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€ 20,00 ISBN 978-88-569-0484-0 9 788856 904840 san gennaro patrono delle arti conversazioni in cappella 2014 Niente è più inedito di un capolavoro. Da angolazioni diverse e con una particolare attenzione ai materiali e alle tecniche, otto studiosi tornano a confrontarsi con i temi della cultura figurativa. Un nuovo ciclo di conferenze nella Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, luogo simbolo della fede, della storia, della cultura, dal Trecento angioino ai fasti del Barocco, alla devozione dei contemporanei, emblema e dimora d’elezione del patrono della città e dei capolavori che ne celebrano la gloria. san gennaro patrono delle arti conversazioni in cappella 2014 ‘ Curate i vostri monumenti e non avrete alcun bisogno di restaurare… Vegliate con occhio vigile, su un vecchio edificio, conservatelo facendo del vostro meglio e con tutti i mezzi… Fatelo con tenerezza, rispetto, vigilanza incessante, e più di una generazione nascerà e scomparirà all’ombra dei suoi muri. [John Ruskin, 1849] san gennaro patrono delle arti conversazioni in cappella 2014 a cura di stefano causa Sommario coordinamento editoriale maria sapio redazione paola rivazio art director enrica d’aguanno impaginazione franco grieco in copertina cappella del tesoro di san gennaro, la cupola affrescata [fotografia di pina catino] arte’m è un marchio registrato prismi editrice politecnica napoli srl certificazioni qualità ISO 9001: 2008 www.arte-m.net stampato in italia © copyright 2014 by prismi editrice politecnica napoli srl tutti i diritti riservati Cappella del Tesoro di San Gennaro san gennaro patrono delle arti conversazioni in cappella Cappella del Tesoro di San Gennaro aprile - maggio 2014 Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro in collaborazione con l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Fabrizio Vona Bronzi in San Gennaro mercoledì 9 aprile 2014 Nicoletta D’Arbitrio Tessuti d’arte per il corredo di san Gennaro: le donazioni, il restauro lunedì 14 aprile 2014 Daria Catello La tradizione della lavorazione dei metalli preziosi a Napoli attraverso le opere della famiglia Catello mercoledì 23 aprile 2014 Paolo Jorio Il filo di lana: san Gennaro nel mondo mercoledì 30 aprile 2014 7 Premessa Stefano Causa 9 Eleonora D’Auria La Cappella di San Gennaro: passi da Gigante mercoledì 14 maggio 2014 Tessuti d’arte per il corredo di san Gennaro: le donazioni, il restauro Nicoletta D’Arbitrio 25 Manlio Titomanlio Nuove tecnologie applicate all’arte mercoledì 21 maggio 2014 La tradizione della lavorazione dei metalli preziosi a Napoli attraverso le opere della famiglia Catello Daria Catello 38 Il filo di lana: san Gennaro nel mondo Paolo Jorio 54 “Et piglia forma della volta del Cielo”. Il cantiere seicentesco della cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro Valentina Russo 76 La Cappella di San Gennaro: passi da Gigante Eleonora D’Auria La Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro ringrazia 93 Nuove tecnologie applicate all’arte Manlio Titomanlio Vincenzo De Gregorio, Abate del Tesoro 115 San Gennaro messo a fuoco. Materiali per una storia fotografica della Cappella del Tesoro Stefano Causa Valentina Russo “Et piglia forma della volta del Cielo”. Il cantiere seicentesco della cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro mercoledì 7 maggio 2014 Stefano Causa San Gennaro messo a fuoco. Materiali per una storia fotografica della Cappella del Tesoro mercoledì 28 maggio 2014 Biagio Conte Luciana De Maria Rosa Granato Diana Negri Serena Amabile per la fattiva collaborazione nella realizzazione degli eventi Premessa Approdati al secondo numero di questa serie di volumi di piccolo formato, che ha una propria coerenza tematica, un alto livello di contributi e, lo speriamo, vita non breve, val la pena di fare un po’ di cronaca. Come ho già ricordato, più o meno con le stesse parole, nella premessa al libro numero uno (San Gennaro patrono delle arti. Conversazioni in cappella), fu nei giorni di Natale del 2011 che, con il duca d’Andria e con Luciana De Maria ci chiedevamo come rimettere la “Cappella di San Gennaro”, non tanto, al centro della devozione dei napoletani, dove era sempre stata e da dove mai s’è pensato di sfrattarla, ma a ricollocarla al posto che gli compete tra i poli d’attrazione della città (mi si perdoni la bruttura lessicale). Intendiamoci, nessuno si è mai sognato di negare che la Cappella conti tra i santuari del Barocco, qualsiasi accezione cronologica o geografica si voglia fornire al termine. Vari indizi facevano però sospettare che il monumento, che si spalanca su di un fianco della Cattedrale, fosse meno noto di quanto si pensi – e intendo anche agli studiosi. Lacune, giudizi svagati, approssimazioni continue ce lo riconfermavano tutti i giorni. La “Cappella del Tesoro” è un apice del Barocco europeo. Ma, occorre sempre ricordarlo, un capolavoro meno noto della “Certosa di San Martino” o, per dire, del “Pio Monte di Misericordia”. Non restava che ripartire dalla Storia dell’Arte. Mettemmo a punto un programma di conferenze aperte a tutti. A partire dal maggio 2012, una volta a settimana, un quartetto di studiosi si avvicendò per coprire, in una sorta di ouverture, i capisaldi dell’arte e della critica della “Cappella del Tesoro”. Nel bene e nel male, si respirava un’aria da seminario universitario. Un rito di tipo diverso se si vuole, ma celebrato in presenza delle opere. Se non troppo folto, il pubblico si rivelò sempre partecipe. Come succede in queste occasioni i professori, grandi e piccoli, latitarono. Ma non ce ne preoccupammo. Contammo un sacco di ragazzi e di menti curiose. Non furono poche le domande, i suggerimenti, le richieste di chiarimenti. Molti ci esortarono a continuare. Soprattutto pensando a loro approntammo un volumetto illustrato che apre, appunto, la collana intitolata San Gennaro patrono delle arti (2012). Il fatto che il libro continui a camminare ci ha sorpreso e rallegrato. In questi frangenti mortificanti per la cultura del Paese, chi osa varare progetti a lungo termine? Oggi le buone idee hanno le gambe corte. E, come le bugie, la data di scadenza più contratta. Ebbene. Mai avremmo immaginato che tutta la faccenda, conferenze e libro, avesse un seguito. O me- PREMESSA 7 glio, non ci avevamo sperato. Poi si sa, la seconda prova è quella difficile. Specie se la prima abbia avuto buoni riscontri. Tutti ti aspettano al varco. Per stringerti la mano. O godere del tuo insuccesso (i tedeschi la chiamano Schadenfreude). Fu Massimo Troisi a dire che, dopo quello d’esordio, avrebbe desiderato di passare direttamente al terzo film. Alla fine abbiamo deciso non di rinunciare bensì di rilanciare. Cioè di raddoppiare. Da quattro interventi siamo passati ad otto (senza che l’aumento dei relatori compromettesse il livello dei contributi…). Le nuove conferenze susseguitesi dal maggio di quest’anno hanno visto fiancheggiarsi nomi noti e studiosi giovani, ma già in grado di fornire prove di intelligenza e di passione. Questo secondo volume è la trascrizione, ampliata o variata, di quegli interventi caratterizzati, in gran parte, da un registro antispecialistico. Chi pretenda lo scavo accanito, sterile e, tutto sommato, autocompiaciuto che costituisce il titolo di merito di gran parte degli studi odierni, è pregato di rivolgersi altrove. A paragone dei saggi del primo volume che, in sequenza, formano un promemoria sulla “Cappella del Tesoro”, qui s’è cercato di stringere il focus soprattutto sulle problematiche legate alla conservazione dei materiali. Ma con un’esposizione piana e accessibile. Tra i non numerosi storici d’arte a vantare competenze nel settore dei materiali, Fabrizio Vona ha inaugurato queste nuove conversazioni con un esemplare campionamento di lettura dei bronzi della Cappella. Daria Catello che, anche da tradizione familiare, conosce quasi ogni segreto degli argenti napoletani, ha illustrato le nuove accessioni della “Cappella del Tesoro”. Mentre Nicoletta D’Arbitrio, che da tempo promette quella storia del tessuto meridionale che nessuno saprebbe scrivere meglio, ha dipanato la trama di alcuni paramenti liturgici della “Cappella”. Ma senza diminuire i meriti di alcuno, ha sorpreso il contributo di Titomanlio sulle nuove tecniche nello studio dei manufatti: lo sottolineo con qualche orgoglio dato ch’egli rimane tra i migliori talenti usciti dal “Suor Orsola”, l’università dove insegno da oltre vent’anni. Quanto a Paolo Jorio, direttore del Museo del Tesoro di San Gennaro, ha pilotato la discussione su di un versante antropologico (quello cui finisce per approdare fatalmente ogni affrontamento, anche storico-artistico del monumento). Una storica dell’architettura del nome di Valentina Russo si è concentrata sulla cupola (benché, quasi subito, la sua relazione dimettesse i panni del contributo settoriale per vestire quelli d’una perorazione, di attualità impegnativa, sui temi del ripristino e della salvaguardia). Gli ultimi interventi, a finire con quello del sottoscritto, rivelano una matrice più formalistica. Forte di una formazione orientata sugli argomenti del moderno e del contemporaneo, la giovane Eleonora D’Auria ha ripensato al modo in cui fu percepita la Cappella nel secondo Ottocento, muovendo dall’esame di un pugno di acquerelli, anche inediti, di Giacinto Gigante. Ne è emerso in superficie uno spaccato di critica in atto che dice, dell’aspetto antico del vano, meno di quanto riveli degli interessi storico-artistici di Gigante e del suo sforzo di adeguare, al clima locale, le fiammate della pittura francese di quegli anni. Bene: non si dica che, nel complesso, questo monumento nel monumento non continui a offrirsi come il migliore dei punti di vista. Molto altro si potrebbe aggiungere. Ma lasciamo, come sempre, che il lettore si diverta a seguire le tracce visibili o sottese in questi testi. Grazie a tutti e appuntamento al prossimo volume. Stefano Causa 8 STEFANO CAUSA Nicoletta D’Arbitrio Tessuti d’arte per il corredo di san Gennaro: le donazioni, il restauro “Se le opere d’arte si rivolgessero solo in maniera soggettiva al fedele per creare in lui dei sentimenti e degli atteggiamenti interiori della fede, egli non sarebbe più indotto ai misteri divini, che richiedono, invece, di essere vissuti e accolti in tutta la loro pienezza e profondità. Le opere devono presentare il contenuto della fede in maniera oggettiva, quasi slegata da ogni osservatore individuale. Le opere d’arte che intendono svolgere una funzione nella mistagogia liturgica devono essere e non solo rappresentare i contenuti della fede. Tutto lo splendore dei mosaici o degli smalti (dei tessuti, dell’oro e dell’argento)1 deve, pertanto, non solo toccare i sensi esterni di un osservatore per suscitarne le emozioni e i sentimenti, ma deve esprimere, anzi irradiare la fede in essi contenuta”2. Fra Girolamo Maria di Sant’Anna nell’Istoria della vita, virtù, e miracoli di S. Gennaro vescovo e martire, Principal Padrone della Fedelissima Città e Regno di Napoli, descrive il “Martirio di S. Gennaro”, e gli avvenimenti che precedettero l’esecuzione: “mentre lui condotto ad essere decapitato, se li buttò a’ piedi un povero Vecchio, e sperando poter ricevere qualche sollievo dalle sue miserie, pregollo a dargli parte delle sue vestimenta. Il Santo a lui rivolto li disse, ti prometto dopo la mia morte darti questo velo, col quale mi benderò gli occhi, quando la mia Testa sarà dal Carnefice recisa. Frattanto essendo gionto Lui e li suoi Compagni al luogo determinato […] il Santo s’inginocchiò, e poi si alzò in piedi, ed Egli stesso colle sue mani si bendò gli occhi […] indi fece segno al Carnefice, acciò eseguisse il suo offizio […]. Avendo già fatto passaggio dalla Terra al Cielo S. Gennaro, subito apparve a quel fortunato Vecchio mendico, e con gran puntualità attendendogli la promessa fatta, li diede il velo […]. Facendo intanto ritorno dalla Solfataja il Carnefice, e gli altri Ministri del prefetto, ed incontrandosi col Vecchio con scherzo e riso cominciarono a dirgli. Hai tu forse già ricevuta la promessa, che ti fece Colui, il quale ora è stato decapitato? Appunto l’hò ricevuta egli rispose, e mostrò il velo”3. Un velo – un tessuto raro e prezioso – testimone dello sguardo del Santo, lasciato come dono – simbolo – del suo essere, del suo vedere oltre4. Tessuti e ricami-gioiello d’oro, d’argento e di seta furono donati per vestire il Santo e impreziosire la sua Cappella, espressione concreta del legame intimo che Napoli – i potenti e gli umili della città – avevano e hanno con il Santo Patrono. Il ricco “corredo del Santo”, fu ed è, oggetto di cure continue, monitorato con TESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 9 Paliotto dell’altare maggiore. Manifattura napoletana, ricamatori napoletani. Donato da Giuseppe Magaldo nel 1682, intero e particolare Ricamo a bassorilievo con oro lamellare, oro e argento filato e sete policrome su un supporto in tela, fermata in tensione su un telaio di legno, 120 x 326 Paliotto dell’altare maggiore. Manifattura napoletana, ricamatori napoletani, 1697 Donato da Don Nicola Filomarino VII principe della Rocca d’Aspro, VI duca di Perdifumo nel 1700 Ricamo a bassorilievo, con imbottitura su supporto di raso, in fili d’oro, fili d’argento e fili di seta, 120 x 326 Paliotto dell’altare maggiore. Manifattura napoletana, ricamatori napoletani, prima metà del XVIII secolo. Donato da Ottaviano Brancaccio, patrizio napoletano (1702-1752) Ricamo a rilievo, su un supporto di raso cremisi, con fili d’oro di varia caratura e fili di seta, 120 x 326 dedizione per verificarne le condizioni conservative. Tutto quel che riguarda il “corredo” è annotato: l’acquisto di tessuti, la manifattura di apparati e ricami nuovi, la manutenzione di quelli antichi, gli artefici impegnati nella loro fattura e manutenzione, le donazioni, l’identità dei donatori e, talvolta, anche la motivazione del dono. Una storia parallela, che dal XVII secolo nel raccontare la devozione al Santo, intesse altre storie: quelle delle donazioni e dei donatori, degli artefici e delle arti, i cambiamenti del gusto e degli stili, il progresso tecnico che muta e raffina la qualità dei materiali; infine le modalità degli interventi conservativi, una traccia, un percorso storico-tecnico delle manutenzioni, delle modalità degli interventi eseguiti dal XVIII agli inizi del XX secolo e poi il restauro conservativo compiuto tra il 2003 e il 20045. La storia di un patrimonio che attraversa più secoli e che racconta attraverso le opere: gli apparati tessili – la storia materiale della città – delle attività artistiche-manifatturiere più diffuse a Napoli, come l’Arte della seta che, nel XVII secolo, impegnava nel “fare” i tre quarti dei cittadini napoletani di tutti i ceti sociali: nobili, intellet- 10 NICOLETTA D’ARBITRIO TESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 11 tuali, manifatturieri, artefici e plebei. Tra le famiglie nobiliari della città erano iscritte “all’Arte della Seta” gli Spinello6, che donarono opere d’arte tessile alla Cappella del Tesoro di San Gennaro7. Donare un tessuto d’arte al Santo Patrono di Napoli, non rappresentava solo il donatore, ma la città “nobile”, produttiva e creativa8. Il patrimonio di opere tessili offerte nei secoli a san Gennaro è notevole; la fragilità delle materie e l’uso continuo ha depauperato la fruibilità di gran parte di esso, rendendo ancor più preziose – già preziose in sé – quelle che possiamo ancora ammirare. Le prime donazioni documentate risalgono alla prima metà del XVII secolo, furono soprattutto rivolte a corredare la novella Cappella del Tesoro, dotando l’altare maggiore di panni e di paliotti. I “paliotti d’altare festini”, manufatti tessili di grande pregio in cui la sensibilità scenografica barocca, trovò la sua massima espressione, creando decorazioni a rabeschi lucenti d’oro e d’argento. Il Tesoro della Cappella nel 1686 era già dotato di venti panni d’altare “tutti arricchiti d’oro”; di cui uno “di broccato d’argento e fiori di diversi colori”, era stato donato dal “fù Don Troiano Spinello Principe d’Oliveto, Principe di Scalea” discendente di una delle più antiche famiglie “Patrizie Napoletane”9. Dei venti panni descritti nei registri nella loro ricca essenza materica, nessuno è riuscito a vincere il tempo ed essere testimone della cultura materiale del XVII secolo; ma il valore dei tessuti d’arte creati nel Seicento dai maestri dell’arte, per la Cappella del Tesoro è documentato da un paliotto ricamato con oro, argento filato, e sete policrome, una donazione di notevole pregio. Il manufatto, attesta l’inventario dei “parati” del 1686, “fu donato nel 1682 insieme ad un velo d’altare dall’avvocato Giuseppe Magaldo”10, discendente della nota famiglia di imprenditori originari della Lucania, già affermati nel XVI secolo, avevano esteso poi i loro interessi fino a Napoli. Il dono d’alto valore, nell’atto di fede, vuol segnare visibilmente, in Città, l’affermazione economica e sociale dei Magaldo11. Il paliotto12 è tra i più complessi manufatti del patrimonio napoletano d’arte tessile, che proprio negli apparati d’altare a ricamo amalgama materiali preziosissimi: seta, oro, argento, avvalorati da decori a “meandro”, contenitori di frutti e fiori, sontuose volute, espressione e fondamento della sensibilità scenografica barocca. Il procedimento impiegato per costruire l’opera prevede fasi preparatorie molto laboriose, per predisporre il supporto di tela sul telaio in legno, per poi disporre e tendere su questa, in verticale, una fitta serie di fili in lino, una sorta di orditura, su cui distendere, in orizzontale e fermare ad ago con seta gialla l’oro filato utile per creare, una trama a ricamo; un fondo tutto d’oro definito a “canestro”. Altri supporti di cartone e bambagia, vennero fissati sul fondo, seguendo il disegno, per dar forma e dimensione ai rilievi per realizzare effetti tridimensionale. La tecnica di lavorazione dei fili d’oro e d’argento adoperati nel paliotto, ha remote origini, si deve ad artefici ebrei che avevano consolidato la loro presenza in città in epoca angioina. L’oro convertito in fili con sapienza dagli artefici fu ampiamente impiegato nella realizzazione delle decorazioni a ricamo e nella tessitura di drappi. Nei primi decenni del secolo XVII a Napoli oltre all’antico metodo di “tirare l’oro”, la Camera della Sommaria aveva concesso di lavorare il metallo secondo il metodo di “filare l’oro all’uso di Fiorenza”13. La tecnica messa a punto dai battiloro fiorentini permetteva la creazione di una gamma variegata 12 NICOLETTA D’ARBITRIO di filati più resistenti e lucenti di quelli lavorati con la tecnica detta “all’antica”. Il procedimento di fermatura a ricamo dei fili adottato per realizzare il paliotto è definita nei documenti del XVII secolo, con un vasta nomenclatura: “punto d’oriente, alla moresca, punto indiano”; riferita a metodiche nate e raffinate prevalentemente in oriente. La diversa lucentezza e spessore dei filati metallici adoperati per costruire il paliotto, rappresentano la caratteristica basilare dell’opera il cui fondo è ricamato totalmente con fili d’oro fissati ad ago con fili di seta per simulare l’intreccio a “canestro”14. Al centro del fondale dorato si staglia un vaso d’argento da cui si dipartono sinuose ramificazioni ricche di frutti simbolo d’abbondanza e composizioni di fiori tra cui la rosa, il delicato fiore legato al culto mariano e il tulipano, metafora della “coppa” che contiene i valori della sacralità. Una nota del 1864 afferma che l’opera era in “ottimo stato essendosi spesi Ducati 150 per rifarlo”, che esplicita le modalità in uso nell’Ottocento nella manutenzione dei tessili; in questo caso l’intervento integrativo fu manualmente perfetto nel “rifare”15. Le annotazioni delle donazioni ricevute dal Santo, rivelano l’identità dei numerosi donatori-fedeli che intesero legare il nome e le insegne del loro casato alla storia, al culto e alla grandiosa opera: la Cappella del Tesoro dedicata al Santo, tra questi, i Filomarino. I registri dell’Archivio Storico del Tesoro di San Gennaro, filo conduttore della storia della Cappella, attestano l’esistenza nel 1728 ca., di: “un paliotto tutto ricamato di oro sopra fondo di lama pervenuto per disposizione dell’ultimo defunto Signor Principe della Rocca in anno 1700”16. Il riscontro inventariale eseguito nel 1735 specifica che il paliotto… di lama bianca del Principe della Rocca Duca di Perdifumo”17 era contrassegnato anche dalle sue “imprese”. In realtà le “imprese” ricamate sul panno rappresentano quelle binate dei Filomarino e dei de’ Sangro18. La realizzazione del paliotto, probabilmente, fu commissionata nel 1697, anno in cui furono celebrate le nozze di Don Nicola Filomarino (29.7.1650 - 16.12.1699), settimo principe della Rocca d’Aspro, sesto duca di Perdifumo, con Donna Carmela de’ Sangro (18.2.1680 - 4.11.1730), figlia di Don Fabrizio quinto Duca di Casacalenda e di Donna Anna Carafa. Lo stemma binato dei Filomarino della Rocca d’Aspro e dei de’ Sangro di Casacalenda, che definisce sui due lati il panno ricamato, rimane a testimoniare l’unione in matrimonio dei discendenti dei due casati. L’opera dedicata a Santo Patrono di Napoli fu donata alla Cappella del Tesoro rispettando la volontà del Principe Nicola Filomarino deceduto il 16 dicembre 169919. L’apparato progettato nelle dimensioni dell’altare maggiore, ricamato su un gros lamato argento, raffigura al centro “San Gennaro in Gloria”, racchiuso in una cornice barocca che si estende sui due lati del manufatto disegnando sontuosi “rabeschi”, ricamati con argento filato e oro filato, fissati con fili di seta posti ad ago in diagonale che modulano gli effetti luminescenti dell’oro e dell’argento in chiaroscuro e definiscono la sobria eleganza del manufatto. Le “imprese” abbinate Filomarino e di Sangro ricamate a rilievo nei toni delicati dell’azzurro, del verde, del cremisi vibrato delle sete, dell’oro e dell’argento filato chiudono sui due lati la composizione. La verifica delle condizioni manutentive e del valore del patrimonio tessile delTESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 13 Paliotto dell’altare maggiore. Particolare dello stemma binato Filomarino e de’ Sangro ricamato sui due lati del panno. Lo stemma dei Filomarino della Rocca, sulla parte sinistra, è caratterizzato da una fascia bianca che separa quelle di colore verde e rosso, quello a destra dei de’ Sangro è definito da tre bande d’azzurro alternate a quelle d’oro Pianeta. Manifattura meridionale, XVIII secolo. Donata da Vincenzo Maria Dattilo nel 1776, particolare del tessuto e dello stemma Broccato, fondo raso, trame supplementari in argento filato e sete policrome, 107 x 76 la Cappella compiuta nel 181020, indica che il paliotto era in condizioni precarie, ma rilevandone il pregio dei tessuti: “lama d’argento” per il fondo e la preziosità del ricamo “tutto d’oro” se ne decise il recupero per “rifare” parte del ricamo compreso “l’emblema”. Nel 186421, dopo l’Unita d’Italia la verifica dello stato conservativo degli arredi accertò che il “paliotto di lama d’argento con bellissimo ricamo d’oro e due stemmi di famiglie particolari” era stato “smontato e giace(va) rovinoso” e se ne propose il recupero22. Probabilmente non si seguì la indicazione del revisore, dato che il manufatto nel 1914 “giaceva rovinoso pensandosi dalla passata Deputazione di bruciarlo, ma potrebbesi accomodarlo e mettere in uso”, così si fece. L’intervento di recupero attuato nel 1810, con la consapevolezza del valore dei tessuti storici – irripetibili – frutto della consolidata cultura materiale della Francia, preservò l’integrità del manufatto, rispettando e tutelando la conservazione di tutte le sue parti, compreso il tessuto di fondo di seta bianca a “lama d’argento” un tessuto pregiatissimo che prevede nella lavorazione a telaio, l’inserimento di una lamina d’argento, ad ogni passaggio di fili di seta nella trama; 14 NICOLETTA D’ARBITRIO Pivialetto