione non raggiungono mai l’esattezza:
nell’intervista con Plimpton, egli sostiene di poter ricordare il novantacinque percento di una
conversazione (54), altrove la percentuale dichiarata è minore. A tal proposito, lo stesso Plimpton
insinua ironicamente un dubbio circa le capacità mnemoniche di Capote: “He could recall everything
but he could never remember what percentage recall he had” [“Poteva memorizzare tutto, ma non
ricordava mai che percentuale di memorizzazione avesse”] (“Some Thoughts on Capote”).
32
secondo luogo, non bisogna dimenticare che In Cold Blood è anche un romanzo, e
che lo stesso atto di trasposizione dei fatti in forma narrativa implica un loro
trattamento, per quanto si cerchi di rendere tale intervento il più neutrale possibile.
Capote non giustappone documenti ma ri-costruisce scene, dialoghi e personaggi.
Infine, è necessario superare la questione dell’accuratezza anche a proposito di
un’opera di nonfiction, altrimenti si rischia di esaurire l’analisi alla determinazione
millimetrica del grado di conformità del testo alla realtà degli eventi, tralasciando
tutto il resto. I fatti sono solo i referenti esterni, punti di partenza e non d’arrivo. Il
valore letterario – l’artistry – dell’opera di Capote non va dunque ricercato tout court
nell’aderenza ai fatti, ma nella tecnica narrativa costruita e nel calibro dei temi
trattati a partire da essi.
I principali devices narrativi rinvenibili tra le pagine di In Cold Blood sono i
seguenti: uso esteso del dialogo e del monologo interiore, per conferire intensità e
appeal alla narrazione; caratterizzazione dei personaggi e, in particolare, rilievo al
rapporto tra aspetti fisici e psicologici; descrizioni fotografiche e uso artistico del
dettaglio attraverso la selezione, la composizione e la reiterazione dei particolari più
evocativi; drammatizzazione, ossia narrazione dei fatti mediante scene brevi e
cinematografiche; ampio ricorso al parallelo narrativo e uso della transizione per
restituire unitarietà al racconto alternato; ellissi, flashback e anticipazioni;
focalizzazione zero – ossia punto di vista onnisciente, con possibilità di accesso
anche ai pensieri dei personaggi – e narratore eterodiegetico, che non partecipa alla
storia che racconta; uso di figure retoriche quali metafora, similitudine e ironia
(Mass). Un’attenzione particolare va rivolta all’uso del simbolo, dispositivo tecnico
interessante perché funzionale alla messa in rilievo dei temi: Capote eleva alcuni
dettagli a simboli, correlativi oggettivi dei significati più profondi che intende
comunicare. Si pensi alla scena dei gatti randagi osservata da Perry Smith dalla
finestra della sua cella, equivalente perfetto della vita di stenti dei due assassini:
“Due scheletrici gatti grigi che comparivano ogni giorno al crepuscolo e
perlustravano la piazza, fermandosi a esaminare le auto in sosta . . . cercando gli
uccelli finiti contro il radiatore delle auto” (Capote, A sangue freddo 303-304). Tanta
è l’esattezza dell’immagine che pare impossibile non considerarla come prodotto
33
dell’invenzione; eppure, Capote non crea, ma riconosce e seleziona nella realtà
grazie a uno sguardo straordinariamente vigile e consapevole.
Lo storico del literary journalism Ronald Weber chiarisce il rapporto tra fatti,
tecniche e contenuti: “Through selection, arrangement, emphasis, and other literary
devices, [Capote] discovers some meaning or theme in his factual materials. The
difference is between journalism and art”38 (citato in Mass). Allo stesso modo, il
critico David Galloway aveva già notato come “The book which grows from years of
painstaking research is a social document of undeniable significance. It is also a
major work of literature in its own right, for only a writer of exceptional talent could
so skillfully have directed our attention to the larger issues which rest behind the
‘facts’ of the case”39 (citato in Mass). Si parla di significati, temi, documento sociale,
questioni più ampie; in generale, si allude alla capacità di Capote di trascendere i
fatti, di comprenderli e superarli per cogliere elementi di più largo respiro. Inoltre, si
evidenzia la portata dei temi trattati nel testo: dai meri fatti di un omicidio in un
paesino sperduto del Kansas è possibile risalire a considerazioni sociologiche, o
addirittura a questioni etiche universali. Tanta densità emerge già dal catalogo dei
temi rinvenibili nell’opera: il conflitto di classe, la mentalità criminale, la violenza, la
pena di morte, il confine tra bene e male, il rapporto tra sanità e follia, ma anche il
tema del viaggio, dell’omosessualità, della guerra fredda.
In questa sede non si indagheranno in toto tali tematiche, ma si concentrerà
l’analisi sul tema dell’American sadness. Ci si collocherà pertanto su un livello
intermedio tra particolare e universale, considerando il valore di In Cold Blood in
rapporto a questioni squisitamente americane, come lo è prima di ogni altra quella
relativa al sogno americano e alle sue “tristezze”.
38
“Attraverso selezione, composizione, enfasi, e altri dispositivi letterari, [Capote] scopre significati o
temi nel suo materiale basato sui fatti. La differenza è quella tra giornalismo e arte”.
39
“Il libro nato da anni di scrupolosa ricerca è un documento sociale di indiscutibile valore. Inoltre, è
a pieno titolo una considerevole opera di letteratura, perché solo uno scrittore di eccezionale talento
avrebbe potuto dirigere così abilmente la nostra attenzione verso le questioni più ampie che giacciono
dietro ai ‘fatti’ del caso”.
34
2.3 L’American sadness di In Cold Blood
In The Epic of America (1931) James Truslow Adams definisce il sogno
americano “a dream of social order in which each man and each woman shall be able
to attain to the fullest stature of which they are innately capable, and be recognized
by others for what they are, regardless of the fortuitous circumstances of birth or
position"40 (404). Negli Stati Uniti degli anni Sessanta – gli Stati Uniti di In Cold
Blood – sembra essere rimasto ben poco di quel sogno: il testo di Capote ne coglie
una realizzazione assai problematica, se non un autentico fallimento. Ombre molto
scure si allungano sul sogno americano, gli Stati Uniti sono un paese “triste”, lontano
da quello prefigurato dai padri fondatori.
Anche alcuni critici propongono una lettura di In Cold Blood entro il tema
dell’American Dream e del suo rovesciamento, a cominciare da David Galloway:
“One unifying theme – the metamorphosis of dream into nightmare – returns again
and again to haunt the reader’s imagination”41 (citato in Mass). Più estesamente
interviene Tony Tanner su The Spectator già nel 1966. Egli riconosce nell’opera di
Capote l’indagine del contrasto interno alla società americana, intendendolo come
sintomo del fallimento dell’American Dream:
By juxtaposing and dovetailing the lives and values of the Clutters and those of the killers,
Capote produces a stark image of the deep doubleness in American life. For here is a ‘true’
parable of the outlaw against the community; the roving life of random impulse cutting
across the stable respectability of continuous ambition; the gangster versus the family man. It
is many other things as well. Dangerous footloose dreamers intruding on sober industrious
farmers; the maimed and lethal throwouts of society pouncing, as from a black nowhere, on
to the prosperous pillars of the community; the terrible meeting of the cursed and the blessed
of America. Perhaps most graphically it is a collision between the visible rewards and the
suppressed horrors of American life which resulted in four people splattered all over their
imposing ‘lovely home’ and two more hanging from the gallows. It is the American dream
turning into an American nightmare.42 (Tanner)
40
“Un sogno di ordine sociale in cui ogni uomo e ogni donna possano ottenere il massimo permesso
dalle loro innate capacità, ed essere riconosciuti dagli altri per ciò che sono, indipendentemente da
fortuite circostanze di nascita o posizione”.
41
“Un tema unificante – la metamorfosi del sogno in incubo – ritorna più e più volte a perseguitare
l’immaginazione del lettore”.
42
“Giustapponendo e facendo combaciare le vite e i valori dei Clutter e quelli degli assassini, Capote
crea un’immagine cruda della profonda doppiezza dell’America. Perché qui si racconta una ‘vera’
parabola del fuorilegge contro la comunità; il girovagare secondo un impulso casuale che collide con
la solida rispettabilità dell’ambizione costante; il gangster contro l’uomo di famiglia. Si raccontano
anche molte altre cose. Sognatori nomadi e disperati entrano clandestinamente nella vita di agricoltori
sobri e operosi; i menomati e letali reietti della società che piombano, come dal nulla, sulle prospere
fondamenta della comunità; l’incontro terribile tra i dannati e i benedetti dell’America. Forse, più
graficamente, si tratta della collisione tra ricompense visibili e orrori occulti dell’America, che si
35
Lo stesso Capote attesta la possibilità di concepire il romanzo nei medesimi
termini. Pur non citando esplicitamente l’American Dream, l’autore sottolinea la
pericolosità della convergenza dei poli creatisi a partire dal sogno. A proposito della
ricezione di In Cold Blood, egli riferisce a George Plimpton: “About 70 percent of
the letters think of the book as a reflection on American life – this collision between
the desperate, ruthless, wandering, savage part of American life, and the other, which
is insular and safe, more or less. It has struck them because there is something so
awfully inevitable about what is going to happen”43 (67). Ancora più illuminanti le
parole rinvenibili nell’intervista del 1968 per Playboy:
This contrast does exist, and even though I didn’t start out on the book with any preconceived
theme . . . this gulf between victim and murderer became so intriguing that it was one of the
major factors behind my decision to invest years of time and effort in the book. The contrast
was so exaggerated that it became symbolic in a kind of text-book fashion. Here you have the
Clutter family on one hand – such a perfect prototype of the good, solid, landed American
gentry . . . – and on the other hand you have Hickock and Smith, particularly Smith,
representing the dangerous psychotic element, empty of compassion or conscience. And
these two extremes mated in the act of murder. The Clutter family and Hickock and Smith do
represent the opposite poles in American society . . . Of course in Perry’s case – and in the
case of the thousands like him – the arbitrary act of violence springs from the poverty of his
life, its deep insecurity and emptiness. That doesn’t excuse what he did, of course, but it does
help to explain it. In a way, all this had to happen; there was a quality of inevitability about it.
Given what Perry was, and what the Clutters represented, the only possible outcome of their
convergence was death.44 (“Playboy Interview” 62)
A un primo sguardo, il mondo degli inclusi pare esente dall’American
sadness. Nelle pagine iniziali, Capote propone anzi un ritratto idilliaco del paesaggio
di Holcomb e dei suoi abitanti. Siamo al centro esatto degli Stati Uniti continentali,
conclude con quattro persone spiaccicate per tutta la loro grandiosa ‘bella casa’ e altre due impiccate
sulla forca. Si tratta del sogno americano che si trasforma in un incubo”.
43
“Circa il 70 percento delle lettere concepisce il libro come un riflesso dell’America – di questa
collisione tra la parte disperata, spietata, errante, selvaggia dell’America, e l’altra, che è chiusa e al
sicuro, più o meno. Il libro li ha colpiti perché c’è qualcosa di terribilmente inevitabile in ciò che è in
procinto di accadere”.
44
“Il contrasto esiste, e anche se non ho cominciato il libro con un tema preconfezionato . . . questo
abisso tra vittima e carnefice è diventato così affascinante da costituire una delle principali ragioni
della mia decisione di investire anni di tempo e sforzo nel libro. Il contrasto era così esagerato da
diventare simbolico in una maniera letteraria. Da una parte c’è la famiglia Clutter – un prototipo
perfetto della buona, solida, possidente piccola nobiltà americana . . . – e dall’altra ci sono Hickock e
Smith, in particolare Smith, che rappresentano l’elemento psicotico e pericoloso, privo di
compassione o coscienza. E questi due estremi si fondono nell’atto dell’omicidio. La famiglia Clutter
e Hickock e Smith rappresentano i poli opposti della società americana . . . Certamente nel caso di
Perry – e nel caso delle migliaia d’altri come lui – l’arbitrario atto di violenza scaturisce dalla povertà
della sua condizione, dalla sua profonda insicurezza e insignificanza. Tutto questo certamente non
giustifica ciò che ha fatto, ma aiuta a spiegarlo. In un certo senso, tutto questo doveva succedere; c’è
un senso di inevitabilità attorno all’accaduto. Considerato ciò che era Perry, e ciò che i Clutter
rappresentavano, il solo esito possibile della loro convergenza era la morte”.
36
all’incrocio tra le fertili pianure del Midwest e le distese polverose dell’High West.
Cieli azzurri, geografia piatta e orizzontalità pervasiva, ad eccezione dei silos per
conservare il grano “che si elevano aggraziati come templi greci” (Capote, A sangue
freddo 13). Un paesaggio tranquillo e malinconico colto nello stato di grazia della
stagione autunnale, quasi un Eden: “Due centimetri di pioggia in più e questa regione
sarebbe un paradiso, un paradiso terrestre” (23). Il villaggio di Holcomb si presenta
come il prototipo di innocenza e tranquillità: case basse con la veranda sul davanti, la
stazione e l’ufficio postale, il caffé e l’emporio, la scuola e la chiesa. Lo stesso vale
per gli abitanti: in generale, persone benestanti di fede repubblicana, che conducono
un’esistenza normale tra lavoro in grandi fattorie, battute di caccia, TV, feste di paese
e messe domenicali. Capote sottolinea l’insularità di tale microcosmo e il sentimento
di sicurezza che lo pervade: un luogo sconosciuto ai più, in cui i treni si fermano di
rado, una comunità di buoni vicini che si fidano l’un l’altro, “abbastanza fiduciosi da
prendersi raramente la briga di sbarrare la porta di casa” (15).
Anche il ritratto di Herbert Clutter non sembra essere velato da ombre. Egli è
il simbolo del self made man, della realizzazione del sogno americano: condizioni
fisiche perfette, una scalata sociale fino al successo economico, una famiglia e una
casa ammirevoli, piena integrazione nel tessuto comunitario come membro colto e
rispettato da tutti. Come sintetizza Capote, “sempre sicuro su quanto voleva dal
mondo, il signor Clutter l’aveva in larga misura ottenuto” (16). Con pochi dettagli,
l’autore ne delinea anche la psicologia: grande forza di volontà, benevolenza e animo
generoso ma anche profonda disciplina, indole sicura e non timorosa.
La presentazione di Nancy Clutter – la figlia più giovane di Herbert – si pone
in continuità col ritratto paterno: se l’uno è il simbolo del self made man, l’altra è il
prototipo dell’American girl, del sogno americano colto nelle premesse della sua
realizzazione. Capote la dipinge come la beniamina del villaggio: una ragazza di
bell’aspetto, una brillante studentessa capace di eccellere in ogni campo senza
vanterie, un animo gentile e cordiale. Nancy è un modello di riferimento per le
ragazze più giovani della comunità: non a caso, l’autore la presenta a partire
dall’ammirazione che suscita. Kenyon Clutter è invece il simbolo della normalità: un
adolescente tranquillo, dal carattere ancora infantile, che vive tra scuola e
occupazioni pragmatiche quali la falegnameria, la caccia, il giardinaggio e la guida.
37
Il ragazzo si distingue per una maggiore introversione, più in linea – come si vedrà –
col temperamento materno che non con quello dei restanti membri della famiglia.
In questo quadro di serena normalità, Capote insinua progressivamente delle
ombre. È interessante notare l’intersezione di tale dinamica con quella degli sguardi
della comunità: la perfezione di Herbert e Nancy è tale solo agli occhi di chi li
osserva, capaci di cogliere i bagliori manifesti ma non le ombre private. Inoltre, si
evidenzia la forza coercitiva di tali sguardi: i soggetti sono consapevoli della loro
immagine sociale, vi si adeguano e la perpetuano, nel bene e nel male. Ma un
narratore onnisciente ha accesso anche ai risvolti privati della vita dei protagonisti:45
così, Capote può mostrare al lettore le preoccupazioni di Herbert Clutter (legate alla
salute della moglie, con la quale non condivide il letto coniugale) e quelle di Nancy
(turbata dalle condizioni della madre, ma anche per la disapprovazione paterna della
sua relazione amorosa). Si scoprono dettagli in netto contrasto con l’immagine
pubblica dei due: per far fronte alle preoccupazioni il signor Clutter cerca “segreto
conforto nel tabacco” (34); anche la figlia fuma di nascosto e non riesce a perdere
“l’abitudine di mordicchiarsi le unghie” (32). Tuttavia, un’ombra è palese a
chiunque, quella che ammanta il ritratto di Bonnie. La moglie del signor Clutter
soffre di depressione: è inappetente, trascorre gran parte del tempo a letto, ha un
umore mutevole e un costante timore di essere di troppo, di dispiacere o offendere
qualcuno. Anche la signora Clutter è consapevole degli sguardi che incombono su di
lei – in questo caso, di essere considerata “strana” dai suoi concittadini – e vi si
adegua, provando vergogna di sé e conducendo una vita ritirata. Tramite il ritratto di
Bonnie, il lettore perfeziona anche la cognizione circa il fallimento del matrimonio
dei Clutter, le cui vite si svolgono ormai su binari separati: una sorta di “Paradiso
perduto” che contrasta con l’idillio d’apertura e che il signor Clutter tenta invano di
recuperare.
Relativamente agli esclusi, la sensazione di sadness è certamente più
esplicita. Perry Smith è il simbolo dell’anormalità, l’escluso per antonomasia. Nel
testo, il suo ritratto fa immediato seguito a quello del signor Clutter, una scelta
certamente non casuale. La transizione proposta da Capote per sancire il passaggio
45
Si noti come tale dinamica sia ricreata mediante il lavoro di ricerca e documentazione, dal momento
che Capote non ha a che fare con personaggi ma con soggetti reali.
38
da un soggetto all’altro è di un’efficacia magistrale, anche per la sua brevità: “Come
il signor Clutter” (25). Quattro parole (tre nell’originale inglese) che con ironia
sanciscono tutta l’irriducibilità dei due mondi. Se l’umorismo è il pirandelliano
sentimento del contrario, Capote ne offre un esempio perfetto: sono loro i principali
termini oppositivi, i poli della contraddizione. Allo stesso modo, la colazione di
Perry Smith – “tre aspirine, root-beer gelata e una serie di Pall Mall” (ibid.) – si pone
in implicito contrasto con quella del signor Clutter riportata poco più indietro – un
bicchiere di latte e una mela.
Anche la psicologia di Perry può essere sintetizzata in un’opposizione, quella
tra sogni e realtà. Da un lato le fantasticherie irrealistiche del futuro assassino: viaggi
intorno al mondo, navigazioni sui mari del Messico alla ricerca di tesori sommersi,
ma anche fantasie di gloria nei locali di Las Vegas come performer a capo di una
one-man band. Secondo il ritratto di Capote, Smith ha un carattere romantico e
sentimentale – al limite dell’infantilismo – venato dalla convinzione circa la propria
eccezionalità artistica. In effetti, egli suona la chitarra, dipinge, scrive poesie, e
nonostante la mancanza di istruzione possiede una certa “cultura”. Dall’altro lato,
una realtà ben distante dai sogni, nel presente come nel passato. Capote mette in
risalto la povertà di Smith (tutti i suoi beni ammontano a “una valigia di cartone, una
chitarra e due grosse cassette zeppe di libri, carte geografiche e canzoni, poesie e
vecchie lettere” [ibid.]), quindi ne evidenzia l’anomalia fisica (una statura
esageratamente bassa, una netta sproporzione tra il torace e le gambe, storpiate a
seguito di un incidente, cattiva salute) e una certa effeminatezza che fa capo a
un’omosessualità latente, inespressa ma ben riconoscibile. All’epoca dei fatti, Smith
è appena uscito di prigione e conduce una vita tipicamente borderline, caratterizzata
da solitudine e alienazione sociale. Anch’egli dimostra una certa consapevolezza
degli sguardi altrui e del disagio che provoca la sua presenza, come nel caso dei
genitori di Hickock: “Non mi può vedere” – dice all’amico a proposito del padre –
“E tua madre lo stesso. L’ho capito, da quel particolare modo in cui mi guardavano”
(36). Il passato di Smith è ancora più disastroso, come attestano i numerosi flashback
e riferimenti metatestuali presenti nell’opera. Traumi, maltrattamenti, umiliazioni,
delusioni, deprivazioni, rifiuti: a partire dalla tenera età (l’infanzia povera e
itinerante, la separazione dei genitori, l’abbandono in orfanotrofio con annessi abusi),
39
per continuare con l’adolescenza (la vita in isolamento in Alaska una volta
ricongiunto col padre, senza possibilità di istruzione né di indirizzo del proprio
talento, quindi le nuove esperienze traumatiche sotto le armi) e culminare nell’età
adulta (l’incidente in moto causa della storpiatura, la rottura definitiva col padre, i
vagabondaggi per il paese e, infine, l’arresto). Per Smith, il legame familiare più
intenso è quello col padre: un rapporto conflittuale, in perpetua ambivalenza tra
amore e odio e in una costante e sempre frustrata ricerca d’affetto. Completano il
quadro una madre deceduta per alcolismo, un fratello e una sorella suicidi, e un’altra
che lo teme e respinge.
Man mano che il testo avanza, Capote perfeziona il quadro psicologico del
suo protagonista. In sostanza, si apprende come Smith viva in una condizione di
perenne frustrazione, risultante dalla totale mancanza di riconoscimento della propria
eccezionalità – o anche solo di riconoscimento tout court – che compensa in una
modalità ora passiva ora attiva. Secondo la prima, prevale un atteggiamento
paranoico, di autocommiserazione; la seconda si nutre di rancore e risentimento, e
sfocia in un pervasivo desiderio di vendetta, simboleggiato nel testo dall’immagine
ricorrente del pappagallo giallo, “il vendicatore alato” (113) che libera Perry dai suoi
tormenti e lo trasporta in un mondo ideale. Tale desiderio di vendetta può esternarsi
in scatti d’ira e scoppi di collera, “reazioni emotive esplosive del tutto sproporzionate
ai fatti” (58). Il Perry Smith di Truman Capote è dunque pericolosamente affetto da
una grave infermità mentale, diagnosticata verso la fine del testo come “schizofrenia
paranoica” (341).
Dick Hickock è solo parzialmente un escluso. Per certi aspetti, il secondo
responsabile dell’omicidio dei Clutter potrebbe essere collocato entro i canoni della
normalità: una famiglia umile ma onesta e unita, un’infanzia serena, quindi
un’occupazione mediocre, un matrimonio – in verità due – e dei figli. Capote insiste
in particolar modo sulla convinzione del soggetto circa la propria normalità: Dick si
ritiene un uomo simile a tanti altri, pragmatico e risoluto, senza ambizioni e sogni
stravaganti come quelli del compagno, cui fa solo credere di aderire. D’altra parte,
Perry ne ammira mascolinità e disinvoltura, anche se non di rado ne critica la
superficialità e la mancanza di sensibilità artistica. Interviene nuovamente la
dinamica degli sguardi: ognuno dei soggetti individua se stesso a partire dall’altro, e
40
l’altro a partire da sé. Con occhi più distaccati, Capote offre il ritratto di un soggetto
eccessivamente sicuro, e ne enfatizza sventatezza e temerarietà, tratti rilevanti anche
in relazione al delitto e ai suoi successivi sviluppi. Anche il sogno di Dick è un sogno
normale, un sogno americano un po’ prosaico e low profile: “Desiderava ‘una vita
tranquilla’, con un’azienda sua, una casa, un cavallo su cui galoppare, un’auto nuova,
e ‘un mucchio di pollastrelle bionde’” (71). Egli tenta di continuo di vivere al di
sopra delle proprie possibilità, e prova costantemente invidia: “L’invidia era sempre
in lui; nemico era chiunque fosse qualcosa che lui voleva essere o avesse qualcosa
che lui voleva avere” (231). Dick tenta di realizzare il proprio sogno attraverso la via
più breve, quella della criminalità: prima gli assegni falsi, quindi la rapina a casa dei
Clutter, organizzata in totale autonomia. In ogni caso, fino all’epoca dei fatti i
tentativi di “realizzazione” del soggetto si sono dimostrati fallimentari: anche
Hickock è appena stato rilasciato sulla parola e soffre di una certa dose di
frustrazione, ritenuta da Capote meno giustificabile rispetto a quella di Smith.