per la statua di san Gennaro. Manifattura meridionale, tessuto broccato, secondo quarto del XVIII secolo Fondo gros operato di colore verde, broccature d'argento filato e di seta nei colori bianco, rosa, tané, giallo oro e nero, legate in diagonale. Galloni d'oro filato lavorato a fuselli, 90 x 190 un laborioso procedimento, che richiede attenzione nel distendere la lamella d’argento senza torsioni. L’effetto finale è l’ottenimento di un tessuto lucente, simile a una lastra d’argento, ma soffice e leggera, su cui poter ricamare. Nel 1914, le manifatture tessili napoletane vivevano una profonda crisi; il valore testimoniale degli arredi antichi, parte fondante della identità di Napoli – della sua cultura materiale – fu cancellato dalla memoria collettiva della città. La censura fu responsabile della rimozione di tessuti pregiati e tra questi quella del tessuto gros a lastra d’argento su cui si fondava la preziosa amalgama materica del paliotto. Il gros fu ritagliato e il ricamo fu riportato su un nuovo supporto. Il tessuto scelto fu un raso leggero color “lattino”, non adatto a sostenere il peso del ricamo, che mostrò velocemente segni di cedimento con lesioni verticali (in trama) sempre più fitte. In seguito si verificarono lacerazioni orizzontali, nell’orditura, sempre più gravi essendo il raso un tessuto ad effetto d’ordito, che dà forma e carattere alla parte visibile. Le nuove condizioni di degrado confinarono in deposito il prezioso manufatto. Il restauro dei paramenti sacri e dei paliotti d’altare, iniziato nel 2003, per inserire i paramenti tessili nel Museo dedicato al Tesoro di San Gennaro, ha consentito il recupero e il restauro conservativo del paliotto oggetto della nostra analisi, secondo le regole di recupero scientifico delle opere, nel rispetto della loro storia e integrità formale. Non si può far tornare indietro il tempo; il nostro compito è conservare quel che TESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 15 il tempo ha preservato, non cancellando arbitrariamente, parte della storia dell’oggetto, che riguarda non solo quella opera, ma la storia, in generale, anche quella del restauro, che ha avuto, nel tempo, un suo percorso23. Uno dei principi fondanti, della “Carta del Restauro”24, è lo studio preliminare dell’opera prima di procedere al restauro: ricostruire la sua storia e la sua materialità. Il restauro è già iniziato quando restituiamo all’oggetto la sua storia, la sua identità; poi nessun aspetto va trascurato per dare all’oggetto dignità e restituirlo alla fruibilità. Quanto detto è alla base concettuale dell’intervento di restauro del paliotto, in cui ogni parte pervenuta, è stata rispettata e conservata ad iniziare dal raso posto nel 1914 come fondo, che oltre a essere parte della storia del manufatto, rappresenta anche una testimonianza materiale dei rasi prodotti in Italia e in particolare nel Meridione. In quegli anni le produzioni seriche vivevano una nuova fase di studi e di sperimentazioni; iniziative intraprese dal Governo, in particolare quella del Ministro Nitti, che aveva istituito una commissione conferendo nel 1914 l’incarico a Oreste Bordiga di compiere una ricognizione analitica nelle Province Meridionali del Regno: Caserta, Benevento, Avellino e Salerno per verificare lo stato degli impianti e delle produzioni; in primo luogo quelle delle materie prime su cui si basa, anche attualmente, la qualità dei manufatti25. Un ruolo fondamentale nell’affermazione qualitativa delle produzioni seriche meridionali fu svolto da Francesco Pignatelli, Principe di Strongoli e dalla sua consorte Adelaide del Balzo, che agì in rappresentanza di Suor Orsola Benincasa, sostenendo gli studi, le ricerche e gli impianti sperimentali di Luigi Alfonso Casella26. I rilievi analitici preliminari al restauro del paliotto, hanno rilevato che il ricamo era stato eseguito direttamente sul “gros lamato argento”; ancora visibile nella parte sottostante il ricamo ritagliato e riportato sul raso. Il cordoncino di seta cremisi che sottolineava il ricamo, interrotto nell’integrità dal riporto era stato coperto con un altro cordoncino di colore rosso, di tono più chiaro dell’antico. Il restauro, nel pieno rispetto della storia del manufatto, ha salvaguardato il raso, procedendo al suo consolidamento fissandolo su un supporto di organza di seta di colore neutro, con fili di seta organza distesi e fermati, ad ago, a “punto posato”. L’antico telaio è stato foderato con una tela di lino, su cui è stato fissato un raso di seta di colore simile a quello montato nel 1914; su questa base uniforme è stato poggiata e fermata l’organza che supportava il raso e l’antico ricamo. Il ricamo in condizioni ottimali, ancora solidale in tutte le sue parti, è stato consolidato lungo tutto il perimetro interno ed esterno, fermando i due cordoncini rossi posti per sottolinearne i contorni e accrescerne il rilievo dal fondo. Il raso, un nobile tessuto dall’aspetto levigato che assume diverse sfumature di colore create dalla luce. La sua costruzione a telaio è laboriosa nel seguire lo schema matematico legato al principio dei numeri primi, che ne determina e guida il compimento della trama. Un luminoso raso cremisi caratterizza il “paliotto d’altare festino”27 descrittoci dall’inventario del 1745, che nell’indicarne il donatore, svela anche il costo del raso e della realizzazione del ricamo a cui contribuì anche il Tesoro, che così riassume la vicenda del “Paliotto di raso cremisi ricamato d’oro, il raso fu donato dal Sig. Ottaviano Brancaccio e la spesa del ricamo fu fatta cioè per ducati 100, offerti dal Signor titolato e gli altri 22, rifosi dal Tesoro”. 16 NICOLETTA D’ARBITRIO L’opera – oggetto della nostra analisi – è un testimone esemplare del gusto della prima metà del secolo XVIII. Il paliotto28 è definito dal contrasto netto di due elementi su cui si fonda la sua materialità: il fondo cremisi del raso su cui si staglia deciso e puro l’oro del ricamo. Un ricamo a rilievo, caratterizzato da un modulo decorativo simmetrico, fondato su una coppa posta al centro da cui si aprono e si estendono sottili ramificazioni vegetali. Una scelta cromatica e compositiva raffinata resa perfetta dalla qualità dei materiali e dalla sicura, consapevole scelta compositiva del maestro ricamatore, che diversifica ed esalta il disegno variando i punti di fermatura dell’oro sul fondo, modulando la luce del metallo prezioso. La fattura documenta i cambiamenti formali in atto nella prima meta del Settecento e segna il superamento di soluzioni barocche privilegiando una simmetria ordinata e lineare che prelude al rococò. Una pulizia formale generata anche dalla rinnovata stagione creativa dei tessuti e dei filati metallici, il che comprova come la storia dell’arte e la storia della tecnica siano inscindibili. Una perfezione tecnica espressa nell’esecuzione del raso, lavorato sul nuovo telaio “al tiro”; nei procedimenti di tintura delle sete che consentirono la creazione di tonalità calde e luminose di cremisi (diverse da quelle dense e austere in voga nel Seicento), infine dalla rilucente, vasta gamma dei filati d’oro. Perfezione ricca e lineare, che solo i gioielli creati nel Settecento dagli orafi napoletani seppero eguagliare. Il “pivialetto” donato nel 1729 dalla “Duchessa di Monteleone” Margherita Pignatelli (1698-1774), per la statua di san Gennaro segna un ulteriore passaggio stilistico tra Seicento e Settecento nella decorazione dei parati liturgici. Il disegno è ispirato alle ornamentazioni ideate da Jean Bérain (1640-1711), creatore di apparati scenografici, di arredi, costumi e disegni alla corte di Luigi XIV. Le sue creazioni rigorosamente speculari, disegnavano strutture simili a architetture, intramezzate a forme fantastiche ispirate a motivi orientaleggianti. Lo “stile Bérain”, influenzò anche il creatore del piccolo piviale oggetto della nostra analisi, che disegnò, ad ago, sul gros cremisi “rabeschi” fantastici, interrotti da strutture decorative geometrizzate esaltate dalla esecuzione a ricamo in oro filato e oro riccio. La composizione presenta spunti innovativi legando elementi naturalistici a decorazioni astratte, disciplinate in un impianto rigorosamente simmetrico. Il manufatto è stato riportato, probabilmente alla fine dell’Ottocento, su un tessuto gros laminato color cremisi. Il ricamo tagliato dal suo supporto originario di “lama d’oro color cremisi”, fu fissato ad ago sul nuovo supporto di gros rosso laminato con una lamella sottile che denuncia la lavorazione meccanica. Le caratteristiche dei fili d’oro e le tecniche di ricamo impiegate caratterizzano l’antica fattura del parato, che nonostante le modifiche apportate resta particolarmente prezioso e conserva la sua bellezza. Il parato è rifinito con frange e galloni d’oro lavorati a telaio. Il patrimonio tessile della Cappella di San Gennaro è definito dalla vasta e articolata presenza di parati ricamati, ma in questo trionfo di ricami d’oro, i rari tessuti broccati risaltano per l’unicità decorativa definita dalla ricchezza della gamma cromatica. Tra i parati realizzati con tessuti broccati la pianeta29 donata da Vincenzo Maria Dattilo, “Marchese di Santa Caterina Albanese” (1638-1784), discendente di una famiglia originaria di Durazzo. L’identità del donatore è testimoniata dalTESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 17 Pivialetto per la statua di san Gennaro. Manifattura napoletana, maestro ricamatore Antonio Ciarlone, 1771 Ricamo a rilievo con oro filato, su un supporto di raso bianco, 95 x 200 Pivialetto per la statua di san Gennaro. Manifattura Vienna, ricamatori viennesi, 1855. Donato da Maria Teresa Isabella d’Asburgo Teschen, Arciduchessa d’Austria, Regina delle Due Sicilie, 1816-1867, seconda moglie di Ferdinando II di Borbone Ricamo a rilievo, su lama d’oro, in oro filato di varia caratura, fili seta, perle e pietre di colore, 95 x 200 Particolare dello stemma dei Borbone e dello stemma degli Asburgo Teschen, ricamati sui due lati del parato le “insegne” del casato: una palma con due stelle gialle su campo bianco, ricamate nella parte posteriore del parato con la scritta: “VINCENTI VS 1776 MARIA DATTILO”. Il broccato con cui fu manifatturata la pianeta è definito dal fondo raso color nocciola e da un apparato decorativo ispirato a modelli orientali con disegni di grandi frutti e fiori caratterizzati dagli intensi colori delle broccature di seta e d’argento filato legate in diagonale. Gli studiosi Slomann e Thornton definirono “bizarres” i tessuti prodotti nella prima metà del Settecento, ispirati a decori degli antichi tessuti creati in Cina e in Giappone. Thornton indica tre fasi diverse di questa particolare produzione di tessuti d’arte singolari. La prima fase è improntata ad un evidente esotismo, la seconda, astratta, è caratterizzata da forme vegetali estrose, la terza, lussureggiante, si differenzia per il rigoglioso fogliame – le forme astratte rimangono nel fondo – concepite come sotto-motivo30. Il broccato, con cui fu confezionata la pianeta, della Real Cap- 18 NICOLETTA D’ARBITRIO TESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 19 pella del Tesoro di San Gennaro è da ascrivere al terzo periodo indicato da Thornton. Il tessuto è caratterizzato da un modulo decorativo databile tra il 174050, ispirato alle complesse creazioni di Jean Revel (1684-1751) realizzate con la tecnica del “point rentré”, che modulava i passaggi cromatici31. Il corredo del Santo annovera un altro parato, un pivialetto confezionato con un broccato del secondo quarto del secolo XVIII, definito da un apparato decorativo dal tratto naturalistico evidenziato dal fondo gros operato di colore verde che modula le broccature d’argento filato e di seta nei colori bianco, rosa, tané, giallo oro e nero, legate in diagonale. I tessuti ispirati a modelli francesi ebbero larga diffusione a Napoli agli inizi del secolo XVIII, grazie agli interventi del governo austriaco rappresentato del viceré Borromeo che, tra il 1711 e il 1714, promulgò vari provvedimenti per facilitare la creazione di tali stoffe per assecondare la richiesta della ricca committenza partenopea. L’insediamento sul trono di Napoli del sovrano Carlo di Borbone favorì ulteriormente il progresso delle arti seriche, intervenendo sull’attualizzazione dei regolamenti inerenti le tecniche di lavorazione, per renderle idonee ai “tempi e varietà delle mode”32; incentivando l’insediamento di maestranze straniere. La presenza dei tessitori francesi a Napoli favorì, nel quarto decennio del secolo XVIII, la produzione di stoffe broccate con filati in oro e argento. Il patrimonio tessile napoletano annovera numerosi esemplari di broccati e lampassi “bizarres”, conservati negli armadi delle sagrestie, esempi emblematici dell’arte tessile del Settecento, tra cui quello oggetto della nostra analisi33. Le donazioni di personaggi d’alto rango contribuirono ad arricchire di opere d’arte la Cappella del Tesoro di San Gennaro, ma non svelano l’identità degli autori degli apparati: dei disegnatori, dei tessitori, dei ricamatori, dati interessanti per ricostruire una parte identitaria fondamentale nella storia del manufatto. Una parte della storia del patrimonio tessile della Cappella del Tesoro ci viene documentata in tutto il suo iter, quando a decidere e a finanziare la creazione dei manufatti fu la Deputazione. L’Archivio Storico del Tesoro di San Gennaro, conserva nelle sue pagine l’identità degli artefici che collaborarono e parteciparono attivamente alla realizzazione degli apparati34. I responsabili della Real Cappella, documentarono e registrarono tutti i passaggi del procedimento: dalla decisione di promuovere la realizzazione di un nuovo parato, fino alla sua consegna. Le note d’ordine indicavano tutte le caratteristiche sia materiali, sia formali a cui i manufatti dovevano corrispondere. Questo iter fu rispettato anche nel 1771 per dotare la statua d’argento del Santo di due nuovi piviali, essendo quelli in uso ormai “per la lunghezza del tempo guastati nel loro colore, ed anche in qualche maniera consumati: perciò essendosi dalla Deputazione pensato e determinato insieme di fare due Piviali nuovi, uno color cremisi, e l’altro bianco”35; i due colori che caratterizzano il “corredo d’està e d’inverno del Santo Patrono”, nel rispetto del calendario liturgico. L’incarico della realizzazione dei due piviali, completati entrambi dalla mitra del colore corrispondente, fu affidato al maestro ricamatore Antonio Ciarlone. Il contratto redatto il 5 febbraio 1771, indicò e formalizzò i modi, i tempi e le caratteristiche delle opere ricamate “su raso in oro [...]. Qualità e bontà a tenore del disegno”. Rispettando le regole dettate dagli “Statuti dell’Arte del Ricamo”, l’incarico di ideare il disegno da eseguirsi a ricamo fu affidato al ricamatore. L’or20 NICOLETTA D’ARBITRIO dine per la lavorazione a telaio dei galloni d’oro fu dato a Bernardo Lombardo. Dei due piviali sussiste quello ricamato su raso bianco36 che, nell’esserci, testimonia la sua luminosa natura d’oro. Il ricco modulo decorativo a impianto simmetrico, disegna sinuosi tralci punteggiati di fiori, cardi e spighe che alludono alla primavera, tempo in cui il “parato”, come indica il contratto doveva essere concluso “il 10 Aprile 1771” per l’uso delle ricorrenze rituali primaverili, indossato “da’ la statua del nostro Patrono”. Il disegno creato dal “Maestro Ricamatore”37, è decorazione pura, libera da schemi, se non quelli dettati dall’equilibrio dell’armonia compositiva. Il valore e senso di tali opere d’arte è ben espresso da Gillo Dorfles in un articolo del 2001: Arte e decorazione, sorelle per l’eternità: “Non si tratta solo di descrivere una tipologia dell’ornato né di elencarne le infinite modalità espressive, e neppure di assimilare la predilezione per l’ornato e la decorazione come una concausa dell’iconoclastia... Qual è, insomma, la vera ragione dell’ornamentale? Forse dobbiamo ancora rifarci alla distinzione kantiana tra pulchritudo vaga e adhaerens; ossia tra una ‘bellezza’ libera da ogni utilitarietà (come sarebbe appunto quella ornamentale) e quella condizionata alla ragion d’essere del singolo prodotto? O invece sarebbe più opportuno tener conto non solo delle valenze estetiche ma anche di quelle fisio-psicologiche e antropologiche, che probabilmente sono determinanti nel favorire o meno l’affermarsi della decorazione; quando addirittura non siano valenze religiose e dottrinarie a privilegiare questa forma espressiva…? Un fatto è certo: l’arte non può prescindere da questa componente, più o meno evidenziata a seconda delle epoche e della civiltà e, oltretutto, presente non solo nelle arti visive, ma anche in tutte le altre. Il fatto stesso di sottolineare, come fa il noto musicologo Hanslick, l’analogia tra l’ornamentazione d’una frase melodica e l’arabesco pittorico ci conferma in questa convinzione. E ci conferma oltretutto la presenza, tanto nelle arti figurative che nella musica e nella letteratura, d’una peculiare intenzionalità creativa, la cui urgenza si deve considerare posta non solo da mere ragioni estetiche, ma da un vero e proprio Kunstwollen (nel senso riegeliano del termine); per cui questa ‘volontà artistica può battere all’unisono con l’Ornamento e articolarne lo statuto formale’”38. L’opera di Antonio Ciarlone è melodia – è un arabesco d’oro a ricamo – è ritmo, è luce che si espande sul bianco del raso: un inno alla gloria del Santo. L’attento responsabile della manutenzione dei parati, indicò nel 1810, che il piviale ricamato da Antonio Ciarlone era stato “riparato con il riporto della parte superiore su un nuovo raso”39. Il piviale di raso bianco ricamato da Ciarlone nel 1771, è tra le opere restaurate nel 2003, seguendo le regole dettate dalla conservazione di tutte le parti materiali che fanno parte della storia dell’opera, compreso il raso montato nel 1810, durante la dominazione francese, per sostituire la fascia superiore del piviale. La sostituzione era palese, essendo il raso ottocentesco di una tonalità più chiara del raso settecentesco. Il parato, è stato consolidato ponendo sulla parte versa del raso un supporto d’organza di seta, fermato solidalmente con fili di seta organza a punto posato; un supporto di seta organza, leggero e trasparente, adoperato nel restauro dei tessili per separare le parti originali dalle integrazioni e contrassegnare il passaggio tra passato e presente, rendendolo comprensibile e reversibile. Per ridare fondo e corpo alle lacune si è posto un secondo tessuto, un raso avorio, al TESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 21 disotto dell’organza, fissandolo lungo il perimetro esterno del piviale e delle lacune e in verticale con fili di seta organza fermati a punto posato. Chiudo, questo scritto-conversazione dedicato a un pubblico di lettori, illustrando le peculiarità di un altro gioiello d’arte, un paliotto per la statua del Santo, che arricchisce il patrimonio della Cappella e quindi della città. Il parato dell’Ottocento, non fu creato a Napoli, bensì a Vienna; un dono regale di Maria Teresa Isabella, d’Asburgo Teschen, Arciduchessa d’Austria, Regina delle Due Sicilie (1816-1867), seconda moglie di Ferdinando II di Borbone40. L’inventario stilato nel 1864, ne traccia un’accurata descrizione: “piviale di lama d’oro ricamato in oro che serve per il Santo, foderato ormesino cremisi ornato di perle bianche di Roma, del quali molte si sono già perdute non essendo ben fermate. Esso è accompagnato dalla corrispondente mitra anche di lama d’oro ricamata in oro. Ambedue furono regalati al Santo nell’anno 1855 dalla Regina Maria Teresa d’Austria che le avea fatti lavorare a Vienna. Esso unitamente alla Mitra rattrovansi in ottimo stato. Al detto Piviale e Mitra debbonsi aggiungere nuovi pezzi di lama d’oro con frangia di cannottiglia disopra le tre altre borse i velluto cremisi con gallone d’oro”41. Il piviale è ricamato su un gros cremisi lamato in oro; la decorazione, a rilievo, è caratterizzata dall’impiego di diverse tipologie d’oro: oro filato e oro riccio, canuttiglie, paillettes dorate e inserti di piccole perle. Il disegno, di gusto neogotico, rivela la sua matrice culturale nel tratto fermo e sobrio dei lunghi tralci d’acanto adorni da piccole foglie e da numerosissimi gigli Borbone. Ai due lati dello stolone sormontate da una corona le armi della casa Borbone e della casa d’Austria. Gli stemmi sono ricamati con fili di seta, di oro e d’argento filato; la corona è ricamata su velluto cremisi, con oro filato, seta con applicazioni di pietre di colore. I galloni che decorano lo stolone e il cappuccio sono ricamati con filo d’oro e decorati con paillettes. Il cappuccio, fermato da bottoni d’oro, è rifinito con una ricca frangia d’oro. La sovrana volle regalare al Santo un manufatto realizzato nel suo paese d’origine; disegnato da un artista viennese e ricamato da artefici viennesi. La linearità del disegno e l’esecuzione netta dell’ornato, senza manierismi, è lumeggiato sobriamente da piccole perle. La data della donazione coincide con la nascita della principessina Maria Luisa, penultima figlia dei sovrani. Le integrazioni con fili d’oro segnalate dalle note inventariali sono evidenti in quanto il piviale donato dalla sovrana, è definito da un ricamo in cui domina l’oro. L’oro filato adoperato nella prima metà dell’Ottocento è un filo perfetto costruito con una lamina d’oro avvolta a spirale su un supporto di seta gialla, un tono tenue e lucente che conferisce al ricamo una sobria eleganza. Il filato adoperato per integrare le lacune mostra la sua diversità: nel colore, nella struttura a spirale e nel supporto di seta meno flessibile su cui è avvolta la lamina metallica. Segno del mutare del processi manifatturieri, del passaggio dall’artigianalità a lavorazioni sempre più meccanizzate, ma sempre guidate, condizionate dalle mode e dal gusto espresso visibilmente dalle scelte cromatica, più o meno intense e dai decori più o meno appariscenti. 22 NICOLETTA D’ARBITRIO bibliografia di riferimento Bordiga O., Notizie storiche sulla bachicoltura e sulla industria serica nelle province napoletane, Napoli 1910. Brandi C., Teoria del Restauro, Torino I ed. 1963, ed. cit. 2000. Catello E. e C., La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli 1977. D’Arbitrio N., L’età dell’Oro, Napoli 2007. D’Arbitrio N., I tessuti d’arte di Napoli Città “Gentile” in “Antichi Telai, il patrimonio di tessuti d’arte del Ministero degli Interni”, Roma 2009, pp. 34-35 e 64-65. D’Arbitrio N., I paramenti liturgici in seta e oro della Real Cappella di San Gennaro. “Il Corredo d’inverno e d’està del Glorioso Nostro Patrono”, in Le meraviglie del Tesoro di San Gennaro, Roma 2011, pp. 89-129-150. Dorfles G., Arte e decorazione, sorelle per l’eternità, “Corriere della Sera”, 31 giugno 2001, p. 25. Di S. Anna F.G., Istoria della vita, virtù, e miracoli di S. Gennaro vescovo e martire, Principal Padrone della Fedelissima Città e Regno di Napoli, Napoli 1803. Le fotografie pubblicate sono di Salvatore Pastore 1 È doveroso citare anche i tessuti di seta lucenti d’oro e d’argento, che hanno un ruolo fondamentale della mistagogia, nell’accompagnare i fedeli a partecipare al rito. 2 H. Pfeiffer, P. Iacobone, Chiavi interpretative dell’iconologia dell’arte cristiana: La ‘tipologia’ biblica e la ‘mistagogia’ liturgica, in Il Battistero di Parma, iconografia, iconologia, fonti letterarie, (a cura di G. Schianchi), Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 29. 3 F.G. Di S. Anna, Istoria della vita, virtù, e miracoli di S. Gennaro vescovo e martire, Principal Padrone della Fedelissima Città e Regno di Napoli, Stamperia di Stefano Abbate, Napoli 1803, pp. 59-62. 