Accanto a questo elemento dissonante se ne collocano alcuni altri: una sessualità
problematica e deviata, fonte di vergogna ma impossibile da controllare, una lesione
cerebrale poco chiara causata da un incidente stradale, una certa anormalità fisica
(questa volta individuata a livello del volto) determinata dall’incidente stesso. Nel
complesso, Capote sottolinea l’incapacità del soggetto di possedere un’immagine
realistica di sé, con tendenza a rimuovere i tratti indesiderati. Allo stesso modo,
subito dopo il delitto Hickock manifesterà insistentemente la volontà di dimenticare
l’accaduto e per tutto il periodo di detenzione tenterà di auto-convincersi (e
convincere) di essere innocente. Verso la fine del testo, l’esame clinico cui viene
sottoposto diagnostica un grave disordine della personalità e non permette di
escludere “la presenza di una lesione organica cerebrale che . . . può aver avuto un
peso determinante sul suo comportamento negli ultimi anni e al momento del
delitto”46 (338).
46
Le vicende di ulteriori membri appartenenti all’asse dell’Esclusione non possono essere
approfondite per ragioni di spazio; per esempio, quelle della sorella di Perry, dei genitori di Dick, dei
vecchi compagni di cella e di quelli conosciuti nel braccio della morte. Merita almeno una menzione il
ritratto di “un ragazzino e un vecchio” (Capote, In Cold Blood 239) che Smith e Hickock incontrano
nel loro peregrinare per gli Stati Uniti, simbolo di un’esclusione capace di non mischiarsi con la colpa,
di umiltà e assenza di vergogna per la propria condizione: un ritratto davvero struggente, il più
romantico dell’intero romanzo.
41
A questo punto dovrebbe essere chiara l’American sadness risultante dal
confronto tra inclusi ed esclusi. Come chiarisce Capote nell’intervista a Playboy
riportata in apertura di paragrafo, la famiglia Clutter (in particolar modo Herbert
Clutter) e i due assassini (in particolar modo Perry Smith) rappresentano
perfettamente i termini simbolici di un’opposizione: tra insider e outsider, normalità
e anormalità, haves e have nots. Da un lato la realizzazione del sogno da parte
dell’affluent middle class (successo economico, legami familiari solidi, integrazione
nella società), dall’altro l’esclusione dell’underprivileged working class (povertà,
assenza di radici, alienazione sociale); da un lato la casa (l’homestead di
dickinsoniana memoria), dall’altro la strada (una residenza involontaria; non a caso,
Perry e Dick hanno entrambi alle spalle un incidente stradale). Se il senso si dà per
differenza, Capote sceglie la soluzione più efficace, e ottiene l’effetto solo
accostando i due poli con la tecnica della narrazione alternata.
Per questa via, emerge una sadness superiore rispetto a quella interna ai due
mondi. La distopia più grave comincia con la determinazione di un divario
incolmabile, la creazione di due estremi troppo lontani, l’atto stesso di instaurazione
di una polarità. Dalla distanza allo scontro, il passo è breve: la tragicità della
convergenza è il frutto inevitabile – come ricorda l’autore stesso – di una lontananza
così radicale.
Come si è visto sintetizzando la trama di In Cold Blood, Capote inizialmente
omette il racconto dell’episodio cruciale della narrazione, quello della convergenza.
L’autore sceglie di non far coincidere fabula e intreccio, interrompendo la
ricostruzione in ordine cronologico degli eventi. Dopo l’ellissi, Capote prosegue il
racconto assumendo il punto di vista degli abitanti di Holcomb, che ritrovano i
cadaveri della famiglia Clutter. Dunque, ben prima della convergenza vera e propria
se ne mostrano gli effetti. In generale, la comunità locale reagisce con la perdita della
propria “innocenza”: un brusco risveglio dal torpore irrealistico in cui giaceva, fatto
di tranquillità e sicurezza incondizionate. Di nuovo, il senso nasce per differenza: la
descrizione dell’idillio posta in apertura è funzionale alla messa in rilievo della
rottura contingente del medesimo. Inoltre, l’effetto è potenziato dal ritrovamento dei
corpi da parte di due giovani ragazze (due amiche di Nancy), esse stesse simbolo di
42
uno stato di grazia in procinto di corrompersi. La prima manifestazione di tale
perdita d’innocenza – e anche la più persistente – è la nascita del sospetto nei
confronti dei propri vicini, la diffusione dell’insicurezza. È una conseguenza del tutto
coerente con la concezione della propria insularità: l’estraneo è talmente estraneo da
non essere minimamente contemplato; se l’altro non esiste non resta che guardare al
vicino di casa. Ecco le considerazioni a caldo della caustica signora Myrtle Clare,
l’addetta all’ufficio postale: “I vicini sono tutti dei serpenti a sonagli. Parassiti che
aspettano l’occasione per sbatterti la porta in faccia” (87). Sulla stessa linea la più
pacata signora Hartman, proprietaria del caffé: “Tutti quelli che abbiamo qui sono
nostri amici. Non ci sono altri. In un certo senso è questo l’aspetto più terribile del
delitto. Che cosa spaventosa quando i vicini non possono più guardarsi in faccia
senza avere sospetti!” (88-89). Nella stessa direzione anche la polizia – in particolar
modo il capo delle indagini, Alvin Dewey – convinta per molto tempo di non dover
cercare l’assassino lontano da Holcomb.47 Come riepiloga Capote, “quella tranquilla
comunità di buoni vicini e di vecchi amici, doveva improvvisamente affrontare
l’esperienza della reciproca sfiducia” (107-108). L’autore aveva già anticipato il
concetto nel paragrafo d’apertura, descrivendo i colpi di fucile ai danni dei Clutter
come “cupe detonazioni che facevano divampare incendi di sfiducia al cui riverbero
molti buoni vicini di un tempo si guardavano stranamente, e come estranei” (15): una
sintesi perfetta e molto poetica. Non di rado, l’insicurezza cede spazio alla paura,
altra sensazione sconosciuta agli abitanti di Holcomb: catene e lucchetti diventano
articoli di prima scelta, e le finestre delle case restano illuminate ben dopo il
tramonto, mostrando all’interno persone in abiti da giorno intente a vegliare sui
propri famigliari. In secondo luogo, Capote registra la fine del “sogno” per la
comunità: molte famiglie lasciano le loro case per trasferirsi lontano, i dipendenti dei
Clutter si ritrovano senza lavoro. Non c’è pace neanche per Alvin Dewey:
ossessionato dal caso, egli diventa l’ombra di se stesso; sua moglie e i figli sono in
preda agli incubi; e la famiglia – anche a delitto risolto – non realizzerà più il
47
A tal proposito, uno dei numerosi retroscena svelati da giornalisti e critici circa l’accuratezza di In
Cold Blood riguarda proprio la figura di Alvin Dewey e un suo supposto clamoroso errore
nell’indirizzo delle indagini. Una testimonianza raccolta in un articolo de The Wall Street Journal
svelerebbe la “vera” reazione di Dewey alla deposizione chiave di Floyd Wells, con cui per la prima
volta si connette il nome degli assassini a quello dei Clutter: “Dewey said it wasn’t them” (Helliker).
Se autentica, si tratta di una circostanza oculatamente omessa da Capote nel testo.
43
progetto di trasferirsi in una tenuta tranquilla e isolata. L’esaurimento del sogno è
simboleggiato dall’asta dei beni della River Valley Farm, che sancisce la dipartita dei
Clutter anche sul piano materiale. Col trascorrere del tempo, l’autore nota un
cambiamento nel sentire comune: alla speculazione sul caso si sostituisce
progressivamente la volontà di dimenticare, un proposito sinistramente simile a
quello manifestato da Hickock: “Da qualche tempo la tragedia Clutter era argomento
bandito in entrambi i principali dispensari di pettegolezzi della comunità: l’ufficio
postale e il Caffè Hartman” (220). Un’istanza reattiva tale che – paradossalmente –
porta ad augurarsi che non vi siano arresti: “Sarebbe proprio un bel soffiare sul
fuoco, far bollire la pentola proprio quando cominciava a raffreddarsi” (221). Una
volontà di pura restaurazione dell’ordine molto significativa e pericolosa, come si
avrà modo di notare più avanti. Coerente con le precedenti è la sensazione esperita
dalla comunità nell’apprendere che i colpevoli sono due estranei, una sensazione di
delusione che chiude il quadro e che Capote opportunamente cattura: “La
maggioranza della popolazione di Holcomb, dopo avere vissuto per sette settimane
tra dicerie morbose, sfiducia generale e sospetto, era parsa delusa nell’apprendere
che l’assassino non era uno di loro” (266).
Oltre che sugli abitanti di Holcomb, Capote mostra gli effetti della
convergenza sui protagonisti della vicenda. In particolare, è possibile osservare il
riposizionamento dei due poli – la famiglia Clutter e Perry e Dick – rispetto
all’American Dream. La situazione iniziale vede una condizione di sogno associata
agli inclusi e una di incubo associata agli esclusi. L’omicidio propone un
rovesciamento di tale situazione: ai primi (i Clutter stessi, ma anche la comunità di
Holcomb) spetta ora l’incubo, laddove gli altri (specialmente Perry) vivono una sorta
di sogno. Pochi giorni dopo la strage, Capote mostra un Perry Smith gaudente e
pienamente realizzato, almeno in apparenza: lui e Dick sono ad Acapulco su una
barca in compagnia di amici, intenti a pescare, crogiolarsi al sole e cantare
accompagnati dalla chitarra. L’autore opportunamente nota in Smith un’espressione
“di completo appagamento, di beatitudine, come se finalmente, come in uno dei suoi
sogni, un grande uccello giallo lo avesse trasportato in paradiso” (143). Si badi come
si tratti di un’illusione di realizzazione, non già di una realizzazione vera e propria:
Perry è a bordo della nave coi pantaloni indosso, perché si vergogna delle proprie
44
gambe, e “a dispetto di tutte le fantasticherie subacquee, tutte le sue chiacchiere di
immersioni, non [è] sceso in acqua neppure una volta” (142). Di qui, il ramo calante
della parabola: un progressivo ridimensionamento del sogno fino al suo esaurirsi e,
parallelamente, la presa di coscienza del processo in corso. In breve tempo, i due
fanno ritorno sulla terraferma, il denaro giunge al termine e il sogno si trasforma in
un lavoro malpagato sotto il sole del Messico. Tale fase coincide col risveglio di
Perry, esortato anche dall’amico: “Brillanti. Tesori sepolti. Sveglia, ragazzino. Non
esistono casse d’oro. Né navi affondate. E anche se ci fossero... maledizione, non sai
neanche nuotare” (147). La spirale discendente è sempre più cupa: il furto della
chitarra, la separazione dai pur miseri effetti personali, l’interminabile viaggio di
ritorno negli Stati Uniti, l’inizio di un peregrinare in autostop per tutto il paese in
condizioni sempre più precarie. La tappa di Miami coincide per Perry con la piena
consapevolezza del proprio fallimento e il conseguente abbozzo di fantasie suicide:
Non riusciva a vedere “grandi cose per cui vivere”. Isole assolate e ori sepolti, immersioni in
profondità in mari di fiamma azzurrina verso tesori affondati – questi sogni erano svaniti. E
scomparso era pure “Perry O’Parsons”, il nome trovato per il divo della canzone . . . Perry
O’Parsons era morto senza mai essere vissuto. Quali prospettive gli rimanevano? Lui e Dick
stavano “correndo una gara senza traguardo”, così la vedeva lui. (234)
Il processo termina con l’arresto di Hickock e Smith: dopo il doppio
rovesciamento, i due riprendono posto nell’incubo. Ma l’ordine di partenza è
impossibile da ristabilire, come vorrebbe un vero giallo: quattro persone mancano
all’appello, e presto la cifra salirà a quota sei. I sogni sono finiti per tutti, e per tutti
rimane solo un incubo pervasivo.
Con l’arresto di Hickock e Smith, aumenta la tensione narrativa: l’arrivo della
polizia, i primi interrogatori, gli alibi, il progressivo crollo dei sospettati. La
concitazione delle scene è resa nel testo mediante il ricorso pressoché esclusivo al
dialogo e l’uso del presente. Si giunge così all’apice drammatico della narrazione: le
confessioni degli assassini, il racconto del momento esatto della convergenza. Capote
ne propone una cronaca iperdettagliata, geografica, al limite del voyeurismo. Nella
prima fase, Dick dirige le operazioni e Perry ricopre un ruolo marginale, ma ben
presto quest’ultimo si accorge che nella casa non vi è denaro contante. Si profila così
una situazione paradossale: più che dai Clutter, Perry è indispettito da Dick, che lo ha
coinvolto in un “colpo” sbagliato. Coerentemente, egli mostra un certo riguardo nei
45
confronti delle future vittime, già debitamente legate: si spiegano così gli elementi
apparentemente assurdi rinvenuti sulla scena del crimine, come lo scatolone sul
pavimento per Herbert, il cuscino sotto il capo di Kenyon e le coperte rimboccate dei
letti di Nancy e Bonnie. Col passare del tempo, aumenta la frustrazione: Dick
continua a cercare invano una cassaforte, Perry è disgustato da sé per la situazione in
cui si trova. Dick intende sfogarsi sessualmente sulla ragazza, Perry si oppone. I due
litigano, e la tensione raggiunge velocemente il culmine, provocando la dissociazione
di Smith – il buio – e il raptus omicida ai danni di Herbert Clutter: “Non avevo
intenzione di fargli del male. Mi pareva un signore molto simpatico. Cortese. La
pensai così fino al momento in cui gli tagliai la gola” (280). Commesso il primo, gli
omicidi successivi saranno solo una tragica conseguenza.
Svelato il mistero, Capote si dedica alla ricerca delle ragioni di una
convergenza così tragica, apparentemente inspiegabile anche da chi l’ha vissuta in
prima persona. Si passa così dall’How al Why, dalla cronaca alla riflessione. In primo
luogo, l’autore esamina la ricerca di motivazioni del principale responsabile degli
omicidi, Perry.48 Per quanto si senta in colpa e prefiguri il destino che lo attende,
inizialmente egli non dimostra autocoscienza del proprio operato, anzi è il primo a
esserne stupito: “Dentro di me . . . non avrei mai creduto di poterla fare. Una cosa
simile” (130), confida a Hickock durante la fuga. Con la cattura e la detenzione,
Smith avvia un processo di autoanalisi, il cui esito può essere sintetizzato nelle
parole riferite a un vecchio amico durante una delle rare visite che riceve in carcere:
Chissà perché l’ho fatto . . . Ero seccato con Dick. Il grand’uomo. Ma non si trattava di Dick.
O della paura di venire identificato . . . E non era per qualcosa che i Clutter avessero fatto.
Non mi avevano mai fatto nulla di male. Come certa altra gente. Certa gente che mi ha messo
in croce per tutta la vita. Forse è solo che i Clutter erano quelli che la dovevano pagare per
tutti. (332)
L’acquisizione di consapevolezza determina una crescita della statura del
personaggio, pur nella sua negatività. Inoltre, è interessante notare come Capote
riporti un pensiero in fieri, di modo da far coincidere l’atto di scoperta del lettore con
48
A tal proposito, Capote propone due versioni. Secondo la confessione di Dick, Perry avrebbe ucciso
tutti e quattro i membri della famiglia; secondo la confessione di Perry, egli avrebbe ucciso i due
uomini e Dick le due donne. In seguito, Perry modificherà la propria versione per allinearsi a quella di
Dick. Comunque siano andate le cose, Perry ha commesso l’omicidio psicologicamente significativo,
quello di Herbert Clutter.
46
quello del personaggio. Alle motivazioni di Smith si aggiungono quelle degli
psichiatri, passando dal punto di vista interno a quello esterno. Secondo il dottor
Jones, chiamato a intervenire sul caso, l’omicidio di Herbert Clutter ha un valore
simbolico, come risposta automatica di Smith a un memento delle sue frustrazioni. In
sostanza, Capote avanza un’ipotesi di stampo psicoanalitico, quella della proiezione:
Quando Smith ha aggredito il signor Clutter era vittima di un’eclissi mentale, sperso in
un’oscurità schizofrenica, perché quello che “si accorse improvvisamente” di distruggere non
era effettivamente un uomo in carne e ossa, ma “una figura chiave di un’immagine
traumatica del passato”: suo padre? le suore dell’orfanotrofio che lo avevano deriso e
percosso? l’odiato sergente dell’esercito? il funzionario addetto ai rilasci sulla parola che gli
aveva detto di “starsene fuori dal Kansas”? Uno di questi, o tutti. (345)
L’autore conferma esplicitamente l’ipotesi dell’omicidio simbolico anche
nell’intervista per Playboy, con particolare riferimento alla figura paterna: “So the
why is quite clear: Perry identified Mr Clutter, an authority figure, with the father he
loved-hated and he unleashed all his inner resentment in an act of violence”49
(“Playboy Interview” 61). Anche se con minore scavo psicologico, l’autore riflette
sulle motivazioni dell’altro responsabile degli omicidi, Hickock. Anche in questo
caso, egli riporta la spiegazione offerta dal personaggio stesso: “Prima ancora di
andare in quella casa sapevo che ci sarebbe stata una ragazza. Credo che la ragione
principale per cui andai là non fosse il derubarli ma violentare quella ragazza”
(Capote, A sangue freddo 320). Dunque, un coinvolgimento per ragioni di denaro e
di deviazione sessuale, le cui cause profonde risultano ancora più oscure e
inspiegabili rispetto a quelle di Smith.
Infine, Capote registra l’esito finale della convergenza tra inclusi ed esclusi:
la condanna a morte dei due assassini. Nel reporting degli eventi conclusivi si può
osservare
il
passaggio
dall’individuazione
della
ragione
processuale
alla
proposizione di una questione sociale, radicale e profonda. Riguardo la prima,
Capote precisa come all’epoca dei fatti nei tribunali degli Stati Uniti vigessero due
diverse leggi in materia di sanità mentale: la Legge M’Naghten – valida in Kansas –
che “non riconosce alcuna forma di infermità mentale quando l’imputato ha la
capacità di discernere il bene dal male – legalmente, non moralmente” (361) e la più
avanzata Legge Durham, per la quale “un accusato non è criminalmente responsabile
49
“Dunque il perché è chiaro: Perry ha identificato il signor Clutter, una figura autoritaria, con
l’amato-odiato padre e ha liberato tutto il proprio risentimento interiore nell’atto violento”.
47
se il suo atto illegale è il prodotto di un difetto o di una malattia mentale” (ibid.). Il
secondo regolamento avrebbe risparmiato Smith e con buona probabilità anche
Hickock, ma l’autore non intende instaurare una polemica a tal riguardo. Piuttosto,
egli mira a sondare gli umori della comunità intorno alle sorti degli assassini. Come
si apprende dal testo, la propensione per la pena capitale è pressoché unanime: non
solo è invocata dall’accusa (come prevedibile), ma anche da uno degli “eroi” di
Capote – Alvin Dewey – così come dalla giuria preposta all’emissione del verdetto.
Lo stesso Hickock si professa favorevole alla pena di morte, dichiarando: “Io credo
nella forca. Purché non sia io a essere impiccato” (383). A esclusione degli psichiatri
e dei legali della difesa, le voci dissonanti costituiscono rara eccezione e, quando
presenti, si appellano esclusivamente a ragioni di pietà cristiana. Così, il romanzo si
chiude cinque anni dopo la tragedia, con la gelida cronaca delle morti per
impiccagione vissute attraverso gli occhi di Alvin Dewey. L’ultima scena riporta il
lettore nei pressi di Holcomb, in un contesto idilliaco simile a quello d’apertura: la
pace del cimitero, l’omaggio alle vittime, la ponderazione di novità e cambiamenti.
Come dichiara lo stesso Capote, “I felt I had to return to the town, to bring
everything back full circle, to end with peace”50 (Clarke 359). Eppure, il finale
rimane ambiguo: chiuso il cerchio, la pace riconquistata farà il paio con un rinnovato
futuro o con la pura restaurazione dell’“ordine” di partenza?
A partire da tali considerazioni de facto, è possibile formulare una critica
squisitamente sociale dell’America raccontata da Capote nelle pagine di In Cold
Blood: in questo senso, le esecuzioni nell’“Angolo” vanno intese come sintomo di
impreparazione della comunità, di incapacità (o resistenza) ad accogliere figure
complesse quali quelle di Smith e Hickock, ad accomodare i propri schemi per
tentare di ricomprenderle. Come si è visto, la presenza dell’altro non è contemplata,
specie se questi assume le sembianze di due criminali recidivi, ladri, assassini,
psicotici e con tutta probabilità anche omosessuali. L’altro è un escluso che deve
rimanere tale e – nel caso si palesi – va rimosso e dimenticato. Si produce così un
50
“Sentivo di dover tornare alla città, per riportare tutto al punto di partenza, per finire con pace”. Il
finale di In Cold Blood è stato ampiamente criticato a proposito di accuratezza. Nella sua biografia su
Capote, George Clarke rivela come la scena in questione sia da considerarsi fiction a tutti gli effetti:
“Since the events had not provided him with a happy scene, he was forced to make one up” [“Dal
momento che gli eventi non gli avevano procurato una scena felice, è stato costretto a inventarsene
una”] (Clarke 358-359). In effetti, nelle parole riportate supra l’autore oculatamente glissa nel
menzionare con quali mezzi abbia perseguito la nobile intenzione della chiusura dell’arco narrativo.
48
profondo fallimento sociale, non solo a livello di legittimazione indebita della pena
di morte, come il significato del concetto di in cold blood suggerisce stabilmente.
L’America fallisce a monte, quando crea una polarità tale da rendere tragica la
convergenza dei due estremi, e quando si dimostra restia ad assumersi una qualche
responsabilità, pur indiretta. Soprattutto, l’America fallisce se non apprende dalla
propria esperienza, continuando pericolosamente a invocare il ripristino di uno status
ante altamente problematico, ponendo così le premesse perché altre Holcomb
possano ancora turbarne i sogni.
Truman Capote racconta gli Stati Uniti dei primi anni Sessanta. Di seguito,
una selezione dei reportage narrativi nati dalle migliori penne della nonfiction
nordamericana contemporanea permetterà di sondare l’umore del paese in tempi più
recenti e di osservare il decorso dell’American sadness. L’opera di Capote costituisce
un precedente illustre anche in ragione della sua completezza, prestandosi all’analisi
secondo la totalità dei piani individuati: la sadness interna all’asse dell’Inclusione,
quella interna all’asse dell’Esclusione e quella risultante dalla convergenza dei
medesimi. I reportage narrativi oggetto dei prossimi capitoli sono collocabili più
distintamente su ciascuno di tali piani, nel contesto dei quali saranno analizzati.
49
Capitolo terzo
INCLUSIONE VERSUS ESCLUSIONE
3.1 Joan Didion: l’American sadness dell’Inclusione
Chi non la conoscesse, dovrebbe vederla. Sentirne il suono della voce. Poi,
dovrebbe sfogliare uno dei suoi libri e leggerne a caso una pagina. Un’ottantenne
esile e fragilissima che quando parla o scrive si trasforma in un “leone” – secondo le
parole del nipote, l’attore e regista Griffin Dunne. Joan Didion51 è un’autorità morale
per gli Stati Uniti, una figura celebre e rispettata, “probably the most influential
American writer alive today” – ancora citando Dunne. Nonostante abbia pubblicato
diversi romanzi, l’arte di Joan Didion è certamente la nonfiction: dalla sua penna
sono nati reportage, saggi e memoir ormai patrimonio della storia della letteratura
americana. In Italia l’autrice è poco nota e poco tradotta, vittima di un
“incomprensibile embargo editoriale” (Nesi) rimosso solo di recente. Il nostro paese
sconta la subalternità in cui insiste a collocare il genere della nonfiction, ragione che
51
Joan Didion (1934) nasce a Sacramento da una famiglia nativa californiana. Studia Letteratura
inglese a Berkeley e nel 1956 inizia la carriera giornalistica nella sede newyorkese di Vogue. Nel 1963
pubblica il suo primo romanzo, Run, River. L’anno successivo sposa lo scrittore e sceneggiatore John
Gregory Dunne, con cui si trasferisce a Los Angeles e collabora alla scrittura di alcune sceneggiature.
Nel 1965 la coppia adotta l’unica figlia, Quintana Roo. La scrittrice alterna l’opera di fiction – Play It
as It Lays (1970), A Book of Common Prayer (1977), Democracy (1984), The Last Thing He Wanted
(1996) – a quella di nonfiction, concentrandosi sulla saggistica critica e politica: Slouching Towards
Bethlehem (1968), The White Album (1979), Salvador (1983), Miami (1987), After Henry (1992),
Political Fictions (2001), Where I Was From (2003). È autrice di due memoir di successo: The Year of
Magical Thinking (2005), scritto in seguito all’improvvisa morte del marito, e Blue Nights (2011),
dedicato alla prematura scomparsa della figlia. Collabora da sempre con le maggiori riviste del paese.