4 I tessuti-reliquia, dei martiri cristiani sono a Roma, nel Museo Sacro Vaticano, nel “Tesoro del Sancta Sanctorum”. W.F. Volbach, I Tessuti del Museo Sacro Vaticano, Roma 1942. N.D’Arbitrio, I paramenti liturgici in seta e oro della Real Cappella di San Gennaro, in Le meraviglie del Tesoro di San Gennaro, Roma 2011, pp. 89-129-150. Mancino M.R., Un paliotto ricamato a “rabeschi” della Cappella del tesoro di San Gennaro, in “Antichità Viva”, 30 n. 6, Firenze 1991, pp. 49-52. Marcelli A., Luigi Alfonso Casella e la sericoltura calabrese tra Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli (CZ) 2005. Mauceri C., Lusso e Devozione, Messina 1985. Pfeiffer H., Iacobone P., Chiavi interpretative dell’iconologia dell’arte cristiana. La ‘tipologia’ biblica e la ‘mistologia’ liturgica, in Il Battistero di Parma, iconografia, iconologia, fonti letterarie, (a cura di G. Schianchi), Milano 1999. Ragosta R., Napoli città della seta, Roma 2009. Slomann V., Bizarre design in silhs, Copenhagen 1953. Thornton P., The Bizarre Silks in “The Burlington Magazin”, agosto 1958, pp. 265-270. Thornton P., Jean Revel, dessigna de la Grande Fabrique, in “Gazette des Beaux Arts”, luglio 1960, pp. 71-86. Volbach W.F., I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Roma 1942. Restauro conservativo dei Paramenti Sacri e Paliotti della Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli. Arredi da inserire nell’allestimento del Museo dedicato agli Argenti del Santo Patrono. Progetto Comune di Napoli, responsabile architetto Nicola Varriale. Direzione della Soprintendenza per il Polo Museale Napoletano, dottoressa Denise Pagano. Restauro condotto da chi scrive negli anni 2003 e 2004. 6 R. Ragosta, Napoli città della seta, Roma 2009, pp. 64-65. 7 ATSG, fascio HE/16, Inventario redatto nel 1686. 8 Tra i donatori il cardinale Francesco Pignatelli, Arcivescovo di Napoli che donò nel 1728 “una mitra ricamata d’argento ed oro i con piccole granatelle con sua scatola” e i Governatori del Monte della Pietà, che donarono “un pivialetto di canovaccio d’argento color cremosino, con fioretti d’argento guarnito con gallone d’oro, coll’impresa del detto Monte ricamata d’oro”. (ATSG, HE/24 inv. del 1745). 5 ATSG, fascio HE/16, Inventario redatto nel 1686. 10 ATSG, fascio HE/16 Inventario redatto nel 1686. 11 ATSG, fascio HE/16. L’inventario redatto nel 1693, cita per la prima volta l’uso di paliotti in tessuto “festini” per “l’Altare Maggiore” della Cappella del Tesoro. 12 Paliotto dell’altare maggiore: Manifattura napoletana, ricamatori napoletani, 1682, dim.120x326. Ricamo a bassorilievo con oro lamellare, oro e argento filato e sete policrome su un supporto in tela, fermata in tensione, su un telaio di legno. 13 ASN, R.C.S. Consulte vol. XXIII, 23 dicembre 1636. 14 Nel secolo XVII, con l’intento di innalzamento del livello qualitativo dei manufatti, si introdussero “le patenti” per professionalizzare le attività e le arti legate alla lavorazione dei filati in oro, delle trine di seta e d’oro, rifiniture indispensabili per definire i parati sacri. (ASN, Cappellano Maggiore busta. 1163, fs., 58 anno 1616). 15 ATSG, fascio HE/55. Inventario del 1864. 9 TESSUTI D’ARTE PER IL CORREDO DI SAN GENNARO 23 ATSG, fascio HE/22. Paliotto dell’altare maggiore: Ricamatori Napoletani 1697, dim. 120x326. Ricamo a bassorilievo, con fili d’oro, fili d’argento e di seta. 17 ATSG, fascio HE/23. 18 Per la storia dei Filomarino: P. Ebner, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, Roma 1982, vol. II, p. 285. Ringrazio Giovanni Panzera per le notizie e le delucidazioni sulla storia dei due casati oggetto dei suoi studi. 19 Maria Rosaria Mancino in un suo saggio del 1991, identifica la appartenenza delle “imprese” ai casari Filomarino e de’ Sangro, ma fa risalire la realizzazione del paliotto al matrimonio di “Francesco Filomarino (1600-1678), con Violante di Sangro (1603-1674)”, M R. Mancino, Un paliotto ricamato a Rabeschi della Cappella del Tesoro di San Gennaro, in ‘Antichità Viva’ 30 n. 6 Firenze 1991, pp. 49-52. Il Francesco Filomarino le cui date esatte sono 15971641, che sposò Violante de’ Sangro, le cui date esatte sono 25.6.1589 1.2.1674, figlia di Fabrizio e di Laura Caracciolo (Ruffano), non apparteneva al ramo dei Filomarino Duchi della Rocca e nemmeno agli altri due ramo principali dei Filomarino: quello dei Duchi di Cutrofiano e all’altro dei della Torre, ma a un ramo minore. 20 ATSG, HE/40. L’inventario fu redatto nel 1810 durante la dominazione francese e Gioacchino Murat “Re delle Due Sicilie” (1808-1815). 21 ATSG, HE/55, Inventario del 1864. 22 Il restauro compiuto nel 2003, ha rilevato il riporto del ricamo effettuato nel sesto decennio del secolo XIX, con la sostituzione della originaria “lama d’argento”, di fondo, con un raso di colore avorio. Il restauro, nel pieno rispetto della storia del manufatto, ha salvaguardato il raso posto nell’Ottocento, procedendo al suo consolidamento fissandolo su un supporto di organza di seta di colore neutro. 23 La tecnica del cosiddetto “riporto”, praticata nel XVIII e nel XIX secolo, per prelevare i ricami dal tessuto su cui era ricamato per fissarlo su un nuovo tessuto. Tale operazione, nel ritagliare il ricamo, distrugge l’integrità del manufatto, eliminando non solo il tessuto di supporto, ma anche le parti più sottili del ricamo, importanti nel definire l’espandersi del disegno. 24 Carta del restauro C.N.R. 1987 (Conservazione e Restauro degli 16 24 NICOLETTA D’ARBITRIO Oggetti d’Arte e di Cultura) C. Brandi, Teoria del restauro, Torino I ed. 1963, ed. cit. 2000, pp. 4-5. 25 O. Bordiga, Notizie storiche sulla bachicoltura e sulla industria serica nelle province napoletane, Napoli 1910. 26 A. Marcelli, Luigi Alfonso Casella e la sericoltura calabrese tra Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli (CZ) 2005, pp. 25-40. 27 Paliotto dell’altare maggiore: Manifattura napoletana, ricamatori napoletani, secolo XVIII, prima metà, dim.120x326. Ricamo a rilievo (su un supporto di raso) con fili d’oro, di varia caratura, e fili di seta. Donato da Ottaviano Brancaccio Patrizio Napoletano, 18.2.1702 6.4.1752. (ATSG, HE/24. Inventario del 1745). I paramenti liturgici in seta e oro della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro in Le meraviglie del Tesoro di San Gennaro Roma 2011, pp. 88-104. 28 N. D’Arbitrio, op. cit., Roma 2011. 29 Pianeta: Manifattura meridionale, secolo XVIII. Broccato, fondo raso, trame supplementari in argento filato e sete policrome, dim. cm 107x76. N. D’Arbitrio, op. cit., Roma 2011. 30 V. Slomann, Bizarre design in silhs, Copenhagen 1953. P. Thornton, The Bizarre Silks, in “The Burlington Magazin”, agosto 1958 pp. 265270. C. Mauceri, Lusso e Devozione, Messina, 1985. N. D’Arbitrio, op. cit., Roma 2011. 31 P. Thornton, Jean Revel, dessigna de la Grande Fabrique, in “Gazette des Beaux Arts”, luglio 1960, pp. 71-86. Revel, figlio di un pittore della cerchia di Le Brun, elaborò un repertorio decorativo ispirato a un realismo esasperato che dava corpo a soggetti sovradimensionati rappresentati con una ricchissima varietà cromatica. Oltre la pianeta della Cappella di San Gennaro, il Monastero di Santa Chiara possiede un apparato liturgico “bizarre”. N. D’Arbitrio, I tessuti d’arte di Napoli Città “Gentile” in Antichi Telai, il patrimonio di tessuti d’arte del Ministero degli Interni, Roma 2009 pp. 34-39, 64-65. N. D’Arbitrio, op. cit., Roma 2011. 32 ASN, Tribunali antichi, fs. 1728. Prima Conferenza Confidenziale sul Commercio, dieci giugno 1739. 33 La disponibilità del governo napoletano fu raccolta da diversi tecnici francesi; tra primi nel 1738 il francese Trouillieur, e Francesco Guillieres, nel 1739. Nel 1740 le Ma- nifatture Reali di Boucharlat e Parisien (che confezionarono gli abiti che Carlo di Borbone indossò il 10 luglio 1741 in occasione dei festeggiamenti per il compleanno della sovrana), nel 1742 il lionese Boisson. (N. D’Arbitrio, L’età dell’oro, Napoli 2007, pp. 35-53). 34 Tra gli artefici: Gaetano de Vitolo, banderaro (1691); Antonio Mellone, ricamatore (1696); Alessio Avitabile, tessitore di drappi d’oro (1697); Pietro Cuomo, frangiaio, (1697); Silvestro Ferraro, tessitore di drappi d’oro (1702); Giuseppe Cangiano, fornì alla Cappella: tessuti di seta e galloni d’oro (1766); Suor Maria Gaetana Conzo Riga, ricamatrice (1766); Leandro Santi, mercante (1766); Francesco Petrosino, banderaro (1766); Gaetano Sennarola, gallonaro (1766); Michele Avallone, gallonaro (1767); Antonio Ciarlone, ricamatore (1771); Gaetano Sennarolo, gallonaro (1766); Gio d’Amore, banderaio (1771-1777). 35 E.C. Catello, La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli 1977, p. 121. ATSG. Fascio, CF/23 e fascio, CB/30. 36 Piviale: Ricamatore Antonio Ciarlone 1771. Ricamo a rilievo con oro filato, su un supporto di raso bianco dim. 95x200. 37 Titolo e ruolo di “Maestro” attribuito dal Consolato dell’arte a chi aveva superato le prove dettate dagli “Statuti dell’Arte del Ricamo”. 38 G. Dorfles, Arte e decorazione, sorelle per l’eternità, “Corriere della Sera”, 31 giugno 2001, p. 25. 39 ATSG, HE/40, Inventario del 1810. 40 Piviale: Manifattura Viennese 1855. Ricamo in oro filato di diversa caratura, perle e pietre di colore, su un tessuto gros cremisi lamato in oro, dim. 95x200. 41 ATSG, fascio HE/55, Inventario del 1864. Le integrazioni del ricamo in oro apposte nel 1864 sono evidenziate dalla diversità del colore e della fattura dei fili dorati. Daria Catello La tradizione della lavorazione dei metalli preziosi a Napoli attraverso le opere della famiglia Catello Per il secondo ciclo degli incontri tenutisi nella Cappella del Tesoro intitolati San Gennaro Patrono delle Arti e organizzati dal professore Stefano Causa ho avuto l’occasione di presentare l’attività svolta dalla mia famiglia nell’arco di quattro generazioni. Di frequente la storia della lavorazione dell’argento a Napoli è quella di intere famiglie di maestri che ereditano e condividono un patrimonio di esperienze di tale portata da assicurare alla loro produzione una continuità di alto livello. Nel caso della mia famiglia, in base ai documenti finora ritrovati, l’attività inizia con Giuseppe Catello1, il quale non è stato argentiere bensì scultore di opere lignee, esperto nella lavorazione della carta pesta e della terracotta. Di lui sappiamo ancora molto poco, come poco sappiamo della scultura lignea napoletana dell’Ottocento; di certo Giuseppe ha lavorato molto non solo a Napoli ma in tutta l’Italia meridionale, come testimoniano le opere ritrovate in Puglia e le molte documentate ma purtroppo andate perdute. Tra le opere superstiti ricordiamo il san Filippo Benizzi realizzato nel 1848 a spese della Sig.ra Donna Teresa Mascia Masselli, il bell’angelo custode con bambino, anch’esso documentato di Giuseppe Catelli (sic), eseguito nel 1856 e l’Immacolata del 1857, tutti custoditi nella chiesa di Santa Maria delle Pietà a San Severo di Puglia. Per la chiesa di Sant’Agostino, nella medesima cittadina, esegue nel 1864, il sant’Agostino e l’anno successivo la scultura in legno policromo raffigurante san Michele Arcangelo e la coppia di angeli reggi-fiaccola in legno dorato, posti ai lati dell’altare maggiore2. Giuseppe Catello si dedica anche alla modellazione di figure presepiali ma poche sono le testimonianze rimaste tra le quali una Natività nella chiesa di San Nicola a San Severo. Il figlio Vincenzo3 non prosegue l’attività paterna, ma molto giovane entra nell’officina di Gennaro Pane4, uno dei più importanti argentieri napoletani della metà dell’Ottocento. Ben presto gli viene affidata la direzione dell’azienda e, nel 1878, con alcuni soci non identificati, rileva l’attività del Pane. Il primo importante lavoro è l’urna dei santi martiri Mauro, Sergio e Pantaleone, realizzata nel 1887 per la Cattedrale di Bisceglie. Nel contratto stipulato il 16 dicembre dell’anno precedente tra l’argentiere e l’Arciprete Emilio Todisco il Grande, alla presenza di quattro testimoni, sono indicate in maniera molto detLA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 25 Giuseppe Catello Angelo custode con bambino 1856 San Severo, chiesa di Santa Maria della Pietà Giuseppe Catello Immacolata, 1857 San Severo, chiesa di Santa Maria della Pietà tagliata tutte le caratteristiche dell’opera: le dimensioni, il peso, i materiali. L’urna doveva pesare “Kg.mi Sedici in circa di argento, e questo sarà della bontà di millesimi Ottocento”. Dell’opera il maestro realizza un dettagliato disegno che, approvato dal committente, viene seguito in tutti i dettagli, e a cui si fa più volte riferimento nel contratto. La maestosa urna viene lavorata in soli quattro mesi, la consegna infatti, stabilita entro il 20 aprile, viene rispettata anche perché da contratto è prevista una forte penalità per un eventuale ritardo5. A questa importante opera fanno seguito le statue in argento dei santi medici Cosma e Damiano per l’omonima chiesa di Secondigliano, sulle cui basi sono incisi la data e i nomi del committente, donatore ed artefice6. Nel medesimo anno, su disegni dell’architetto Francesco Gavaudan, realizza i quattro paliotti degli altarini della Cappella del Tesoro di San Gennaro e quello di sant’Oronzo per il duomo di Lecce, tutti recanti la firma dell’argentiere Luigi Magliulo7. Invero i paliotti nel duomo di Napoli, voluti da Ferdinando II nel 1859 come si legge sulla base, non vennero realizzati in tale data a causa della 26 DARIA CATELLO Giuseppe Catello Angelo reggi-fiaccola, 1865 San Severo, chiesa di Sant’Agostino Vincenzo Catello San Gioacchino con la Vergine 1897 Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro morte del sovrano, bensì ventotto anni dopo dal figlio Francesco II8. Nell’ottobre del 1889 il Presidente dell’Istituto Casanova, marchese Raffaele Bonelli, concede a Vincenzo Catello, a titolo gratuito, l’uso di sei locali, a condizione che l’argentiere impianti “per proprio conto un’officina fornendola di tutte le macchine ed attrezzi, non pure necessari, ma riconosciuti migliori secondo i progressi dell’arte; come pure si obbliga d’istruire nell’arte medesima n. trenta alunni”. Le prime importanti opere eseguite nella nuova sede sono l’altare bronzeo per la chiesa di San Sebastiano a Caltanissetta, una grande cornice in argento con base e cimasa (h 3,20 m) per la chiesa di Santa Maria Assunta a Biccari e la perduta statua di san Cataldo per il duomo di Taranto9. Sul finire del secolo una fitta corrispondenza testimonia gli intensi rapporti lavorativi con la Sicilia e con tutta l’Italia meridionale. Numerosissime, infatti, sono le opere inviate nei vari centri del Mezzogiorno tra cui la corona in oro per il san Michele della Real Cappella Palatina di Monte Sant’Angelo, le lampade per mons. Savino di Palo del Colle e la statua in argento di san Francesco de GeLA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 27 Vincenzo Catello Urna dei santi martiri Mauro, Sergio e Pantaleone, 1887 Bisceglie, Cattedrale ronimo, protettore di Grottaglie. Molti dei lavori eseguiti in questi anni sono documentati oltre che da lettere, da contratti come le corone in oro per la Vergine di Panni, quelle per il santuario di Pierno in San Fele e l’ostensorio in argento per la chiesa di Petilia Policastro. In Campania Vincenzo Catello realizza nel 1896 una “piramide” in argento per la Vergine del Soccorso di San Potito Ultra e la testa, le mani, il Bambino e il bastone fiorito per la statua di san Giuseppe nella chiesa di Santa Maria Assunta di Bagnoli Irpino. Il 31 dicembre del 1896 consegna alla Cappella del Tesoro di San Gennaro il busto in argento di san Gioacchino con la Vergine bambina, commissionatogli dal canonico Giacomo Iavarone10. L’anno successivo realizza un’altra splendida scultura: il busto in argento di san Felice poggiante su un’imponente base reliquiario in bronzo dorato, per la collegiata di Santa Maria del Colle a Pescocostanzo. La fitta corrispondenza con il committente Filippo Domenicano, iniziata nel gennaio dell’anno precedente, ci fa conoscere tutte le fasi di lavorazione della scultura a partire da una fotografia del bozzetto fino alla consegna dell’opera avvenuta il 25 luglio 1897. Le due principali opere con le quali si chiude il secolo, purtroppo entrambe perdute, sono il busto di san Lucido protettore di Acquara11 e una coppia di grandiosi candelabri in bronzo realizzati per Roberto Siniscalco. 28 DARIA CATELLO Agli inizi del nuovo secolo Vincenzo Catello restaura la statua in argento di santa Maria delle Sette Piaghe nella Cappella del Tesoro di San Gennaro12 e, nel 1902, riceve l’incarico dal canonico Giacomo Iavarone di eseguire il busto di santa Lucia, anch’esso per la Cappella del Tesoro del duomo di Napoli. La statua, il cui modello è realizzato dallo scultore e amico Salvatore Cepparulo, professore di scultura nel Real Museo Artistico Industriale di Napoli, è il ritratto della moglie dell’argentiere, Carla Di Napoli13, ed è una tra le più belle opere del maestro. Nello stesso anno esegue, con le offerte dei fedeli del posto e degli emigrati negli Stati Uniti, la statua di san Marcellino per l’omonima chiesa di Lausdomini. Ma Vincenzo non si limita a lavorare in Italia, nel 1903 invia al sig. Lignate di New York il busto di san Ciro in argento, completo di base e due anni dopo, spedisce, sempre in America, una statua della Vergine Immacolata, nelle misure al vero. La rapidità nel soddisfare le commesse, anche quelle particolarmente impegnative per le dimensioni delle opere e la lontananza dei luoghi di destinazione, testimoniano l’efficiente organizzazione della ditta. Infatti nel 1905, in soli cinque mesi, lavora il busto di san Ciriaco, patrono di Buonvicino e poco dopo consegna la preziosa mitra per il san Gennaro di Resina. Al primo decennio del XX secolo risale il paliotto in argento per il santuario della Vergine dei Miracoli ad Andria, dal quale purtroppo sono stati trafugati, nel 1983, i fregi che ornavano il quadro centrale raffigurante la Vergine in trono. Nel 1913 consegna alla chiesa di San Nicola di Mira di Vietri di Potenza il busto in argento di sant’Anselmo, anch’esso su modello di Salvatore Cepparulo14. Nel leggere le migliaia di lettere che documentano un’attività di oltre mezzo secolo, desta meraviglia la quantità di commesse per argenterie di uso domestico da parte di privati, a cui si aggiungono gli ancor più frequenti oggetti da questi offerti per devozione a chiese e monasteri. Nel contratto stipulato l’8 marzo 1919 con il sacerdote Antonio Aversano, Vincenzo Catello dichiara di essere argentiere e scultore, quest’ultima arte sicuramente appresa dal padre e si impegna ad ingrandire il busto in argento di san Tammaro, patrono di Grumo Nevano, eseguito, nel 1678, da Giandomenico Vinaccia. Quando nel 1926 trasferisce l’officina nei nuovi e più ampi locali in via Pacelli ai Miracoli n. 13, stampa la terza edizione del catalogo della ditta, nella quale elenca i principali lavori eseguiti e presenta buona parte della produzione accompagnata in calce da note di plauso della clientela15. Tra le opere di maggior rilievo antecedenti al 1937, anno in cui cede la ditta al figlio Eugenio, si segnalano il paliotto di san Francesco di Paola nel convento dell’omonima città, eseguito nel 1935, il grande ostensorio consegnato nel 1936 alla Pontificia Basilica di Pompei e il trono (h. cm 140) detto del “Quadricello” per la Vergine di Capocolonna, nella cattedrale di Crotone ed il pastorale argenteo di pregiata fattura per mons. Giovanni Battista Alfano, canonico della cattedrale di Napoli16. Dei tre figli maschi l’unico a seguire le orme paterne è Eugenio, il minore17. Titolare della ditta fin dal 1932, come risulta da alcune opere da lui firmate e datate, Eugenio eredita definitivamente l’azienda nel marzo del 1937, per atto del notaio Tozzi di Napoli. Nel 1935 esegue un calice in oro per l’Arcidiacono del duomo di Crotone, mons. Armando Camposano e, l’anno successivo, l’urna per i resti di santo Stefano, LA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 29 Vincenzo Catello Santa Lucia, 1902 Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro 30 DARIA CATELLO Vincenzo Catello Sant’Anselmo, 1912 Vietri di Potenza, chiesa di San Nicola di Mira LA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 31 Vincenzo Catello Pastorale Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro Catalogo della ditta stampato nel 1926 in occasione del trasferimento dell’officina in via Macelli ai Miracoli n. 13 Eugenio Catello Urna di Santo Stefano, 1936 Caiazzo, Cattedrale Eugenio Catello Copertina di messale, 1954 Rabat, Malta, Collegiata di San Paolo Eugenio Catello nella nuova abitazione di via Cimarosa Eugenio Catello con la moglie Emma Tartarone Esposizione dei pastori nell’abitazione di via Cimarosa patrono di Caiazzo. Rientra in questi anni anche il paliotto in argento per l’altare maggiore della chiesa napoletana di Regina Coeli. Ai numerosi e importanti lavori eseguiti per il priore del Santuario della Madonna dell’Arco, padre Raimondo Sorrentino, si aggiungono gli impegnativi interventi di restauro delle suppellettili di argento dissepolte dalle macerie dei bombardamenti del distrutto monastero di Montecassino affidatigli, nell’immediato dopoguerra, dall’abate, Ildefonso Rea. Nel 1954, sotto il pontificato di Pio XII, in occasione dell’esumazione del corpo di Gregorio VII, voluta dall’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, Eugenio Catello realizza la preziosa urna per il corpo del santo nella cattedrale di Salerno18. Già a partire dal 1950 e fin tutto il 1957, l’argentiere lavora per la collegiata di San Paolo a Rabat nell’isola di Malta, dove, tra le tante opere, realizza un leggio, un messale e un parato di cartegloria. Tra i numerosi lavori in bronzo si ricordano le porte della basilica dell’Incoronata a Capodimonte, i pannelli della Via Crucis nella chiesa napoletana del Gesù Nuovo e i putti che sostengono la mensa dell’altare maggiore nel Santuario della Madonna dell’Arco19. Ma Eugenio non condivide con il padre solo l’attività di argentiere, eredita, in32 DARIA CATELLO LA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 33 fatti, dal genitore la grande passione per il presepe napoletano, probabilmente tramandata ad entrambi dal nonno Giuseppe scultore e autore egli stesso di figure presepiali. Eugenio amplia notevolmente la già consistente collezione paterna, infatti ogni occasione è buona per arricchire e migliorare la propria raccolta, che in un primo momento viene montata e quindi esposta solo in occasione delle feste natalizie ma successivamente trova collocazione stabile in appositi locali destinatigli nella nuova abitazione di via Cimarosa. L’esposizione si compone di oltre trenta scene ognuna delle quali ricca di personaggi, animali, accessori, come vuole la migliore tradizione presepiale napoletana20. Dopo il lavoro i “pastori” occupano interamente le giornate di Eugenio e coinvolgono la moglie, Emma Tartarone, e tutti i figli21. La collezione viene visitata da illustri personaggi, tra cui il presidente Luigi Einaudi, e di essa si parla su giornali e riviste dell’epoca. Il 20 gennaio del 1958 Eugenio Catello viene a mancare e l’azienda viene intestata, secondo la tradizione familiare, al figlio Corrado22. Su “Il Giornale d’Italia” di giovedì 27 febbraio 1958 Michele Prisco scrive un lungo articolo dal titolo Un collezionista scompare. Il viaggio a Parigi di Eugenio Catello, nel quale racconta il primo incontro con Eugenio Catello e la sua prematura scomparsa. “Aveva i capelli bianchi, soffici e come spumosi, che acquistavano a volte, nella penombra del negozio, non so quale lucente riflesso: la fredda vibrazione dell’ottone, ma, più quell’astratto e lontano fulgore dell’argento ed era il riverbero dei calici allineati sopra un panchetto o d’un reliquiario o d’un’urna: lavori tutti di cesello, prevalentemente di stile barocco, che in quella bottega artigiana si lavoravano per tradizione familiare da mezzo secolo e più. E a contrasto con quella candida chioma il volto… quasi infantile serbava una patina rosata ch’era questa, forse, il riflesso di una luce più intima, della lunga assuefazione con le facce rubizze dei pastori napoletani del Settecento. …La prima volta che vidi la raccolta Catello i pastori in gran parte si trovavano già imballati, …perché Catello si trasferiva al Vomero, in via Cimarosa, accanto al parco della Floridiana, e li avrebbe riordinato i suoi celebri pezzi. E in quel nostro incontro io mi accorsi che egli soffriva, la sofferenza del collezionista che vorrebbe mostrare un pezzo di eccezione e invece quel pezzo era già amorosamente incartato e chiuso in cassa e bisognava che il visitatore gli credesse sulla parola. L’emozione, ogni volta che Catello parlava, con quanto amore, dei suoi pastori, gli si raggrumava alla gola sino a rendergli la voce rattratta: parlava allora con parole smozzicate e precipitate, da sembrare un uomo nervoso, era invece solo un uomo profondamente innamorato delle sue creature raccolte in tutta una vita… Immagino che tutto questo gli affaticasse il cuore, anche: chissà se n’ebbe mai consapevolezza. I collezionisti napoletani di pastori del Settecento sono parecchi, ma la vecchia tradizione… è stata come rivoluzionata da Eugenio Catello: il quale capì per primo che quei pastori, veri e propri pezzi di scultura, non dovevano più essere esposti al visitatore in una fredda successione secondo lo schema solito del presepe quale più o meno conosciamo e immaginiamo tutti, ma “messi in posa” nel preciso atteggiamento che l’autore di essi volle dare ad ogni singolo pastore. …La raccolta Catello riordinata in alcune sale al pianterreno della casa di via Cimarosa, anche per questo è la più ricca e importante del genere: non si tratta d’un presepe, ma d’una raccolta di pastori collocati in una fila di vetrine e presentati come 34 DARIA CATELLO gruppi di scultura in rapporto all’ambiente che ne suggerisce il movimento. Eugenio Catello portava questa passione nel sangue… Suo padre era stato collezionista, ma aveva venduto molti, moltissimi pastori a un pittore Josè Marie Sert… Eugenio Catello consumò anni ed anni di tenace ricerca per ritrovare quella collezione e riacquistarla. Il carteggio con gli eredi del pittore fu lungo e laborioso, ma finalmente si addivenne ad un accordo. Catello partì per Parigi… La collezione superava ogni aspettativa: si trattava d’oltre cento pastori tutti di Sanmartino, sebbene in stato di grande abbandono… La vendita fu conclusa, i pastori imballati e le casse spedite. Egli tornò subito a Napoli, perché voleva accogliere per primo i suoi pezzi… Ora possiamo parlare di destino o di fatalità o di tragica ironia della vita, ma conosciamo i disegni della Provvidenza? Catello è morto improvvisamente due giorni dopo il suo ritorno a casa, mentre le casse erano ancora in viaggio, e adesso saranno anch’esse arrivate, saranno state scaricate e portate a via Cimarosa. Non so però se sono state aperte e da chi, come non so in quale stazione intermedia si saranno incontrati Catello e i suoi pastori. Ma già, si trattava di due viaggi diversi”. Il figlio Corrado accanto alla professione di architetto si occupa per molti anni con la sorella Marisa23 della ditta realizzando, nello stesso anno della morte del padre, una grande teca in argento (h cm 105) per l’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni. La teca mistilinea, sorretta da due angeli genuflessi dalle ali spiegate, si sposa perfettamente con le antiche filigrane contenenti i resti dei santi Benedetto e Scolastica. Corrado continua i rapporti intessuti dal padre con la collegiata di San Paolo a Rabat nell’isola di Malta per la quale esegue, nel 1962, una clava in argento su cui sono raffigurati quattro angeli su coppie di volute contrapposte tra altrettanti medaglioni raffiguranti il santo e tre momenti della sua vita24. Pochi anni prima della morte di Padre Pio (1968) per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo, su disegno dell’architetto Gentile, esegue la porta del tabernacolo dell’altare maggiore. Nel primo decennio di attività rientrano, tra i numerosi lavori eseguiti, un ciborio e un parato di candelieri per la chiesa di Putignano, una custodia per i resti di san Francesco di Paola per l’omonimo santuario cosentino e un ostensorio, anche questo in argento, per l’Istituto Maria Ausiliatrice di Napoli. I rapporti di lavoro, mai interrotti, con l’abbazia di Montecassino gli consentono di realizzare, per l’abate Ildefonso Rea, un reliquiario in oro e, come architetto, il progetto di sistemazione della sala dei reliquiari. Analogamente continua un’intensa e lunga attività lavorativa con il santuario della Madonna dell’Arco, per cui esegue, tra le varie opere, un calice in argento e oro. Nel decennio successivo al 1975 progetta, modella e dirige importanti opere di scultura e architettura tra cui il trono (cm 120 x 90) per la chiesa di Santa Maria Incaldana a Mondragone e quello per la Vergine di Casaluce, una grandiosa e superba architettura di 3,20 metri di altezza. Per la chiesa Santa Maria Assunta di Castellabate realizza, negli anni Novanta, il busto con base di san Costabile e ricostruisce, sulla base di vecchie fotografie dell’originale del XIX secolo, il perduto reliquiario di stile gotico. Realizza infine la grande cornice con base in argento per la sacra effige della Madonna dell’Avvocatella a Cava dei Tirreni. LA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 35 Corrado Catello Reliquiario architettonico Santa Maria di Castellabate chiesa di Santa Maria Assunta Corrado Catello Cornice con base per la sacra effige della Madonna dell’Avvocatella Cava dei Tirreni Corrado è stato da sempre convinto che l’approfondita conoscenza delle tecniche di lavorazione dei metalli, non solo dal punto di vista teorico ma soprattutto da quello pratico, contribuisse alla migliore comprensione delle nostre opere di argenteria ed è questo il motivo per il quale studio25, ricerca e lavoro manuale si alternano e susseguono freneticamente nella sua vita. Quando ci ha lasciato, il 30 novembre 2001, aveva ancora tanta energia, tante cose da dire e da insegnare26. 36 DARIA CATELLO Desidero ringraziare il prof. Stefano Causa, Riccardo Carafa d’Andria e tutti i membri della Deputazione. Ringrazio inoltre Marisa Catello per avermi fornito alcune immagini di Eugenio Catello 1. Giuseppe Catello nasce a Napoli nel 1814 e vi muore nel 1894. 2 R.M. Pasquandrea, Chiese parrocchiali di Santa Maria, San Nicola, San Giovanni Battista e loro grance in Sansevero, Foggia 2010, p. 606; E. d’Angelo, C. de Letteris, L’orgoglio pietrificato. Il Settecento trionfante della chiesa di Santa Maria della Pietà a San Severo, Foggia 2009, pp. 24, 36. 3 Figlio di Giuseppe e Maria Perillo nacque a Napoli il 25 marzo 1858 e morì a Portici il 12 dicembre 1950. Per notizie più dettagliate sull’attività di Vincenzo Catello, D. Catello, Vincenzo Catello. Documenti ed opere dal 1878 al 1937, in MCM La Storia Delle Cose. La rivista delle Arti Minori, n. 28 giugno 1995, pp. 19-28. 4 E. e C. Catello, Argenti Napoletani, Napoli 1973, p. 145. 5 Nel 1887 l’arciprete Emilio Todisco Grande e l’arcivescovo Giuseppe Bianchi Dottula commissionano l’urna a Vincenzo Catello compiendo un voto alla città minacciata da un’epidemia di colera. L’urna, realizzata in argento e bronzo dorato, costò 5.700 lire. La penalità prevista in caso di ritardo della consegna era di Lire Cinquecento. 6 Le due statue in argento del titolo 830 millesimi furono pagate 13.400 Lire. 7 Evidentemente il Magliulo dovette affidare al Catello la lavorazione delle parti in argento perché quest’ultimo nel catalogo del 1926 dichiara di essere lui l’artefice dei cinque paliotti. 8 M. Paone, Chiese di Lecce, Galatina (Lecce) 1981, pp. 113-117. 9 La statua di san Cataldo fu trafugata il 2 dicembre 1983. 10 S. Gaudino, Il restauro del busto reliquiario di san Gioacchino nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, tesi di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali, a.a. 2010-2011. 11 Il busto in argento di san Lucido fu trafugato la notte del 28 febbraio 1979. 12 Di questa statua il Bellucci nelle Memorie Storiche ed artistiche del Tesoro della Cattedrale, Napoli 1915, p. 99, scrive: “Incominciata dall’argentiere Sodo, l’emendò Vincenzo Catello”. 13 Dalla moglie ebbe sei figli: Giu- seppe, Maria, Roberto, Margherita, Clementina ed Eugenio. 14 Argenti in Basilicata, Salerno 1994, pp. 134-137, 169. 15 Tra i vari elogi ricevuti dalla clientela vi è una lettera del 5 dicembre 1893 in cui papa Leone XIII scrive: “Abbiamo saputo che tu per primo, con mirabile fermezza di animo e con vita dedita al lavoro, hai istituito in Napoli uno Stabilimento, in cui non soltanto costruisci con grande maestria arredi sacri di oro, di argento e di bronzo, ma inculchi altresì ai tuoi operai la fede e la pietà cristiana; e pertanto ti riteniamo ben meritevole di un particolare pegno della nostra benevolenza”. 16 Il pastorale è stato recentemente donato dalla signora Anna Maddaloni, nipote di Mons. Giovanni Battista Alfano, alla Cappella del Tesoro di San Gennaro. 17 Eugenio Catello nasce a Napoli nel 1898 e vi muore nel 1958. 18 L’urna fu pagata dagli armatori D’Amico. 19 Nel 1936 riceve da Papa Pio XI la commenda dell’ordine di San Silvestro; nel 1953 dalla Camera di Commercio di Napoli la medaglia d’oro per 65 anni di ininterrotta attività artigianale; nel 1956 dal Presidente della Repubblica l’onorificenza di commendatore. 20 F. Mancini, Il presepe napoletano nella collezione di Eugenio Catello, in Forma e Colore. I grandi cicli dell’arte, n. 47. 21 Nel 1924 sposa Emma Tartarone, dei loro figli sei raggiunsero l’età adulta: Carlo, Corrado, Renato, Marisa, Paola e Annamaria. 22 Corrado Catello nasce a Napoli il 17 agosto 1926. 23 Corrado e Marisa separano le loro attività nel 1983 e Corrado intesta la nuova ditta alla figlia Daria. 24 Il modello della clava (h. ca. 120 cm) fu eseguito dallo scultore maltese Giuseppe Galea. 25 Con il cugino Elio Catello pubblica: Argenti napoletani dal XVI al XIX secolo (1972), L’Oreficeria a Napoli nel XV secolo (1975), La Cappella del Tesoro di San Gennaro (1977), I marchi dell’argenteria napoletana (1996) e La scultura in argento a Napoli (2000). Numerosissimi gli articoli e i saggi tra cui: L’arte Orafa e argentaria dall’età normanna al Regno Unito, in Storia del Mezzogiorno, XI vol., pp. 585-603; Argenti in Civiltà del ’700 a Napoli 1734-1799, 1980, vol. 2, pp. 217-228; Argenteria Sacra di Montecassino, in Arte Cristiana, 1983, pp. 93-108; Argenti, in Civiltà del Seicento a Napoli, 1984, vol. II, pp. 307308, Scultori e argentieri a Napoli in età barocca e due inedite statue d’argento, in Scritti in onore di Raffaello Causa, 1988, pp. 281-286; Figure presepiali e scultura in argento. Appunti per un confronto, in Presepe Napoletano, 1997, pp. 135-145; Nel 1988 organizza con Angela Carola Perrotti la mostra Tre secoli di argenti napoletani; nel 1993 pubblica Argenti italiani nell’Abbazia di Montecassino e nel 1994 (2. ed. 2000) Argenti antichi. Tecnologia Restauro e Conservazione. Rifacimenti e falsificazioni. 26 Corrado è stato titolare della cattedra di Arredamento, Architettura e Urbanistica presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli ed è stato docente di “Storia delle arti applicate ed oreficeria in età moderna” per i corsi di “Conservazione dei beni culturali” e “Specializzazione” dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. LA TRADIZIONE DELLA LAVORAZIONE DEI METALLI PREZIOSI A NAPOLI 37 Paolo Jorio Il filo di lana: san Gennaro nel mondo C’è un tempo sospeso tra le certezze e i dubbi, tra la pace dell’anima e l’inquieto vivere, tra l’oscurità dei vicoli e la luce dell’arte, tra il sole e la notte, tra quello che fu e ciò che non sarà mai, tra la speranza e la disperazione, tra la vita e la morte. C’è un luogo unico al mondo, un luogo dell’anima, dove il sacro si fonde con il profano, dove tutto è il contrario di tutto, dove il sotterraneo si confonde con le tinte forti dei colori della luce e non solo metaforicamente. Questo tempo sospeso e questo luogo dell’anima hanno un solo nome: Napoli! Qualcuno ha provato a convincermi che si tratti semplicemente di contraddizioni genetiche, di caratteristiche ormai congenite di un popolo aduso, per sopravvivenza, ad affermare e a rinnegare se stesso. Pur avendo probabilmente un substrato di verità, l’affermazione è però comunque semplicistica perché non tiene conto, anche per mera ignoranza o per sola superficialità, né dell’aspetto antropologico, né della conformazione geofisica della città. Risponde a verità che i napoletani si siano dovuti adattare e sopravvivere a diverse dominazioni, ma è anche vero che questo popolo sia nato sul fuoco incandescente del magma vulcanico, e non solo metaforicamente, portando quindi dentro di sé, da una parte, il mistero dell’energia vulcanica, imprimendo un’azione esplosiva che proviene con forza dal centro della terra e, dall’altra, una potenza implosiva che necessariamente deve raffreddare, solidificare, sedimentare, l’incandescenza dei materiali. Negli equilibri instabili della natura stessa, sintetizzati in questo luogo geografico dall’aspetto paradisiaco dell’azzurro del mare, del sole, della bellezza insuperabile delle coste e delle isole e dai gironi infernali magmatici su cui tutto ciò sembra mollemente adagiato, il napoletano non ha scovato il modo di sopravvivere, ha bensì ricercato il modo di vivere, ha trovato il vero senso della vita. Una civiltà antica sempre in bilico tra il moto tellurico della propria terra e gli smottamenti dinastici, che però è riuscita a trovare passione, entusiasmo, creatività, intelligenza, vita tra il sole splendente e il buio della notte profonda, assimilando ed esternando apparenti contraddizioni, ma che invece rappresentano il vero equilibrio tra gli elementi in continuo movimento. Una scrittrice francese di origini svizzere, Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein, nota con il nome di Madame de Staël scrisse che “quest’area era la regione dell’universo ove i vulcani, la storia, la poesia hanno lasciato più tracce”. E aveva ragione! Un’enorme eruzione a carattere esplosivo formò un paesaggio moz38 PAOLO JORIO zafiato, un anfiteatro naturale sul mare dove è adagiata Napoli che il filosofo tedesco Walter Benjamin soprannominò “la città porosa”. Una città che, come una spugna, assorbe, asciuga, si dilata, si bagna, intesa come un’unità di uomini e di pietre, dove nessuna forma, sociale o architettonica è pensata per sempre. C’è una labilità perenne, un continuo divenire, un transitare da uno stato all’altro che è proprio il contrario del tutto concluso. D’altra parte come si potrebbe pensare che ci sia qualcosa di definito e di definitivo in una terra dove, dall’oggi al domani, sono emerse e scomparse spiagge, si sono formati nuovi monti, mari e isole, incastonati laghi, inabissate insenature e città come l’antica Baia o il tempio dedicato a Serapide a Pozzuoli, dove il tufo giallo napoletano è diventato il materiale con cui sono state edificate le abitazioni, i castelli, i cimiteri, le mura, dove è stato scavato il primo acquedotto del mondo. La stratificazione culturale e architettonica della città partenopea, però, non è frutto solo di un gioco naturale delle cose, ma anche della volontà dei napoletani, forse inconscia, di non voler cancellare le proprie radici, il proprio passato ed è talmente evidente nella sacralità quanto nel profano. Basterebbe inoltrarsi nel cuore antico della città in via San Gregorio Armeno, una strada veramente singolare e intrigante, come tante cose napoletane, per scoprire tutto questo. In questa stradina stretta e corta che congiunge gli antichi decumani greci, Spaccanapoli e via dei Tribunali, sembra sia sintetizzata tutta la storia di Napoli, dalla sua creazione sino ai nostri giorni. Ogni angolo, ogni pietra, ci racconta la città nobile e quella popolare. Proprio alla cima di questa strada, vicino al clamore del coloratissimo mercato dei portici di via Tribunali e sotto l’antica chiesa di San Lorenzo, gli scavi hanno portato alla luce il nucleo della città greca, la Neapolis, la città nuova e, grazie a un processo di stratificazione unico al mondo, oggi è possibile leggere la storia millenaria della città: dal primo insediamento greco, alla città romana con il mercato del pesce e la bottega del forno, da quella medioevale angioina a quella aragonese e poi a quella borbonica. Una città sopra l’altra: in sei-sette metri sono condensati oltre 2500 anni di storia. Tutto sembra condurci all’essenza delle radici di Napoli, ma per capire fino in fondo l’importanza di questa stradina manca ancora un piccolo tassello, perché questa strada raccoglie un’antica tradizione culturale. San Gregorio Armeno è, infatti, soprattutto la strada del presepe popolare napoletano, quella straordinaria espressione artistica partenopea che sin dai primi del Trecento ha modellato, scolpito, creato i pastori raffiguranti la natività di Cristo. Ancora oggi le antichissime mura di questa strada, che hanno visto nascere e fiorire l’arte presepiale, perpetua la tradizione secolare degli artisti che hanno dato volto e vita ai tantissimi “personaggi” e che hanno animato i favolosi “scogli” (le scenografie di sughero e di muschio) settecenteschi. Percorrere i vicoli tenebrosi del centro antico di Napoli è come inoltrarsi in un viaggio attraverso una galleria di personaggi cari alla tradizione partenopea, ma entrati di diritto nell’universo dell’arte, perché essi sono parte essenziale dell’eccezionale intensità artistica che la città partenopea ha sempre prodotto. La scultura lignea a Napoli si è, infatti, imposta come arte autonoma, distaccandosi dallo spazio prospettico e illusorio della pittura e dalla staticità della scultura e dei bassorilievi di marmo per diventare, nel Seicento, capace di dare vita e forma ai personaggi policromi inseriti in uno spazio ben definito e assegnato: quelIL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 39 Il porto di Napoli con la vista di Castel Sant’Elmo fotografia di Giorgio Sommer 1834 lo del presepe, la cui origine va innanzitutto ricercata nella contraddittoria psicologia partenopea. Tutto come fosse un film, con immagini in primo piano e in campo lungo, con forme, colori, ricerche scenografiche e spaziali, ma anche raffinati abiti ornati da trine, in oro, argento e preziose oreficerie. Il presepe napoletano sei-settecentesco presentò l’evento sacro della nascita di Gesù, inserendolo nell’ambito profano di una città cosmopolita, luminosa e pittoresca, qual era la Napoli del tempo. Una fotografia tridimensionale di una capitale con i colori e le persone che popolavano i vicoli e le strade, la vita pulsante delle piazze, i mercati all’aperto ricchi e variopinti. Una sovrapposizione culturale senza precedenti che si somma alla sovrapposizione architettonica della città. Arte che però poi si evolve, si affina, s’integra, con un altro processo artistico solo apparentemente non collegato: l’arte argentiera/orafa. Proprio nell’antichissimo fondaco di via San Gregorio Armeno vi era, nel Settecento, la bottega dell’artista Giuseppe Sanmartino, il genio della scultura napoletana, creatore 40 PAOLO JORIO della più affascinante serie di figure lignee da presepe mai creata, ma anche il realizzatore dello straordinario Cristo velato in marmo della Cappella San Severo e l’ideatore di una delle opere in argento più importanti del Museo del Tesoro di San Gennaro: San Raffaele e il Tobiolo. Questa condensa di emozioni, di tumulti dell’animo, di eterna precarietà ha prodotto eccessi spesso negativi, ma anche un’inconsueta genialità capace di forgiare una costante ciclica formazione di grandi artisti, musicisti, pittori, scultori, intagliatori, ricamatori che hanno lasciato all’umanità capolavori d’inestimabile valore. In un mondo così complesso, difficile da comprendere, in cui sacro e profano si confondono e si fondono quotidianamente, in cui il confine tra la vita e la morte è molto labile, emerge su tutto e su tutti, quindi, la sensualità e l’erotismo dell’arte partenopea nata tra i vicoli bui che ci riconduce alle radici profonde della magia, dei misteri, dei metalli magmatici che hanno plasmato e forgiato i napoletani e in particolare le donne napoletane. Ammalianti, sensuali, seducenti e passionali al punto di immolarsi in nome di un amore tradito, come accade nel mito della Sirena Partenope. La sensualità scomposta dei riti orgiastici dedicati a Priapo, il dio della fecondità, e la verginità della Madonna di Piedigrotta, l’erotismo travolgente e mediterraneo delle donne rappresentate dal Caravaggio o da Micco Spadaro e l’eterea levità delle monache di clausura del convento delle Trentatre, l’ancestrale sensualità delle villanelle delle lavandaie del Vomero e la passione profonda delle cosiddette parenti di san Gennaro sono simboli che si trovano sparsi nel mondo e che sono invece tutti racchiusi in questa città. Ed ecco che nello stato di perenne incertezza, nel magma confuso delle vicende umane di questa città emerge unica, potente, amorevole, indissolubile, indiscutibile, imprescindibile la figura del santo che i napoletani hanno eletto proprio protettore: san Gennaro. Nume tutelare che i napoletani hanno designato a protezione di Napoli dalle tragedie naturali, come le eruzioni devastanti del Vesuvio, i terremoti, le pestilenze, le carestie, ma anche a difesa dalle miserie umane come le guerre e le invasioni. Il miracolo dello scioglimento del sangue di San Gennaro è, da oltre 1700 anni, l’evento prodigioso in cui milioni di napoletani e di origine partenopea, credenti e non credenti, sparsi nel mondo a causa dell’immane disgrazia dell’emigrazione, si riuniscono non solo spiritualmente, ma anche ritrovando una parte delle proprie radici. Tre volte l’anno; il sabato che precede la prima di domenica di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre, la Cappella del Tesoro, voluta proprio dal popolo napoletano, diventa l’ombelico del mondo, e le ampolle del sangue del santo protettore di Napoli diventano il centro di tutte le speranze riposte per la salvezza di Napoli. Una straordinaria storia di fede che badate bene, non è esclusivamente per la propria singola salvezza, ma per quella della collettività, perché è l’intera città, vicina e lontana, a stringersi compatta intorno a questo evento straordinario, a san Gennaro. Milioni di anime perlopiù con una visione individualista, con uno spirito anarchico, che riescono magicamente a trovare in quei precisi momenti e in nome di san Gennaro, l’unicità e la compattezza: un prodigio nel prodigio. Ma l’evento del miracolo dello scioglimento del sangue non rappresenta solo l’apice di una straordinaria storia della fede di un popolo, ma dal punto di vista antropologico rappresenta anche il mito dell’eterno ritorno di Mircea Eliade dove il presupposto è l’azzeramento della stoIL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 41 ria, dove tutto ricomincia ciclico perché, mancando un tempo determinato, non c’è passato o futuro, è tutto presente. E nessun’altra città al mondo, se non Napoli, potrebbe consentirsi di aver realizzato, formato e custodito intatto uno dei patrimoni artistici più importanti che si conosca, dedicato proprio al suo cattolico Santo Protettore. Tesoro che, però, non appartiene né alla Chiesa né allo Stato, bensì al suo popolo rappresentato da secoli dalla Deputazione, un’antica istituzione laica che lo conserva e lo preserva gelosamente. Questo patrimonio è il tesoro di san Gennaro e, trovarsi al suo cospetto, è come immaginare di avere a disposizione una macchina del tempo per viaggiare in lungo e in largo nell’arco di sette secoli. Una stratificazione culturale e artistica senza precedenti che si è materializzata, dall’anno 1305 con il busto reliquario in oro e pietre preziose donato da re Carlo II d’Angiò sino ai giorni nostri, in un tesoro dal valore inestimabile, costituito da 21.610 capolavori e che, secondo gli esperti, è superiore per importanza e ricchezza al tesoro della corona d’Inghilterra e a quello dello zar di Russia. Probabilmente il famoso miracolo dello scioglimento del sangue di san Gennaro, che una parte della cultura rappresentata da autori come Dumas ha sempre relegato a un mero evento di superstizione popolare, ha