Tra i premi e le onorificenze, si ricordano il National Book Award for Nonfiction (2005), la Medal for
Distinguished Contribution to American Letters (2007) e la National Medal of Arts and Humanities
(2013), consegnata dalle mani del Presidente degli Stati Uniti.
50
rende ancor più preziosa la pubblicazione – pur con quarant’anni di ritardo – di
Slouching Towards Bethlehem,52 opera da cui è tratto il reportage oggetto d’analisi.
Slouching Towards Bethlehem è una raccolta di “pezzi, o saggi” – come li
definisce l’autrice – scritti tra il 1961 e il 1968 e pubblicati precedentemente su
alcune riviste. La pertinenza relativamente al genere è dunque palese: il testo di Joan
Didion è “uno dei capisaldi del New Journalism americano” (Manera), “una lezione
irripetibile di giornalismo narrativo”.53 Riguardo al tema, la raccolta è
tradizionalmente considerata come una delle narrazioni simbolo della controcultura
americana, delle sue ombre e contraddizioni. Nel testo l’autrice riporta le proprie
esperienze nei dintorni di Haight-Ashbury nel periodo che di lì a poco avrebbe
condotto alla Summer of Love del ‘68, ma vi è spazio anche per molto altro: cronache
di soggetti e luoghi della California estranei al movimento hippie, ritratti di divi dello
star system, incursioni a Las Vegas, Hawaii, Messico e New England, una sezione di
saggi personali e un racconto autobiografico dell’esperienza a New York durante il
periodo di lavoro per Vogue. Il collante dell’opera va dunque ricercato al di là
dell’esplorazione giornalistica della controcultura: il testo è un’indagine dell’umore
di tutta la California, o forse degli interi Stati Uniti, l’esplorazione di uno stato
d’animo che riguarda da vicino l’American sadness. Come suggerisce la poesia di W.
B. Yeats posta in esergo, l’America di Joan Didion è un paese allo sbando, dove “le
cose cadono a pezzi” e “il centro non regge più”: forze centrifughe hanno
frammentato e atomizzato la società, si è perso ogni tipo di ordine e coesione.
L’America di Joan Didion è in cammino Verso Betlemme, ad attenderla non è la
buona novella ma la “rozza bestia” che annuncia un Secondo Avvento apocalittico.
L’epigrafe di Yeats ha per Didion un valore centrale, e l’autrice stessa dichiara come
quelle del poeta siano state “le uniche immagini sul cui sfondo gran parte di ciò che
vedevo, udivo e pensavo, sembravano comporsi in uno schema” (Didion, Verso
Betlemme 11). Dalle sue parole emerge un ulteriore elemento utile per la decodifica
dell’opera: l’America di Joan Didion è sempre tanto un luogo esteriore, lo spazio
dell’indagine sociale, quanto uno interiore, lo spazio dell’osservazione della propria
psiche. La sadness del testo è anche quella dell’autrice: “In effetti stavo malissimo –
non ero mai stata così male – quando scrivevo ‘Verso Betlemme’; il dolore mi teneva
52
53
L’opera è stata tradotta col titolo Verso Betlemme ed è uscita nel 2008.
Come recita il risvolto dell’edizione italiana.
51
sveglia di notte, così per venti o ventuno ore al giorno bevevo gin e acqua calda per
attutire il dolore, prendevo metedrina per attutire il gin e scrivevo l’articolo” (13).
Malesseri sociali e inquietudini personali si mescolano e si compenetrano, riunendosi
in immagini simboliche come quella racchiusa nel titolo.
“Some Dreamers of the Golden Dream” è il pezzo di apertura della raccolta,
pubblicato per la prima volta su The Saturday Evening Post nel 1966. Si tratta del
reportage selezionato da Tom Wolfe per l’antologia The New Journalism, “one of the
author’s iconic pieces, a model of the form” (Ulin). Vi si racconta “una storia
d’amore e morte nella terra dorata” (Didion, Verso Betlemme 17): la terra dorata è la
California del sud e la storia è quella di Lucille Marie Maxwell Miller, che vi si
trasferisce in cerca di una nuova vita. La donna approda nel Golden State, sposa
Gordon Miller e presto conquista una vita migliore. Altrettanto presto la routine
domestica si correda di adulterio e di ipotesi di divorzio, finché non volge in
tragedia. La notte del 7 ottobre 1964 Lucille Miller è alla guida della sua
Volkswagen accompagnata dal marito, che giace addormentato al posto del
passeggero. In qualche modo l’auto prende fuoco; Lucille riesce a scappare e a
cercare aiuto, ma dopo un’ora e mezza non rimane più molto di Gordon Miller.
Segue il resoconto di un processo salito in fretta agli onori della cronaca, che dichiara
la donna colpevole di omicidio e la confina in carcere.
Per essere un reportage giornalistico, quello di Joan Didion è nettamente
anomalo, considerato che per diverse pagine non si accenna né al crimine né ai
soggetti coinvolti. Come chiarisce l’autrice, la storia “inizia con la terra stessa”
(ibid.): l’apertura è dunque sul Where, una luogo tanto importante da conquistare il
lead ed elevarsi a personaggio, addirittura a protagonista. La descrizione geografica è
di un impatto tale da chiarire fin dall’inizio come il Who del racconto non sia Lucille
Miller né il suo sfortunato marito, ma una terra e il suo potere perverso, la sua
terribile energia. Il luogo è la Southern California – nello specifico la San Bernardino
Valley – descritta prima come ambiente fisico e quindi come ambiente popolato
dall’uomo. È una California insolita:
Non la California costiera dei crepuscoli subtropicali e dei dolci venti di ponente che soffiano
dall’oceano Pacifico, ma una California più aspra, posseduta dal deserto del Mojave appena
al di là delle montagne, devastata dal Santa Ana, il vento caldo e asciutto che scende dai passi
a centocinquanta chilometri all’ora, ulula attraverso i filari frangivento di eucalipti e ti lima i
nervi. (ibid.)
52
Un ritratto imponente, reso attraverso la forza evocativa degli elementi
naturali: il deserto, le montagne, il vento – simbolo per eccellenza della scrittrice – e,
più avanti, anche il fuoco, gli incendi spontanei e la siccità.
La
descrizione
continua
accennando
alla
colonizzazione
dell’area,
all’immigrazione interna proveniente dal Midwest, all’importazione di usanze tipiche
di un’altra terra. L’effetto della contaminazione è desolante, madido di sadness:
mediocrità, fervore religioso superficiale, sentimenti pacchiani, decadenza e
contraddizioni sociali. Eppure, la California non cessa di essere la terra promessa
degli Stati Uniti: “Questa è l’ultima fermata per tutti quelli che vengono da qualche
altra parte, per tutti quelli che sono fuggiti dal freddo, dal passato e dalle vecchie
abitudini. Qui è dove cercano di trovare un nuovo stile di vita, e lo cercano negli
unici posti in cui sono abituati a guardare: i film e i giornali” (18). Ecco il Golden
Dream, il mito del West che interseca quello del sogno americano: l’Ovest è la
promessa della realizzazione del sogno, della conquista del nuovo stile di vita. Una
promessa che Joan Didion – californiana da cinque generazioni – conosce bene,
soprattutto nelle ombre: “Il futuro sembra sempre roseo nella terra dorata, perché
nessuno si ricorda del passato” (ibid.). Qui il riferimento implicito è al Donner Party,
al tragico risvolto della promessa già esperito all’epoca dei pionieri. “The Daughter
of Old California” (Lacy 500) non cade nell’inganno, perché può contare su una
memoria storica di cui Lucille Miller non dispone, un’inconsapevolezza che risulterà
fatale anche secoli dopo la conquista del West.
L’inquadratura si restringe fino a portare il lettore su Banyan Street, luogo
esatto della tragedia. La via è descritta mediante una sequenza rapidissima di
immagini, quasi la si percorresse a bordo di un’automobile. Nuovi dettagli simbolici
completano il quadro, in questo caso mostrando prima la cultura, poi la natura. La
desolazione diventa sempre più evidente: Banyan Street “è lo strascico di
un’iniziativa finita male, un relitto galleggiante della Nuova California” (Didion,
Verso Betlemme 19). La descrizione della natura che circonda la via propone un
nuovo catalogo di elementi dal sentore tragico: il fogliame degli alberi è “troppo
rigoglioso, di un verde lucido quasi inquietante” (ibid.), le pietre sono “macerie di
una catastrofe passata sotto silenzio” (ibid.), le montagne si ergono “troppo alte e
troppo in fretta” (ibid.), il luogo è adatto solo a serpenti, cani e coyote. Emerge così
53
un concetto cardine della Weltanschauung dell’autrice: l’influenza del paesaggio
sull’agire umano, se non in termini di predestinazione almeno in quelli di poderoso
condizionamento. Inoltre, è evidente come tale descrizione sia in certa misura frutto
della proiezione del paesaggio psicologico dell’autrice, in continuità con quanto
esposto a proposito dell’intera raccolta.
Con tre pagine di ritardo, Didion presenta When e What della vicenda. Una
cronaca rapida ma ricca di dettagli fattuali, con un frammento di dialogo (che
racchiude ciò che costituiva il titolo originale del reportage, “How Can I Tell Them
There’s Nothing Left”), una piccola scena relativa al funerale e il colpo di scena
finale: l’accusa di omicidio. Segue un excursus più articolato sul Who, ossia sulla
vita della protagonista fino al giorno della morte del marito. Una storia ordinaria e
banale, in implicito contrasto con la potenza del luogo. Dapprima la promessa del
Golden Dream: nata in Canada in una famiglia disciplinata e rigorosa, Lucille
frequenta il college negli Stati Uniti, quindi conosce e sposa il dentista Gordon
Miller, e dopo vari spostamenti i due approdano in California. Di qui la scalata
sociale fino alla realizzazione del sogno, l’ingresso in piena regola nel mondo
dell’Inclusione, il “middle-class achievement” (Mc Donald): in meno di un decennio
i due “avevano conquistato la casa più grande e la strada migliore e il solito
armamentario di una famiglia in ascesa sulla scala sociale: i trentamila dollari l’anno,
i tre bambini per i biglietti di auguri di Natale, la finestra panoramica, il grande
soggiorno, le fotografie sui giornali” (Didion, Verso Betlemme 21). Sembrerebbe il
preludio di un happy ending, invece la storia continua con un’inaspettata terza fase:
la comparsa della sadness. La realizzazione del sogno produce una crescente
infelicità (la depressione e le minacce di suicidio del signor Miller, l’ipotesi di
divorzio, i barbiturici e le emicranie, le angosce economiche, la solitudine), che
raggiunge l’apice il giorno della tragedia, “uno di quei giorni che ti limano i nervi per
la noia e per le piccole frustrazioni che si portano dietro”54 (22).
Dal Who la storia scivola nell’How, nella sezione del testo più vicina ai
canoni della cronaca giornalistica: menzione di luoghi, nomi e cognomi dei
54
Si possono notare significativi punti di contatto tra Lucille Miller e il personaggio di Maria Wyeth,
protagonista di un romanzo della Didion, Play It as It Lays: entrambe vivono in un’America di
frontiera (Maria Wyeth risiede addirittura a Hollywood, pericoloso epicentro del Golden Dream),
entrambe vivono nella paradossale condizione di fallimento e realizzazione del sogno, ed entrambe
patiscono la noia e il vuoto, due affezioni ricorrenti nell’opera dell’autrice.
54
personaggi coinvolti, sinossi di deposizioni testimoniali. Didion racconta i momenti
topici della vicenda focalizzandosi di volta in volta su un soggetto diverso: Gordon
Miller per la sera del 7 ottobre, Lucille Miller per la notte, la baby-sitter per il giorno
seguente, la polizia a partire dal momento dell’arresto. In questo modo si producono
due versioni dell’accaduto, che l’autrice riporta con atteggiamento neutrale: la
versione di Lucille – per cui si è trattato di un tragico incidente – e quella degli
ispettori di polizia, che a partire dalla considerazione di molteplici incongruenze
propendono per l’ipotesi dell’omicidio.
Come di consueto, il Why è l’ultima delle Ws in ordine di apparizione. Per
ragioni antitetiche rispetto al romanzo di Capote, il lettore è nuovamente al cospetto
di un omicidio inspiegabile. Sembra impossibile comprendere:
Cosa poteva aver spinto una donna che credeva in tutte le promesse della classe media – . . .
una donna che era uscita dalla cupa desolazione del fondamentalismo della prateria per
cercare quella che immaginava essere la bella vita – cosa poteva aver indotto una donna del
genere a starsene in una via chiamata Bella Vista a guardare il sole della vuota California
fuori dalla sua nuova finestra panoramica e architettare un modo per far bruciare vivo suo
marito in una Volkswagen. (26)
Formulata la domanda, Didion propone due ordini di spiegazione. Il primo,
più superficiale, coincide con il movente individuato dalla pubblica accusa, un misto
di amore e cupidigia. Il lettore viene a conoscenza della relazione clandestina tra
Lucille Miller e un facoltoso avvocato, un’altra parabola canonica interna al mondo
dell’Inclusione, dove l’agiatezza economica si accompagna a una sadness
inquietante: ben presto i due amanti virano dal romanticismo all’acredine, alla triade
“violenza, minacce e ricatto” (27), alla stucchevole salvaguardia della propria
reputazione, fino ai nastri registrati di nascosto e alla provvidenziale apposizione
della parola fine. Il secondo movente è la cupidigia: oltre a quello dell’amante, la
donna mira al denaro del marito, sotto forma di una lauta assicurazione sulla vita.
Come attesterà il parere della giuria durante il processo, “Lucille Miller era una
donna che aveva sbagliato nel volere troppo” (31). La ragione profonda è però
un’altra, individuata con parole esatte fino al millimetro:
L’elemento più sconcertante nella causa che lo Stato della California stava preparando
contro Lucille Miller era qualcosa che non aveva niente a che vedere con la legge, qualcosa
che non compariva mai negli articoli a otto colonne dell’edizione pomeridiana, ma si celava
sempre tra la righe: la rivelazione che il sogno stava insegnando ai sognatori come vivere.
(27-28)
55
Il sogno americano si è trasformato da fattore di crescita e progresso a veicolo
di indottrinamento e coercizione ai “valori” che propone, un sogno che non è più
capace di liberare i sognatori ma solo di assoggettarli.
Il reportage si avvia alla conclusione con la cronaca del processo. Didion
propone un ulteriore ritratto dello stato di sadness generalizzata che grava sulla
California (espropriazioni forzate, scariche gratuite di proiettili, voyeurismo
scandalistico, tentati suicidi), quindi propone un resoconto della vicenda giuridica
attraverso frammenti di dialogo e dettagli simbolici (i vetri rotti dell’aula di tribunale
per via della folla, le bibite ipocaloriche delle ragazze morbosamente attratte dalla
vicenda, l’acconciatura sbagliata dell’imputata, i suoi abiti premaman a sancirne lo
stato interessante). I membri della giuria compongono un nuovo catalogo di inclusi:
“Un’assemblea di quegli stessi suoi pari – casalinghe, un macchinista, un camionista,
un direttore di supermercato, un impiegato del catasto – al di sopra dei quali Lucille
Miller aveva tanto desiderato elevarsi” (31). Il verdetto dichiara la donna colpevole
di omicidio di primo grado e la confina al California Institution for Women di
Frontera, in compagnia di molte altre assassine, “un sacco di ragazze che in un modo
o nell’altro hanno frainteso la promessa” (34). Lucille sconta la sua pena, e la vita va
avanti: la nascita della figlia, il nuovo matrimonio dell’amante. Sul finale, Didion
ribadisce la propria tesi: “Nessuno crede che il passato abbia qualche influenza sul
presente o sul futuro, nella terra dorata, dove ogni giorno il mondo rinasce dal nulla”
(35). È un finale ancor più radicale di quello di In Cold Blood, con cui pure si allinea:
anche in California nessuno tiene conto dell’esperienza passata, ma qui non sono le
persone a operare la rimozione, è il luogo stesso che cancella.
L’artistry di Joan Didion può essere individuata in primo luogo nella
peculiare declinazione di una delle dimensioni costitutive del reportage narrativo,
quella legata all’immissione della soggettività dell’autore nel testo. Ad eccezione di
un caso (l’appellativo diretto al lettore in uno dei paragrafi d’apertura), l’autrice non
manifesta in modo esplicito la propria presenza: racconta in terza persona, non
commenta, si colloca in una posizione di neutralità (sia nel riportare con eguale
distacco entrambe le versioni dei fatti sia nell’astenersi dal formulare un giudizio in
merito alla sentenza). Si badi che tale atteggiamento non conduce all’eclissi
56
dell’autrice dal testo: “It is her very refusal to shed light that makes the writing so
powerful. This is not to say that she is without opinion; she is, in fact, often extreme
and rigid in her response to the world. But we have to work hard to extract those
responses, and it is her art, finally, that mediates and makes them palatable”55 (Lass
12). A ben vedere, la presenza dell’autrice emerge con chiarezza in diverse
circostanze: nell’immissione del proprio vissuto interiore in elementi esterni, in
primo luogo il paesaggio, nelle scelte stilistiche, nella scrittura “maieutica”56 ed
esente da ogni didatticismo, in aperta contraddizione con le presunzioni di oggettività
e compiutezza del giornalismo tradizionale. La soggettività è inevitabile, come
chiarisce l’autrice stessa in uno dei saggi autobiografici della raccolta: “I nostri
appunti ci tradiscono, perché per quanto diligentemente registriamo ciò che vediamo
intorno a noi, il comune denominatore di tutto ciò che vediamo è sempre, in modo
trasparente e sfacciato, l’implacabile ‘IO’” (Didion, Verso Betlemme 121).
Lo stile è uno degli elementi più apprezzabili della prosa di Joan Didion: uno
stile tagliente, affilato, chirurgico. Tanta esattezza è l’esito di un’instancabile ricerca
della parola perfetta e di un costante lavoro di re-typing, di finissima limatura
applicata a ogni pagina. La similitudine individuata è ancora una volta chiarificatrice:
“Writing nonfiction is more like sculpture, a matter of shaping the research into the
finished thing”57 (Als). Il talento di Joan Didion emerge in primo luogo nelle sue
frasi: “Sentences are Didion’s specialty, her trademark and signature . . . She’s good
at the short, pithy ones . . . And she’s good at the long sonorous ones that loop back
and forth within themselves like a circus aerialist before arriving breathtakingly at
their conclusions”58 (Lacy 501-502). Altra cifra stilistica di Joan Didion sono i
dettagli, emblemi di una scrittura per sottrazione che anticipa la tendenza minimalista
degli anni Ottanta: dettagli come sineddoche di intere scene, dettagli simbolici e
allegorici capaci di nascondere profonde stratificazioni di significato, dettagli fattuali
per assicurare accuratezza e credibilità.
55
“È il suo stesso rifiuto di emanare luce che rende la scrittura così potente. Ciò non significa che non
abbia un’opinione; anzi, è spesso estrema e rigida nella sua risposta al mondo. Ma dobbiamo faticare
per estrarre tali risposte, e infine è la sua arte a fare da intermediario e a renderle gradevoli”.
56
Come recita ancora il risvolto dell’edizione italiana.
57
“Scrivere nonfiction è più come la scultura, una questione di modellare la ricerca nel lavoro finito”.
58
“Le frasi sono la specialità di Didion, il suo marchio di fabbrica e la sua firma . . . Le riescono bene
quelle brevi e concise . . . E le riescono bene quelle lunghe e sonore che ondeggiano avanti e indietro
come fa un trapezista lasciando senza respiro prima di arrivare alla conclusione”.
57
A livello dei temi trattati, il valore letterario del reporting dell’autrice risiede
nella capacità di inferire il generale dal particolare, di ergere fatti di cronaca minuta a
simbolo di questioni ampie e squisitamente americane. L’autrice sintetizza due tòpoi
della cosmologia degli Stati Uniti nel concetto di Golden Dream: il mito del West
(con riferimento implicito alla Frontier Thesis di Frederick Jackson Turner) e
l’American Dream. Il Golden Dream rappresenta l’utopia, il caso di Lucille Miller la
cruda realtà. All’autrice spetta l’onere di spiegare perché anche l’inclusione nel
sogno possa produrre sadness. La risposta è caustica ma non elusiva: la promessa del
West è un’illusione, un inganno che prima seduce e poi non mantiene. Andando a
Ovest non si realizza il sogno ma se ne scopre il dark side: “Didion exposes the
underside of the great Golden State myth: that it is a land of reinvention, in which we
escape the past to find ourselves. For the Millers . . . it is a land of disconnection in
which we are not reborn but lost”59 (Ulin). In primo luogo, è la terra stessa che non
mantiene la promessa: non una terra di latte e miele ma una “harsher California”
catastrofica, apocalittica e potente al punto tale da indurre al peccato attraverso la
forza dei suoi elementi. Di conseguenza, la promessa non può essere mantenuta tra
gli uomini: la California è vuota, pura apparenza sociale e morale, luogo di falsi idoli
materialisti e superficiali; i proclami della comunicazione di massa vendono – o
meglio
svendono
–
una
versione
degenerata
dell’American
Dream.
L’interiorizzazione di tale versione è l’inevitabile passo successivo: il sogno insegna
ai sognatori come vivere. L’esito finale è la sadness tipica degli inclusi: sconforto,
inquietudine, ansia, e soprattutto la noia, con i risvolti tragici di cui il caso di Lucille
Miller è solo uno degli innumerevoli esempi possibili. La noia è l’ombra più subdola
del sogno, quella prodotta per eccesso di luce; il Santa Ana ne è simbolo, il vento che
soffia dal deserto e diffonde sterilità ovunque si posi.
Ci sono volute molte parole per comprendere una visione del mondo che
Michael Cunningham – presentando l’autrice nel 2007 durante la cerimonia di
assegnazione della Medal for Distinguished Contribution to American Letters –
propone di definire semplicemente come “Didionesque”: la presenza in assenza del
vuoto della California.
59
“Didion rivela il rovescio della medaglia del grande mito del Golden State, secondo cui [la
California] è una terra di reinvenzione, in cui scappare dal passato per trovare se stessi. Per i Miller . .
. è una terra di disconnessione, in cui non si rinasce ma ci si perde”.
58
3.2 William T. Vollmann: l’American sadness dell’Esclusione
Come quello di Joan Didion, anche il reportage di William T. Vollmann60 è
ambientato in California. Non molto altro accomuna i due testi, quasi agli antipodi
per atmosfere, soggetti, qualità del reporting, stile. Vollmann è un escluso che scrive
di esclusi: i suoi personaggi sono “anime perse”, soggetti spregevoli, alienati e
disperati. L’autore vi si accosta con atteggiamento aperto e libero dal pregiudizio,
nella convinzione che ogni mondo sia degno di essere raccontato: “Everyone’s world
is no more and no less important than everyone else’s. To have as many worlds as
possible that are invested with interest or meaning is a way of making that point”,61
dichiara l’autore in un’intervista (McCaffery, “Vollmann”). Il luogo eletto di
Vollmann è il margine della società: egli se ne sente istintivamente attratto, possiede
una naturale propensione all’autodistruzione e lo identifica come sede privilegiata di
conoscenza e comprensione del mondo. Se è ancora possibile trovare una verità, è
qui che bisogna cercare: “The more extreme and exotic the experience and the more
difficult the people, the more I learn . . . Frequently the extreme case illustrates the
general case – and sometimes it can do this more forcefully and memorably than the
ordinary is able to”62 (ibid.). Le conseguenze di tale costitutiva predilezione si
manifestano nella sua scrittura, unanimemente riconosciuta come innovativa, audace,
eccentrica, esplosiva, irriverente e via di seguito.
60
William Tanner Vollmann nasce a Los Angeles nel 1959. La sua infanzia è segnata da un tragico
lutto: all’età di nove anni la sorella minore, sotto la sua supervisione, muore annegata. Conduce una
vita turbolenta e attratta dall’estremo: frequenta i margini della società, fa uso massiccio di droghe e
psicofarmaci, viaggia nelle zone più pericolose del pianeta. Nel 1982, dopo essersi laureato con lode
alla Cornell University (New York), parte per l’Afghanistan per combattere a fianco dei mujaheddin,
riportando le sue esperienze in An Afghanistan Picture Show: Or, How I Saved the World (1992).