offuscato l’eccezionale movimento artistico che si è sviluppato nel corso di sette secoli, anche in nome e per conto di san Gennaro, cui è stato delegato il compito di proteggere Napoli dalle catastrofi naturali e dalle eruzioni del Vesuvio. Non è un caso, quindi, che i capolavori appartenenti al tesoro siano stati realizzati dai più importanti artisti del tempo, che la gran parte di essi sia di manifattura napoletana e che siano stati donati e commissionati da re, regine, imperatori, papi e uomini illustri, ma anche dallo stesso popolo. Questi capolavori documentano la straordinaria capacità di scultori e di argentieri napoletani che hanno saputo conciliare sapienza tecnica e creatività. Un percorso artistico, culturale, cronologico che rappresenta un’irripetibile testimonianza della storia dell’arte manifatturiera, orafa e argentiera napoletana comprese fra il quattordicesimo e il ventesimo secolo. Ciascuna di queste opere, esposte anche nel Museo del Tesoro di San Gennaro, non è solo un bell’oggetto, ma porta con sé il respiro delle vicende di un popolo, il cui destino e il cui carattere sono stati profondamente forgiati dalle bizzarrie di uno dei vulcani più pericolosi al mondo. Come uno specchio dell’anima, il tesoro di San Gennaro, infatti, riproduce la città partenopea nelle sue contraddizioni, ma anche nella sua essenza migliore e nella sua profonda autonomia laica, capace di rifiutare nel corso dei secoli tutti gli integralismi, di rifiutare sdegnosamente i processi di Santa Inquisizione pur nel pieno del dominio spagnolo, di accogliere, non solo perché porto di mare, etnie e costumi differenti, di non appiattirsi alle dominazioni, di vivere. Il tesoro di San Gennaro, però, non è rappresentato solo dall’immenso e ricco patrimonio artistico e culturale presente nella Cappella e nel Museo del Tesoro di San Gennaro, ma anche dalla fama trasversale e internazionale che il santo patrono di Napoli ha acquisito nel mondo. È, infatti, il santo più conosciuto sia dal punto vista culturale sia da quello spirituale per due distinti motivi. Dal punto di vista artistico e culturale perché le vicende politiche di Napoli, la vocazione naturale a essere grande capitale europea di un regno in un punto strategico del Mediterraneo, la capacità innata 42 PAOLO JORIO di essere culla delle arti e degli artisti, la fede del popolo, hanno fatto sì che vi fossero scambi commerciali e culturali continui con gli altri paesi, diventando meta privilegiata del Gran Tour e, ovviamente incidendo in modo rilevante anche sulla conoscenza e la “esportabilità” di San Gennaro nel mondo. Non è un caso che il Prado di Madrid, l’Art Museum di Milwaukee, la chiesa del Convento degli Agostiniani riformati di Monterrey, le Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée a Marsiglia in Francia, l’Art Gallery di Auckland in Nuova Zelanda, il Louvre a Parigi, la libreria del vescovado a Vac in Ungheria, l’Art Institute of Chicago, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Museo di Capodimonte di Napoli, solo per citare alcuni dei più importanti musei internazionali conservino ed espongano una o più opere raffiguranti il Santo di Napoli realizzata da grandi artisti come Luca Giordano, Francesco Solimene, Jusepe de Ribera, Jacques Callot, Girolamo Pesce, Guido Reni, Aniello Falcone, Artemisia Gentileschi, Luca Giordano, Guido Reni, Aniello Falcone, Mattia Preti. Il secondo motivo dell’enorme diffusione che ha avuto il culto di san Gennaro nel mondo, testimoniata anche dalla stima del Vaticano che ha contato in oltre 25 milioni i devoti a san Gennaro sparsi in tutto il globo, e che ancora oggi vede la processione di san Gennaro il 19 settembre di ogni anno a New York, a Los Angeles, a Rosario in Argentina, a San Paolo del Brasile, a Chicago, a Toronto, a Melbourne, a Sidney e nei luoghi più disparati della terra, lo si deve soprattutto a causa dell’immane tragedia che si è consumata alla fine dell’Ottocento: l’emigrazione. Il più grande esodo della storia moderna. Napoli bagnata dal mare, paradiso degli occhi, una distesa azzurra che ha portato sulle sue sponde, popoli, regnanti stranieri, avventurieri, artisti provenienti da tutte le parti del mondo, ma che ha allontanato, spesso per sempre, i propri figli. Il filo di lana, i porti dei sogni Le onde del mare bagnano tutti i porti del mondo, ma molti di loro non lo sapevano perché il mare non lo avevano mai visto prima, tanti non sapevano nemmeno che esistessero i porti e quasi tutti non si erano mai mossi dal proprio quartiere o dal proprio paesello di nascita. Erano veramente tanti, tutti italiani, milioni di milioni come le stelle della canzoncina, oltre 29 milioni per essere più precisi, un firmamento che dal 1861 sino agli inizi degli anni Settanta del Novecento è emigrato in cerca di fortuna “pe terre assaie luntane”. Sono partiti i bastimenti, innumerevoli, salpando da Napoli, da Genova, da Trieste, da Messina, da Palermo, ma soprattutto da Napoli e sono partiti carichi di speranza e di immenso dolore per i porti dell’Argentina, del Brasile, dell’Uruguay, del Venezuela, del Cile, degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia. Non erano solo i piroscafi, però, a raccogliere le speranze e le delusioni degli emigranti, ma anche i treni che con le loro locomotive sbuffanti hanno trasportato i bagagli di povertà e d’illusioni in quasi tutto il nord Europa. Francia, Belgio, Germania, Svizzera hanno visto scaricare nelle proprie stazioni ferroviarie un fiume di persone proveniente da quasi tutte le regioni italiane, ma numerose proprio dalle regioni meridionali. Una migrazione senza precedenti: è come se nell’anno 1861 tutti gli abitanti dell’Italia appena unita, che erano circa 25 milioni, fossero andata via, come se oggi oltre la metà degli abitanti italiani si trasferisse altrove. Un paese, il nostro, che ha vissuto il triste priIL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 43 Napoli, piazza Riario Sforza Guglia di San Gennaro, 1631 stampa 44 PAOLO JORIO mato del più grande esodo migratorio della storia moderna. Un conto esorbitante che non include ciò che è accaduto poi negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, quando milioni di meridionali con le valigie di cartone legate con lo spago sono emigrati al nord Italia in cerca di lavoro. Storie apparentemente tutte eguali di persone strappate ai propri affetti, alle proprie radici e che sono andate in cerca di fortuna, investendo i loro pochi averi per pagarsi il biglietto di sola andata per il nuovo mondo per consentire, poi, a interi nuclei familiari rimasti in patria, di poter sopravvivere con i soldi che avrebbero guadagnato e spedito. Persone molto diverse tra di loro, provenienti da luoghi differenti, ma accomunate da un unico sogno: ritornare. Alcuni, pochi, ce l’hanno fatta, molti altri no, altri ancora dopo vari anni, sono riusciti a pagare i biglietti di solo andata ai propri cari e a ricongiungere una parte della propria famiglia in terra straniera. C’era un’altra cosa che accomunava questa moltitudine migrante: la partenza. E da Napoli sono partiti veramente in tanti, troppi. Il giorno dell’addio era per ciascuno il momento più devastante della propria esistenza e il porto era il luogo dove si consumava una lacerazione disumana, una vera tragedia familiare perché si lasciavano madri, padri, fratelli e a volte anche mogli e figli, spesso senza mai più rivederli. Le storie senza volto di questa povera gente sono raccontate nelle tante lettere, per lo più sgrammaticate, che inviavano a casa insieme ai soldi. Un’emigrante del 1899 così descriveva la partenza: “Il giorno in cui sono partita mia madre mi ha accompagnato al porto di Napoli. Quando l’ho salutata mi ha detto che per lei era come veder chiudere la mia bara. Non l’ho mai più vista”. A Napoli il teatro tragico di questa partenza era il molo dell’Immacolatella. Oggi non c’è una targa, una foto che ricordi i milioni di emigranti, che provenendo dalla città, dalla provincia e dalle regioni del sud Italia, hanno affollato l’ufficio emigrazione. Come se si fossero volute cancellare le tracce di una memoria scomoda e, a parte la celebre canzone di E.A. Mario, Santa Lucia luntana, c’è la commedia dimenticata di Raffaele Viviani, Scalo Marittimo (‘Nterr’ ‘a ‘Mmaculatella), scritta nel 1918 come testimonianza letteraria, probabilmente unica, a segnalare mezzo secolo di dolore. I marinai dei piroscafi in partenza per le Americhe avevano fatto ormai l’abitudine alle scene strazianti che si consumavano sui moli prima di imbarcarsi per emigrare. Forse, per l’equipaggio, il dolore doveva apparire tutto uguale, eppure ogni lacrima era diversa, raccontava una storia differente. Per molti di quei disperati era privarsi di una parte vitale di sé, strapparsi le carni di dosso, ma un martirio necessario. A Napoli quasi tutti gli emigranti erano accompagnati dai familiari e dagli amici, sostando un paio di giorni, in squallide pensioni, in balia di gente senza scrupoli e consumando la magnata di maccheroni e vino prima di imbarcarsi. Dopo la visita medica e la disinfestazione si saliva a bordo, si sistemava alla ben meglio il proprio bagaglio sul ponte e ci si affacciava dalla nave per vedere ancora una volta, forse l’ultima, i volti amati, la propria città. C’era chi urlava il nome di chi lasciava, chi prendeva in braccio i bambini e li mostrava, chi aveva portato con sé un gomitolo di lana e lo svolgeva tenendone un capo e lanciando l’altro capo giù sul molo al proprio caro in modo da rimanere in contatto sino a quando la nave non avrebbe salpato. L’urlo della sirena scatenava un mare di fazzoletti bianchi che erano sventolati freneticamente e i fili di lana rimanevano tesi nelIL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 45 le mani di ciascuno sino a quando il piroscafo non si allontanava dalla banchina. E il filo di lana si spezzava. L’ultima immagine, prima del mare aperto, era la statua di san Gennaro alla cima del porto. Ecco, san Gennaro, ancora e sempre Lui che, con la mano tesa per fermare la lava del Vesuvio sembrava a tutti quei poveri disperati l’unica risorsa cui affidarsi, nella preghiera, nel conforto, nell’attesa dell’ignoto, nella volontà di mantenere intatte le proprie radici, per avere un legame indissolubile con la propria terra che stavano per abbandonare per sempre. Un legame di sangue! Il viaggio, colmo di nostalgia e anche di speranza, era durissimo. Soprattutto quello in mare. Dal 1880 era tramontata l’era dei velieri con traversate lunghissime e incerte ed era iniziata quella dei grandi bastimenti a vapore che comunque poteva durare anche molte settimane. Non tutti giungevano vivi ai porti di destinazione. Le disumane condizioni di viaggio cui erano sottoposti gli emigranti, per lo più ammassati nelle stive o in quelle che poi furono trasformate in terza classe con cuccette, erano alcune delle cause più frequenti di decessi durante la traversata perché non erano garantite le basilari norme igieniche, favorendo lo scoppio di epidemie che decimavano i viaggiatori, ma anche le tempeste potevano essere devastanti per viaggiatori mal nutriti e che non avevano mai visto il mare. Il prezzo del biglietto non garantiva nemmeno la certezza dello sbarco perché non erano pochi i casi di coloro che venivano rispediti a casa dalle autorità locali per le cattive condizioni di salute in cui versavano. Le compagnie di navigazione per non doversi sobbarcare l’onere del viaggio di ritorno e in alcuni casi come negli Stati Uniti, dovendo pagare una forte penale per ogni passeggero non idoneo, prima della partenza provvedevano a una preventiva vista medica e a far lavare e disinfettare tutti gli emigranti, ma spesso ciò non bastava. Sono partiti i bastimenti, tanti, sono partiti per “le Meriche” e sono anche arrivati. L’arrivo al porto de “la Boca” di Buenos Aires, di “Ellis Island” di New York, di Santos, del molo “Pier 21” di Halifax in Canada e dei tanti porti della speranza aveva per tutti sempre la stessa connotazione: la delusione. Soprattutto per i primi emigranti che non avendo conoscenti o parenti sul posto si vedevano scaraventati in nuovo mondo completamente differente dal proprio e con una lingua che non comprendevano. Volti spauriti, scavati dalla fatica del viaggio e dal dolore con la forte sensazione di aver sbagliato tutto e con in mano quasi sempre la sola immaginetta di san Gennaro. Famiglia di emigranti che guarda la Statua della Libertà da Ellis Island, 1930 circa (Library of Congress Prints and Photographs Division Washington, d.c. 20540 USA) da P. Jorio, Il filo di lana T. Pironti Editore, 2010 “Le Meriche”. La “Terra d’Argento” Erano arrivati in tanti al porto della” Boca” sul fiume Racuelho, l’imboccatura, di Buenos Aires. Bastimenti carichi di liguri, campani, veneti, siciliani e avevano avuto tutti la stessa sensazione: essere arrivati in una landa piatta e deserta, case basse e desolate, con l’acqua color marrone, caratteristica del Rio de la Plata che porta al mare terra e sabbia. L’Argentina aveva iniziato già dal 1853 una politica di apertura e di promozione all’immigrazione, necessaria per emancipare e modernizzare il Paese dall’arretratezza in cui riversava e finalizzata alla colonizzazione agricola delle estreme zone di frontiera abbandonate del paese, e delle pampas, dopo la cacciata degli indios nativi. Erano arrivati in tanti, anche ungheresi, polacchi, 46 PAOLO JORIO IL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 47 irlandesi e greci che, al pari degli italiani, nella propria patria morivano letteralmente di fame, facendo così aumentare la popolazione, tra il 1880 e il 1910, dai circa tre milioni e cinquecento abitanti sino agli otto milioni, e circa la metà era residente a Buenos Aires. Non era solo terra d’argento, però, ciò che luccicava. Alla Boca si parlava lo xeniese, il genovese, per la presenza dei tanti liguri approdati qui già prima del grande esodo di fine Ottocento, e il quartiere sembrava una piccola Genova, mentre il punto di riferimento degli emigranti europei e soprattutto dei napoletani era Barrio San Telmo. Ladri, contadini, galeotti, marinai, manovali, mandriani, prostitute, pittori di tutte le razze si sono mescolati e hanno popolato questi quartieri considerati squallidi e malfamati. Un altro dato inquietante era la sproporzione tra uomini e donne. La stragrande maggioranza degli abitanti, circa il settanta per cento, era infatti costituita da uomini e le bettole maleodoranti divennero punto di riferimento di questa popolazione variegata ed eterogenea che si riuniva per bere, giocare, cantare, suonare e vincere, così, le inevitabili frustrazioni affettive e sessuali derivate da una società carente di donne. Sorsero bordelli ovunque e la tratta delle bianche divenne in Argentina il commercio più tollerato e più redditizio sia per sfruttatori senza scrupoli, che reclutavano le donne nella vecchia Europa, sia per le stesse prostitute dal momento che erano richiestissime. La solitudine, la tristezza, la diversità sociale, la nostalgia, ma anche la speranza e la fratellanza nelle avversità trovarono nella musica, nelle canzoni e nella danza un motivo di consolazione per gli emigranti. E la miscela straordinaria di diverse etnie, di differenti radici culturali e musicali, unita al ritmo degli indigeni nativi, è stata l’origine di una delle musiche più sensuali che si conosca: il tango. Una musica diventata danza di coppia con tutte le sfumature possibili, con testi inizialmente improvvisati che raccontavano di paesi lontani, di un passato più felice, della sofferenza di uomini traditi o lasciati da donne amate, ma anche della speranza di un futuro migliore. Il tango è stata la musica struggente e nostalgica dei bassifondi, ballata a coppie anche tra uomini a causa dello squilibrio tra numero di maschi e di femmine, che strideva con la violenza dei vicoli malfamati, e fu la colonna sonora dei tanti bordelli disseminati ovunque. “Nessuno può dire in quale città il tango sia nato”, ha scritto il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, “ma tutti sanno in quale via, la via delle prostitute”. La Boca ha mantenuto le sue originarie caratteristiche. Sulle panchine o nei bar dell’angiporto ancora oggi è possibile incontrare anziani che parlano tra di loro lo xeniese, il genovese, che si raccontano aneddoti del tempo che fu, della vita che si sviluppava nelle conventillos della Boca, le casette in legno e lamiera ondulata variamente dipinte, dove cinque o sei famiglie abitavano ognuna una stanzetta attorno al patio e tutti insieme condividevano l’unico bagno e l’unica cucina. Oggi, passeggiando tra le calle de la Boca, queste umili casette dai colori sgargianti che venivano costruite con materiali presi dai relitti delle navi e dipinte e ritoccate con le rimanenze di vernice utilizzate per le imbarcazioni, ci raccontano la storia di piccole comunità utopiche dove la povertà era dignitosa e la solidarietà, l’amicizia e l’ordine erano valori assoluti. Non fatevi, però, ingannare dai fantasmi delle barche abbandonate nel porto una volta molto fiorente perché il quartiere è vivo, alimentato dagli artisti di strada, dai pittori, dai tangeros che si esibiscono sui marciapiedi di calle Caminito, ricordandoci che questa strada è dedicata allo storico tango Caminito scritto nel 1926 da Juan de Dios Filiberto. Questa strada oggi è un museo-aperto grazie all’invenzione, alla 48 PAOLO JORIO ristrutturazione e ai bellissimi murales realizzati da uno dei pittori argentini più popolari, Benito Quinquela Martín, il ritrattista dei porti per eccellenza. Se infatti vi capitasse di incontrare uno di quegli anziani signori che parlano ancora lo zeninese state pur certi che indicando il calle Caminito vi racconterà la storia di un bambino nato nel 1890 e subito abbandonato dai suoi genitori su questi marciapiedi, dove è cresciuto imparando a dipingere ritraendo ogni angolazione di questo quartiere sino a diventare un grande e conosciuto pittore. Questo artista è proprio Quinquela Martin che ha amato visceralmente questi vicoli, riuscendo a trasmettere con le sue opere la rudezza, la bellezza e la quotidianità della vita del porto de la Boca. A lui e ad alcuni dei suoi più bei dipinti è stato dedicato l’affascinante Museo de Bellas Artes, l’imponente edificio sull’acqua dove il pittore ha vissuto e lavorato, e dove sono esposti anche alcuni dei migliori pittori contemporanei argentini. Poco importa se poi questo quartiere è diventato famoso soprattutto per un altro figlio di queste strade che sapeva tirare calci a un pallone come nessuno al mondo e l’eco del suo nome, Diego Armando Maradona, scandito e urlato nella Bombonera, tempio della locale squadra di calcio Boca Juniors fondata da genovesi, ancora rimbalza tra le pareti di queste case variopinte come fosse una favola senza tempo. In fondo fare fortuna era la speranza dei tanti volti scavati giunti per tanti anni in questo porto e che trovarono appena scesi dalle navi l’Hotel de Inmigrantes, il centro di accoglienza creato dal governo di Buenos Aires per gli immigrati. Questo edificio, diventando un museo dal 1990, non è solo una autentica testimonianza storica, ma raccoglie le memorie e le nostalgie di un popolo, narrando le storie senza volto tutte uguali, tutti diverse. Tutt’attorno vi è Buenos Aires con circa quattordici milioni di abitanti, e questa è la storia della storia. “O pais do sul” Ore 7,40 di domenica mattina, ora locale. La spiaggia di Santos nello stato di Sao Paolo in Brasile sembra addormentata ed è coperta da una sottile coltre di foschia mentre le poche auto avanzano pigramente lungo la strada che separa la lingua di sabbia fine e bianca dai grattacieli che si affacciano sul mare. Il litorale, visto da Ponte da Praia, l’estuario dove sorge il porto, assomiglia molto al profilo delle spiagge di Ipanema o di Copacabana della più famosa Rio de Janeiro, ma è lungo oltre sette chilometri ed è considerato il più grande giardino del mondo perché tutta la riva è affiancata da giardini con una infinità di piante tropicali, fiori colorati e profumati sino a Sao Vicente, la più antica città brasiliana fondata nel 1532. Il costante rumore delle onde dell’Oceano Atlantico bagna tutta la costa, diventata meta di turisti e paradiso dei surfisti, mentre a circa venti miglia di navigazione dalla riva ci si può immergere nel Parco Marino di Lage de Santos, ritenuto uno dei migliori punti d’immersione del litorale brasiliano, con una profondità che varia tra 18 e 40 metri e il “cimitero delle ancore”, costituito da parecchie ancore rimaste attaccate ai coralli intorno alla roccia. In dieci minuti con il vecchio tram storico del 1920, oggi ripristinato, è possibile raggiungere i luoghi più suggestivi del centro storico di Santos e poter ammirare il Museo del Mare con la collezione di oltre 21 mila conchiglie provenienti da tutto i mari del mondo, il Museo della Pesca dove si osservano animali e piante in resina e dove, grazie a un meccanismo che si trova nella Sala della Barca, si può simulare la sensazione che si prova navigando sulla prua di una barca a vela. Non erano immaginari e virtuali IL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 49 i velieri che però solcavano questi mari infestati da pirati che abbordavano le navi commerciali cariche di materie prime e di preziosi, tanto da costringere re Filippo II del Portogallo a far costruire nel 1584 la Fortaleza Santo Amaro da Barra Grande a protezione dell’imboccatura del porto. Storie leggendarie di epici corsari, di cannoni puntati a difesa di uno dei porti più grandi dell’America latina, ma anche di loschi trafficanti di schiavi neri provenienti dall’Africa per coltivare le immense piantagioni di cotone, di zucchero e di caffè. Il Brasile, subito dopo la sua indipendenza dal Portogallo, avvenuta nel 1822, era un immenso paese spopolato, con terre incolte da colonizzare, con l’economia schiavista messa al bando da tutta la comunità internazionale che aveva vietato la tratta degli schiavi, e con focolai di rivolte indipendentiste che scoppiavano nelle province periferiche. Facilitare l’immigrazione di altri popoli parve il rimedio migliore per arginare questi enormi problemi. Giunsero per primi migliaia di coloni tedeschi che riuscirono ad accaparrarsi le terre migliori, ma grazie all’interessamento di Maria Teresa di Borbone, moglie dell’imperatore del Brasile, Pedro II, e sorella di Ferdinando II di Borbone, re di Napoli, dopo l’Unità d’Italia, favorì in ogni modo l’immigrazione di italiani, soprattutto provenienti dalla Campania e dal meridione, creando le condizioni favorevoli per l’insediamento. Una data cambiò radicalmente la storia del Brasile: 13 maggio 1888, una legge promulgata dalla reggente dell’impero del Brasile, la Principessa Isabella Cristina Gonzaga de Bragança e Borbone, figlia di Maria Teresa di Borbone, decretò la fine della schiavitù. Diciotto giorni dopo l’emanazione di questa legge da Genova partiva una carretta del mare stracarica di emigranti italiani. Era l’inizio della grande migrazione italiana verso il paese del sud incoraggiata dal viaggio sovvenzionato dal governo del Brasile che aveva necessità di mano d’opera per sostituire gli schiavi liberati. I porti di arrivo erano Rio de Janeiro, soprattutto Santos che fungeva da tappa di smistamento per coloro che riuscivano a sopravvivere al disumano viaggio finanziato dal Brasile e Porto Alegre per raggiungere la regione di Rio Grande. Piroscafi lenti e grondanti speranza sono passati sotto lo sguardo cupo della Fortaleza Santo Amaro da Barra Grande, ma l’odissea di milioni di emigranti non terminava sui moli dell’estuario, dove venivano sbarcati, perché poi venivano caricati sui treni che risalivano sull’altipiano paulista fino all’Hospedaria de Imigrante di San Paolo, l’unico centro di raccolta che non sia stato costruito all’interno di un porto, e di qui dirottati dove serviva forza lavoro: nella città di San Paolo, nella regione di Minas Gerais, in quella dell’Espirito Santo. Il finanziamento del