Tornato in patria, di giorno lavora come programmatore e di notte rimane in ufficio a comporre il
primo romanzo, You Bright and Risen Angels (1987). Sempre a cavallo tra fiction e reportage, la sua
produzione letteraria è caratterizzata da un’estrema prolificità: The Rainbow Stories (1989), 13 Stories
and 13 Epitaphs (1991), The Atlas (1996), Europe Central (2005) e vari volumi di nonfiction, tra cui
Imperial (2009). Nel 2003 esce Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence, Freedom
and Urgent Means, un trattato sulla violenza di oltre tremila pagine. La serie Seven Dreams: A Book
of North American Landscapes, sette volumi di storia americana a partire dai vichinghi, è pubblicata
dal 1990 e ancora in corso di completamento. La “Prostitution Trilogy” comprende Whores for Gloria
(1991), Butterfly Stories: A Novel (1993) e The Royal Family (2000), raccontando il mondo della
prostituzione dagli Stati Uniti all’Estremo Oriente. Nel 2005 ottiene il National Book Award for
Fiction.
61
“Ogni mondo non è più o meno importante di ogni altro. Investire più mondi possibili di interesse e
significato è un modo di illustrare il concetto”.
62
“Più l’esperienza è estrema ed esotica e più sono complicate le persone, più imparo. Spesso il caso
estremo illustra quello generale – e a volte lo fa in modo più enfatico e memorabile dell’ordinario”.
59
The Rainbow Stories – la raccolta da cui è tratto il reportage oggetto d’analisi
– è una delle prime opere dello scrittore, pubblicata nel 1989.63 Tredici storie per
tredici modulazioni dell’Esclusione, ognuna identificata con un colore dello spettro
luminoso. Circoscrivendo il campo ai racconti ambientati nell’America degli anni
Ottanta, l’arcobaleno è ancora ampio: tossicodipendenti e malati terminali
(simboleggiati mediante i colori delle linee segnaletiche dell’ospedale), skinhead (il
bianco dell’orgoglio razziale), prostitute (i quartieri a luci rosse), immigrati (giallo
come l’etnia della protagonista), feticisti (il vestito verde oggetto della fissazione),
mendicanti alcolizzati e killer seriali (il blu profondo della morte e della perdita),
fino a cadaveri di disperati osservati al bianco e nero dei raggi X. La progressione
narrativa risulta chiara: il nero è la meta, il colore dominante e prediletto. Come
dichiara l’autore stesso nella prefazione, “Niente è più bello del buio più oscuro”
(Vollmann 9). Inoltre, le storie sono interdipendenti, non solo perché costituiscono
tappe intermedie di un medesimo percorso, ma anche per una fitta rete di rimandi ed
elementi ricorrenti. Relativamente al genere, la questione è ambigua e controversa.
The Rainbow Stories appaiono come ibrido di fiction e nonfiction: storie mitiche e
fantastiche si alternano a resoconti dal sapore giornalistico e a forme narrative
variamente contaminate. L’autore è presente sulla scena in una posizione altrettanto
mutevole, talvolta calandosi perfettamente nei panni del “New Journalist”, talvolta
inserendo tra i personaggi anche un alter-ego parzialmente fittizio. In pieno stile
vollmanniano, la “Nota sulla verità dei racconti” posta in calce non contribuisce a
fare chiarezza. Egli dichiara di aver riportato fedelmente i racconti riferitigli ma di
non aver controllato alcuna fonte, quindi ammette alcune alterazioni, e – senza
discutere i metodi del reporting operato in prima persona – liquida la questione
ridimensionando il valore della verità: “In fondo che me ne frega se corrispondono o
meno alla verità? Se uno mi racconta una storia, probabilmente sarà vera per lui;
comunque sia, perché non può diventare vera per me? . . . Se la mia ingenuità non vi
va a genio, beati voi; costruirete grandi castelli di logica ferrea, ne sono sicuro,
mentre il mio fa acqua da tre anni” (667). Quanto al tema, gli intenti sono invece ben
riconoscibili:
63
La prima edizione italiana è del 2001, un altro esempio di ritardo editoriale. L’opera è tradotta col
titolo I racconti dell’arcobaleno.
60
In The Rainbow Stories I wanted to understand what America is like . . . I wanted to look at
lost souls and marginal people, with the hope that maybe by understanding them I could help
them somehow . . . The experience of writing The Rainbow Stories led me to realize that I
still didn’t really understand anything about America and that I probably never would.64
(McCaffery, “Vollmann”)
Tra le storie della raccolta, “Ladies and Red Lights” è quella maggiormente
assimilabile ai canoni della nonfiction: l’autore riporta le proprie incursioni nel
Tenderloin – il quartiere a luci rosse di San Francisco – per osservare da vicino la
vita delle prostitute e del girone infernale che le circonda. Se l’allure giornalistica
costituisca un carattere autentico o una strategia comunicativa non è dato sapere:
come l’autore con i soggetti che incontra, anche il lettore può solo predisporsi a
credere alle cronache di Vollmann, senza preoccuparsi di distinguere se provengano
dalla realtà esterna o dalla fervida immaginazione dello scrittore. Sancito il patto
della credibilità, il testo può essere assunto in qualità di reportage: tra le sue pagine è
possibile riconoscere una dimensione geografica ben sviluppata, una dimensione
soggettiva evidente come quella oggettiva, un’utile dimensione informativa e, infine,
una dimensione stilistica molto curata. Ciò che manca al reportage di Vollmann è la
qualità narrativa: la sua è una “storia senza storia”, una collezione di vignette in cui
è assente la trama, il filo capace di tener uniti gli eventi. Una mutilazione audace,
consona a un reporter anarchico ma anche rispondente a precisi intenti comunicativi,
come si avrà modo di dimostrare.
Per una ricapitolazione del racconto è possibile identificare dapprima un
Where quindi un Who, badando di intendere entrambi come elementi ricostruiti ex
post e non già codificati come tali dall’autore. Il Where è il Tenderloin, una zona
pericolosa e degradata in cui si incontrano non solo prostitute, ma anche
tossicodipendenti,
skinhead,
vagabondi
e
alcolisti.65
La
descrizione
è
geograficamente accurata (nomi di vie, parchi, bar e locali) e particolarmente attenta
ai colori: quelli del Tenderloin sono il nero della notte – l’unico tempo di vita del
quartiere – e il giallo e il rosso delle insegne che illuminano la strada. Ecco un
esempio delle descrizioni cromatiche dell’autore: “Di notte Turk Street si tingeva di
64
“In The Rainbow Stories volevo tentare di comprendere l’America . . . Volevo guardare alle anime
perse e alle persone che vivono ai margini, con la speranza che comprendendole avrei potuto aiutarle
in qualche modo . . . Scrivere The Rainbow Stories mi ha condotto a realizzare che non ho ancora
capito nulla dell’America e che probabilmente non lo farò mai”.
65
Nel reportage si registrano anche sporadiche incursioni a North Beach, Haight Street e Castro
Street, altre zone di San Francisco a elevato tasso di prostituzione.
61
giallo e rosso acceso, come l’interno di un cadavere. Le luci rosse sfavillavano dagli
spacci dei liquori e dai pornoshop. Le insegne al neon riproducevano bicchieri da
cocktail e gambe di donna. Entravano in funzione i gialli rettangoli di luce dei
peepshow” (119). Per il resto, l’autore offre un quadro di sadness generalizzata, che
coinvolge cose e persone: “Un universo infinito di pioggia, buio, strade, inferriate,
spacci di alcolici, vomito e piscio” (173). Il Tenderloin è un luogo di perdizione:
oltre alla prostituzione, vi regnano malattia, dipendenza, criminalità, violenza e un
desolante razzismo tra esclusi (una scena feroce ritrae una lite a colpi di vuoti di
bottiglia tra bambini, ciascuno identificato con il colore della minoranza razziale di
appartenenza).
Il Who sono innanzitutto le prostitute – o meglio le “puttane”, come sono
definite dall’autore nell’opera. Il racconto si sofferma sulle molteplici declinazioni
della categoria: passeggiatrici, call-girl, performer di locali e lavoranti varie presso
centri massaggio, hotel e case chiuse. Vollmann dedica un ritratto a ogni ragazza: a
volte è un flash di poche righe, a volte un collage di scene consecutive, oppure un
mosaico di tessere sparse nel testo. Il risultato è un lungo elenco di caratteri
femminili: Virginia (che si spoglia in uno stanzino mentre gli uomini la osservano
dalle loro finestrelle), le spogliarelliste del bar Dino’s (che ballano “come dee alate”
[116] con le banconote intorno agli slip), Starr (che attira la clientela con una danza
perpetua e sfinente), Denise e Lucy (sorprese in attività dalla buoncostume), Tina (un
po’ prostituta, un po’ mendicante, conosciuta mentre gironzola a vuoto in un parco),
Ginger (che offre servizi a domicilio), Christina (la prostituta invidiata per la
clientela fissa, di cui si riporta il listino prezzi delle singole prestazioni), Brandi
(dedita a prostituzione, spaccio, elemosina e ogni altra attività collaterale) e molte
altre. Alle spalle di ogni prostituta c’è sempre un protettore, secondo Who delle
storie. I “magnaccia” – come li chiama Vollmann – sono una presenza muta e
intimorente, identificata a partire dallo sguardo. Opulenti, armati e sempre intenti a
controllare le loro proprietà, essi ricorrono alla parola solo per minacciare violenza e
punizioni corporali: “A volte vedevo dei neri spaccare le bottiglie su quel
marciapiede, dopo la retata della polizia a mezzanotte. Prendevano lunghi pezzi di
vetro e li agitavano in faccia alle loro donne. ‘Portatemi un po’ di soldi, brutte
puttane negre del cazzo!’ strillavano. ‘Muovete quei culi neri che vi ritrovate!’”
62
(131-132). La prosa di Vollmann evita giudizi morali espliciti, eppure è riconoscibile
un tono sprezzante nell’abbozzo di tali figure, che non a caso rimangono senza
nome: “Portava un cappottone di tweed, una sciarpa bianca, i calzoni bianchi e un
paio di scarpe extra-lusso. Meno male che poteva indossare abiti così caldi, mentre la
sua banca elastica doveva starsene a battere i denti con le cosce di fuori! Ma lui se ne
fregava” (154). Anche il terzo soggetto – il cliente – è relegato nell’anonimato. Il
frequentatore di prostitute è identificato genericamente come “uomo” o – per
sineddoche – addirittura come “pene”. Al funzionamento di “Mr Pene” (135) è
dedicato l’unico momento riflessivo del testo, con una divagazione sul tema
insolitamente lunga, che avvicina Vollmann a un David Foster Wallace ante litteram.
Una digressione presentata con un misto di disprezzo e compiacimento, risultante in
un’accumulazione di dettagli piuttosto carica. Il quadro dei clienti si completa
mediante altri due soggetti: i marinai di North Beach, un branco di uomini pronti ad
abbandonare le fattezze di esseri senzienti e ad avventarsi sulle prostitute “come
formiche su una brioche” (131), e Vollmann stesso. L’autore non solo annota l’esatta
somma di denaro corrisposta alle prostitute in cambio delle informazioni, ma riporta
la cronaca di alcuni rapporti sessuali esperiti in prima persona. L’ultimo soggetto è la
polizia, impegnata in un costante “gioco del gatto col topo” (140). Benché la polizia
sia identificata come il principale antagonista, Vollmann ne rimarca l’attitudine
benevola e compassionevole, tanto esasperata da risultare falsa e canzonatoria.
Inoltre, la polizia è ritratta come soggetto sicuro e pacatamente disilluso: come
dichiara l’agente Henry, “la prostituzione non la controlli mica. Esisterà sempre.
Tutt’al più la puoi mantenere nella stessa zona. Il problema non lo risolvi. Non c’è
proprio verso” (183).
Chiarita la struttura episodica del testo, resta da valutarne l’efficacia
complessiva. Alcuni critici ritengono la strategia antinarrativa a blocchi di Vollmann
intenzionale e riuscita: “The intent of the arrangement is to break the constraints of
narrative continuity so as to draw structural and thematic analogies between
otherwise unrelated story lines”66 (Bell 41). Per altri il testo rimane privo di
continuità, una “self-indulgent accumulation of facts” (James). Sebbene le micro
66
“L’intento della composizione è di rompere i vincoli della continuità narrativa per delineare
analogie strutturali e tematiche tra storie altrimenti scollegate”.
63
vignette contenenti frammenti di dialogo o brevissime scene costituiscano la
maggioranza, nel testo si osservano alcuni inserimenti di sezioni narrative, avvincenti
e ben congegnate: episodi della lunghezza di qualche pagina, sviluppati secondo un
subject (come la descrizione delle serate da Dino’s, l’episodio dei marinai di North
Beach, la storia di Christina, la scena finale con Brandi, al limite anche la
divagazione su Mr Pene), oppure blocchi consecutivi di fatti interrelati e ordinati
cronologicamente (per esempio, gli episodi riguardanti Denise e Lucy, la storia di
Tina, la cronaca dell’incontro di Vollmann con Ginger, la narrazione alternata delle
vicende di Christina e Brandi). Dunque, Vollmann è un narratore capace, che
coscientemente rinuncia al proprio mestiere nell’intento di rendere il proprio testo
scomodo sotto ogni punto di vista, ivi compreso quello narrativo. È una scelta
radicale, che in definitiva risponde a esigenze di onestà e verosimiglianza, nel rifiuto
di costringere un mondo perso, incoerente e disperato nell’ordine pacificante di una
trama.
Il reportage di Vollmann può essere considerato un esempio estremo di
giornalismo immersivo, di totale adesione ai dettami del saturation reporting, quasi
“una patologia terminale della massima hemingwayana sul raccontare solo ciò di cui
si conosce tutto” (Barillari). Tale coinvolgimento muove dalla realtà alla pagina,
manifestandosi in primo luogo nella scelta della narrazione in prima persona.
L’autore si cala nel racconto sia in qualità di osservatore sia in quelli di soggetto
attivo e partecipante, talvolta dotandolo addirittura di carattere metatestuale.
Vollmann si ritrae come frequentatore abituale di prostitute – soggetti per cui nutre
un interesse documentario ma anche un’evidente attrazione personale – e come
personaggio compromesso al pari degli altri: anche lui beve, subisce violenze,
gironzola armato per le strade del Tenderloin. Una presenza costante ma mai votata
al commento, alla riflessione o alla formulazione di giudizi. L’Io di Vollmann è
evasivo e amorale: come chiarisce l’autore fin dalla prefazione, “sono diventato un
semplice angelo che prende nota anziché un Michele o un Gabriele” (Vollmann 9).
L’altra faccia della medaglia mostra una presenza disturbante: esplicita, morbosa,
eccessiva, estenuante al punto tale che è difficile sopportare il resoconto anatomico
del sesso consumato tra Vollmann e l’ennesima prostituta senza cedere alla
tentazione di chiudere il libro. Anche in questo caso, l’autore opta per un’onestà
64
radicale, tale da includere la cronaca svergognata della propria sporcizia, della
propria corruzione. L’incubo di Vollmann non è la compromissione, ma l’ipocrisia
di un racconto neutrale e asettico, narrato mantenendo la giusta distanza. La posta in
gioco è alta anche per il lettore: suo il compito di superare l’istintiva repulsione, di
accettare la presenza di un’umanità scomoda e – soprattutto – di riconoscersi parte di
essa, sfidando se stesso a fare i conti con i propri “personali, sporchi e indegni orrori”
(Briasco e Carratello 681).
Coerentemente, lo stile è massimalista, un’autentica arte dell’eccesso. Il
linguaggio è esplicito, spesso sconfinante nel turpiloquio, e le descrizioni esasperano
i dettagli più disturbanti, insistendo morbosamente su nudità e anatomia o su
particolari macabri. Il massimalismo si declina anche in una prosa erudita, ricca di
metafore colte, virtuosismi e “periodi arabescati” (Pincio 2012) che contrastano con
la crudezza della materia narrativa. Quando non scade nel barocco, l’effetto è poetico
e finemente letterario: “Ormai nel parco era tardo pomeriggio. Le ombre strisciavano
sui corpi immobili degli ubriachi, avanzando lente, rispettose, come se dovessero
ingigantirsi ma odiassero dare fastidio” (Vollmann 126). Infine, si registra l’uso
insistito del colore, in continuità con la linea complessiva dell’opera, e il ricorso a un
typesetting vario (corsivo per enfasi o citazione, maiuscolo, cambio di dimensione e
stile del set tipografico).
La prostituzione è un tema particolarmente caro a Vollmann: come dichiara in
un’intervista, ciò che lo affascina delle prostitute è “il fatto che abbiano tutte insieme
le cose più interessanti della vita: sesso, amore e denaro, a volte morte” (Barillari). Il
tema consente l’indagine di una delle manifestazioni più esplicite di American
sadness: le prostitute di Vollmann sono tristi, non a caso i loro sguardi sono spesso
qualificati mediante questo aggettivo. Inoltre, l’autore rimarca il loro allontanamento
forzato dalla vita, il senso di sconfitta: “Mi hanno fregata, mi hanno rubato la VITA, e
sono stanca. E non voglio piangere . . . Sono stanca” (Vollmann 144). Infine, egli ne
enfatizza l’insondabilità, ricorrendo più volte alla metafora dell’acquario – come se
un vetro separasse le prostitute dal mondo – sottolineando l’impossibilità di coglierne
i pensieri e dichiarando: “Posso solo dare un titolo ai ritratti mancanti delle puttane”
(139). Nel testo è palese la reticenza intorno al Why: le vicende si concentrano sul
65
presente, senza un’analisi dei fattori che hanno contribuito a rendere i personaggi ciò
che sono. Le sporadiche incursioni nel passato risultano sbrigative e semplicistiche,
delineando per sommi capi una storia canonica di sfruttamento e violenza. I due
frammenti intitolati “Perché Christina faceva la puttana” e “Perché Brandi faceva la
puttana” sono lunghi ciascuno due righe: si fa accenno a denaro, figli, avidità, ma
non si sviluppa nessuno di tali argomenti. Dunque, Vollmann punta al presente per
restituire umanità e dignità al mondo delle prostitute. Esse sono ritratte come esseri
senzienti, diversamente dagli uomini che le frequentano: “Mi resi conto che (per
un’ora, almeno) Ginger sarebbe stata una creta da modellare e rigirare a piacimento.
Il pensiero mi riempì di terrore perché la creta mi avrebbe guardato e giudicato, oltre
che pensato con la propria testa” (162-163). Accostandosi alla disperazione di una
prostituta, il ritratto – comunque crudo ed esplicito – acquista un nota
compassionevole ed empatica. Osservando Starr, l’autore commenta:
Lì per lì pensai che ballasse per divertirsi, a differenza delle spogliarelliste di Dino, ma poi
mi venne in mente che anche lei ci era costretta. Neanche lei si divertiva. Quella notte il
mondo l’accarezzava per il verso sbagliato, come un amante con mani di carta vetrata,
costringendola a una danza da tarantolata, che doveva andare avanti fino allo sfinimento.
(123)
Infine, le prostitute sono qualificate come madri amorevoli, capaci di
sopportare ogni umiliazione per prendersi cura dei propri figli. Interrogata da
Vollmann, Brandi dà la risposta canonica: “Un milione di dollari? Tesoro, lo avrebbe
speso tutto per suo figlio. Gli voleva un bene dell’anima, a suo figlio. Avrebbe dato
la vita per lui” (170). Completando il quadro, la sadness coinvolge anche il ritratto
dei clienti – imperniato sulla solitudine – e della città intorno al Tenderloin,
presentata come vacuum sociale votato all’indifferenza.
Mediante il suo ritratto dell’Esclusione, Vollmann intende gettar luce su un
mondo sommerso, stimolare l’empatia del lettore e allargarne i margini di
consapevolezza, unica garanzia di tutela da forme tragiche di convergenza. Il passo è
lungo: dalla rimozione dell’altro dei personaggi di In Cold Blood e dalla totale
ignoranza di un mondo diverso dal proprio di quelli di “Some Dreamers of the
Golden Dream” alla comunione estrema con gli esclusi più marginali. Nonostante la
nobiltà delle intenzioni, il risultato non può dirsi del tutto riuscito. Ciò che pesa non è
la debolezza della struttura narrativa o la dispensa dal giudizio morale – elementi
66
funzionali e integrabili dal lettore – ma l’assenza di un frame e di un Why. Mancano
la contestualizzazione sociale e l’indagine meditata delle cause, fiore all’occhiello
dei reportage precedentemente analizzati. Il testo di Vollmann resta monco: le sue
prostitute sono bidimensionali, corpi esibiti come se la nudità potesse supplire alla
mancanza di rilievo delle figure. La stessa mimesi dell’autore si consuma solo
superficialmente: Vollmann indugia a mostrare la propria sporcizia e corruzione,
come se essere sporchi e corrotti fosse un valore che non richiede di essere spiegato.
La convergenza capace di sanare l’American sadness è anzitutto quella tra l’autore e
i soggetti che incontra – inclusi o esclusi che siano – ma dev’essere una convergenza
a tutto tondo, esito di un coinvolgimento magari meno esplicito, ma certamente
superiore in quanto a profondità.
3.3 Altri inclusi ed esclusi d’autore
Con Sarah Vowell67 l’American sadness muove dalla California ai cieli aperti
del Montana, fino a raggiungere l’East Coast. Take the Cannoli: Stories From the
New World (2000)68 è una raccolta di testi di nonfiction dal carattere marcatamente
autobiografico: l’autrice volge lo sguardo a ciò che le sta più vicino, spesso
ricavando il materiale narrativo scavando à rebours nella sua storia privata. Odio e
amore la legano agli Stati Uniti, in un perenne tira e molla che la conduce a
dichiararsi “Astiosamente americana”, come titola uno dei suoi brani. I pezzi della
raccolta sono vivaci, ironici e acuti; la presenza dell’autrice mai pretenziosa: Vowell
non dà l’impressione di voler rendere la propria esperienza rappresentativa dello
stato dell’intera nazione, così, quando le storie acquisiscono valenza simbolica la
transizione risulta spontanea ed efficace. È il caso del testo d’apertura, “Shooting
67
Sarah Vowell nasce a Muskogee (Oklahoma) nel 1969, da una famiglia di discendenza Cherokee.
Cresce a Bozeman (Montana), studia presso la Montana State University e alla prestigiosa School of
the Art Institute di Chicago. Esordisce con Radio On: A Listener’s Diary (1997), quindi pubblica due
collezioni di saggi, Take the Cannoli: Stories From the New World (2000) e The Partly Cloudy
Patriot (2002). I suoi testi di nonfiction dedicati alla storia americana sono bestseller nazionali:
Assassination Vacation (2005), The Wordy Shipmates (2008), Unfamiliar Fishes (2011) e Lafayette in
the Somewhat United States (2015). Dal 1996 al 2008 partecipa allo show radiofonico “This American
Life”, spesso leggendo in onda alcuni dei suoi brani. Vowell scrive per diverse riviste, tra cui
McSweeney’s, con cui collabora fin dalla fondazione. Volto noto in TV, lavora anche come
doppiatrice. Attualmente dirige 826NYC, una scuola di scrittura no profit per ragazzi con sede a
Brooklyn.
68
Pubblicata in Italia nel 2005 col titolo Take the cannoli. Cronache dall’America vera.
67
Dad”, letto in anteprima in una puntata dello show radiofonico “This American
Life”: per raccontare la sadness insita nella fissazione americana per le armi da fuoco
l’autrice propone un ritratto del padre, autentico “redneck” e armaiolo convinto.
Vowell trascorre l’infanzia circondata da pistole, fucili, corna di cervo e cimeli di
storia americana, per cui nutre istintivamente terrore e repulsione. Ritornando al
presente, l’autrice mostra la versione matura del conflitto generazionale, offrendosi
volontaria ad assistere alla messa in funzione dell’ultimo aggeggio costruito dal
padre, una copia in scala di un cannone dell’Ottocento. Il momento topico della
narrazione coincide con la comparsa dell’empatia, nel tentativo di comprendere
posizioni diverse pur restando fedeli alle proprie idee: un altro indizio sulla via da
seguire in caso di convergenze tra mondi lontani.
Restando all’interno dell’asse dell’Inclusione, il reportage “Species-onSpecies Abuse” ritrae un’America fortemente coinvolta dalla propria sadness. A un
mese esatto dalla strage di Columbine,69 Vowell vola a Orlando (Florida) alla volta
di Disneyworld, meta eletta del divertimento di massa: “’Disney World è il fegato
del Paese, è il posto in cui si filtra il sangue dell’America’” (Vowell 102). Dopo una
visita al quartiere patriottico Liberty Square (con tanto di Presidenti in versione
animatronic) e un’incursione a Frontierland (il paradossale tributo a Mark Twain e
Tom Sawyer), l’autrice giunge a Celebration. Celebration è la cittadina attigua al
parco, autentica reificazione dell’utopia Disney: case ordinate, strade pulite a misura
di bambino, parchi rigogliosi tosati al millimetro. La “città sulla collina” che si erge
sopra la natura vergine della Florida (una volta eliminato chi vi abitava) offre una
versione igienica del sogno americano, quello di “una comunità nostalgica, xenofoba
e inquietante” (115). Una perfezione tanto più angosciosa – quasi lynchiana – se
confrontata con la realtà osservabile fuori dai confini del parco. A un certo punto,
Vowell nota enormi cosce di tacchino in vendita sulle bancarelle e una famiglia che
ne lancia pezzetti in pasto ai piccioni: una “violenza intraspecie” a marchio Disney,
ignorata al pari di quella che si consuma nel mondo reale, dove ragazzi armati fanno
strage di altri ragazzi nelle aule dei loro licei.