governo brasiliano avrebbe dovuto garantire, soprattutto a interi nuclei familiari, il pagamento della traversata atlantica, l’alloggio e il primo anno di lavoro, ma si era rivelato ben presto un contratto vicino alla schiavitù. Condizioni disumane in un territorio difficilissimo da coltivare a causa delle frequenti piogge tropicali, alloggi che si erano rivelati poi delle baracche, piccoli appezzamenti di terreno messi a disposizione che però bastavano a stento a sfamare i propri congiunti, e soprattutto la mentalità schiavista dei fazeindeiros costrinse il governo italiano nel 1902 con il decreto Perinetti a sospendere la licenza speciale a compagnie di navigazione per il trasporto gratuito di emigranti italiani in Brasile presso proprietari terrieri senza scrupoli. A Sao Paolo il novanta per cento degli operai occupati nelle fabbriche e nei servizi pubblici era italiano con paga bassa e senza assistenza sanitaria. Il sogno dell’Eldorado sembrava nau50 PAOLO JORIO fragare sulle sponde brasiliane, così come erano andati a fondo tanti piroscafi durante la traversata, portandosi via anche le vite oltre che le speranze, ma non avevano fatto i conti con la forza della disperazione di questa gente. Superando incredibili difficoltà, adattandosi a ogni lavoro possibile, ma soprattutto con la forza della coesione dei nuclei familiari capace di sacrifici oggi minimamente inimmaginabili, i primi emigranti italiani hanno disboscato la foresta, si sono costruiti gli strumenti di lavoro, hanno coltivato i campi, trovandone il sostentamento, si sono costruiti le case, dapprima in legno e poi in muratura, hanno aperto vie per gli scambi commerciali. Nel tempo la comunità di italiani, grazie alla capacità di innovazione, allo spirito imprenditoriale e a una innata creatività è diventata la struttura portante del Paese, riuscendo a dare al nascente Brasile una propria impronta. San Paolo oggi è la più grande città di italiani nel mondo, conta 11 milioni di abitanti la cui metà è di origine italiana, in tutto il Brasile sono oltre 25 milioni i discendenti di italiani. Alla fine degli anni Sessanta le navi non trasportavano più emigranti nelle Americhe, a essi si erano sostituiti i treni che portavano i meridionali in cerca di lavoro al nord. Di Santos non c’era più memoria se non per le gesta sportive di un calciatore di colore, Edison Arantes do Nascimento detto Pelè che faceva impazzire i brasiliani e per un pallone di plastica arancione che si vedeva calciare nei cortili e nelle strade dai ragazzi italiani. Ore 7,40 di domenica mattina, ora locale. La radio trasmette una canzone di Caetano Veloso, profeta della musica brasiliana moderna, dal titolo “13 maggio a Santo Amaro”, un ragazzo la canticchia, ma probabilmente non ne conosce il significato. La spiaggia di Santos, bagnata dall’oceano, è visibile in tutto il mondo, grazie alla webcam montata su uno degli hotel più lussuosi di Santos e che trasmette 24 ore su 24 su Internet. L’isola delle lacrime L’America appariva, all’improvviso, quasi inaspettata. Settimane di navigazione e di sofferenza avevano assuefatto lo sguardo al nulla o meglio a una massa d’acqua infinita, poi uno sguardo gettato per caso oltre la prua e improvvisamente compariva nel cielo il braccio alzato di quella statua enorme che simboleggiava la libertà e che scivolava dolcemente sulla fiancata destra della nave. Dopo l’attracco a New York tutti i passeggeri di terza classe venivano trasbordati su di un traghetto e trasferiti a Ellis Islands, l’isolotto alla foce del fiume Hudson di New York, per l’ispezione e il controllo documenti. Dal 1892 al 1950 Ellis Island, che aveva sostituito Castel Garden anche a seguito di polemiche su presunte truffe ai danni degli immigrati, è stata la porta d’ingresso degli Stati Uniti dove milioni di italiani, sono stati esaminati, trattenuti per ore e verificato se possedevano tutti i requisiti per ottenere il visto, quando le condizioni di salute non lo consentivano sono stati trattenuti in quarantena e spesso capitava anche che fossero respinti e rimandati a casa. Ecco perché Ellis Island è stata soprannominata l’isola delle lacrime. A volte le famiglie venivano smembrate perché alcuni dei componenti non superavano le visite degli ispettori. L’integrazione, per gli italiani, a differenza che nel Sud America, è stata difficile. A New York gli italiani presero possesso delle luride catapecchie in legno abbandonate in prossimità del ponte di Brooklyn, a Chicago nella Near West Side, ma ovunque viIL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 51 vevano gli uni vicini agli altri, creando delle Little Italies. Numerosi, poveri, analfabeti, sfruttati ed emarginati, ma paesani coesi nella solidarietà spicciola e anche nella volontà di mantenere vive alcune tradizioni come le feste religiose e patronali. Paghe da fame per lavori massacranti, forti differenze sociali, sono state alcune delle cause dello svilupparsi di una malavita organizzata, accompagnate da evidenti forme di razzismo. Il 1 gennaio del 1894 il New York Times scriveva: “Abbiamo all’incirca in questa città trentamila italiani, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l’industria nazionale. Non è strano che questi briganti portino con sé un attaccamento per le loro attività originarie”. Il sogno americano, il simbolo della speranza e della nuova vita, dell’occasione finalmente arrivata, è stata per i milioni di imbarcati nei porti di Genova, di Napoli e di Palermo, un viaggio senza ritorno. A New Orleans nell’anno 1901 undici siciliani furono linciati dalla folla con l’accusa di appartenere alla mafia. Il 6 dicembre del 1907 a Monongah nel West Virginia la miniera di carbone e ardesia saltò in aria con dentro quasi mille persone, di cui almeno la metà erano italiani. Sopravvissero in cinque. Fu il più grande disastro minerario d’America. Il 23 agosto 1927, nonostante la presenza di prove schiaccianti che li scagionavano, due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, vennero condannati a morte e uccisi sulla sedia elettrica. Eppure, così lontani, così disperati, così maltrattati in patria come in terra straniera chi è rimasto era orgoglioso della propria italianità. Non tutti hanno trovato l’America, molti non si sono arricchiti, ma quasi tutti hanno consentito ai propri figli di ritagliarsi un futuro. A Little Italy a New York oggi non vivono quasi più gli italiani ed è diventato un quartiere cinese, sebbene ogni 19 settembre si celebri, oggi come allora, la festa di san Gennaro. A Chicago l’antico quartiere degli italiani è diventato una area residenziale di grande prestigio e se andiamo a osservare i nomi sui citofoni o sulle buche della posta degli appartamenti troveremo che almeno la metà dei nomi è italiano. Stesso dicasi a Los Angeles e in qualunque punto dove la determinazione e la volontà di riuscire degli italiani sia stata più forte delle avversità e dei pregiudizi. Sono tanti gli originari italiani che hanno occupato e occupano posti di prestigio e di potere negli Usa e il made in Italy è diventato uno stile di vita per tutti. Ellis Island è diventato un museo molto visitato: irlandesi, polacchi, armeni, greci, tedeschi e italiani ritrovano la memoria delle proprie origini e anche il perché della loro presenza in un paese che poi alla fine ha accolto tutti. Un moderno data base con 600 milioni di nominativi consente a tutti di ricercare i nomi dei propri familiari e di ricostruire in che anno sono arrivati, quanti anni avevano, con quanti soldi, con quale nave e da che porto sono partiti. Non è difficile vedere giovani commuoversi davanti alle fotografie che testimoniano la migrazione del secolo o scoprendo il nome di un proprio familiare. Non c’è da sorprendersi perché questa è e rimane l’isola delle lacrime, l’isola che non ha accolto eroi, ma lavoratori che hanno fatto la piccola grande storia dell’emigrazione. I porti dei sogni, ma anche delle illusioni e della nostalgia profonda. Ognuno di questi porti è stato idealmente unito da un filo di lana, come quello gettato ai parenti sul molo dal piroscafo, come un’arteria che portava ossigeno vitale, perché ovunque si sia creata una comunità di meridionali, di napoletani, da quel lontano 1861 i padri e poi i figli, e poi ancora i figli dei figli ancora 52 PAOLO JORIO oggi, celebrano la settimana del miracolo di san Gennaro il 19 settembre. Una festa popolare, che ha perso la sua antica spiritualità, e il suo antico profondo significato di ringraziamento a quel santo cui si sono affidati quando gli emigranti hanno implorato la benedizione passando davanti alla statua alla cima del porto di Napoli, ma che ha reso possibile nel tempo unire milioni di persone di origine napoletana e far diventare san Gennaro il santo più famoso al mondo. bibliografia di riferimento Madame de Staël, Corinne ou l’Italie Paris, Leavitt et Allen 1807. Eliade Mircea, Il mito dell’eterno ritorno, Ediziona Borla, Torino, 1966. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Martinus Nijhoff, The Hague 1971. Platone, Dialogo Della Bellezza Detto Antos Le dieci meraviglie del tesoro di San Gennaro, cura di P. Jorio e F. Recanatesi, Poligrafico dello Stato, Roma 2010. G. Borrelli, Il Presepe napoletano, Roma 1970. V. Florio, Memorie storiche. Annali Napoletani dal 1759 in avanti in “Archivio storico per le province napoletane”, Napoli 1905. E. e C. Catello, Argenti napoletani dal XVI al XIX secolo, Napoli 1973. P. Jorio, Il filo di Lana, Tullio Pironti editore, Napoli 2010. IL FILO DI LANA: SAN GENNARO NEL MONDO 53 Valentina Russo “Et piglia forma della volta del Cielo”. Il cantiere seicentesco della cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro Gesamtkunstwerk sin dall’edificazione, la Cappella del Tesoro di San Gennaro nella cattedrale di Napoli è, anche in ragione della sua cupola, luogo privilegiato per misurare il grado di sperimentalismo costruttivo proprio del contesto partenopeo dei primi decenni del Seicento1. Stretta tra la cattedrale cittadina e un fitto tessuto urbano, alla cupola è largamente affidato il compito di comunicare l’intenso valore simbolico del luogo alla città. Ciò è raggiunto fondendo la ricerca sul piano strutturale con quella propria degli aspetti decorativi per giungere ad un risultato denso di ascendenze ma anche di novità nel cantiere barocco napoletano. Le ricerche effettuate in anni recenti2 hanno mirato a comprendere un ‘problema’ costruttivo – quello della doppia struttura voltata in muratura – ancora poco indagato entro la vasta bibliografia relativa al tema delle cupole murarie. ‘Problema’ che si riflette, già all’indomani della chiusura della costruzione, in una questione interna alla storia del restauro, ivi pienamente inclusa la storia del consolidamento. La nuova definizione di un’attendibile geometria della cupola, riconosciutane l’altezza e la curvatura attraverso rilievi di precisione, ha costituito il momento propedeutico per la conoscenza del sistema costruttivo e il comportamento strutturale della fabbrica storica. Ciò, a sua volta, si è dimostrato quale mezzo privilegiato per riconoscere la persistenza di vulnerabilità – derivanti dai materiali e dalle tecniche impiegate, nonché da soluzioni progettuali e di consolidamento – che si ripropongono ciclicamente nel tempo con il riattivarsi di cinematismi e quadri fessurativi. Il cantiere della cupola agli inizi del Seicento Nonostante la ricca messe di documenti che testimonia delle vicende costruttive, decorative e dei restauri che hanno interessato la Cappella nel corso dei secoli3, la problematica connessa all’attribuzione del progetto della fabbrica e della complessa ‘macchina’ voltata che la conclude non risulta ancora ad oggi pienamente delineata. Quanto visibile nell’assetto architettonico complessivo, difatti, è il risultato di un lavoro poco facilmente attribuibile ad un’unica figura quanto piuttosto il frutto di un’elaborazione intrecciata, forse indiretta, con proposte successive che giungeranno, solo in ultimo, ad un contributo progettuale singolare. Se la decisione circa il dove e come posizionare la Cappella si 54 VALENTINA RUSSO deve, in larga parte, a Ceccardo Bernucci4, architetto e scultore carrarese, la scelta del progettista si ebbe grazie un concorso ad inviti cui parteciparono illustri esponenti della classe professionale partenopea – da Giulio Cesare Fontana a Giovanni Cola di Franco, da Cavagna a Bartolomeo Cartaro, da Dioniso di Bartolomeo a Michelangelo Naccherino – e le cui proposte passarono al vaglio di una commissione di esperti risiedente in Roma. Nessuno, tra i tecnici menzionati, dovette soddisfare le ambizioni della committenza così che quest’ultima preferì optare per un contributo ‘esterno’ all’ambito locale, richiesto all’architetto-religioso Francesco Grimaldi, allora risiedente a Roma5. La costruzione dell’edificio – composto dalla Cappella, dalla sagrestia e da ambienti all’intorno e ai livelli superiori – fu seguita, però, probabilmente, solo a distanza dal tecnico teatino, ormai già anziano il 7 giugno 1608, data della posa della prima pietra del nuovo edificio, benedetta dal vescovo di Calvi Fabio Maranta6. Impegnati quali direttori dei lavori in sito furono, fino al 1615, Ceccardo Bernucci7 e Cola di Franco8. Il nome di quest’ultimo, in particolar modo, sembra spesso sovrapporsi a quello di Grimaldi dal quale prende quotidianamente “l’ordine a bocca”9: ciò fino al punto per cui, nel 1608, gli si riconosce di aver “fatigato nel fare il disegno della Cappella”10 in qualità di “sovrastante” alla costruzione. Un disegno, quest’ultimo, che si accompagnò, come era consuetudine nei casi più laboriosi, ad un costoso modello ligneo – al presente, andato purtroppo disperso – la cui esecuzione, seguita da Grimaldi nel 1609, si deve a Giovan Battista del Pozzo per i disegni e allo Bernucci per la fattura11. Sospettata di relazioni con la committenza della Deputazione, la classe tecnica locale fu esautorata, dunque, dalla scelta della soluzione progettuale: al consiliarius aedificiorum dell’ordine teatino Francesco Grimaldi − garante di esperienza, lontananza da influenze locali e, parimenti, vicinanza all’ambiente romano − fu richiesto di “rivedere quell’opera che si fa e designarla e regolarla in modo che venghi con ogni perfezione” mentre a Cola di Franco – “considerato che (...) ha fatigato nel fare il disegno della Cappella, e nella scelta fatta in Roma il suo (progetto, n.d.a.) ha partecipato nell’essere eletto in parte, e stante la buona relazione da lui havuta” – fu affidato il gravoso compito della regía nella sua esecuzione. Nel giugno del 1608 fu posta la prima pietra della Cappella dedicata al Santo protettore della città. L’allineamento e la demolizione di tre cappelle gotiche a lato della navatella destra del duomo − dedicate alle sante Caterina e Margherita, a san Nicola e quella di santa Maria de Sicmaris − condizionò la larghezza complessiva della fabbrica seicentesca, delimitata, verso sud, dall’edilizia residenziale su via dei Tribunali. Analogamente, la scansione delle volte e degli archi ogivali sulla medesima navata dettò l’assetto tripartito dell’accesso alla nuova Cappella, rispecchiandolo all’interno nella pianta prossima ad una croce greca. Quest’ultima verrà rappresentata, pur se con ampie differenze rispetto al risultato finale, negli affreschi del Domenichino in uno dei quattro pennacchi angolari che sorreggono la cupola a testimoniare il significato che la scelta di una tale iconografia – destinata ad accogliere cerimoniali molto più che una quotidiana liturgia – avesse assunto per i Deputati della Cappella. Poggiante su fondazioni – il cui appalto fu diretto personalmente da Francesco Grimaldi12 – costituite da volte ribassate collegate da archi, la Cappella è rea“ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 55 Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro L’elegante successione dei pennacchi affrescati, del tamburo e della prima calotta della cupola con il Paradiso di Giovanni Lanfranco 56 VALENTINA RUSSO Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, il fronte sud-ovest del tamburo Risalta l’accostamento tra cotto e tufo grigio, modellato nelle larghe volute, nei capitelli, nei mascheroni e nei mensoloni della cornice. Superiormente, l’attico scandito da finestroni ad arco ribassato “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 57 lizzata, costruttivamente, mediante un rigido incrocio di murature verticali in tufo, connesse da volte e rivestite all’esterno da una cortina rustica – “alla theatina” o “alla gothica” − in mattoni pieni messa in opera con buona accuratezza nel corso del 160913. Alternando ciascun elemento posto di taglio al successivo appoggiato di testa, è evidente come il costruttore avesse voluto rispondere ad un migliore collegamento tra nucleo tufaceo e fodera laterizia. Lo stretto legame che il cantiere della cupola del Tesoro dimostra, in fase costruttiva, con l’ambiente romano è anche testimoniato dall’ampio ricorso al cotto14; ciò a differenza di quanto accade, più diffusamente, nel coevo cantiere storico napoletano dove le cortine laterizie sono in evidente minoranza rispetto a quelle in tufo giallo − largamente rivestito da intonaco − e in piperno o pietra lavica. I cantieri primoseicenteschi del Palazzo Reale come del Palazzo dei Regi Studi imprimono un incremento all’industria del cotto che si riflette, in relazione all’architettura religiosa, anche nelle scelte effettuate per le cortine della cupola della Cappella del Tesoro, come nei registri superiori del campanile di Santa Chiara, nelle cortine laterizie dei campanili di Sant’Agostino alla Zecca, dei SS. Apostoli e del Carmine Maggiore o, ancora, nei coevi paramenti delle chiese dei Gerolamini, di Santa Maria della Sapienza e di Santa Maria della Verità. Pur tuttavia e a differenza della citata torre campanaria agostiniana, nessun trattamento di finitura superficiale appare riscontrabile nella cortina esterna del tamburo della Cappella del duomo, i cui elementi in cotto, in pasta rosso-rosata, sono legati con giunti abbondanti in malta di calce. Ideata a partire dal 1611 − anno in cui vengono pagati a Giovan Battista del Pozzo i disegni della cupola e del suo modello ligneo15 − e conclusa, per il rustico, nel 1615, la cupola prosegue costruttivamente l’accostamento di materiali presente nella parte basamentale: messi in opera ponteggi esterni le cui buche pontaie erano ancora visibili nella seconda metà del Novecento, sui pilastroni d’angolo in tufo si impostano le arcate a tutto sesto tra le quali si distendono gli ampi pennacchi. Oltre la prima cornice, si alza il tamburo segnato da otto vani minori e altrettanti slanciati finestroni rettangolari, costituito da nucleo in muratura di tufo giallo e cortina esterna in mattoni. Scandito all’interno da binati di paraste corinzie rivestite da stucchi, il tamburo della cupola è ritmato, ancora verso l’esterno, da coppie di volute in piperno “dolce”, ovvero in tufo grigio sorrentino. Tale materiale, per una più facile lavorabilità e per la sua maggior leggerezza, fu largamente impiegato nella cupola in sostituzione del piperno: nel 1611 era pagata la fornitura della pietra sorrentina, lavorata da Francesco Vannelli “per la Intagliatura et squadratura de 80 modiglioni di pietre di Sorrento che si sono posti all’ultima cornice da dentro la Cupola”16, tuttora visibili, e da Jacopo Antonio Baglione negli otto mascheroni realizzati per l’allontanamento delle acque meteoriche17. Analogamente, il tufo grigio fu adottato per i capitelli18, le cornici e per i timpani alternati che, rispettivamente, scandiscono i finestroni del tamburo nonché per i piedistalli e le cornici dei vani che circondano l’attico. Si ricorse, invece, al piperno per il cornicione superiore della Cappella – “che tiene la affacciata fore sopra li mattoni”19− e per la scala a chiocciola posta in angolo alla cappella e nello spessore del tamburo20. A mediare il passaggio tra il tamburo e le strutture voltate contribuisce l’attico 58 VALENTINA RUSSO − il “dritto” − in tufo giallo scandito, nella sua altezza di oltre quattro metri, da finestroni ad arco ribassato che illuminano l’interno della Cappella. Tra questi ultimi risaltano, anche per il peso visivo, otto “piedistalli” sporgenti in tufo grigio il cui peso incide sulle sottostanti volute, contribuendo all’equilibrio complessivo della fabbrica cupolata. Tali piedistalli si prolungano all’innesto con la volta esterna definendo otto corrispondenti basamenti rivestiti in piombo la cui funzione sarebbe da chiarire attraverso saggi. La cornice superiore, movimentata nell’andamento dal profilo arcuato dei finestroni, chiude tale parte della struttura con un notevole effetto di alleggerimento complessivo. Di notevole complessità è la definizione dei materiali che compongono le due volte che coprono la Cappella per la difficile ispezionabilità dell’estradosso delle volte. Entrambe le calotte furono ideate seguendo una tipologia costolonata in cui le nervature della calotta inferiore si collegano a quelle della volta superiore all’imposta così da concentrare i carichi, entro un unico sistema, su ciascun ottavo dell’attico-tamburo e, con esso, sulle volute binate dall’ampia base di imposta. Seguendo un’annotazione fornita nel 1708 da Ferdinando Sanfelice21, può ipotizzarsi che i costoloni binati della calotta esterna siano stati realizzati in tufo grigio e, considerando le due volte frutto di un medesimo cantiere, potrebbe estendersi tale sistema costruttivo anche alle nervature della calotta interna. Le costolonature, emergenti rispetto agli spicchi delle volte e collegate alla base, sono, inoltre, irrigidite attraverso setti radiali in muratura di spessore inferiore rispetto a quello delle corrispondenti nervature e concepiti, a differenza tanto della cupola di Santa Maria del Fiore quanto di quella di San Pietro, per lasciare libera l’ampia intercapedine tra le calotte. Tra queste ultime si distendono, infine, le sedici vele che, da quanto ipotizzabile analizzando l’intradosso della volta superiore, sembrano realizzate in mattoni disposti a filari orizzontali nella volta superiore − in continuità, dunque, con la fodera esterna del tamburo e dell’attico − e probabilmente in tufo seguendo le fonti ottocentesche, negli spicchi della calotta inferiore, in prosecuzione, cioè, del nucleo del tamburo. Areate internamente mediante vani esagonali con struttura in mattoni e cornici in tufo grigio − di evidente ispirazione michelangiolesca − le calotte presentano una riduzione progressiva dello spessore che, rispetto ai circa novanta centimetri dell’imposta, si riduce in chiave, come il rilievo strumentale ha chiarito, a quasi la metà. Già nel corso dell’edificazione, la calotta interna fu collegata a quella esterna mediante i setti-contrafforti corrispondenti ai costoloni delle volte e tali da contribuire a collegare e verticalizzare le sollecitazioni di spinta verso il tamburo. Le due parti furono connesse, inoltre, attraverso una poderosa struttura, tale da configurare una lanterna interposta tra le due calotte. La puntuale descrizione fornita dall’architetto Giuseppe Lucchese nel 170722 costituisce − unitamente ai grafici dallo stesso elaborati − un riferimento molto utile per ricostruire la conformazione di tale inusuale sistema ‘interno’ alle due cupole, rimosso nel 1724 e sostituito da una complessa struttura lignea con travi radiali. La lanterna interna, come i grafici e le descrizioni degli inizi del secolo diciottesimo chiariscono, era costituita da un doppio giro di pilastrini poggianti su un oculo di chiusura in mattoni e collegati da una voltina a botte. Attraverso tale ‘macchina’ in tufo e laterizio, le due calotte erano distanziate di circa 3,70 “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 59 Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro La volta esterna della cupola, ripartita dai binati dei costoloni e rivestita da lamine di piombo. I finestrini esagonali aperti nelle vele illuminano e permettono