69
Il 20 aprile 1999 Eric Harris e Dylan Klebold, due studenti della Columbine High School
(Colorado) si introdussero nell’edificio scolastico e aprirono il fuoco, uccidendo dodici compagni e un
insegnante, quindi si tolsero la vita.
68
Relativamente alla sadness interna all’asse dell’Inclusione, è d’obbligo la
menzione di due reportage firmati da David Foster Wallace,70 entrambi reperibili
nella raccolta Consider the Lobster. And Other Essays (2005).71 “The View From
Mrs. Thompson’s” – pubblicato per la prima volta su Rolling Stone nell’ottobre del
2001 – è una cronaca piuttosto anomala dell’Undici Settembre vissuto da Wallace a
Bloomington (Illinois). Dopo la sineddoche d’apertura (una breve scena all’interno di
una stazione di servizio, ai cui avventori l’attacco terroristico è parso come un film),
Wallace propone una lunga sezione di carattere descrittivo, certamente non conforme
alle aspettative del lettore americano a poche settimane dalla tragedia: l’autore si
sofferma sulle bandiere esposte in ogni angolo della cittadina, quindi si concentra su
Bloomington e sulla presenza più ingombrante nelle case dei suoi abitanti, la
televisione. A sei pagine dall’inizio, Wallace avvia la cronaca del giorno dell’attacco
alle Torri: essendo l’unico a non possedere una
TV,
egli vive l’Undici Settembre
presso l’abitazione di un’anziana conoscente, la signora Thompson. Tale peculiare
“vista” stimola una tesi coraggiosa e lucidissima: la signora presso cui è ospite è
simbolo di un’America innocente, che si accosta al messaggio televisivo con occhio
vergine e ingenuo, convinto di potervi trovare riflessa la realtà, non già una sua
rappresentazione. L’attacco alle Torri ha però a che fare con un’altra America, quella
colpevole, cui Wallace stesso sente di appartenere: l’America dallo sguardo cinico,
che plasma la realtà secondo i propri fini e la dà in pasto a chi mantiene ancora la
naïveté circa la neutralità del mezzo: occhi capaci di immettere – o riconoscere –
significato nelle maniche arrotolate dei cronisti, nei capelli scompigliati ad arte,
nell’insistenza sulle immagini di devastazione, nel vocabolario invasato del
Presidente. Nel Midwest della signora Thompson l’Undici Settembre sembra un film
perché così è stato rappresentato, un film post apocalittico in cui gli Stati Uniti sono
stati inspiegabilmente attaccati. In questo caso, la sadness percepibile è quella
dell’autore, sempre più alienato da un contesto d’innocenza non riconosciuto come
proprio.
“Consider the Lobster” è il reportage che presta il titolo alla raccolta,
destinato originariamente alle pagine di Gourmet, rinomata rivista culinaria
statunitense. Wallace è inviato al 56° Festival dell’Aragosta, tenutosi a Rockland
70
71
Per la cui biografia si rimanda al prossimo capitolo.
L’edizione italiana dal titolo Considera l’aragosta è dell’anno successivo.
69
(Maine) nell’estate del 2003. Qui, l’autore assiste al processo di “democratizzazione
dell’aragosta” (Wallace, Considera l’aragosta 267), ossia alla sua trasformazione in
oggetto di ricreazione di massa. L’osservazione della preparazione del prodotto
presso il tendone ristorante della fiera è l’occasione per proporre una quest morale ai
raffinati lettori della rivista: è lecito cucinare le aragoste da vive per il puro
soddisfacimento del proprio palato? L’esteso excursus scientifico-filosofico offerto
in risposta può essere interamente assunto in chiave simbolica, intendendo l’aragosta
come uno qualsiasi degli esclusi degli Stati Uniti, soggetti il cui “status morale”
(284) inferiore consente lo sfruttamento a beneficio esclusivo di un’élite dedita al
soddisfacimento parossistico dei propri piaceri.
John Jeremiah Sullivan72 è autore di una collezione – Pulphead: Essays
(2011)73 – celebrata in patria come nuova perla del New Journalism, come ritratto
per eccellenza della pop culture americana all’indomani dell’Undici Settembre. Che
si tratti di reportage, profili di personaggi o pezzi autobiografici, l’autore è
costantemente presente nella narrazione. Sullivan si mescola ai propri soggetti,
partecipa con entusiasmo alle loro vicende e si colloca in posizione paritaria, senza
pretese di superiorità: ne risulta un reporting naturale e moderato, mai votato
all’intellettualismo, riuscito più nelle sezioni di cronaca che nelle pause digressive.
“Upon This Rock” – pubblicato sulle pagine di GQ nel gennaio del 2004 – inaugura la
raccolta: un reportage dal Creation Festival, il più rinomato festival di rock cristiano
degli Stati Uniti, che ogni anno attrae nella Pennsylvania rurale migliaia di fan devoti
e giovanissimi. Tra concerti oceanici, chiacchiere intorno al fuoco con ragazzi
“infiammati d’amore per Cristo” (19), raduni in camper e cerimonie scenografiche,
Sullivan rivela il proprio profondo coinvolgimento, legato anche a questioni
autobiografiche. Per quanto le osservazioni dell’autore siano calibrate e rispettose,
emerge una chiara nota di sadness nella cromia orgogliosamente bianca dei
72
John Jeremiah Sullivan nasce a Louisville (Kentucky) nel 1974. Giornalista e saggista di successo,
scrive per The New York Times Magazine ed è southern editor per The Paris Review. Collabora con
GQ, Harper’s Magazine e altre riviste. Ha esordito nel 2004 con Blood Horses: Notes of a
Sportswriter’s son, un misto di investigazione storica sulle corse di cavalli e di personali ricordi legati
al padre, giornalista sportivo.
73
Pubblicata in Italia nel 2014 col più generico titolo Americani. Un titolo non del tutto appropriato,
considerato che gli “americani” presenti nella narrazione sono riconducibili al solo asse
dell’Inclusione.
70
partecipanti, nel clima di razzismo latente, nel fanatismo e nell’occulta opera di
persuasione con cui le sette tipicamente allargano le file dei loro adepti.
“The Real World” – altro reportage scritto per
GQ
– racconta le vicende dei
reduci dell’omonimo reality di MTV, tra comparsate alcoliche in discoteche assediate
dai fan, partecipazioni a eventi di ogni tipo, sponsorizzazioni e personali ricicli in
nuove trasmissioni televisive. Sullivan segue alcuni di questi beniamini in un locale
del North Carolina, quindi trascorre con loro una serata a Beverly Hills. L’autore
beve e chiacchiera piacevolmente, si diverte come tra vecchi amici, li considera
persone gentili e relativamente a posto. Ciò non lo esime da un’interpretazione lucida
e disillusa di un fenomeno carico di sadness. In primo luogo, essa coinvolge i reduci
e i loro seguaci, simboli di un’umanità sedotta dalla popolarità e sottomessa al valore
effimero della fama. Un’America devota a una festa continua, narcisista, ignorante e
superficiale: “Siamo noi: un popolo di selvaggio sentimentalismo che piange e
solleva pesi” (107). Inoltre, una sadness ancor più radicale emerge dalla critica
rivolta agli addetti ai lavori del mondo dei media, “professionisti” artefici di una
subdola manipolazione, quella per cui si vincola un soggetto a interpretare il ruolo di
se stesso, costringendolo a cedere la propria personalità a un personaggio che si
stigmatizza sullo schermo e da cui diventa impossibile uscire.
Con “You Blow My Mind. Hey, Mickey!”74 ci si ritrova nuovamente al parco
divertimenti di Orlando. Il reportage è la cronaca di una visita a Disneyworld esperita
sotto massicce dosi di cannabis. Sullivan vi si reca con la sua famiglia e quella di un
amico, Trevor, dipendente dalla marijuana e costantemente intento a trovare il modo
di eludere la sorveglianza per riuscire a fumarla. La cronaca delle scappatelle
distensive fa il paio con alcune digressioni, comprendenti un articolato excursus
storico-giuridico sulla nascita del parco. La sadness emerge nel clima di divertimento
forzato, esasperato e grottesco – un’allucinazione sostenibile solo sotto effetto di
stupefacenti – e nelle operazioni ben poco limpide della corporation Disney in
Florida. Ombre che non hanno impedito al mondo Disney di proliferare: “Eppure,
viaggiando in qualunque parte del mondo, incontrerai un numero assurdo di persone
per le quali Orlando è l’America” (308). Una constatazione desolante dello stato
della coscienza critica fuori e dentro gli Stati Uniti.
74
Reportage incluso nella collezione pubblicata in Italia, ma non nell’originale statunitense. Il pezzo è
stato pubblicato su The New York Times Magazine nel giugno del 2011.
71
Spostandosi sull’asse dell’Esclusione, è d’obbligo nominare “The White
Knights”, un altro reportage firmato da William T. Vollmann e contenuto nella
raccolta The Rainbow Stories, in cui l’autore esplora la comunità skinhead di San
Francisco. Anche in questo caso, egli si immerge integralmente nell’oggetto
d’indagine: trascorre oziosi pomeriggi e lunghe serate presso le abitazioni dei ragazzi
e delle rispettive “bootwomen”,75 ne ascolta discorsi e racconti, li accompagna per
strada, ne segue le vicende dentro e fuori il carcere. Il pezzo è affine a “Ladies and
Red Lights” per collocazione geografica (molti skinhead risiedono nel Tenderloin,
anche se il loro quartier generale è in Haight Street, nei pressi del Buena Vista Park,
ribattezzato pleonasticamente Skinhead Hill), per struttura narrativa (l’accostamento
di vignette indipendenti) e per qualità del linguaggio (esplicito nella resa della
violenza come in quella della volgarità, ma anche capace di squarci lirici fini e
struggenti). Rispetto al reportage precedentemente analizzato, la narrazione è meno
contratta, quindi più godibile ed efficace. L’autore ricorre alternativamente al
racconto in presa diretta (la trascrizione di lunghe sessioni di dialogo tramite il
discorso diretto o indiretto libero), al report integrale di aneddoti o racconti (spesso
narrati assumendo il punto di vista dei protagonisti) o a lunghe e dettagliate
descrizioni (memorabili quella di Haight Street, o quelle dedicate alla fisionomia e al
look distintivo dei ragazzi). Il racconto si mantiene in prima persona; le intromissioni
dell’autore sono più rare ma anche più incisive: egli esprime la propria posizione in
merito al conflitto di razza – una posizione piuttosto audace, secondo cui il torto
risiede da entrambe le parti – e allo scenario sociale più ampio, principale oggetto
d’accusa. Infine, Vollmann sottopone l’opera al giudizio degli stessi skinhead
protagonisti, in un finale metatestuale molto innovativo. La sadness riguarda in
primo luogo il binomio di noia e violenza, da cui scaturiscono esplosioni d’odio
indifferenziato, ricerca ossessiva del conflitto fisico (a volte manifestata sugli stessi
pari), provocazioni costanti. Inoltre, essa si manifesta nell’alienazione sociale: gli
skinhead sono figli della strada, miseri, ignoranti, relegati alle occupazioni più umili.
Il culmine della sadness consiste in una patetica rivalità tra esclusi: nemici non sono
solo i “negri” ma anche punk, comunisti, anarchici, hippy e omosessuali. Al pari
delle prostitute, gli skinhead sono considerati soggetti insondabili, eppure in questo
75
In gergo, la fidanzata di un ragazzo skinhead.
72
caso l’autore tenta l’impresa dello svelamento, introducendo nella cronaca ampie
sezioni di scavo nel passato più o meno recente dei soggetti. Storie che permettono di
far luce sull’origine di una sadness tanto carica d’odio, come nel caso di Bootwoman
Marisa, che trascorre l’infanzia in un riformatorio dove è il suo colore della pelle a
essere “sbagliato”. Odio che genera odio, producendo un razzismo tanto radicato e
totalizzante da corrompere la protagonista anche quando è colta nella sua umanità:
Le portai una rosa bianca, sorrise e disse caspita abbracciando me e la rosa, e mentre
arrossiva senza sapere cosa farne, una donna di colore si accostò al bancone e le disse: ‘Oh, ti
hanno regalato una rosa!’; e Marisa rimase di sasso e non aprì bocca per un bel po’, e alla
fine, dopo aver squadrato un paio di volte quella donna, disse: ‘Sì. Una rosa bianca’. (74)
Un’altra categoria di esclusi è indagata in “Big Red Son”, reportage
d’apertura della raccolta Consider the Lobster. And Other Essays, originariamente
pubblicato sulle pagine di Premiere nel settembre del 1998. Questa volta, David
Foster Wallace è inviato alla quindicesima edizione degli
AVN
(Adult Video News)
Awards, i cosiddetti “Oscar del porno” celebrati con cadenza annuale al Caesars
Forum di Las Vegas. Dopo un inquadramento del subject e un’efficace descrizione
geografica, Wallace conduce il lettore dapprima al
CES,
una fiera di elettronica
comprendente un enorme padiglione riservato alle case di produzione di cinema
erotico, quindi nella suite del “titano del porno” (Wallace, Considera l’aragosta 24)
Max Hardcore, circondato da membri dell’entourage, attrici e attricette, infine
all’interminabile cerimonia di premiazione, tre ore e mezza di “pacchiana
autoesaltazione” (48). Nel reportage si ritrovano diversi stilemi dell’autore (ironia,
applicazione dell’erudizione a qualsiasi soggetto, elenchi sovrabbondanti, lunghe
note), utili alla resa di un mondo volgare secondo tutte le accezioni del termine,
tristemente ossequioso ai suoi più triti cliché e costretto in un paradosso che lo
spinge verso la ripresa di pratiche sempre più estreme. Una declinazione grottesca
della sadness del “gemello cattivo” di Hollywood, nauseante e del tutto
inconsapevole. Dalla sadness delle attrici, che con la stessa mancanza d’espressione
delle prostitute trascorrono intere giornate “in piedi su tacchi vertiginosi a firmare
autografi, posare per le foto e stringersi a ogni tipo di carne” (11), a quella dei fan,
che con sguardi parimenti vitrei osservano l’incarnazione dei loro oggetti del
desiderio, a quella degli addetti ai lavori, talmente egocentrici, megalomani e privi di
73
autoironia da suscitare tenerezza. La sadness si acuisce quando due categorie di
esclusi collidono. È il caso dei camerieri addetti alle bevande durante la cerimonia di
premiazione, immigrati mediorientali capaci a stento di comunicare in lingua inglese
che sopportano ore di angherie pur di ottenere la loro triste ricompensa: “Quando lo
spettacolo degli Awards finisce e le luci si accendono, alcune attrici posano sempre
per delle foto oscene con i camerieri del Forum” (53).
Infine, con il reportage “Tent City, U.S.A.”76 di George Saunders77 si fa
ritorno sulla costa californiana per esplorare un’ultima categoria di esclusi: i
senzatetto. Il subject del reportage è rinvenibile in apertura: “A field study, in this
Hard Times, of the Homeless (as observed in the
H
Street Encampment, Fresno,
California). Being an examination of who they are, how they think, and what they
do”78 (Saunders, “Tent City”). Saunders si stabilisce con una tenda all’interno del
campo e, superando il proprio timore e l’altrui resistenza, esplora il luogo, il suo
codice non scritto e le storie dei suoi abitanti. L’intero reportage è redatto come
parodia umoristica di una ricerca sociologica: l’autore si riferisce a se stesso in
qualità di “Principal Researcher” e alla tendopoli come “Study Area”, infarcisce di
terminologia scientifica l’intero brano, applica il principio base dell’osservazione
imparziale e utilizza il dubbio come motore narrativo. Tale rigore metodologico si
colloca in implicito contrasto con il dato principe osservabile a Tent City, ossia la
nozione relativa di verità: “Truth was relative within the Study Area. Truth is relative
everywhere but was even more relative within the Study Area”79 (ibid.). La
narrazione avviene per mezzo di una collezione di episodi ordinati cronologicamente
che riportano lunghe osservazioni, dialoghi e analisi dei dati raccolti. La prosa è
ritmata, ironica, poetica senza scadere nel sentimentalismo. Il ricercatore Saunders
compare spesso sulla scena, anche per manifestare la propria ipocrisia (insita
nell’urgenza di prestare soccorso a una situazione finora placidamente ignorata) e i
personali sensi di colpa (quelli di chi tornerà presto tra le mura domestiche).
76
Il reportage è stato pubblicato per la prima volta su GQ il 19 settembre 1999 unitamente a uno slide
show con foto dei protagonisti commentate dall’autore. Inedito in Italia, il testo fa parte della raccolta
The Best American Nonrequired Reading 2010, curata da Dave Eggers.
77
Per la cui biografia si rimanda al prossimo capitolo.
78
“Una ricerca sul campo, in questi Tempi Duri, sui Senzatetto (osservati nell’accampamento di H
Street, Fresno, California). Un esame di chi sono, come pensano, e cosa fanno”.
79
“La verità era relativa nell’Area di Studio. La verità è relativa ovunque ma ancor di più nell’Area di
Studio”.
74
Un’onestà che informa anche il ritratto dei protagonisti, che evita lo stereotipo e ogni
forma stucchevole di pietismo: né buoni né cattivi né vittime a tutti i costi, gli
homeless sono soggetti multidimensionali e complessi. Coerentemente, essi
suscitano nell’autore stati d’animo eterogenei: commozione fino alle lacrime ma
anche esasperazione e irritazione, una varietà funzionale all’obiettivo di restituire
loro piena umanità. Infine, l’autore è fortemente critico nei confronti degli Stati
Uniti, della sua iniquità sociale e dell’inefficienza delle misure meramente
contenitive adottate dall’amministrazione, tanto da dichiarare:
Sometimes it seemed unimaginable that such poverty could exist in America and that the
residents accepted it so passively. Why didn’t the place esplode? Other times – when, for
example, the PR had been out driving around the pleasant neighborhoods of Fresno – the
Study Area seemed like a tiny blip on the radar, the necessary detritus of an insanely affluent
country. The presence of 300 losers in a city of winners seemed not like a crisis, but rather a
reasonable embodiment of Christ’s admonition that the poor would always be with us.80
(ibid.)
Tra spaccio, prostituzione, alcol, violenza, morte, malattia e dolore a Tent
City la sadness è un malessere conosciuto. L’autore la nomina più volte nel testo e
con acume rileva come il disturbo mentale – forma canonica della sadness tra i
senzatetto – sia da intendere tanto come causa quanto come conseguenza della
permanenza in un contesto degradato. Molti residenti della tendopoli erano persone
normali, che semplicemente hanno superato la “cruel dotted line” (ibid.) che separa
la povertà dalla “homelessness”. La sadness dei nuovi poveri si carica
d’inadeguatezza, vergogna e rabbia, quelle di chi è stato privato della propria dignità.
Vowell, Wallace e Sullivan mostrano versioni più recenti della sadness
dell’Inclusione, nuove forme di tristezza radicate nel mondo della ricreazione e della
comunicazione di massa. Disneyworld è il simbolo di un divertimento esasperato e
grottesco su cui si avrà ancora occasione di riflettere; la “vista” della signora
Thompson è manipolata dalla televisione, così come lo è l’intera esistenza dei
concorrenti dei reality e dei loro patetici seguaci. Inoltre, i reportage di Sarah Vowell
80
“A volte è parso inimmaginabile che una tale povertà potesse esistere in America e che i residenti
l’accettassero così passivamente. Perché questo posto non è esploso? Altre volte – quando, per
esempio, il PR ha guidato per i piacevoli quartieri di Fresno – l’Area di Studio è parsa come un
minuscolo segnale sul radar, il detrito necessario di un paese follemente benestante. La presenza di
300 perdenti in una città di vincitori non è parsa come una crisi, ma come una ragionevole
incarnazione dell’ammonizione di Cristo per cui il povero sarà sempre tra noi”.
75
colgono tristezza e pericolosità di un’ulteriore fissazione americana, quella per le
armi da fuoco, che giocherà un ruolo centrale nel prossimo capitolo. Anche il ritratto
dell’Esclusione si perfeziona con nuove categorie: gli skinhead di Vollmann (in cui
ritorna il binomio di noia e violenza ben presente in Joan Didion), il mondo del
porno osservato da Wallace (altra deriva mediatica della sadness) e quello dei nuovi
poveri raccontato da Saunders. Nuove forme per malesseri antichi: Celebration è una
nuova Holcomb, dove oggi come ieri l’altro va rimosso e allontanato; ai festival rock
si respira un’aria di razzismo latente, che diventa palese tra gli skinhead di San
Francisco. In alternativa, la sadness dell’Esclusione diventa un male necessario per
garantire l’appagamento delle categorie collocate sull’altro asse, come emerge nel
significato simbolico di “Consider the Lobster” e nella critica sociale proposta da
Saunders. Infine, il racconto dell’Esclusione fotografa uno stato di costante iniquità
sociale, fonte di alienazione per i soggetti coinvolti e preludio di tragiche
convergenze. Nonostante la persistenza della sadness, nei reportage proposti si
osserva un prezioso elemento di novità, che riguarda il diverso posizionamento dello
scrittore rispetto alla storia: diversamente da Capote e – in certa misura – anche da
Joan Didion, il coinvolgimento dell’autore è celebrato fin dentro la pagina,
manifestandosi in un “Io” palese ed esplicito che pervade l’intero arco narrativo. Una
presenza che non sfocia nel narcisismo né in una comunione superficiale (com’era
stata quella di Vollmann nei confronti delle prostitute) ma che persegue l’obiettivo
dell’empatia, nel tentativo di comprendere le posizioni altrui, di sostituire l’incontro
allo scontro, la conoscenza alla rimozione. L’apertura di Vowell nei confronti del
padre, l’approccio amichevole di Sullivan, l’ironia bonaria di Wallace, la ritrovata
profondità di Vollmann, fino alla comunione autentica di Saunders: la sadness
continua ad affliggere l’America, ma forse qualcuno ha idea di come curarla.
76
Capitolo quarto
CONVERGENZE: QUANDO INCLUSIONE ED ESCLUSIONE SI
INCONTRANO
4.1 David Foster Wallace: l’American sadness in crociera
“L’unica cosa che andrebbe detta davvero di David Foster Wallace è che il
suo era uno di quei talenti che compaiono una volta ogni secolo . . . Probabilmente
non vedremo mai più uno come lui nel corso della nostra vita: questo mi sento di
gridarlo forte. Era come una cometa che passava rasoterra” (Lipsky, “Gli anni
perduti” 258). Con queste parole Colin Harrison – editor di Harper’s Magazine dal
1989 al 2001 – ricorda David Foster Wallace,81 suo amico e collaboratore. Fu proprio
81
David Foster Wallace (1962 - 2008) nasce a Ithaca (New York) in una famiglia di accademici.
Cresce a Champaign (Illinois) e fin dalla giovane età mostra un’intelligenza straordinaria e una certa
abilità negli sport, in particolar modo il tennis. Durante gli anni del college inizia a soffrire di attacchi
d’ansia, primi sintomi di una depressione di cui soffrirà per il resto della vita. Diplomatosi col
massimo dei voti, si iscrive all’Amherst College, dove divide la stanza con Mark Costello, coautore
del saggio Signifying Rappers: Rap and Race In the Urban Present (1990). Nel 1985 si laurea con una
tesi in Letteratura inglese e una in Filosofia. La prima delle due diventerà il romanzo d’esordio, The
Broom of the System, pubblicato all’età di venticinque anni e accolto con entusiasmo dalla critica. Nel
1987 si iscrive all’Università dell’Arizona per seguire un MFA in Scrittura creativa e nel 1989 pubblica
la prima raccolta di racconti, Girl with Curious Hair. Concluso il master e ottenuta una certa fama, si
trasferisce ad Harvard per un dottorato: qui attraversa una grave crisi e a seguito di un ricovero in
clinica gli viene prescritto il Nardil, farmaco antidepressivo che lo accompagnerà per lunghi anni.