l’areazione nell’intercapedine tra le calotte Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro La sezione longitudinale, risultato dei rilevamenti con scanner laser evidenzia la spinta ascensionale che connota l’insieme e, in particolare, il sistema costruttivo della cupola. Si noti la capriata lignea ad ombrello che sostituirà, dal 1726, la lanterna interna tra le calotte (da V. Russo, Il doppio artificio. La cupola, cit., tav. 13) metri nelle rispettive chiavi. Sulla scorta della documentazione reperita e dell’analisi effettuata nell’intercapedine descritta, è ipotizzabile che tale poco consueta invenzione costruttiva, molto simile a quanto messo in opera in anni vicini nella cupola del Gesù Nuovo23, fosse il risultato di un ben definito progetto piuttosto che il frutto di un cantiere condotto in fasi distinte. Nell’Appuntamento del 3 gennaio 1626 − ovvero ad appena otto anni dalla conclusione della costruzione − sono citate, difatti, espressamente due “cupole”24; è da notare, inoltre, che lo spessore della muratura del tamburo, pari a circa 1,70 metri, appare dimensionato per sorreggere entrambe le calotte e che la più interna di esse non scarica il proprio peso in modo centrato rispetto alla sezione del tamburo bensì risulta allineata verso il filo interno di quest’ultimo. Nessun dato documentario illumina, inoltre, circa una possibile variazione del progetto di Grimaldi ancora in corso d’opera. Come suggerisce la descrizione di Giuseppe Lucchese, è invero ipotizzabile che il progetto di inizio Seicento avesse previsto un’at60 VALENTINA RUSSO “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 61 Giuseppe Lucchese Veduta e profilo di dentro le due cupole della chiesa del Tesoro, 1707 Archivio storico della Deputazione del Tesoro di San Gennaro tenta e raffinata diffusione della luce che, dalla lanterna esterna, sarebbe stata filtrata attraversando la struttura – decorata con stucchi – interna alle due volte. Una soluzione quest’ultima che, come si vedrà, sarà negata dal 1641 e con il procedere del cantiere di decorazione della fabbrica. Secondo una prassi diffusa nell’edificazione delle cupole in muratura25, anche la cupola del Tesoro di San Gennaro fu consolidata durante la costruzione, a scopo preventivo, con almeno una cerchiatura disposta alla base dell’attico e al presente non visibile: nel 1612, difatti, elementi provenienti dalle ferriere di Atripalda erano pagati dalla Deputazione26 così come il fabbro Nicola dello Mastro veniva ricompensato “per andare in Avellino per conto del ferro per fare la catena per la Cupola”27. Nell’anno successivo, giunsero in cantiere ben ventinove “fasci” di ferro da Genova per “catene, cancelle et altri ammanimenti”28; dato, quest’ultimo, che lascia ipotizzare la presenza di ulteriori elementi metallici – “altri ammanimenti” − celati all’interno della fabbrica la cui presenza andrebbe verificata attraverso specifiche ispezioni dirette. La lunga esecuzione della Cappella e della sua complessa copertura si chiuse con una ricca lanterna in piperno, terminata nel 161829. Come anche l’iconografia seicentesca lascia comprendere, tale elemento – dallo “smisurato peso”, secondo Lucchese – doveva presentare un peculiare slancio verticale entro il fitto tessuto urbano, esaltato ulteriormente dal ritmo delle bucature che permettevano la diffusione della luce nella cappella dedicata al Santo patrono. Prima e dopo l’esperienza napoletana. Cupole a doppia calotta tra manierismo e barocco In relazione alle coeve realizzazioni, la cupola doppia della Cappella del Tesoro di San Gennaro assume un carattere fortemente sperimentale, considerato che nella più diffusa prassi costruttiva − ivi compresa quella di Grimaldi medesimo − si ricorreva a “cupole semplici” o, soprattutto come accadrà a partire dai primi decenni del Settecento, all’accoppiamento di parti murarie e finte volte lignee. La scelta di ricorrere, nel caso della cupola della Cappella partenopea come in altri manufatti, a “cupole doppie” attraverso l’operazione di sovrapposizione di volte può spiegarsi nella prioritaria necessità di massimizzare la visibilità della fabbrica religiosa nel contesto urbano attraverso un complesso artificio costruttivo. Ciò, in modo evidente, soprattutto laddove la parte cupolata insiste su uno spazio dalle dimensioni modeste − molto spesso con pianta centrale − e per il quale il rispetto del proporzionamento richiesto da una volta singola non permetterebbe di ottenere la spinta ascensionale voluta. La fabbrica di Grimaldi e Cola di Franco dimostra un insieme di complesse radici che ne sostanziano la realizzazione; pur tuttavia, anche in tal caso, come scriveva Roberto Pane a proposito della cupola di San Pietro, si verifica “ciò che tanto spesso suole avvenire quando si ricercano le ascendenze culturali e formali di una struttura d’eccezione: i ‘precedenti’, atti a suggerire un’analogia sembrano evidenti, mentre poi, in realtà, nessuno di essi si dimostra tanto prossimo ed attendibile da poter essere assunto come sicura fonte di ispirazione”30. Guardando oltre l’exemplum rappresentato dalla copertura di Santa Maria del Fiore e, con essa, del vicino Battistero, riferimento principale nell’interpretazione anche della genesi della cupola della Cappella del Tesoro può, più in generale, conside- 62 VALENTINA RUSSO “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 63 rarsi il cantiere romano della seconda metà del Cinquecento, pur se anche in quest’ultimo la soluzione ‘doppia’ appare poco praticata entro un più diffuso e ‘ordinario’ modo di ‘voltare’ la calotta secondo un’unica superficie31. Anticipazioni significative riguardo alla struttura doppia si erano avute, a Roma, già nella prima metà del secolo sedicesimo32; una “linea dell’emergenza architettonica”, come recentemente definita da Sandro Benedetti33 in relazione all’opera romana di Del Duca, Fontana e Maderno, si opporrà all’alternativa “rigorista” soprattutto, però, tra la seconda metà del Cinquecento e il secolo successivo, mirando ad esprimere un più severo e sobrio modello tridentino nell’elemento cupolato. Un primo importante riferimento per comprendere le radici della soluzione adottata nella Cappella del Tesoro può considerarsi quanto progettato a Roma da Jacopo Del Duca per Santa Maria di Loreto, ultimata dall’architetto siciliano tra il 1573 e il 1576 su parti già realizzate con il progetto di Antonio da Sangallo34. I condizionamenti urbani conducono, nel caso citato, ad una espressiva verticalizzazione del tempio cinquecentesco a “ingranaggio espanso”35 che si concreta nella netta separazione tra la calotta inferiore e quella superiore, legate da una lanterna interposta tra le volte e sormontata dall’articolata lanterna ‘doppia’ in sommità. Gli schizzi elaborati da Del Duca probabilmente per tale manufatto36 sembrano confermare una processualità ideativa che fonda una sperimentazione costruttiva ancora piuttosto isolata sulle regole della geometria. L’analisi della sezione di tale fabbrica37, d’altro canto, rende palese un fattore che molta influenza avrà nei successivi progetti − e soprattutto dibattiti − circa la stabilità delle cupole, ivi compresa quella della Cappella del Tesoro38: ci si riferisce, in particolare, alle questioni connesse al peso della lanterna che, nel caso di Santa Maria di Loreto, appare strutturalmente sovradimensionata rispetto alle sottostanti calotte. Analogamente alla cupola napoletana, inoltre, e “Contrariamente all’esame michelangiolesco, che fa del sistema a costole lo scheletro portante unificatore principale della struttura, su cui si appoggiano le cappe interne ed esterne, la struttura di Del Duca è staticamente altro; quella cioè di due cupole, relativamente autonome l’una dall’altra. In effetti dovendo per precise ragioni ottico-percettive ‘montare’ la calotta esterna più di quanto ogni pensabile rialzamento di quella interna potesse permettere, ne derivò la necessità di forzarne lo stacco tra le due e quindi l’impossibilità costruttiva a realizzare una costola, portante contemporaneamente sia la calotta interna che quella esterna: pena la realizzazione di un costolone costruttivamente assurdo, stretto cioè in base e slargato abnormemente verso la lanterna”39. Non diversamente, anche il sistema costolonato della cupola del Tesoro si sdoppia per definire nervature interne ed emergenti rispetto a ciascuna volta e connesse esclusivamente nel nodo di attacco tra le due calotte attraverso setti murari triangolari con funzione di irrigidimento. Il ruolo di tali costoloni è, anche nel caso in esame, determinante così da avere, quale conseguenza nei secoli successivi, sul piano strutturale, un accumulo di rotture nelle vele intermedie, luoghi di maggior debolezza rispetto alle sollecitazioni di trazione. Colui che, con maggiore evidenza, dimostra di voler elaborare ed applicare la tipologia cupolata doppia è, ancora in ambito romano, Giacomo Della Porta. Poco prima di entrare nel cantiere di San Pietro, questi conclude lo spazio ottagonale della chiesa di Santa Maria Scala Coeli alle Tre Fontane (1582-1584), già rea64 VALENTINA RUSSO lizzato con il progetto di Vignola, probabilmente con due calotte in muratura40. Allo stesso architetto si deve, inoltre, la costruzione − o, secondo recenti studi, restauro41 − della cupola della Cappella Gregoriana in San Pietro (post 1574), dove Della Porta dimostra la preferenza verso il raddoppio della struttura cui ricorre nella chiusura della lanterna in sommità e dove, probabilmente, già si prepara, in termini costruttivi, all’impresa della grande cupola nella crociera petriana42. Tra il 1586 e il 1590 l’architetto ticinese è esecutore, come ampiamente noto, del progetto michelangiolesco della cupola maggiore di San Pietro43, il cui cantiere è noto al Grimaldi negli anni della sua permanenza a Roma (1585-1598)44. Il sistema della cupola del Tesoro mostra, invero, di far propria l’esperienza vaticana ma anche di distaccarsene nel sistema costruttivo adottato: come in Santa Maria di Loreto, difatti, la soluzione napoletana esclude la scelta di rendere le costole interne elemento unificante tra le calotte e, piuttosto, mira alla loro indipendenza costruttiva, pur se ridotta a causa dell’inserimento della lanterna tra le due. Ben diversamente dalla cupola di San Pietro, lo stacco tra le calotte della Cappella del Tesoro è evidente; piuttosto che nei termini di una giustapposizione45, l’espediente adottato nella cupola napoletana mostra di perseguire un equilibrio complessivo mitigando le spinte orizzontali con una maggiore verticalità delle sollecitazioni esercitate dalle calotte. Tale concezione è perfezionata, quindi, con la sostituzione della più diffusa apposizione di contrafforti verticali esterni in forma di colonne, semicolonne o lesene disposte intorno al tamburo, piuttosto con volute marcatamente aggettanti: il ruolo di queste ultime, di forte espressività e ormai già lontane da quel modello rigorista cui si è fatto cenno, si esplica secondo una ragione tettonica chiara e connessa all’allargamento dell’area su cui la risultante di tutte le spinte della struttura incide. Se la cupola del Tesoro si connette, dunque, a tutto un insieme di sperimentazioni condotte nell’ambiente post-tridentino dell’Urbe essa stessa costituisce, al contempo, un probabile riferimento per successive esperienze costruttive, tra le quali può annoverarsi il progetto di Orazio Grassi per la cupola del Sant’Ignazio a Roma (1626). Anche nel caso di Sant’Ignazio, in modo analogo alla fabbrica napoletana, l’architetto e matematico gesuita, progetterà, entro il 1628, la chiusura della crociera mediante una doppia calotta con lanterna intermedia46. Tale sistema costruttivo sarà interpretato dal contemporaneo Virgilio Spada quale mezzo atto ad ottenere un miglior proporzionamento visivo della cupola rispetto all’interno e all’esterno47. L’artificio costruttivo non incontrerà, invece, l’approvazione del Bernini il quale, ancora riferendosi alla cupola di Sant’Ignazio, riteneva che l’intercapedine tra le calotte non avrebbe dovuto mai superare i dieci palmi romani onde evitare che il lanternino intermedio restasse “tutto, ó in gran parte sepolto”48. Tale posizione si dimostrerà, a partire dalla metà del secolo diciassettesimo, prevalente così da determinare la palese riduzione di esperienze costruttive incentrate sul doppio sistema voltato per ragioni connesse, probabilmente, ad un magistero tipicamente post-tridentino e indebolitosi a favore di esiti figurativi dalla maggiore esuberanza ed affidati a materiali e tecniche mutate. A chiusura di un percorso avviatosi nel Quattrocento e culminante, come si è visto, tra l’ultimo quarto del Cinquecento e il primo decennio del Seicento, può collocarsi l’opera, teoretica e pratica, di Carlo Fontana. Progettista della cappella e della cupola a doppia calotta della cappella Cybo in Santa Maria del Popolo “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 65 Orazio Grassi (1627, o 1642 ca.?) Progetto per la chiesa di Sant’Ignazio a Roma, sezione trasversale sul transetto Città del Vaticano, B.A.V., Chigi P.VII.9, f. 136v-137 da R. Bösel, Orazio Grassi cit., p. 112 66 VALENTINA RUSSO a Roma (1682-1687)49, Fontana è esperto costruttore e consolidatore di strutture cupolate50 nonché autore, nel 1694, del monumentale Tempio Vaticano...51; opera, quest’ultima che, ormai allo scadere del Seicento, definisce in ambito trattatistico l’epilogo di un percorso sperimentale, come si è visto, mai pienamente affermatosi e, parimenti, si pone quale ultimo momento della sua esaltazione: “Non devesi anteporre la parsimonia a quella liberalità di materie che si deve alle sostruzioni da destinarsi per reggere la più nobil parte delli Edificij Templari, che sono le Cupole doppie − scrive Fontana − acciò dalle abondanti materie se ne ottenghi fidato sostegno, in quel modo del Vaticano, e l’altro del Tempio dedicato alla Santissima Vergine di Loreto alla Colonna Traiana, che fu il primo pensiero di Bramante Lazari, ridotta da Andrea Sansuini, terminata da Antonio Sangallo, la Lanterna di Giacomo del Duca allievo del Buonaroti e susseguentemente la Cappella della Nobilissima Famiglia Cibo, fatta con nostro disegno nella Chiesa di Santa Maria del Popolo: mercé le loro dupplicate cupole ci somministrano quel bel pago di vista, tanto esteriore, come interiore; per vietare più che si puole quelle uniche, che non permettono totale abilità per la somministrazione sudetta, come si riconosce in quelle di Sant’Andrea della Valle, Sant’Agnese e San Carlo al Corso, che, per essere d’una sola, compariscono bensì di bella gratia di fuori, ma dentro acute e incommode al vedere; e viceversa quella del Giesù, che di dentro piace, ma di fuori non dà quella gratia che vorrebbe l’occhio a causa della poca elevazione obligata al Sesto di dentro”52. Di riflesso a quanto portato avanti nell’ambiente romano, la cupola a doppia calotta si mostra oggetto di una più marcata applicazione nel cantiere barocco napoletano, con possibili ulteriori ‘inediti’ che potrebbero emergere da approfondimenti diretti sulle cupole cittadine e dalla ripresa di fonti d’archivio. Si tratta di cantieri dal forte impulso sperimentale tra i quali si colloca, cronologicamente, l’impresa di costruzione della cupola doppia della Cappella del Tesoro di San Gennaro, avviata, come si è visto, dal 1608. In tale anno doveva essere già conclusa, o prossima al completamento, l’edificazione della cupola della chiesa di Santa Maria della Sanità, considerato che a tale data venivano pagati gli embrici per la sua copertura53. L’opera di Giuseppe Donzelli, pressoché cronologicamente coincidente con l’avvio della costruzione della Cappella del Tesoro e pur proponendo un’analoga tipologia ‘doppia’, se ne discosta per diversi aspetti. In primo luogo, per il sistema costruttivo adottato, in larga parte omogeneo nell’ampio ricorso al tufo giallo, interamente rivestito da intonaco chiaro. Ancora, di evidente diversità appare la concezione strutturale della fabbrica, considerata la ridotta distanza tra le due calotte che meglio rimandano all’idea michelangiolesca per San Pietro. Pur tuttavia, come nella cupola della Cappella del Tesoro, anche in quella della Sanità la voluta assume un ruolo – formale e struttivo – di notevole valore, migliorando il trasferimento delle sollecitazioni dalle volte alle parti sottostanti e, nel contempo, fondendo visivamente il modellato della volta esterna alle strutture di sostegno. La cupola del Duomo sembra anticipare, a sua volta, quanto verrà fatto, a partire dal 1629, per la prima cupola del Gesù Nuovo, realizzata con la direzione di Agazio Stoia tra il 1629 e il 163354 e, seppur in successive fasi, per la cupola della chiesa di Santa Brigida. Crollata nel 1688, possiamo immaginare quale fos“ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 67 se la conformazione della crociera dei Gesuiti attraverso la descrizione che ne fece Carlo Celano nel 1692 con dovizia di particolari55. In modo simile a quella del Tesoro, la prima cupola del Gesù Nuovo era costituita da un alto tamburo sovrastato da una calotta più interna di altezza pari a circa ventitre metri, sulla quale insisteva una seconda volta a distanza di circa sette metri. L’intervallo tra le due calotte era percorribile a mezzo di scale per portarsi all’altezza della lanterna, decorata all’esterno da colonne di “piperno dolce”, vasi e balaustre. Ancora in analogia con la struttura del Tesoro, la cupola del Gesù, anch’essa con costoloni in stucco ed oro, venne affrescata per mano di Giovanni Lanfranco dal 1634, ovvero negli anni appena precedenti l’ingresso del pittore emiliano nel Tesoro di San Gennaro. La forma della cupola come struttura complessa Rispetto al quadro esaustivo che emerge dalla documentazione storica di cantiere in relazione a materiali, fonti di approvvigionamento, metodologie di messa in opera e lavorazioni, alquanto più complesse appaiono le questioni inerenti il progetto della cupola del Tesoro e i riferimenti, tecnici ancor più che culturali, di tale poco diffusa struttura. A differenza di buona parte delle altre cupole partenopee, nella Cappella del Tesoro la struttura che definisce la copertura assumerà un carattere fortemente sperimentale e dall’evidente volontà di stabilire un unicum, visivo oltre che tecnico, nel contesto urbano seicentesco: più volte rammentato con ammirazione nelle guide storiche partenopee56, il diametro più interno della fabbrica è di poco inferiore ai sedici metri mentre il sesto rialzato della calotta esterna permette di raggiungere un’altezza da terra che supera i cinquanta metri. Le ricerche e i rilievi condotti con scanner laser57 hanno permesso di colmare un vuoto di conoscenze significativo riguardo alla conformazione del manufatto e, di conseguenza, interpretarne, attraverso le geometrie, le scelte costruttive. Si è compreso come la sezione delle calotte rispondesse a motivazioni diversificate, di ordine strutturale e percettivo insieme: come i rilievi suddetti hanno chiarito, entrambe le volte, con un’imposta verticale che ne definisce i primi 2,80 metri circa, sono a sesto rialzato ovvero assimilabili a due semiellissoidi di rotazione dal centro pressoché coincidente. Tale forma, tale da rispondere alla pronunciata esigenza di visibilità rispetto al fitto contesto urbano, riduce, come è ben evidente, la componente orizzontale delle spinte sul tamburo, a sua volta caratterizzato da ampie aperture. Sono state realizzate dieci sezioni orizzontali tra iconografie ed ipografie in corrispondenza di altrettante differenti quote altimetriche, il prospetto sud-ovest e due sezioni verticali realizzate in corrispondenza dell’asse maggiore e di quello minore della struttura. Tra i caratteri predominanti della composizione spaziale che si evince con maggior chiarezza dalle sezioni verticali emerge la forte verticalizzazione della struttura. Questa, da una spazialità piuttosto controllata in pianta, a causa dei vincoli imposti dalle preesistenze, si eleva vertiginosamente verso lo ‘specchio del cielo’ raggiungendo un’altezza che, all’imposta del lanternino, risulta essere pari a circa due volte l’intera lunghezza dell’asse maggiore della pianta e a tre volte l’altezza misurata dal piano di calpestio fino al piano di imposta della trabeazione precedente il tamburo. Ed ancora, a sotto68 VALENTINA RUSSO lineare il rapporto di proporzionalità tra le dimensioni della pianta e l’estensione degli elevati, l’altezza misurata fino alla chiave della volta affrescata risulta pari a tre volte il diametro della circonferenza inscritta nel quadrilatero di base. Anche le geometrie degli elementi architettonici rispondono a ben determinate regole di proporzionamento: le colonne e le lesene corinzie, infatti, ad eccezione dei pilastroni, sono disegnate secondo le proporzioni proprie dell’ordine classico, le cornici delle aperture del tamburo sono descritte da un rettangolo che ha il lato maggiore pari al doppio di quello minore, ovvero dalla sovrapposizione di due quadrati, mentre le cornici delle aperture dell’attico corrispondono ad un rettangolo aureo. La copiosa documentazione archivistica ancora esistente, relativa al cantiere di costruzione e ai molteplici interventi di consolidamento, unitamente alla conoscenza geometrica del manufatto, hanno permesso, in parallelo, di ipotizzare quale fosse il comportamento strutturale della cupola nella prima versione e, quindi, a seguito dei restauri effettuati nel corso dei secoli58. Tenendo conto che fabbrica assumerà nel tempo una configurazione architettonica diversa da quella inizialmente progettata per l’apposizione di una doppia cerchiatura nel 162859, la sostituzione della lanterna esterna nel 1688 con altra in legno e, quindi, il delicato e complesso intervento di demolizione della lanterna interna nel 1724-1726 sostituita da una ingegnosa ‘macchina’ lignea60, sono stati costruiti modelli strutturali ‘sequenziali’, programmati in relazione ad interventi di rinforzo effettuati o, in altri casi, solo progettati. La ‘variabilità’ dei parametri da prendere in considerazione è apparsa estremamente ampia, soprattutto in relazione all’obsolescenza dei materiali. Nessun modello, inoltre, può tenere correttamente conto di irregolarità di realizzazione − ad esempio, variazioni nello spessore o inclinazione di giunti delle malte −, sistemi di ammorsatura o intrinseche caratteristiche dei materiali, così diverse in relazione alla composizione, al taglio dei blocchi o alle reali modalità esecutive. Inoltre, le debolezze che la struttura ha accumulato a seguito dei frequenti terremoti in area napoletana appaiono valutabili in modo molto complesso. L’insieme di tali osservazioni, pertanto, hanno indirizzato la ricerca verso un’interpretazione in progress del comportamento strutturale della cupola attraverso analisi corrispondenti a quattro fasi successive, di cui la prima di costruzione e le successive corrispondenti ai consolidamenti (cerchiature, alleggerimenti, modifiche dell’assetto interno) ivi condotti. In relazione ai soli carichi gravitazionali − ovvero dipendenti dal solo peso proprio − si è compreso che la cupola di inizio Seicento dovesse presentare i massimi valori di trazione in prossimità dei vani dei finestroni dell’attico e della seconda calotta61. In una porzione della cupola interna, si distribuivano sollecitazioni di trazione nella zona immediatamente superiore alla seconda fila di finestre. Alle estremità dei pilastrini che collegavano le due calotte è ipotizzabile, invece, la presenza di tensioni massime di compressione. Appare interessante considerare come le zone in cui sono stati stati riscontrati i maggiori stress tensionali di trazione attraverso il modello strutturale ‘storico’ siano anche quelle in cui erano state rilevate fessurazioni già dalla fine del Seicento. Considerazioni altrettanto utili riguardo alla storia statica della cupola nell’assetto ‘originario’ possono condursi in relazione al suo comportamento rispetto a