Tornato gradualmente al mondo, nel 1993 accetta una cattedra presso l’Illinois State University di
Normal. Nel Midwest Wallace trascorre anni sereni, diviso tra la dedizione per l’insegnamento e la
stesura del nuovo romanzo, Infinite Jest (1996), che lo consacra come autore di culto. Inizia a
dedicarsi anche alla nonfiction e nel 1997 esce la prima raccolta di saggi e reportage, A Supposedly
Fun Thing I’ll Never Do Again; nello stesso anno riceve il prestigioso “Genius Grant” della
Fondazione MacArthur. Nel 2002 si trasferisce a Claremont (California), dove insegna Scrittura
creativa presso il Ponoma College; due anni dopo sposa l’artista Karen Green. Nuove opere vengono
date alle stampe: Brief Interviews with Hideous Men (1999), Everything and More (2003), Oblivion:
Stories (2004) e la collezione di nonfiction Consider the Lobster. And Other Essays (2005). Nel 2008
concorda con i medici la sospensione del Nardil, ma ricade in una gravissima forma depressiva,
resistente a ogni trattamento farmacologico. Il 12 settembre 2008 la moglie lo trova impiccato nel
77
Harrison ad avere l’idea di impiegare lo scrittore in qualità di cronista, “di mettergli
un taccuino in mano e spedirlo in luoghi perfettamente americani” (278). In una di
queste occasioni, Wallace prese parte a una lussuosa crociera intorno ai Caraibi. Ne
risultò uno dei reportage più celebri degli ultimi decenni: “A Supposedly Fun Thing
I’ll Never Do Again”, pubblicato nel 1996 sulle pagine di Harper’s e nel volume
omonimo l’anno successivo.82 Un progetto semplice, chiarito da Wallace stesso in
apertura del pezzo: “Tutto quello che vogliono è una specie di cartolina turistica
gigante scritta da uno che ci è stato – vai, ti fai i Caraibi alla grande, torni e racconti
quello che hai visto” (Wallace, Una cosa divertente 6).
La cronaca prende avvio dal termine della crociera: Wallace è all’aeroporto di
Fort Lauderdale (Florida), in attesa del volo di ritorno per Chicago. Dettagli sapienti,
introdotti dalla formula “Ho visto” (ibid.), ricapitolano l’esperienza appena conclusa:
spiagge bianche, mari cristallini, tramonti tropicali, ma anche orrori e stranezze dei
“cittadini americani maggiorenni e benestanti” (7) presenti a bordo. Abbozzato il
quadro, Wallace dichiara Who, When, What e Where dell’articolo: “Dall’11 al 18
marzo 1995 io, volontariamente e dietro compenso, mi sono sottoposto alla crociera
‘7 Notti ai Caraibi’ (7NC) a bordo della m.n. Zenith” (10), ribattezzata ironicamente
Nadir. Con fare altrettanto ufficiale, l’autore specifica l’elitarismo della propria
esperienza: una “crociera extralusso” imperativamente dedita a viziare ogni
passeggero e a garantirne un completo e totale appagamento. A questo punto,
Wallace rivela il risvolto emotivo di una settimana di abbandono a lusso,
divertimento e vizi: non la soddisfazione promessa ma una profonda disperazione.
Nel corso del testo, l’autore approfondirà l’indagine di tale sensazione, giungendo a
individuare il meccanismo perverso in gioco sulla Nadir. Nella prima sezione
digressiva egli inaugura l’opera di svelamento, analizzando con perizia semiotica la
brochure della Celebrity Crociere e la sua altisonante profezia.
patio di casa. Alcuni testi pubblicati postumi completano l’opera dello scrittore: le raccolte This is
Water (2009) e Both Flesh and Not (2012) e il romanzo incompiuto The Pale King (2011).
82
Più precisamente, una versione ridotta del reportage – dal titolo “Shipping Out: On the (nearly
lethal) comforts of a luxury cruise” – fu data alle stampe da Harper’s Magazine nel gennaio del 1996.
La versione integrale, col titolo con cui la si conosce oggi, fu pubblicata nel 1997, unitamente ad altri
articoli e saggi. In Italia l’opera è edita in due volumi: Una cosa divertente che non farò mai più
(1998), che contiene solo il reportage omonimo, e Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose
divertenti che non farò mai più) (1999), nel quale trovano spazio i restanti pezzi della raccolta.
78
La ripresa dell’espressione “E allora oggi” (27) adottata in apertura permette
di riavviare la cronaca, facendo regredire il tempo del racconto fino all’inizio della
crociera: il volo di andata, l’arrivo a Fort Lauderdale, il trasferimento dall’aeroporto
alla zona d’imbarco, la lunga attesa tra la folla di crocieristi. Wallace gironzola per
l’enorme, torrido e rumorosissimo hangar del porto, osserva i propri futuri compagni
di viaggio e ne origlia le chiacchiere giustificatorie, il Why autoindulgente che
mancava all’appello. L’imbarco segna il passaggio dall’incubo al sogno: varcata la
soglia della nave, il sudore è sostituito dal profumo, il frastuono lascia spazio a
corridoi ovattati e musica di sottofondo, l’imbarazzante ritornello “E Tu Come Mai
Sei Qui” (40) è evaso in anticipo grazie alle piantine affisse ovunque sulla nave,
“ognuna con un allegro punto rosso grande e rassicurante che dice
VOI SIETE QUI”
(ibid.). Segue la cronaca della partenza e dei primi giorni di navigazione,
caratterizzati dal brutto tempo: Wallace analizza le molteplici manifestazioni del mal
di mare, quindi descrive i movimenti della nave che li originano. In una
“rapidissima” (46) nota l’autore presenta i propri commensali presso il sontuoso
ristorante della nave. La seconda pausa riflessiva ospita l’analisi dell’articolo di
Frank Conroy83 allegato alla brochure, un esempio ancor più subdolo di
manipolazione: il messaggio promozionale si trasferisce da un contesto
dichiaratamente pubblicitario a uno di supposta indipendenza, sfruttando in modo
disonesto la maggiore credibilità del cliente. Quando si accorge del raggiro, egli
reagisce alzando in maniera indifferenziata le proprie difese, col conseguente effetto
di sentirsi vulnerabile e solo, ancora più disperato.
Il tono analitico e rigoroso si smorza tramite una lunga carrellata di esempi,
volti a comunicare il clima di “ipersolerzia” (65) vigente sulla nave. Si comincia dal
cosiddetto “paradosso del viziatore” (60), uno sketch tragicomico tra Wallace e un
facchino intorno allo spinoso problema del trasporto autonomo del bagaglio in
cabina. Segue la menzione di numerose circostanze analoghe: la folle frenesia degli
addetti alle sdraio e al cambio degli asciugamani, la meticolosità di maitre e
camerieri, le gioie perverse del servizio in camera. Chiudono il quadro i misteri delle
pulizie in cabina, un’esperienza ai limiti della paranoia in cui domestiche evanescenti
elargiscono cure tragicamente svuotate di ogni affetto. Il capitolo successivo è
83
Scrittore americano conosciuto per il memoir Stop-Time e deceduto nel 2005.
79
dedicato alla descrizione della cabina stessa, ambiente particolarmente caro a un
“mezzo agorafobico” (66) come Wallace. I dettagli sono precisi e ironici: l’ampiezza
è calcolata utilizzando le scarpe come unità di misura, il complicato guardaroba è
definito un “Fantarmadio” (74), l’oblò sembra il rosone di una cattedrale. Segue un
inventario dei programmi televisivi, degli arredi della camera – con l’immancabile
cesto di frutta poggiato sulla scrivania – e di quelli del bagno, descritto con
dissacrante comicità. Elencando ogni comfort e assumendo il punto di vista di un
cliente apparentemente divertito e soddisfatto, l’autore costruisce un polo positivo
perfetto, che attende solo di essere rovesciato.
Dopo un breve accenno all’ambiente esterno – in cui anche mari e spiagge
paiono simboli di opulenza – si torna alla cronaca: la crociera fa scalo a Cozumel
(Messico) per compiere il rito dell’“Escursione Organizzata” (87). Wallace rimane a
bordo, in compagnia dell’equipaggio e di alcuni strani figuri. Dall’alto della nave,
egli osserva i propri connazionali in libera uscita, la desolante metamorfosi del
passeggero in turista. L’attracco parallelo della meganave Dreamward peggiora
ulteriormente lo stato psicologico dello scrittore, tanto debole da cedere alla
tentazione di avviare un assurdo confronto tra le due imbarcazioni, da cui la Nadir
esce miseramente sconfitta. L’invidia per la nave rivale, cocente al punto di
vagheggiare rocamboleschi attraversamenti da un ponte all’altro, è solo il sintomo
più acuto della malattia diffusa a bordo, la sindrome del “Neonato Insoddisfatto”
(98). Wallace porta a compimento il percorso d’analisi della propria disperazione,
rivelando al lettore la “Grande Menzogna” (99) architettata dalla Celebrity. Ogni
dettaglio è riproposto in chiave invertita, dalla prospettiva di un cliente
costantemente inappagato.
L’ultimo capitolo racconta una giornata di “Divertimento Organizzato” (106),
vissuta seguendo alla lettera le proposte ricreative del Nadir Daily, il quotidiano di
bordo. La cronaca assume la forma di un diario molto dettagliato, completo di orari,
luoghi e resoconti delle esperienze: la colazione in compagnia del cameriere
ungherese, la partita a scacchi in biblioteca e quella a ping pong sul ponte, la lezione
di navigazione, i giochi in piscina, la conferenza del direttore di crociera, la disfatta
del tiro al piattello, l’umiliazione del tè in abito formale e della cena in smoking, fino
allo spettacolo di ipnosi che conclude la serata. La cronaca assume progressivamente
80
toni surreali, in coerenza con l’approdo conclusivo, l’alienazione dello scrittore. Il
finale ha valore simbolico: dopo lo spettacolo di ipnosi, Wallace si astrae dalla realtà
della crociera, rinuncia al reporting immersivo e trascorre gli ultimi giorni chiuso in
cabina, ormai consapevole che per resistere alle insidie del “Facciamo Tutto!” (18)
l’unica strategia praticabile sia quella di non fare “Assolutamente Niente” (149).
L’arco narrativo di “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again” è tramato
di riferimenti alla committenza, richiamata sia in modo diretto sia per via allusiva e
ironica. Quello più esteso si colloca in apertura: Wallace dichiara di lavorare sotto
commissione, accenna a “una certa rivista patinata dell’East Coast” (6), menziona un
precedente reportage redatto per la medesima,84 specifica l’ammontare del proprio
compenso e infine nomina esplicitamente la testata. Nel corso del reportage si notano
altri spassosi riferimenti a Harper’s, come nel caso della menzione dei suoi temuti
processi di editing.
La presenza dell’autore è pervasiva e costante, attestata in primo luogo
dall’uso della prima persona. Pur circondato da crocieristi e membri dell’equipaggio,
il protagonista del reportage è certamente David Foster Wallace. La persona sulla
pagina non va confusa con quella reale, come chiarisce l’autore in un’intervista: “Ho
creato un certo personaggio che è un po’ più stupido e più imbranato di me” (Lipsky,
“Gli anni perduti” 279). Il ruolo di Wallace è quello del giornalista, recitato quasi
sempre sul palcoscenico delle note a piè di pagina: talvolta l’alter ego è un reporter
serio e credibile, rigorosamente dedito alla propria inchiesta; più spesso il ruolo è
quello di un giornalista sui generis – eccentrico, bizzarro e improbabile –
caratterizzato da un’inadeguatezza da intendersi in positivo, come risvolto ironico
dell’alienazione. Un cronista ossessionato dagli squali, intimorito dagli spazi aperti,
canzonato per le proprie domande da crocierista inesperto, che prende appunti “su un
tovagliolo di carta con un evidenziatore a punta grossa” (Wallace, Una cosa
divertente 123), tentando anche la folle impresa di decifrarli. Wallace racconta se
stesso anche dal punto di vista degli altri personaggi, dimostrando un talento
84
Il reportage in questione è “Ticket to the Fair”, pubblicato su Harper’s Magazine nel 1994 e incluso
nella raccolta A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again col titolo “Getting Away from Already
Being Pretty Much Away from It All”. In Italia il reportage fa parte della collezione Tennis, tv,
trigonometria e tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), tradotto col titolo “Invadenti
evasioni”.
81
autoironico e un livello di consapevolezza difficilmente eguagliabili. I membri
dell’equipaggio – specie i ranghi superiori – lo considerano un “giornalista
ficcanaso” (9), un soggetto “disturbato” (15), “una persona davvero strana, instabile”
(62). Ne derivano situazioni piuttosto comiche, basti pensare all’episodio della
scolatura della carne per attirare gli squali o alle ostilità tra Wallace e il direttore
d’hotel Dermatis – subito rinominato “signor Dermatitis” (9). Infine, Wallace si
guarda con gli occhi dei passeggeri, presso cui riveste il ruolo di fool.
Alla dimensione soggettiva si accompagna quella oggettiva, funzionale alla
resa ironica della credibilità giornalistica. Wallace colloca nel testo una mole
eccessiva e sovrabbondante di dati, sfruttando l’ironia dell’iperbole. Anche la
struttura narrativa imita una strategia classica del giornalismo: l’apertura sul finale, il
riavvolgimento del filo narrativo fino all’inizio, quindi la sequenza cronologica degli
eventi. Al di là degli elementi parodistici, il reporting di Wallace segue una peculiare
strategia narrativa, ben riassunta dal giornalista David Lipsky:85 “Nei suoi articoli,
Wallace inventò uno stile che gli scrittori saccheggiano da dieci anni a questa parte.
La pura e semplice ripresa senza montaggio, il filmato prima che il regista nel
furgone cominci a fare scelte e tagli” (“Gli anni perduti” 279). Inoltre, l’avanzamento
del racconto è intervallato da pause digressive, in cui il tono pop, leggero e ironico
lascia spazio a una prosa analitica e misurata. Coerentemente, anche il ritmo
narrativo mescola tempi brevi e lunghi, contrazione ed espansione, come emerge
nell’estensione eterogenea dei capitoli.
Wallace racconta la realtà con una “distinctive voice” (Nazaryan) originale e
inimitabile, capace di trascendere qualsiasi convenzione stilistica, in questo caso
quelle del reporting di viaggio. Come chiarisce Charles B. Harris86 servendosi delle
parole dello scrittore, il talento di Wallace risiede nella capacità di rendere
riconoscibile ogni suo pezzo, di plasmare qualsiasi genere secondo il proprio stile:
“Everything he wrote . . . bears what Wallace, referring to Dostoevsky, calls ‘that
85
Autore di un libro intervista dedicato a David Foster Wallace e pubblicato nel 2010 col titolo
Although of Course You End Up Becoming Yourself. Inviato da Rolling Stone, Lipsky viaggiò per
cinque giorni al fianco di Wallace, impegnato nel tour promozionale di Infinite Jest. Il testo è la
trascrizione delle conversazioni intrattenute dai due, spazianti dalla politica alla letteratura, fino agli
aspetti più intimi della vita dello scrittore.
86
Charles B. Harris è Professore Emerito presso il Dipartimento di Inglese della Illinois State
Univeristy. Nel 1993 Harris invitò l’autore a partecipare al concorso per la cattedra di Scrittura
creativa presso la sua facoltà. Ottenuto il posto, Wallace fece ritorno nel Midwest in qualità di
insegnante e i due colleghi instaurarono un rapporto professionale e un’intima amicizia.
82
distinctive singular stamp of himself’”87 (174). Un linguaggio che in fin dei conti non
riproduce altro che l’articolazione del pensiero di una mente eccezionale: “Nei pezzi
per Harper’s era come se mi scoperchiassi il cervello . . . Come dire: benvenuti
dentro la mia testa per venti pagine di fila” (Lipsky, “Gli anni perduti” 279). Lo stile
di Wallace è certamente votato al massimalismo: sintassi complessa e ricorsiva,
pirotecnia verbale, erudizione e virtuosismo. Il reportage adotta il registro comico,
declinato in ogni sua forma: dalla parodia alla farsa, dal paradosso allo humor nero
un po’ crudele. In particolare, Wallace fa largo uso dell’ironia, oggetto di un
precedente saggio88 e definita nella sua componente dialettica, di contrasto tra
apparenza e sostanza: “L’ironia . . . sfrutta lo scarto fra ciò che si dice e ciò che si
intende dire, fra come le cose cercano di apparire e come sono veramente” (Wallace,
Tennis 103). Spesso la distanza è creata mediante la qualificazione erudita di
situazioni e oggetti smaccatamente pop, o viceversa: così, il water della cabina è
dotato di uno “scarico ad alto tiraggio esistenziale” (Wallace, Una cosa divertente
80) e lo scenario del mare in tempesta evoca “la contemplazione del water durante lo
scarico” (44). Altrove, lo scarto si estende fino a risultare in un contrario, secondo la
concezione classica di ironia: la “rapidissima” (46) nota della lunghezza di quasi
quattro pagine, lo “zenith emotivo” (122) raggiunto sulla nave Nadir, a sua volta
ribattezzata per antinomia. Infine, il registro comico risulta in una serie di sketch
irresistibili e godibilissimi: la scena di Wallace in bagno che gioca con potentissime
ventole e asciugacapelli, l’assaggio del caviale, “l’umiliazione balistica” (143) del
tiro al piattello. L’ironia del reportage non va confusa con quella postmoderna:
secondo l’autore, quest’ultima svolge una funzione esclusivamente negativa, efficace
per distruggere ma non per costruire. Essa è stata utile per smascherare le ipocrisie
della società americana del dopoguerra, ma è ormai diventata fine a se stessa
(McCaffery, “Wallace” 100). A differenza dei padri postmoderni, Wallace intende
recuperare la funzione morale della scrittura, rifuggendo l’autoreferenzialità e
impiegando l’ironia in qualità di mezzo piuttosto che di fine. Così riabilitata, essa
assume una veste inedita, positiva e costruttiva: un modo per avvicinarsi all’altro e
87
“Tutto ciò che ha scritto . . . reca ciò che Wallace, riferendosi a Dostoevskij, definisce ‘quel
distintivo e singolare timbro di sé’”.
88
“E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction”, pubblicato nel 1993 sulla Review of Contemporary
Fiction e rinvenibile nella raccolta A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again.
83
non per sancire un cinico distacco, uno strumento utile a comprendere e non a
deridere. Concepita come veicolo di compassione e di affermazione della pietas,
l’ironia consente di illuminare anche la sadness, specie quella che coinvolge
l’umanità inconsapevole a bordo di una crociera.
Le note a piè di pagina sono uno degli elementi più riconoscibili dello stile di
Wallace. Stravolte per lunghezza e funzione, esse accolgono una vasta gamma di
contenuti. Scopo dell’autore non è l’appesantimento programmatico del testo, ma
una resa onesta dei propri processi di ragionamento: “Il mio modo di pensare e di
fare esperienze non è particolarmente lineare, e non è ordinato, e non è piramidale, e
ci sono molti loop . . . Credo che le note siano un modo migliore per rappresentare
gli schemi mentali e gli schemi con cui si organizzano i dati” (Scocca 151). Il testo si
caratterizza inoltre per l’esattezza dei dettagli riportati, riflesso di uno sguardo
costantemente lucido, attento e consapevole. Il significato dell’esperienza emerge dai
particolari, dal “dettaglio rivelatore” (La Porta, “Wallace”) capace di riassumere
l’essenza della crociera. Nulla sfugge agli occhi di Wallace: la mimica snobistica dei
commensali, gli abbracci involontari causati dall’instabilità della nave, il braccio ad
angolo retto tipico dei camerieri, la luce del bagno adatta a chi ha il dovere sociale
della cura delle apparenze. Numerosi altri stilemi caratterizzano il testo: elenchi,
tassonomie e cataloghi applicati a tutto campo; tecnicismi ed erudizione fuori
contesto; coniazione di neologismi, come gli aggettivi “nadiriti” (Wallace, Una cosa
divertente 27) e “dreamwarditi” (95) riferiti ai passeggeri delle navi. Altra cifra di
Wallace è l’esasperazione degli aggettivi frasali89 mediante la formazione di stringhe
esageratamente lunghe di termini legati da trattino, come nel caso del color “copertadi-neonato-maschio” (11), dello sguardo “non-so-se-sorridere-e-fare-ciao-ciaooppure-no” (28) o dell’atto giornalistico “william-t.-vollmaniano” (97). Altri
divertissement dell’autore sono rinvenibili a livello tipografico (ricorso ad acronimo,
maiuscolo, grassetto e corsivo), nell’uso insistito della coniugazione per polisindeto,
nel frequente ricorso al termine “eccetera”. Infine, l’adozione del simbolo consente
di accostare immagini concrete a tematiche astratte, come nella metafora del feto o in
quella dello squalo, entrambe ricorrenti nel corso della narrazione.
89
Un costrutto peculiare della grammatica inglese.
84
A bordo della crociera viaggiano inclusi ed esclusi, facenti capo
rispettivamente a un “Noi” – i passeggeri – e a un “Loro” – i membri
dell’equipaggio, in particolar modo i ranghi inferiori. Quando la nave fa scalo in
porto la compresenza si complica: i primi si trasformano in turisti e gli abitanti delle
zone visitate allargano le fila dell’Esclusione.
I passeggeri costituiscono il secondo Who del reportage, una categoria di
inclusi che comprende suo malgrado anche l’autore. Wallace ne rimarca nazionalità,
età ed estrazione sociale: si tratta di cittadini americani piuttosto anziani – “Non
parlo di vecchi decrepiti, parlo di persone sopra i cinquant’anni, per le quali sentirsi
mortali è qualcosa di più di un’astrazione” (16) – e benestanti, come attestano la
qualità “extralusso” della crociera, i numerosi status symbol disseminati nel testo e
l’atmosfera snobistica diffusa a bordo. Fin dall’attesa a Fort Lauderdale, Wallace si
dedica all’osservazione della composizione interna di tale categoria: coppie di
pensionati veterani e ipercompetenti, persone anziane in compagnia di altre persone
“disperatamente anziane” (32), novelli sposi dall’aspetto
WASP,
gruppi aziendali in
vacanza premio, yuppie stressati con mogli e bambini al seguito. Il ritratto
dell’Inclusione si perfeziona con la presentazione dello stravagante “cast” (142) del
tavolo 64, assegnato a Wallace per l’intera durata della crociera. L’autore si accosta
in modo bonario alla maggior parte dei suoi commensali: due brillanti signore di
mezz’età, un marito taciturno, una figlia orgogliosa del proprio Fidanzato Ufficiale
(46) e una placida coppia di pensionati in vacanza con la nipote. La descrizione di
quest’ultima assume toni più cupi, tesi a rendere la spregevolezza di una ragazzina
egocentrica, viziata e sprezzante, la triste superficialità di una “bambola infelice e
corrotta” (48). L’attracco della nave permette di fotografare anche il look tipico
dell’incluso: camicie pastello, visiere e borse di paglia, occhiali da sole e felpa
Lacoste appoggiata “sulla schiena a mo’ di mantellina” (88). Altrettanto significativa
è l’umanità osservata durante la giornata di ricreazione organizzata. Il ritratto di
Deirdre – la bambina prodigio che batte Wallace a scacchi – è permeato di una
sadness piuttosto inquietante: l’aria spenta, le spalle curve, l’incombenza ossessiva
della madre, l’assenza del sorriso dal volto di entrambe. La galleria prosegue tra le
anziane astanti del tè in abito formale, il pubblico maschile della conferenza nautica,
le robuste signore sottoposte a complicati trattamenti estetici, i performer dello
85
spettacolo dei passeggeri e i veterani del tiro al piattello, un’accolita di yuppie
avvezzi a nobili passatempi. Infine, afferiscono all’asse dell’Inclusione anche i
ranghi superiori dell’equipaggio e gli addetti alle relazioni con gli ospiti: Winston è il
responsabile dei tornei di ping pong, un ragazzo americano belloccio e poco sveglio,
capace di suscitare ampie dosi di sadness con la propria deprimente ingenuità; l’élite
greca gironzola per la nave sempre inoccupata e nascosta dietro gli occhiali da sole;
l’ipnotizzatore Ellery conduce il proprio show con feroce comicità, tra gli applausi di
un pubblico di ignari bersagli. La sadness culmina con la narrazione delle gesta del
direttore di crociera Scott Peterson, un soggetto “perennemente in posa per una
fotografia che nessuno sta scattando” (131), protagonista di una conferenza ridotta a
uno sproloquio narcisistico e a una serie grottesca di aneddoti.
L’asse dell’Esclusione comprende in primo luogo i ranghi inferiori
dell’equipaggio. Wallace osserva la gerarchia etnica del personale di bordo: gli
addetti alle mansioni più umili hanno la pelle scura e provengono da paesi
sottosviluppati; camerieri, addetti alle bevande, croupier e steward sono invece di
carnagione bianca, in genere originari dell’Est Europa. Gli ufficiali ellenici
controllano i sottoposti mediante una disciplina rigida e autoritaria, costringendo
l’equipaggio a ritmi di lavoro “dickensiani” (22) celati dietro la cordialità inautentica
del “Sorriso Professionale” (57). Gli esclusi formano una schiera di anonimi
servitori, privi di cittadinanza americana e capaci a stento di comunicare in lingua
inglese. Un ritratto dal sapore ottocentesco, tra “battaglioni di instancabili ragazzi del
terzo mondo” (16) dediti alla manutenzione ossessiva della nave, addetti al cambio
degli asciugamani con sguardi di “raggelante neutralità” (93), flotte di camerieri che
puliscono aragoste nel piatto dei clienti, custodi di ascensori, maggiordomi e addetti
alla pulizia quotidiana degli oblò. La seconda categoria di esclusi accoglie i turisti
nei porti dei Caraibi: Wallace concentra la propria attenzione sullo sguardo degli
“indigeni” (87) giamaicani e messicani, la cui impassibilità è al tempo stesso sintomo
di silenziosa ribellione, di noia per la mediocrità dei visitatori americani e di un
vuoto gelido e pervasivo.
Durante la crociera la convergenza tra inclusi ed esclusi assume una peculiare
declinazione, quella dell’inconsapevolezza. I passeggeri viaggiano placidi e riveriti,
ignari della propria sadness e di quella implicata nel rapporto di servilismo. La
86
consapevolezza grava sulle spalle di un unico soggetto, David Foster Wallace, che
come un moderno Atlante ne sopporta il peso. In primo luogo, gli inclusi sono
inconsapevoli della sadness insita nell’esperienza della crociera, identificata
mediante il concetto di disperazione:
In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la
maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e
complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – soprattutto la notte, quando il
divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano – io mi sentivo
disperato. (13)
Individuata la sensazione, resta da svelare il meccanismo che la determina.
Prima la tesi: se l’oceano è metafora di disfacimento e decadenza, la nave
simboleggia il trionfo sulla morte, la sconfitta del terrore dell'annientamento.
Secondo i proclami della Celebrity, tre vie assicurano la vittoria: la fatica del lavoro,
l'obbligo del divertimento e l'abbandono alle cure del personale di bordo. Durante la
crociera il cliente regredisce a uno stato “uterino” totalmente passivo, in cui ogni
esigenza è individuata in anticipo e soddisfatta dai membri dell’equipaggio. Tale
meccanismo di delega dovrebbe assicurare un'omeostasi di puro piacere, associabile
a quella esperita nel ventre materno. La metafora del feto informa buona parte del
reportage, prima di volgersi in quella del neonato, sua ideale prosecuzione.
Quest'ultima è già accennata in apertura, mediante l'enfasi del verbo to pamper,
associato nell'immaginario collettivo “a un particolare prodotto di consumo” (12). A
questo punto, Wallace può dedicarsi all'antitesi, osservando diversi sintomi di
disperazione: l’articolo di Frank Conroy, i sorrisi forzati, la coccola asettica delle
pulizie in cabina e, infine, il confronto con la meganave Dreamward, più bianca, più
lussuosa e più gratificante. Per completare il quadro, l’autore riporta una lunga serie
di circostanze insoddisfacenti personalmente esperite: il ritardo del servizio in
cabina, l’imperfezione del vassoio con le pietanze, il ronzio fastidioso della ventola,
fino alla seccatura delle bibite non incluse nel prezzo. Con la diagnosi della sindrome
del “Neonato Insoddisfatto” (98) si giunge alla sintesi. Dopo diversi giorni di
crociera, Wallace è in grado di svelare la causa della propria disperazione: la profezia
del completo appagamento è un inganno, il vizio non conosce omeostasi ma produce
solo altro vizio, in un’escalation sempre più potente e distruttiva. Lungi dal
comportarsi come una buona madre, la nave vizia il cliente per nutrirne “la parte che
87
in ogni momento e indiscriminatamente VUOLE” (ibid.). Così, l’americano benestante
degenera moralmente e dilapida il patrimonio, la Celebrity guadagna e chi svela la
trappola si dispera. Ancor più radicalmente, l’autore mostra su di sé gli effetti del
contagio, assumendo modi e toni degli snob con cui regolarmente siede a cena, una
strategia narrativa perfetta per rendere la velenosità e il pericolo della manipolazione
in atto:
Le bibite non sono gratuite, neanche a cena: dovete ordinare una Mr. Pibb alla cameriera del
Ristorante Caravelle a cinque stelle, esasperantemente impedita con l’inglese, come se fosse
un cazzo di Slippery Nipple, e poi bisogna che firmiate un pezzo di carta già lì, al tavolo, e
loro ve la addebitano. E non ce l’hanno nemmeno, la Mr. Pibb; loro vi rifilano la Dr. Pepper
con una strafottente scrollata di spalle quando qualsiasi idiota sa che la Dr. Pepper non può
sostituire la Mr. Pibb, ed è soltanto una maledetta imitazione, in ogni caso del tutto
deludente. (101)
Altrettanto inconsapevole è la sadness derivante dalla convergenza tra inclusi
ed esclusi. A ben vedere, è la stessa convergenza a non realizzarsi autenticamente:
sulla nave passeggeri e membri dell’equipaggio viaggiano fianco a fianco, chiusi nei
rispettivi ruoli, senza mostrare interesse a conoscersi, ad avvicinarsi o a
comprendersi. Evitando l’incontro, essi rimuovono anche il rischio di confrontarsi
con la sadness che ne potrebbe scaturire. Il rischio è assunto in toto dall’autore,
l’unico a sperimentare autentiche convergenze. Tre incontri sollevano il personale di
bordo dall’anonimato, permettendo ad altrettanti soggetti di riacquisire un’umana
dignità. In primo luogo, quello tra Wallace e il facchino libanese addetto allo
smistamento dei bagagli: agendo d’istinto, l’autore ne trascura il ruolo e conduce
autonomamente la propria sacca in cabina. Riflettendo sull’accaduto e considerando
il regime assurdo vigente sulla nave, egli comprende la portata tragica del proprio
gesto. La consapevolezza illumina la sadness e impedisce di rifugiarsi
nell’indifferenza: così, l’autore si prodiga in angosciose spiegazioni per evitare che il
“povero piccolo libanese” (61) sia punito per una ridicola negligenza. Anche i
fuggevoli incontri con la cameriera della cabina – “la diafana Petra dagli epicantici
occhi da cerbiatto” (68) – celano una profonda tristezza: il servilismo ossessivo,
l’inglese stentato di chi proviene da lontano e sa rispondere solo “non è problema”
(71). L’atteggiamento empatico culmina con il ritratto di Àgoston – il cameriere
ungherese del tavolo 64 – tanto da spingere Wallace a dichiarare: “Sento che
abbiamo qualcosa in comune” (107). Egli nutre per Àgoston una stima sincera,
88
accostandovisi con delicatezza e rispetto. La descrizione fisica ne enfatizza
professionalità e grazia, nonostante le continue mortificazioni che è costretto a
subire; la cauta indagine sul passato rende prospettico il personaggio. La narrazione
acquisisce un insolito respiro di speranza menzionando sogni, progetti per il futuro e
fumanti caffè nel cuore di Budapest.
La convergenza esperita sulla nave lascia spazio a quella osservata nel porto
messicano di Cozumel. Anche in questo caso, gli inclusi restano inconsapevoli e
l’autore è l’unico a mantener viva la propria coscienza. L’analisi della collisione tra
turisti e popolazione locale suscita la sadness dello scrittore, che enfatizza il carattere
“capronesco” (89) dei propri connazionali: i crocieristi si riversano nel porto come
un “un gregge ad alto reddito” (89-90) che avanza con “flemma avida” (89) per
investire i propri dollari in patetiche attività turistiche. Man mano che l’autore
constata la deriva dei compagni di viaggio, la sadness si carica di disagio e
autodisgusto, nell’imbarazzata constatazione della propria americanità. Durante
l’intera
crociera
Wallace
cerca
di
differenziarsi
da
una
categoria
cui
irrimediabilmente appartiene, accostandosi con gentilezza ai membri dell’equipaggio
e tenendosi alla larga dai porti dei Caraibi. Eppure, egli è tragicamente cosciente
della natura fallimentare di ogni tentativo: “Se rimango quassù o vado anch’io
laggiù, non importa, sono un turista americano, e quindi sono ex officio grasso,
flaccido, rosso in viso, rumoroso, volgare, autoindulgente, narcisista, viziato,
esibizionista, vergognoso, disperato e ingordo: l’unica specie al mondo di caprone
carnivoro” (91-92). Anche nel mezzo di un tale dramma, Wallace non rinuncia allo
sforzo di comprendere, saggiando il punto di vista di entrambe le parti. Dapprima
quello degli esclusi, un altro tentativo ammirevole ma fallimentare, il cui esito
negativo non fa altro che ribadire l’irriducibile distanza che separa le due categorie,
quindi quello degli inclusi. Wallace si interroga sui livelli di sadness dei propri
connazionali, che dietro la maschera dell’inconsapevolezza celano un disagio
intenzionalmente e colpevolmente represso:
Hanno pagato un bel po’ di soldi per divertirsi ed essere viziati e vivere un’esperienza
all’estero, e quindi col cazzo che permettono a qualche autoindulgente fitta di proiezioni
nevrotiche su come verrà percepita dagli indigeni malnutriti la loro americanità di togliere
checchessia alla loro crociera extralusso 7NC, per guadagnarsi la quale hanno sudato,
risparmiato, e che hanno deciso di essersi meritati. (90)
89
Sul finire della crociera, Wallace rinuncia al proprio ruolo e si rifugia
nell’alienazione: è un riposo meritato, che nulla toglie al valore impagabile dell'opera
dello scrittore. Quello di aver mantenuto in vita la propria coscienza, ma soprattutto
quello di aver tentato costantemente e con ogni mezzo – incluso quello dell’ironia –
di comprendere l’altro, di empatizzare con chi è diverso, per avvicinarsi senza
condannare. Con eguale generosità egli consegna la propria esperienza al lettore, cui
spetta il compito di farne tesoro, come si trattasse di un prezioso baule riemerso dai
mari solcati dalla Nadir.
4.2 George Saunders: l’American sadness tra Messico e Stati Uniti
Non capita tutti i giorni che un ingegnere geofisico pubblichi un libro di
letteratura. Ancor meno spesso capita che lo faccia all’età di trentasette anni. Poi, è
quasi impossibile che l’ingegnere del caso susciti l’ammirazione di uno scrittore
autorevole, per giunta al culmine della carriera. Eppure, questa è la storia di George
Saunders,90 e lo scrittore in questione è nientemeno che David Foster Wallace.
Durante il celebre party organizzato per l’uscita di Infinite Jest, Wallace spese parole
d’encomio per il nuovo collega, come ricorda un giornalista presente all’evento: “I
do clearly recall him standing in the hall in his untied high-tops, saying that George
Saunders was the most exciting writer in America”91 (Lovell). Da quel lontano 1996
Saunders ha fatto molta strada, acquisendo fama e notorietà e affermandosi come uno
degli autori di riferimento per la letteratura nordamericana contemporanea, come
correttamente anticipato da Wallace. The Braindead Megaphone (2007) è la prima
collezione di nonfiction dello scrittore, comprendente alcuni pezzi redatti ad hoc e
90
George Saunders (1958) nasce ad Amarillo (Texas). Cresce in un sobborgo di Chicago e, dopo il
diploma, studia Ingegneria geofisica alla Colorado School of Mines di Golden (Colorado), laureandosi
nel 1981. Lavora per diversi anni come ingegnere minerario, sia negli Stati Uniti sia in Asia. Dopo
una trasferta a Sumatra, egli ritorna in patria e nel 1985 si iscrive all’Università di Syracuse (New
York), dove ottiene un diploma in Scrittura creativa. Dividendosi tra lavoro, famiglia e passione per la
scrittura, egli compone la sua prima raccolta di racconti, CivilWarLand in Bad Decline, pubblicata nel
1996. Ottenuto un certo successo, può dedicarsi a tempo pieno alla letteratura, insegnando
all’Università di Syracuse, scrivendo per diverse riviste e pubblicando altre raccolte di racconti:
Pastoralia (2000), In Persuasion Nation (2006) e Tenth of December: Stories (2013). Nel 2007 esce
la prima opera di nonfiction, The Braindead Megaphone. I numerosi premi ricevuti comprendono
quattro National Magazine Awards, il “Genius Grant” della fondazione MacArthur (2006) e la
Guggenheim Fellowship (2006).
91
“Mi ricordo chiaramente di lui in piedi nella sala con le scarpe da ginnastica slacciate, che dice che
George Saunders è il più entusiasmante scrittore d’America”.
90
diversi articoli precedentemente pubblicati su rivista. Come suggerisce il sottotitolo
della raccolta, quelle di Saunders sono Cronache da un mondo troppo rumoroso:
l’opera è un manifesto contro la cultura e l’informazione contemporanee, che
producono messaggi “urlati” e semplificati, curati nella forma ma non nei contenuti.
Saunders propone di invertire la rotta, abbassando i toni della comunicazione e
aumentandone il grado di complessità. Nella raccolta trovano spazio saggi di
impronta satirica, pezzi di analisi letteraria e alcuni reportage da zone più o meno
remote del pianeta, dai paradisi artificiali di Dubai fino alle alture del Nepal. In “The
Great Divider” – reportage pubblicato originariamente sulle pagine di
GQ
nel
dicembre del 2006 – Saunders conduce il lettore alla frontiera tra Messico e Stati
Uniti, una delicata zona di convergenza che ben si presta all’analisi dell’American
sadness. Come nella più classica delle tradizioni americane, l’autore si mette in
macchina e viaggia on the road verso Ovest, in cerca di risposte. L’itinerario di
Saunders ha però ben poco di tradizionale, come poco ortodosso è l’obiettivo della
sua indagine: egli percorre il confine meridionale del paese, dal Texas alla
California, seguendo dapprima la linea sinuosa marcata dal Rio Bravo, quindi
macinando chilometri lungo la recinzione che da El Paso giunge fino alle bianche
spiagge di San Diego. Saunders intende misurare sul campo le tensioni generate dal
fenomeno dell’immigrazione messicana, acuitesi dopo l’Undici Settembre con la
chiusura dei varchi e il conseguente aumento dei flussi irregolari di clandestini.
Osservazioni e incontri consumati al di qua e al di là della frontiera permettono
all’autore di meditare sulle posizioni contrapposte delle due parti in causa: da un lato
gli immigrati messicani, dall’altro i membri del Minuteman Project, gruppi spontanei
di cittadini statunitensi prestati al ruolo di vigilantes.
Il reportage prende avvio in un’atmosfera favolistica, in cui Saunders
introduce i termini del discorso: “C’era una volta un paese ricco. Subito a sud ce
n’era uno povero. Li divideva un confine” (Saunders, Megafono spento 96).
Presentati i protagonisti, l’autore identifica altri due personaggi, o meglio due
possibili voci narranti: i media, incapaci di assolvere il proprio compito, e “uno
Scrittore – che sarei io” (ibid.), motivato a comprendere lo scenario per restituirlo al
lettore con pacatezza ed equilibrio. Il viaggio comincia a Laredo (Texas), teatro di
numerose convergenze tra inclusi – la polizia di frontiera – ed esclusi – i messicani
91
che tentano di varcare irregolarmente il confine. Dopo una giornata passata in
compagnia degli agenti preposti al pattugliamento, Saunders giunge al centro di
detenzione temporanea, dove un clandestino attende di essere schedato e condotto in
carcere. Lo scrittore assume dapprima la prospettiva dell’agente Dan – presentato
come un soggetto ragionevole e comprensivo, ma pur sempre obbligato a far
rispettare la legge – quindi quella del ragazzo messicano, membro di una “nazione
fluida”92 appena costituita, i “Mascalzoni Che Insistono A Fregare Il Mio Nuovo
Amico Dan” (99). Due caratteri sintetizzano lo stato del ragazzo: lo sguardo
impassibile – al pari di quello degli esclusi di Wallace – e l’assenza di parola.
Saunders intesse un immaginario dialogo con questo clandestino ammutolito,
immedesimandosi nella sua posizione e tentando di decifrarne i pensieri. Dal
confronto tra i due poli emerge una caratterizzazione osservabile lungo l’intero arco
della narrazione: il punto di vista degli inclusi è spesso contraddittorio e irrazionale,
laddove gli esclusi (o chi ne sostiene la causa) sono portatori di logica e razionalità.
In questo caso, la contraddizione riguarda l’etnia dell’agente Dan, un messicanoamericano di terza generazione, mentre la logica informa il pensiero del ragazzo, pur
solo desunto dallo scrittore: “E lui mi guarda, come per dire: Secondo te continuerei
a provarci se non avesse senso continuare a provarci, se non mi convenisse anche a
rischio di rimetterci la libertà?” (ibid.). In modo pacato, Saunders integra nel testo
anche la propria posizione, non uno schieramento polemico ma un’attestazione di
solidarietà nei confronti di un giovane escluso. La narrazione procede sull’asse
dell’Esclusione, con un’incursione in Messico alla ricerca delle ragioni dell’esodo.
Nella città gemella di Nuevo Laredo, Saunders incontra Hector, un “accattone”
(ibid.) che elemosina denaro per strada. Il sogno di Hector è il sogno di tutti i
miserabili come lui, un American Dream reso più distante dall’impermeabilità della
frontiera. Congedandosi, Saunders la riattraversa, felice di far ritorno alla sicurezza
del proprio paese. Egli trascorre la serata a Laredo, assistendo a una partita di
football e cenando in un ristorante locale. La cittadina è un esempio di convergenza
stabilizzata, come testimoniano l’etnia ispano-americana della quasi totalità degli
92
Nel lessico di Saunders, parodia ironica del concetto di nazione, definita in un altro saggio incluso
nella raccolta: “L’appartenenza a una nazione fluida non dipendeva dalla residenza in uno spazio
fisico comune (per esempio, all’interno di ‘confini’) ma piuttosto da ‘valori, fedeltà e/o modelli
abituali di comportamento’ condivisi e riscontrati trasversalmente a prescindere dai confini geonazionali” (Saunders, Megafono spento 72).
92
abitanti e un evidente bilinguismo: “Si parla solo spagnolo, sempre che non serva
l’inglese, e in tal caso si parla inglese: volentieri, amabilmente e senza accento”
(103). Gli immigrati di seconda o terza generazione costituiscono una neonata
categoria di inclusi, integrati nella società americana soprattutto per via dell’adesione
all’ideale del benessere. Il ritratto dei cittadini di Laredo si pone in implicito
contrasto con quello dei messicani precedentemente incontrati, colpevoli solo di non
essere venuti al mondo con qualche decennio d’anticipo. Ancora in Texas, Saunders
visita una comunità di mennoniti, che offre lavoro e ospitalità agli immigrati
messicani più poveri, provvisti o meno di permesso di soggiorno. Un altro esempio
di integrazione, improntato su una versione meno materialista dell’ideale americano,
che contempla l’ecumenismo e l’attenzione verso il prossimo. In questo caso, è
evidente il ruolo giocato dall’adesione ai valori cristiani, tale da ammettere la
trasgressione della legislazione statale nel rispetto di una legge di ordine superiore.
Ancora una volta, l’idioma misura lo stato della convergenza: essa è ancora in corso
di realizzazione, come dimostra una lunga lista di modulazioni nella padronanza
dell’inglese da parte degli immigrati. Infine, emerge il valore della conoscenza,
l’unico che permette di trasformare un impersonale fenomeno mediatico in volti e
storie di persone reali, che una volta umanizzate suscitano meno paura. Mediante la
ripresa della formula “C’era una volta” (108), Saunders riporta la tragica favola di
una coppia di messicani, vittime di tremende violenze nel tentativo di
attraversamento del confine. Di seguito, l’autore annota le lucide considerazioni del
pastore mennonita da cui ha appreso la vicenda: un sistema legale meramente
repressivo produce un sistema illegale pericoloso e violento, che infligge
conseguenze tragiche ai soggetti che vi si affidano. Nell’ultima convergenza con
l’asse dell’Esclusione, Saunders visita i Rodriguez, una famiglia di immigrati del
Centro America. Il signor Rodriguez è giunto in Texas dopo lunghe peregrinazioni
attraverso il Messico, ha costruito una casa con le proprie mani e mantiene la
famiglia con lavori umili; sua moglie ha atteso per anni in patria senza avere notizie
del marito, nascondendo l’angoscia e occupandosi dei figli, per poi emigrare negli
Stati Uniti. La figlia maggiore è una studentessa modello, ama la matematica e parla
in perfetto inglese.93 La famiglia Rodriguez si erge a simbolo della versione più
93
Sono molte le analogie tra la famiglia Rodriguez e quella di Abdulrahman Zeitoun, americano di
93
autentica dell’American Dream, esempio di un’immigrazione onesta e dignitosa, che
nulla toglie al residente autoctono:
Se questa non è la classica storia americana, ditemi voi cos’è: un uomo che si costruisce un
avvenire dal niente, lavorando giorno e notte, senza un’istruzione, senza aiuti dal governo,
senza vantaggi esterni di nessun tipo, e senza secondi fini. Che cosa voleva? Un posto dove
far crescere i figli, con meno ansie e più benessere materiale. Lo ha trovato? Sì, Dio lo
benedica. (111-112)
Con un brusco cambio di scena, Saunders si sposta sull’asse dell’Inclusione:
tornato a Laredo, egli assiste a una manifestazione del Minutemen Project, osteggiata
da un corteo di cittadini ispanici. Irrazionalità e logica sono nuovamente a confronto:
un politico locale propone di risolvere la questione ergendo un muro; due
Minutewomen sono di etnia ispanica, circostanza evidente ma curiosamente rimossa;
il fondatore del movimento è un cattolico secondo il quale la carità è un bene che
comincia a casa propria. Nel mezzo del corteo, un ispano-americano reduce del
Vietnam offre uno spiraglio di buon senso, cogliendo un’importante implicazione del
razzismo anti messicano: “Questo paese ha preso a calci i neri per secoli . . . e ora
che i neri si sono finalmente fatti valere, cerca qualcun altro da prendere a calci, e
l’occhio gli è caduto sui messicani, ma i messicani lo hanno costruito questo paese,
lavorando sempre per una miseria, e non diventeranno un capro espiatorio” (114).
Infine, l’ascolto delle ragioni di una Minutewoman illumina una verità carica di
sadness: il vuoto istituzionale non aggrega la cittadinanza nella contestazione dei
responsabili, ma produce un’inconsapevole guerra tra poveri, in cui i soggetti più
deboli si contendono gli scarsi mezzi a disposizione. Giunto a Eagle Pass, Saunders
trascorre la serata in compagnia dei Minutemen, cenando con loro e conoscendoli più
approfonditamente. Ne risulta un ritratto obiettivo e ben calibrato, che evita la
demonizzazione che ci si potrebbe aspettare da un “liberal della Costa Est” (117)
quale si definisce l’autore. Egli conversa con delle brave persone, spiritose, amanti
origini siriane protagonista di Zeitoun, un’opera di nonfiction pubblicata nel 2009 e firmata da un altro
scrittore nordamericano contemporaneo, Dave Eggers. Anche Zeitoun emigra negli Stati Uniti e risale
la scala sociale dai gradini più umili, con la sola forza del proprio lavoro; anche la moglie di Zeitoun
trascorre mesi di angoscia non avendo notizie del marito, con la sola differenza che questi è detenuto
ingiustamente in una metropoli degli Stati Uniti e non in qualche remota zona del Messico. La storia
di Zeitoun, ambientata a New Orleans durante il periodo dell’uragano Katrina, racconta orrori e
vergogne delle istituzioni preposte alla gestione dell’emergenza, responsabili di aver trasformato un
disastro naturale in una persecuzione di razza, complice l’isteria anti islamica diffusasi negli Stati
Uniti a seguito degli attacchi terroristici dell’Undici Settembre.
94
del dibattito e attente alle opinioni altrui, pur turbate da un’amarezza che gioca un
ruolo decisivo nel determinare un atteggiamento di chiusura. Nonostante le note
positive, tale ritratto presenta ampi caratteri di irrazionalità, in primo luogo legati al
possesso delle armi da fuoco. Le armi sono un elemento imprescindibile e
condizionante per un Minuteman, tanto da relegarlo entro i confini del Texas. Ne
deriva una triste ristrettezza di orizzonti, una cornice di ignoranza che alimenta la
paura nei confronti del prossimo. Inoltre, l’irrazionalità emerge dall’atteggiamento
cortese riservato alla cameriera ispanica del ristorante, un’altra contraddizione
consumata nell’inconsapevolezza. Saunders trascorre in compagnia dei Minutemen
l’intera giornata seguente, sostando con alcuni giornalisti presso un ranch sorvegliato
da un gruppo di vigilantes. Durante la mattinata l’autore accompagna il gruppo in
un’uscita di ispezione della zona, e una volta giunto il tramonto egli assiste ai
preparativi per l’operazione. Segue un interminabile appostamento notturno, in cui si
avvicendano allerta, attesa, noia e chiacchiere allegre per ammazzare il tempo, fino
alla ritirata senza che nessun “invasore” (130) abbia dato segno della propria
presenza. L’irrazionalità della circostanza è resa mediante il ricorso al registro
umoristico: la narrazione assume toni ridicoli e assurdi, che non di rado virano nel
tragico. Il racconto della mattinata in ricognizione è completamente votato all’ironia:
“La banda degli imbranati” (121) si perde in un boschetto poco distante dalle auto,
che assume le sembianze di una foresta impenetrabile disseminata di ostacoli.
L’assurdo emerge anche nell’adozione del gergo militaresco, sia effettivamente
impiegato dal caposquadra sia assunto parodicamente dall’autore. Anche la cronaca
della fase successiva suggerisce una ridicola sproporzione tra mezzi e fini:
un’operazione predisposta come una missione in Vietnam si riduce al pattugliamento
di poche centinaia di metri di confine, “una zolla di Acchiappatori in un immenso
campo di Segale” (125). Il culmine dell’assurdo si consuma nella notte, con lo
scambio di un membro del gruppo per un clandestino e il conseguente inutile
dispiegamento di forze. Una catastrofe sfiorata, da cui emerge tutta la tragicità della
situazione: i Minutemen giocano al gatto col topo ma lo fanno con pistole vere
puntate contro persone reali, peraltro senza avere un’adeguata preparazione militare
né disporre della facoltà legale di sostituirsi in alcun modo alla polizia di frontiera.
La tensione si allenta con il trascorrere delle ore, la noia favorisce il dialogo e
95
l’approfondimento della conoscenza. I Minutemen assumono caratteri più umani,
addirittura imprevisti; l’ascolto dei loro sproloqui rivela ironici punti in comune,
come l’appartenenza alla nazione fluida del “Maschio Americano Capoccione e
Parolaio” (129); infine, l’empatia culmina nella sua dimostrazione più autentica, una
risata fragorosa, condivisa e sincera.
Terminata l’operazione, Saunders si rimette in viaggio, attraversando il Big
Bend National Park alle prime luci dell’alba. Il contrasto tra natura e cultura stimola
la riflessione, che a sua volta conduce all’emergere della sadness. La prima diagnosi
del fenomeno è declinata sul piano della paura, sentimento che orienta l’azione dei
Minutemen, per i quali la cittadinanza in un paese fortunato suscita solo il timore che
qualcun altro se ne possa appropriare. Lo scrittore giunge a Terlingua, dove incontra
un’attivista americana impegnata in attività di sostegno in favore dei messicani, un
altro esempio di engagement dal basso e di azione svincolata dalla paura. Saunders
apprende gli effetti della chiusura dei varchi di frontiera: la morte di una comunità
biculturale pacificamente integrata e l’aumento del narcotraffico. L’incontro stimola
una seconda diagnosi, tesa alla comprensione e non alla formulazione di giudizi.
L’autore medita su due diverse predisposizioni, che ben sintetizzano le posizioni dei
soggetti precedentemente incontrati: la chiusura e l’apertura, la sfiducia e la fiducia,
il terrore e la sorpresa. Nel primo caso, il futuro ha le sembianze di un nemico da
combattere, nel secondo di una persona da aiutare. Procedendo verso Ovest,
Saunders giunge nei pressi di El Paso: da qui il confine diventa una recinzione, a
volte solo una linea tracciata sul terreno, che l’autore si diverte ad attraversare.
Varcare la frontiera sembra un gioco da ragazzi, ma il clima di controllo è il
medesimo: la polizia sorveglia ogni spostamento per mezzo di telecamere aeree.
Infine, Saunders raggiunge la California e attraversa un’ultima volta il confine,
ritrovandosi nella città di Mexicali. Passeggiando assorto nei suoi pensieri, egli
formula la diagnosi definitiva, riprendendo i termini del discorso adottati in apertura.
L’immigrazione è intesa come un fenomeno naturale e inevitabile, date le condizioni:
“Mettete un paese povero vicino a uno ricco e guardate in quale senso scorre il
traffico. Aggiungete degli ostacoli, e il traffico cerca di aggirarli. Togliete la
disparità, e il traffico si interrompe. Se i messicani fossero ricchi come noi,
verrebbero solo in gita” (138). Il reportage si chiude con un ultimo incontro, quello
96
con una prostituta di Mexicali, che nella fantasia dell’autore si trasforma in una
madre impegnata di un’immaginaria Calitex: rovesciando nomi e situazioni,
Saunders manifesta il proprio messaggio di speranza in un appianamento delle
disuguaglianze.
“The Great Divider” è dotato di una struttura narrativa chiara e riconoscibile:
il reportage è suddiviso in paragrafi titolati, che si susseguono in ordine cronologico.
Il giornalismo narrativo di Saunders non propone mai una cronaca pura, ma fonde
costantemente l’osservazione in presa diretta con l’articolazione del pensiero:
“Saunders seems to do very little reporting, eschewing most external detail for his
own internal conflicts and empathetically observational experience”94 (Bearman). I
riferimenti e i richiami al lettore – sempre in seconda persona plurale – sono
improntati alla confidenzialità, secondo un atteggiamento descritto in un altro saggio
della raccolta e identificato mediante una delle tipiche metafore dell’autore: il
modello sidecar della letteratura prevede “scrittore e lettore fianco a fianco, che
piegano insieme in curva, e il piacere deriva dalla reciprocità e dalla simultaneità
dell’esperienza” (Saunders, Megafono spento 148).
La dimensione soggettiva è uno degli elementi più interessanti e riusciti del
reportage. L’Io dell’autore partecipa attivamente alla narrazione immettendo la
propria soggettività nel testo, raccontato integralmente in prima persona.
Un’attitudine appresa da Wallace, come l’autore ammette in un’intervista: “Questa è
un’altra cosa che mi ha insegnato David Foster Wallace: stare nella storia che si
racconta . . . Impegnarsi come personaggio, stare dentro, stare con le persone che
racconti è un metodo che rende più semplice, più fluida la scrittura stessa. Quando ho
provato a sottrarmi, a scomparire, mi ritrovavo con una storia arida, senza calore né
significato” (De Mieri 39). Per certi versi, anche il ruolo di Saunders ricalca quello di
Wallace: l’autore si dipinge come un giornalista impacciato, goffo e autoironico,
basti pensare alla gag degli sportelli dell’auto, agli accenni alla stempiatura o alla
disposizione all’obbedienza durante l’appostamento. Del tutto peculiare e originale è
l’approccio con cui Saunders orienta la propria attività di reporting. Il modello
conoscitivo dell’autore si può sintetizzare mediante l’individuazione di tre fasi, che
94
“Saunders sembra fare poco reporting, respingendo la maggior parte dei dettagli esterni in favore
dei suoi conflitti interiori e della sua esperienza empatica fondata sull’osservazione”.
97
disciplinano il metodo da seguire prima, durante e dopo l’inchiesta. In primo luogo,
si tratta di ponderare con onestà le proprie opinioni di partenza: “Ho cercato . . . di
valutare onestamente il mio livello di conoscenza e le mie opinioni preesistenti prima
di mettermi in viaggio, in modo da avere chiara quale fosse la mia visione delle cose
‘prima e dopo’” (Testa). Tale atteggiamento emerge sia nei confronti dei mennoniti
sia in relazione ai Minutemen, oltre che nell’esplicitazione di personali momenti
“alla Lou Dobbs”. Durante la fase di immersion reporting l’imperativo è quello della
conoscenza: osservare con occhi ben aperti, porsi continuamente domande, cercare
sul campo le risposte e – soprattutto – impegnarsi ad assumere il punto di vista di
ciascun personaggio, specie nel caso non lo si condivida. Tale approccio permette di
estendere i propri margini di consapevolezza, riconfigurando le opinioni preconcette
sulla base dei dati forniti dall’esperienza: come chiarisce l’autore, si tratta di “vedere
e godermi la contraddizione fra la mia idea teorica del mondo (piccolo, ordinato,
solido) e la realtà del mondo stesso (enorme, incasinato, fluido)” (ibid.). Terminata
l’indagine, sono numerose le tentazioni cui rifuggire. In primo luogo, occorre evitare
la formulazione di giudizi di parte, lasciando tale prerogativa al lettore; allo stesso
modo bisogna respingere l’impulso alla generalizzazione; infine, va scongiurata la
tendenza all’autoconferma, alla distorsione del fenomeno mediante una selezione
arbitraria dei fatti. L’atteggiamento di Saunders nei confronti dei Minutemen è
orientato secondo questi principi: egli non li ritrae come “redneck” ignoranti e
guerrafondai ma cerca di comprenderne le motivazioni, evitando in tal modo anche il
rischio di assumere un atteggiamento di superiorità. Accettare la complessità di un
fenomeno e mantenerne le contraddizioni sono per Saunders esercizi di umiltà:
“L’escalation di complessità . . . è in sé una cosa davvero preziosa, perché ci avvicina
alla verità e, forse, ci rende anche esponenzialmente più umili quando agiamo”
(Raiola). Infine, il reporting di Saunders è votato all’empatia, alla comprensione e
alla compassione dell’altro, come testimoniano le diagnosi formulate sul finale. Si
badi che tale predisposizione non denota un atteggiamento acritico né di
generalizzata approvazione: quella dell’autore è piuttosto una propensione al dialogo
e alla critica avveduta, condotta sui toni bassi praticabili solo a megafono spento.
Lo stile dell’autore è caratterizzato dalla rapidità, come attestano le frasi brevi
e i frequenti accapo. Anche in questo caso, l’intento è programmatico: “Per me
98
l’ideale è riuscire a far sì che un pensiero possa essere trasferito sulla pagina in modo
molto diretto, sobrio, veloce, senza appesantimenti di sorta” (Borrelli 11).
Stringatezza e precisione non conducono a un linguaggio scarno o minimale, ma a
una prosa densa e compressa, poco estesa orizzontalmente ma scavata in profondità.
Infine, Saunders firma il reportage mediante alcuni stilemi: l’elenco numerato, la
citazione incorporata nel tessuto narrativo, la metafora bizzarra ed efficace, il ricorso
frequente a corsivo e maiuscolo, quest’ultimo utilizzato per identificare le “nazioni
fluide” o sostantivare concetti, ancora alla maniera di Wallace.
Collocandosi inizialmente sull’asse dell’Esclusione e quindi su quello
dell’Inclusione, Saunders può osservare la convergenza da prospettive diverse. La
comunità ispano-americana di Laredo, i mennoniti e la famiglia Rodriguez sono
esempi di un’integrazione sempre più positiva e genuina. La declinazione
dell’American Dream segue la medesima progressione: dalla devozione al benessere
materiale – una versione degradata del sogno americano, pericolosamente simile a
quella osservata nel reportage di Joan Didion – fino all’adesione ai valori più
autentici dell’ideale a stelle e strisce, come il lavoro, l’istruzione e l’ascesa sociale.
L’asse dell’Inclusione è introdotto subito dopo il ritratto della famiglia Rodriguez,
non per creare un polo negativo da contrapporre al precedente, ma per risaltare
l’insensatezza della battaglia dei Minutemen, rivolta contro un soggetto onesto e
innocuo. Le convergenze successive acquisiscono un carattere già osservato nei
reportage di Capote e di Wallace, quello della rimozione. Ancora una volta, l’altro è
un soggetto da allontanare e respingere, in questo caso mediante la tutela fisica dei
confini nazionali. Restando sconosciuto, egli continua a suscitare paura e a indurre
un’isterica esigenza di difesa. L’irrigidimento è tale che si giunge al paradosso, come
nel caso dell’appostamento notturno: i Minutemen armati fino ai denti rendono
preferibile l’ipotesi di una mancata convergenza; invece che confidare nell’incontro,
ci si riduce ad augurarsi che l’altro non si manifesti.
La sadness emerge in primo luogo dal vaglio delle caratteristiche tipiche degli
inclusi: contraddizione, irrazionalità, incoerenza, a loro volta sintomo di una tristezza
ancor più grave, quella dell’inconsapevolezza. Nel reportage, esse sono rese evidenti
mediante due strategie: il confronto con il paradigma opposto – quello della logica,
99
della coerenza e del buon senso – e il ricorso al registro umoristico. Come si è visto,
la contraddizione è sia etnica (l’inconsapevolezza di contrastare un’etnia cui si
appartiene) sia etica (il contrasto coi valori della morale cristiana). Inoltre,
l’irrazionalità riguarda la fissazione sulle armi da fuoco, la preferenza per sistemi
meramente contenitivi e repressivi, la convinzione di operare per il bene della patria
e l’inconsapevolezza del proprio razzismo. In secondo luogo, la sadness deriva dalla
constatazione di un profondo vuoto istituzionale, di cui gli immigrati messicani sono
i primi a pagare le conseguenze. Se è possibile identificare un colpevole, occorre
rivolgere lo sguardo verso l’alto, alle istituzioni e ai media, e non in basso, dove si
collocano con trascurabile dislivello tanto i Minutemen quanto gli immigrati.
L’apatia istituzionale produce da un lato una patetica guerra tra poveri, dall’altro un
pericoloso dilagare di paura e paranoia. Come sintetizza efficacemente lo scrittore,
gli Stati Uniti sembrano “un pulitissimo pugno stretto dall’ansia” (Saunders,
Megafono spento 102), quella di vedersi sottratto il poco che si possiede. La
condivisione non è un’ipotesi contemplata, la paura è tale che impedisce la
possibilità di intendere la convergenza come un fenomeno positivo, un’occasione di
conoscenza cui guardare con fiducia e ottimismo. Infine, la sadness è quella
dell’autore, equamente ripartita tra esclusi e inclusi: “A un tratto, non so perché, mi
accorgo che ho le lacrime agli occhi . . . Sono triste per chiunque potremmo beccare
(una famigliola che proprio ora avanza timorosa nel buio?) e triste per i Minutemen,
che arrancano come spettri condannati a dare la caccia a Ciò Che Li Tiene In Ansia
per tutta l’eternità” (124).
Il reportage serba anche un messaggio positivo, semplice ma non banale: la
sadness è un male curabile, e la guarigione comincia con la conoscenza dell’altro e
con lo sviluppo dell’empatia. Il reporting di Saunders è un inno alla generosità e
all’amore per il genere umano, un invito allo svuotamento del concetto stesso di
Esclusione. L’amore professato da Saunders non ha nulla di romantico o
sentimentale, ma è votato all’attenzione e all’apertura verso il prossimo. È sui
medesimi valori che l’autore si congeda in un altro reportage, con una chiusa che
vale la pena di leggere in originale: “Don’t be afraid to be confused. Try to remain
100
permanently confused. Anything is possible. Stay open, forever, so open it hurts, and
then open up some more, until the day you die, world without end, amen”.95
95
“Non aver paura di essere confuso. Cerca di restare perennemente confuso. Tutto è possibile. Resta
aperto, sempre, fino a farti male, e poi apriti un altro po’, fino al giorno della tua morte, nei secoli dei
secoli, amen” (Saunders, Megafono spento 62).
101
CONCLUSIONI
Questo lungo viaggio nel reportage narrativo nordamericano contemporaneo
mi ha permesso di riconoscere il valore artistico di un genere letterario emergente,
nato come costola della creative nonfiction. Nel corso di questo lavoro ho potuto
osservare come l’artistry del reportage narrativo sia individuabile nella sua efficacia
per l’indagine di un tema fondante dell’ethos degli Stati Uniti, l’American sadness.
Nel nonfiction novel di Truman Capote, In Cold Blood, la tristezza assume le
fattezze di un’ombra sempre più fosca che incombe sul sogno americano. I primi
segnali della sadness sono riconoscibili già a monte dell’omicidio della famiglia
Clutter, nella profonda distanza che separa i poli opposti della società americana dei
tardi anni Cinquanta, divisa tra insider e outsider, tra coloro che hanno realizzato il
sogno e chi ne è rimasto escluso. Con un tale divario, la convergenza tra i due
estremi è tanto tragica quanto inevitabile, come gli orrori di Holcomb intervengono
stabilmente a testimoniare. Tale esperienza conduce a un fallimento ancor più
radicale, rinvenibile non solo a livello di legittimazione indebita della pena di morte:
Holcomb invoca la pura restaurazione dell’“ordine” di partenza, ponendo le
premesse perché altri sogni possano volgersi in incubo.
Con il caso di Lucille Miller, oggetto del reportage “Some Dreamers of the
Golden Dream” di Joan Didion, la sadness si sposta sull’asse dell’Inclusione. Anche
la realizzazione del sogno produce tristezza e tragiche conseguenze, specie se si vive
in una terra aspra come quella della California. Qui il sogno americano incontra il
102
mito del West: la promessa del Golden Dream attira verso il Pacifico, nutrendo le
speranze di chi è in cerca di una nuova vita. Ma anche questo sogno nasconde un
dark side, e la promessa si rivela un’illusione: la vuota California educa a “valori”
materialisti e superficiali, e chi vi abita non può far altro che interiorizzarli. In questi
primi due reportage la narrazione è condotta in terza persona: per quanto coinvolto
nella realtà, Capote rimuove totalmente la propria presenza dalla pagina, mostrandosi
solo per via implicita attraverso la selezione dei fatti da raccontare; anche
l’“implacabile Io” di Joan Didion si palesa solo indirettamente, celato nelle scelte
stilistiche, nella descrizione dei paesaggi e nella resa delle atmosfere.
Il reportage “Ladies and Red Lights” di William T. Vollmann si colloca al
margine estremo dell’asse dell’Esclusione, dove la sadness è più manifesta: il
Tenderloin è un luogo di malessere generalizzato, come evidente è la tristezza delle
prostitute, allontanate dalla vita e costrette a un’esistenza sfinente fatta di violenza,
sfruttamento e miseria. Vollmann intende restituire umanità alle “sue” prostitute e
gettar luce su un mondo sommerso, stimolando la compassione del lettore.
L’obiettivo dell’autore è nobile e sincero, ma il risultato non può dirsi del tutto
riuscito: senza contestualizzazione sociale né indagine delle cause le prostitute
restano figure bidimensionali, incapaci di suscitare empatia. Inoltre, pesa la qualità
della mimesi dello scrittore, tanto estrema quanto superficiale: la convergenza capace
di redimere la sadness necessita di un altro tipo di coinvolgimento, magari meno
esplicito ma certamente più profondo.
Il ritratto dell’Inclusione si perfeziona con alcuni reportage redatti in anni più
recenti. Sarah Vowell racconta la fissazione americana per le armi da fuoco e la
versione “igienica” del sogno americano celebrata dal mondo Disney, due
circostanze colme di sadness. In “The View From Mrs. Thompson’s” David Foster
Wallace declina il tema in un’inedita versione mediatica, come malessere prodotto
dalla manipolazione occulta operata dai mezzi di informazione. “Consider the
Lobster” coglie l’egoismo tipico del mondo dell’Inclusione, dedito al puro
soddisfacimento del proprio piacere senza curarsi di chi ne subisce le conseguenze.
John Jeremiah Sullivan mostra il clima di razzismo latente che accompagna forme
ricreative rigorosamente bianche, quindi riprende la declinazione mediatica della
sadness, in questo caso applicata al mondo dei reality show. Infine, l’autore torna a
103
Disneyworld per raccontare l’esperienza allucinatoria del divertimento di massa.
Anche l’asse dell’Esclusione si arricchisce di nuove categorie: gli skinhead di
Vollmann, che in “The White Knights” mostra una sadness carica d’odio; il mondo
del porno osservato da Wallace nel reportage “Big Red Son”, un microcosmo
volgare, grottesco e del tutto inconsapevole della propria tristezza; e, da ultimo, la
vergognosa realtà delle tendopoli californiane che accolgono vagabondi e figli della
crisi, come racconta George Saunders in “Tent City, U.S.A.”. Caratteristica comune
di tali reportage è una manifestazione più esplicita della presenza dell’autore, votata
a un coinvolgimento più profondo rispetto a quello del primo Vollmann. Nei testi
proposti prevale un atteggiamento di empatia, una chiave importante per accostarsi
alla sadness che ho approfondito nei reportage dedicati alla convergenza.
In “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again” David Foster Wallace
ripropone un peculiare carattere della sadness, quello dell’inconsapevolezza. I suoi
compagni di viaggio non sembrano curarsi della tristezza insita nell’esperienza della
crociera, che l’autore qualifica come disperazione. Inoltre, essi sono inconsapevoli
della convergenza in atto, tanto a bordo della nave quanto sulla terraferma: i membri
dell’equipaggio e i residenti autoctoni incontrati nei porti dei Caraibi costituiscono
una nuova categoria di esclusi, che i passeggeri sono disposti ad accogliere solo in
qualità di anonimi servitori. L’unico a sperimentare autentiche convergenze è
Wallace, cui spetta l’onere di sopportare anche l’intero carico della sadness che ne
deriva. Coscienza critica e generosità qualificano la presenza dell’autore, di concerto
con la disposizione all’empatia: il reporting di Wallace si serve di ogni mezzo –
compreso quello dell’ironia – per tentare di avvicinarsi all’altro e di stabilire un
incontro profondo, un’autentica comunicazione.
Con George Saunders la convergenza si sposta al confine tra Messico e Stati
Uniti, dove le squadre di vigilantes del Minutemen Project tentano di mantenere a
distanza un’altra categoria di esclusi, gli immigrati sudamericani. Cinquant’anni
dopo la tragedia di Holcomb l’altro è ancora un soggetto da respingere prima ancora
di essere conosciuto: continua a suscitare paura e un’isterica esigenza di difesa, resa
più pericolosa dal possesso delle armi da fuoco. In “The Great Divider” la sadness
coinvolge le miserie dei clandestini come l’ansia dei sorveglianti, fino a contagiare
anche l’autore. Saunders non si limita a registrarla, ma propone anche un rimedio,
104
fatto di fiducia e disponibilità all’incontro, di rimozione della paura per mezzo della
conoscenza. La critica risulta autentica perché l’autore pratica i valori che predica:
nel corso dell’intero reportage egli assume entrambi i punti di vista, non per
giudicare ma per comprendere. Il messaggio è ancora una volta votato all’empatia e a
un’apertura nei confronti del prossimo intimamente avvertita.
Come in ogni viaggio che si rispetti non sono mancate le sorprese. Ho letto le
cronache di un paese malato, ma ho scoperto anche preziosi indizi di ripresa. Ancor
più significativamente, ho notato che la guarigione comincia dalla caratteristica
distintiva del reportage narrativo, la presenza dell’autore sulla pagina. Sono gli autori
che indicano la via da seguire per redimere la sadness, non teorizzando soluzioni
astratte ma offrendo la testimonianza di una convergenza esperita in prima persona,
con il mondo degli inclusi come con quello degli esclusi. In questo senso, i reportage
selezionati si collocano in progressione: dall’assenza di Capote alla presenza
nascosta di Joan Didion, dalla comunione superficiale di Vollmann alla vocazione
all’empatia di Wallace e Saunders. L’American sadness è un malessere complesso,
ma si cura con una medicina semplice: basta evitare la trappola del solipsismo,
dell’autocentratura, di ciò che Wallace – nel celebre discorso pronunciato ai
laureandi del Kenyon College nel 2005 – definisce come “default setting”, la
configurazione di base che ci pone costantemente al centro della nostra esistenza. La
tristezza guarisce aprendosi all’altro, rendendo non solo la scrittura ma l’intero
approccio al mondo autenticamente comunicativo, “being able truly to care about
other people and to sacrifice for them over and over in myriad petty, unsexy ways
everyday”96 (Wallace, “This is water”). Il ruolo dello scrittore è quello di ricordarlo
al lettore, perché le verità più semplici sono quelle che si dimenticano più in fretta,
come i pesci non si accorgono del mare in cui nuotano. Anche la cura della sadness è
semplice e limpida, proprio come l’acqua.
96
“Avendo davvero la capacità di avere a cuore le altre persone e di sacrificarsi per loro più e più
volte in una miriade di modi insignificanti e poco attraenti”.
105
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