sol“ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 69 lecitazioni dinamiche quali i sismi62. Come è stato chiarito attraverso la modellazione, il terremoto doveva innescare tensioni molto superiori a quelle riscontrate nella condizione di carichi verticali e la fabbrica, realizzata con una sola catena alla base dell’attico e priva di successivi incatenamenti fino al 1628, non sarebbe stata in grado di sostenere un livello di carico sismico senza subire lesioni significative. Gli stati tensionali maggiori si sarebbero ritrovati in prossimità della seconda e terza fila di finestre, come riscontrato anche nell’analisi statica, e i massimi assoluti si sarebbero concentrati in prossimità dei finestroni. Valori di trazione molto elevati si sarebbero raggiunti, inoltre, lungo la muratura esterna e, in particolare, in prossimità della zona dove si congiungono la volta interna e quella esterna. Nella conformazione originaria, le tensioni di compressione in campo dinamico sarebbero aumentate significativamente, in valore assoluto, soprattutto lungo la muratura esterna nella zona inferiore della cupola, maggiormente chiamata a sostenere tale tipo di carichi. I valori massimi di compressione, ancora in valore assoluto, si sarebbero raggiunti in prossimità delle volute giungendo fino a 0.87 MPa, valore molto maggiore del livello di compressione raggiunto in fase statica (0.63 MPa), con un aumento del quarantacinque per cento. Ciò sembra dimostrare che l’evento sismico avrebbe potuto indurre danni molto significativi alla cupola nel suo primo assetto non solo a causa dei notevoli valori di trazione ma anche per quelli di compressione. “Non vedendo quel foro come si vede nell’altre cuppole”: dalla struttura alla decorazione Se tali sono le ipotesi attinenti la comprensione del comportamento strutturale ‘originario’ e delle relative vulnerabilità, decorativamente possiamo ritenere che come l’esito inizialmente voluto fosse stato quello di una cupola segnata all’intradosso da costoloni rivestiti da stucchi e oro zecchino, convergenti in chiave in un oculo finestrato, anch’esso decorato con stucchi. Tale programma fu effettivamente avviato perseguendo fin dall’inizio una linea filo-romana anche nel coinvolgimento di un milieu artistico esterno all’orbita locale e ricorrendo alla presenza e intermediazione, nell’Urbe, del conte di Castro, ambasciatore del re di Spagna. Già nel 1612, difatti, i Deputati si preoccupavano di individuare “i più eccellenti Maestri che sono in Roma” per decorare a mosaico gli angoli della cupola e il restante con pitture63; nel 1624, quindi, lo stuccatore romano Francesco Vaiani fu incaricato dell’opera a stucco bianco ed oro per la cupola64. Cospicue tracce di quest’ultima possono riconoscersi, al presente, portandosi nello spazio intermedio tra le due volte dove tuttora si distingue una piccola porzione dell’apparato decorativo dell’oculo centrale, come si vedrà, occluso nel 1641. Nelle intenzioni del progettista, dunque, lo spazio della cappella sarebbe stato illuminato dall’alto dalla luce filtrata attraverso il lanternino esterno ed interno e arricchito da un apparato bianco e oro: i pennacchi avrebbero dovuto contribuire a tale fastoso effetto mediante una luminosa decorazione a mosaico65. Come numerosi ed approfonditi studi hanno ampiamente delineato e ai quali si farà riferimento ripercorrendo solo sinteticamente le vicende decorative che interessarono la cupola nella prima metà del secolo XVII66, il tormentato programma ornamentale della struttura vide un primo coinvolgimento − quindi 70 VALENTINA RUSSO fallito − nel 1616 del Cavalier d’Arpino67, già autore dei mosaici per la cupola di San Pietro, e, appena dopo, di Guido Reni (1619)68 nonché, dal 1623, di Fabrizio Santafede, coadiuvato da Battistello Caracciolo e Francesco Gessi. Avviata l’opera su un pennacchio, la Deputazione non ne gradì il risultato così da ordinarne la demolizione; non andò diversamente nel 1628 a seguito del coinvolgimento, nella decorazione della cupola, di Belisario Corenzio e Simone Papa, anch’essi licenziati dopo l’esecuzione della decorazione di un pennacchio. Determinatasi, dunque, una situazione di stallo, i Deputati contattarono a Roma Domenico Zampieri detto il Domenichino attraverso l’oratoriano Muzio Capece, figura in stretti rapporti con l’Oratorio romano. Stipulato il contratto l’11 novembre 1630, il pittore emiliano fu stabilmente impegnato nella cappella dal 1631 al 164169 eseguendo le decorazioni dei sottarchi, delle lunette e dei pennacchi e avviando l’affresco della cupola, interrotto nel 1641 per la morte dell’artista. A tale fase decorativa è ascrivibile anche il già citato affresco del pennacchio sulla destra dell’abside (1635) raffigurante Cristo che affida Napoli alla protezione di San Gennaro in cui la Munificenza regge un volume sul cui frontespizio è riportata la pianta, per quanto approssimativa, della Cappella del Tesoro. Morto Domenichino, eliminati per volere di quest’ultimo i costoloni in stucco ivi presenti dal 162470 nonché le parti già affrescate della cupola “di mano altri e mal poste in opera”71, la Deputazione affidò, nel 1641, l’esecuzione del Paradiso a Giovanni Lanfranco72. Il pittore emiliano non era, come è ben noto, nuovo alla capitale del Viceregno essendo stato impegnato in più cantieri, dalla chiesa della certosa di San Martino (1637-1639) a quella dei Santi Apostoli (1638-1646)73. Soprattutto, già dal 1634, Giovanni Lanfranco aveva dato prova della sua arte nella raffigurazione del Regno del cielo sulla prima cupola della chiesa del Gesù Nuovo, dalle evidenti analogie, come si è visto, con quella della Cappella del Tesoro. Anche nel caso gesuita, peraltro, i costoloni in stucco già messi in opera avrebbero costituito un vincolo ingombrante per l’apparato decorativo e, al contempo, inamovibile per ragioni strutturali74. Accettato nel 1641 l’incarico per la Cappella della cattedrale, il pittore emiliano richiese, tra i primi provvedimenti, la chiusura dell’oculo, corrispondente alle due lanterne in successione, con un’incannucciata, oggi ancora percepibile alla vista dal basso “per fare apparire migliore e più unita la sua opera”75. L’impresa decorativa di Lanfranco, nel suo incessante ritmo ascensionale e tutto convergente verso il centro della volta, non sfuggì al giudizio di Francesco Borromini che poté visionare l’opera posteriormente al 1641, probabilmente nel mentre era in via di completamento l’altare Filomarino nella chiesa dei Santi Apostoli o il distrutto altare maggiore della chiesa di Santa Maria a Cappella Nuova, entrambi ideati dall’architetto ticinese76. Apprezzando particolarmente la scelta di Lanfranco di chiusura dell’oculo al centro delle calotte, Borromini così si esprimeva in una epistola a Virgilio Spada in occasione del dibattito scaturito intorno alla costruzione della cupola della chiesa di Sant’Ignazio a Roma: “La Cuppula del Tesoro in Napoli − questi scriveva intorno al 1650-1651− non riceve lume dal Lanternino, mà lo riceve dal Tamburo solo, et è fatto in tal modo che resta luminosa et la pittura che finge un velo apunto nel sito, dove veniva la luce del Lanternino, si è dipinto la figura principale, quale fà bellissima vista, non vedendo quel foro come si vede nell’altre cuppole, et piglia forma della volta del Cielo...”77. “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 71 Lo scritto che segue riprende argomenti più ampiamente discussi dall’A. nel volume Il doppio artificio. La cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli tra costruzione e restauri, Alinea ed., Firenze 2012. 2 Cfr. V. Russo, Il consolidamento delle cupole napoletane tra XVII e XVIII secolo. Interpretazione dei dissesti e tecniche di intervento, in “Tecniche costruttive dell’edilizia storica. Conoscere per conservare”, Atti della Giornata di studi (Roma 1 dicembre 2004), a cura di D. Fiorani e D. Esposito, Viella, Roma 2005, pp. 157-174; V. Russo, Il doppio ‘artificio’. Costruzione e restauri della cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in “Napoli nobilissima”, VIII, 3-4, 2007, pp. 141-160; V. Russo, G. Lignola, G. Tucci, E. Cosenza, Static history and structural assessment of masonry domes. The Treasure of St. Gennaro’s Chapel in Naples, in “Structural analysis of historical constructions. Possibilities of numerical and experimental techniques”, Proceedings of the 5th International Conference, a cura di P.B. Lourenço, P. Roca, C. Modena, S. Agrawal, (New Delhi 6-8 nov. 2006), Macmillan India Ltd., New Delhi 2007, vol. III, pp. 14711478; V. Russo, Il doppio artificio. La cupola, cit. 3 Entro la vasta bibliografia, cfr. D.M. Zigarelli, Biografie dei vescovi e arcivescovi della chiesa di Napoli con una descrizione del clero, della cattedrale, della basilica di S. Restituta e della cappella del tesoro di S. Gennaro, Stab. Tipogr. G. Gioia, Napoli 1861; L. Stabile, Guida storico-artistica della r. Cappella monumentale del Tesoro di S. Gennaro, Stab. tip. F. Giannini, Napoli 1877; N.F. Faraglia, Notizie di alcuni artisti che lavorarono nella chiesa di San Martino e nel Tesoro di San Gennaro, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, 3, 1885, pp. 435-461; L. de la Ville surYllon, La Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in “Napoli nobilissima”, VIII, 3, 1898, pp. 37-42; don Ferrante [G. Ceci], Per la cupola del Tesoro di San Gennaro, in “Napoli nobilissima”, XIII, 1904, pp. 125-127; A. Bellucci, Memorie storiche ed artistiche del Tesoro nella Cattedrale dal secolo XVI al XVIII, Antonio Iacuelli, Napoli 1915; E. e C. Catello, La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Edizione del Banco di Napoli, ivi 1977; F. Straz1 72 VALENTINA RUSSO zullo, La Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, Società editrice napoletana, Napoli 1978; S. Savarese, Francesco Grimaldi e l’architettura della Controriforma a Napoli, Officina, Roma 1986, pp. 116-126; Id., Francesco Grimaldi e la transizione al barocco: una rilettura della cappella del Tesoro nel duomo di Napoli, in Barocco napoletano, a cura di G. Cantone, Atti del Corso internazionale di alta cultura “Centri e periferie del barocco” (Roma 22 ottobre-7 novembre 1987), Roma 1992, pp. 1520; F. Strazzullo, La Cappella di San Gennaro nel Duomo di Napoli, Istituto grafico editoriale italiano, Napoli 1994; San Gennaro tra Fede Arte e Mito, EdR, Napoli 1997; E. Nappi, La cappella del Tesoro e la Guglia di San Gennaro. Nuovi documenti e nuove fonti, in “Ricerche sul ‘600 napoletano. Saggi e documenti 2001”, 2001-2002, pp. 91-99; Campania barocca, a cura di G. Cantone, Jaca Book, Milano 2003, pp. 53-61; U. Dovere, La cappella del Tesoro di San Gennaro, F. Motta, Milano 2003; V. Russo, Il doppio artificio. La cupola, cit. 4 Cfr. F. Strazzullo, Scultori e marmorari carraresi a Napoli: i Marasi, in “Napoli nobilissima”, VI, 1967, p. 30 e pp. 36-37 e Id., Architetti e ingegneri napoletani dal ’500 al ’700, Gabriele e Mariateresa Benincasa, Roma 1969, pp. 31-32, p. 91 e p. 229. 5 Cfr. S. Savarese, Francesco Grimaldi, cit., pp. 117-118 e note. 6 Cfr. C. D’Engenio, Napoli sacra, In Napoli per Ottavio Beltrano, Napoli 1623, p. 8. 7 Napoli, Archivio storico della Deputazione del Tesoro di San Gennaro (d’ora in avanti ATSG), AB/2, fol. 18. 8 Per tale figura, cfr. F. Strazzullo, Architetti e ingegneri, cit., pp. 264267. 9 E. e C. Catello, La Cappella del Tesoro, cit., p. 25. 10 ATSG, AB/1, foll. 88-88v. 11 ATSG, DA/8, fol. 191. Bernucci venne pagato nel 1609 “per l’aijuto che ha fatto al patre don Francesco Grimaldi et diverse fatiche fatte per ordine del detto patre nella Costruttione del modello di legno che si fa per servitio della nova cappella del Glorioso San Gennaro” (ATSG, AB/2, fol. 6v). 12 A. Bellucci, Memorie storiche, cit., pp. 33-34. 13 Cfr. ATSG, AB/2, fol. 4. 14 La cura nella confezione dei mattoni emerge anche dall’incarico sti- pulato nel febbraio 1609 per la fornitura dei pezzi, “quali mattoni hanno da essere conforme la mostra del mattone bianco cossì di grossezza, larghezza, cottura e bontà e che siano piani e non storti” (ATSG, AB/2, fol. 4). 15 ATSG, DA/8, fol. 191. 16 ATSG, DA/8, fol. 172. Cfr. anche ivi, AB/2, fol. 9. 17 Ivi, fol. 184. 18 ATSG, DA/8, fol 172. 19 ATSG, DA/8, fol. 27. Le forniture da parte dei pipernieri Scipione di Conza e Giovan Tommaso Gaudioso si riferiscono agli anni 1609 e 1610. Nel 1609 sono documentati i pagamenti per “li piperni rustici per lo Cornicione di sopra della Ecclesia” (ATSG, AB/2, fol. 9). 20 ATSG, DA/8, foll. 25v-27. Tre ulteriori scale a chiocciola, di cui una già occlusa negli anni Venti del XVIII secolo, dovevano permettere di raggiungere l’intercapedine tra le due calotte, secondo quanto annoterà Pompeo Schiantarelli nel 1783 (“si veggono riempite a masso tre trombe delli quattro caracò angolari, delli quali in presente uno solo n’esiste per comodo di ascendere sull’alto delle fabbriche”, in ATSG, DA/60). 21 Cfr. Parere di Don Ferdinando Sanfelice circa il riparo da darsi alla Cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro (a stampa, Napoli 1708) in ATSG, DA/72, Figura 2, in cui si riportano in legenda i “Cordoni di pietra di Sorrento coverti di piombo”. 22 G. Lucchese, Parere circa il riparo da darsi alla cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro, in ATSG, A/22. 23 Cfr. S. Casiello, V. Russo, E. Vassallo, From static history to restoration issues: The Gesù Nuovo church in Naples (Italy), in “Structural Analysis of Historic Construction. Preserving Safety and Significance”, Proceedings of the 6th International Conference on Structural Analysis of Historical Construction, (Bath, 2-4 luglio 2008), a cura di D. D’Ayala e E. Fodde, Taylor & Francis Group, London 2008, vol. I, pp. 259-266. 24 “Hanno ordinato a mastro Innocentio che in ogni modo accomodi le regiole della Cupola perché piove dentro l’altra cupola” (ATSG, Appuntamenti, 3 gennaio 1626). La questione dell’unità progettuale della doppia cupola verrà già affrontata, seppur marginalmente, da Giuseppe Lucchese e Ferdinan- do Sanfelice negli anni 1707 e 1708: mentre il primo riterrà la cupola “così fabricata nel tempo della sua prima costruttura” (ATSG, A/22, fol. 69), il secondo ipotizzerà che il lanternino interno costituisse un’aggiunta realizzata all’indomani del sisma del 1688 (Parere di Don Ferdinando Sanfelice, cit., in ATSG, DA/72). 25 Emblematico il caso della cupola di San Pietro a Roma, per il cui rafforzamento con catene in corso d’opera si rimanda al recente lavoro di M. Carusi, La struttura portante della cupola di Della Porta: 1588– 2010, in “Annali di architettura”, 22, 2010 (2011), pp. 125-150. 26 Cfr. ATSG, DA/8, fol. 154v. 27 Ivi, fol. 188. 28 Cfr. ATSG, AB/2, fol. 15. 29 Nel 1618 i Deputati pagarono lo stuccatore Francesco Vaijani “In conto dello voltone” e Andrea Marchese per dorare la palla della Cupola (ATSG, DA/10, fol. 93 e fol. 199v). 30 R. Pane, Introduzione a R. Di Stefano, La Cupola di San Pietro. Storia della costruzione e dei restauri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1963 (1980II, da cui si cita), p. XV. 31 Molto utile, in tal senso, è il lavoro di M. Villani, La più nobil parte. L’architettura delle cupole a Roma 1580-1670, Gangemi ed., Roma 2008, passim. 32 Cfr. G. Giovannoni, Saggi sulla architettura del Rinascimento, Treves, Milano 1935, pp. 152-153. Sulla doppia cupola di San Pietro in Montorio, cfr., in particolare, G. Delfini, R. Pentrella, San Pietro in Montorio. La chiesa, il convento, il tempietto, in Fabbriche romane del primo ’500. Cinque secoli di restauri, Palombi, Roma 1984, pp. 17-110. 33 S. Benedetti, Cupole romane tra post-Tridentino e Barocco, in M. Villani, La più nobil parte, cit., p. 9. 34 Per tale cantiere, cfr. S. Benedetti, L’Opera di Giacomo del Duca in S. Maria di Loreto in Roma, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, XIV, 79-84, 1967, pp. 1-40 (ripubbl. in Id., Letture di architettura. Saggi sul Cinquecento romano, Multigrafica, Roma 1987, pp. 65-82); Id., Giacomo Del Duca e l’architettura del Cinquecento, Officina, Roma 1972-1973, pp. 115-143; G. Del Duca, L’arte dell’edificare. Biblioteca regionale universitaria di Messina, Ms. F.V. 29, a cura di F. Paolino, Società messinese di storia patria, Messina 2004. S. Benedetti, Giacomo Del Duca, cit., pp. 155 e sgg. 36 In G. Del Duca, L’arte dell’edificare, cit., rip. in M. Villani, La più nobil parte, cit., p. 72, fig. 57. 37 Cfr. S. Benedetti, Cupole romane tra post-Tridentino e Barocco, cit., p. 9, fig. A. 38 Cfr. V. Russo, Il consolidamento delle cupole napoletane tra XVII e XVIII secolo, cit. 39 S. Benedetti, Giacomo Del Duca, cit., p. 119. 40 Queste ultime saranno rifatte in cemento armato in occasione dei restauri del 1925 seguendo, secondo F. Bellini, i profili cinquecenteschi (cfr F. Bellini, Il rifacimento dellaportiano dell’oratorio di S. Maria de Scala Coeli alle Tre Fontane, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 14, 1989 (1991), pp. 31-42: 36). 41 Cfr. in particolare A.M. Orazi, Attività di Jacopo Barozzi da Vignola in S. Pietro e suo confronto con il magistero di Michelangelo, in “L’architettura della Basilica di San Pietro. Storia e costruzione”, Atti del Convegno internazionale di studi, (Roma, Castel Sant’Angelo, 7-10 novembre 1995), (“Quaderni dell’Istituto di Storia dell’architettura”, 25-30, 19951997), Bonsignori, Roma 1997, pp. 206-208. 42 Cfr. F. Bellini, La costruzione della Cappella Gregoriana in San Pietro, di Giacomo Della Porta: cronologia, protagonisti e significato iconologico, in “Architettura: processualità e trasformazione” Atti del Convegno internazionale di studi (Roma, Castel Sant’Angelo, 24-27 novembre 1999), (“Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 34-39, 19992002), Bonsignori, Roma 2002, p. 342. 43 Su tale fase della fabbrica petriana, cfr. in particolare: F. Bellini, La cupola di San Pietro di Giacomo della Porta, in “Studi romani”, 56, 2008 (2010), pp. 167-202; A. Viscogliosi, La costruzione della cupola di S. Pietro, in Studi sui Fontana. Una dinastia di architetti ticinesi a Roma tra Manierismo e Barocco, a cura di M. Fagiolo e G. Bonaccorso, Gangemi, Roma 2008; M. Carusi, La struttura portante della cupola di Della Porta, cit.; F. Bellini, La basilica di San Pietro. Da Michelangelo a Della Porta, Argos, Roma 2011. 44 S. Savarese, Francesco Grimaldi, cit., pp. 93 e sgg. 45 Cfr. M.G. D’Amelio, N. Marconi, 35 Le cupole del XV e XVI secolo a Roma e nel Lazio, in Lo specchio del cielo. Forma significati tecniche e funzioni della cupola dal Pantheon al Novecento, a cura di C. Conforti, Electa, Milano 1997, p. 136. 46 Cfr. L. Montalto, Il problema della cupola di Sant’Ignazio da Padre Orazio Grassi e Fratel Pozzo ad oggi, in “Bollettino del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura”, XI, 1957, pp. 33-62; R. Bösel, Jesuitenarchitektur in Italien. 1540-1773, Osterreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1986, pp. 195-199; Id., Orazio Grassi architetto e matematico gesuita. Un album conservato nell’Archivio della Pontificia Università Gregoriana a Roma, Argos, Roma 2004, pp. 108 e sgg. 47 Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 11257, fol. 99v, rip. in R. Bösel, Jesuitenarchitektur in Italien, cit., pp. 205-206, doc. 12. 48 Cfr. ivi, pp. 207-208, doc. 15. 49 Cfr. H. Hager, La Cappella del Cardinale Alderano Cybo in S. Maria del Popolo, in “Commentari”, XXV, 1974, pp. 47-61. 50 Cfr. Id., La crisi statica della cupola di S. Maria in Vallicella in Roma e i rimedi proposti da Carlo Fontana, Carlo Rainaldi e Mattia de Rossi, in “Commentari”, XXVI, 1973, pp. 300-318; Id., Die Kuppel des Domes in Montefiascone- Zu einem borrominesken Experiment von Carlo Fontana, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 15, 1975, pp. 145168; H. Schlimme, Santa Margherita at Montefiascone and Carlo Fontana’s knowledge on dome construction, in Proceedings of the Third International Congress on Construction History, NEUNPLUS 1, Berlin 2009, vol. III, pp. 1317-1324. 51 C. Fontana, Il Tempio Vaticano e sua origine..., 7 voll., In Roma nella Stamperia di Gio. Francesco Buagni, 1694 (ed. consult. Il Tempio Vaticano 1694. Carlo Fontana, a cura di G. Curcio, Electa, Milano 2003). 52 Ivi, Libro V, Capitolo XXIV (ed. cons., p. 188). 53 Cfr., in particolare, G. Ceci, La fondazione della Chiesa e del Convento di S. Maria della Sanità, in “Napoli nobilissima”, n.s., I, 1, 1920, pp. 9-12; A. Ghisetti Giavarina, La prima esperienza di Fra’ Nuvolo: S. Maria della Sanità in Napoli, in “Architettura a Roma e in Italia (1580-1621)”, Atti del XXIII Congresso di Storia dell’architettura, (Roma, 24-26 marzo 1988), Centro di Studi per la Sto- “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 73 ria dell’Architettura, Roma 1989, pp. 321-332; E. Nappi, Santa Maria della Sanità. Inediti e precisazioni, in “Ricerche di Storia dell’arte”, 19992000, pp. 61-76. 54 M. Errichetti, La cupola del Gesù Nuovo, in “Napoli nobilissima”, II, 1963, pp. 177-184; G. Guerra, La cupola del Gesù Nuovo. Problemi statici e curiosità storiche, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, XVI, 1967, pp. 311-393; P. Pirri, Giuseppe Valeriano S. I.: architetto e pittore, 1542-1596, Inst. Historicum S.I., Roma 1970; E. Nappi, Le chiese dei gesuiti a Napoli, in Seicento napoletano. Arte, costume e ambiente, a cura di R. Pane, Ed. di Comunità, Milano 1984, pp. 318-337; R. Bösel, Jesuitenarchitektur in Italien, cit., pp. 406-408; F. Divenuto, La diffusione a Napoli, nel XVI secolo, dell’architettura della Compagnia nella cronaca di un gesuita, in “L’architettura a Roma e in Italia (1580-1621)”, cit., vol. II, pp. 365-386; Id., Napoli sacra del XVI secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990; G. Amirante, La Compagnia di Gesù nella provincia meridionale: cultura architettonica e tipologie, in Saggi in onore di Renato Bonelli, a cura di C. Bozzoni, G. Carbonara, G. Villetti, Multigrafica, Roma 1992, vol. II, pp. 633-640; T. Carrafiello, Berardo Galiani intendente d’architettura (1724-1774), in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, CXIII, 1995, pp. 245380 (per le vicende del Gesù Nuovo, cfr. pp. 320-336 e pp. 355-373). 55 Cfr. C. Celano, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, In Napoli nella stamperia di Giacomo Raillard, Napoli 1692, tomo II, terza giornata, foll. 45-46. 56 Cfr. C. Celano, G.B. Chiarini, Notizie del bello e dell’antico e del curioso della città di Napoli, Stamperia Floriana, Napoli 1856-1860, vol. II (1856), p. 110 che sottolinea l’eguaglianza tra diametro (cinquantaquatto palmi) e altezza della cupola. 57 Per questi, cfr. G. Tucci, Il rilevamento della cupola, in V. Russo, Il doppio artificio. La cupola, cit., pp. 116-121 e S. Pollone, Elaborazioni grafiche, ivi, pp. 101-112. 58 Cfr. G. Lignola, Il comportamento strutturale nel corso dei secoli, ivi, pp. 135-163. 59 Dopo aver consultato, già nel novembre 1627, gli architetti Orazio Campana, Dionisio di Bartolomeo e Giovan Giacomo di Conforto, i Deputati diedero incarico al Con- 74 VALENTINA RUSSO forto della cerchiatura (1628) (cfr. ATSG, AB/2, fol. 104, cit. in F. Strazzullo, La Real Cappella, cit., pp. 65-66). 60 Per l’interpretazione di tali interventi rispetto alle fonti, si rimanda a V. Russo, Il doppio artificio. La cupola, cit., pp. 60-75. 61 G. Lignola, Il comportamento strutturale nel corso dei secoli, cit., pp. 139151. 62 Ivi, pp. 151-163. 63 Cfr. ATSG, AB/2, fol. 14 (lettera del 27 settembre 1612 al conte di Castro). 64 Ivi, fol. 81v (“avendo risoluto di far indorare lo stucco fatto In questa cappella, e visto la mostra fatta da mastro francesco Vajani stuccatore di questa Cappella che comincia dalla cornice della cupola in basso sino alla pittura sopra la testa del tiranno del primo Angolone pintato, hanno concluso che detto Indorare sia bianco et oro, et de oro de Zecchini, et cossì sequiti”, 20 agosto 1624). Come i restauri del 19861987 hanno chiarito, tali stucchi sono costituiti da un impasto di calce, polvere di marmo, sabbia e caseina e rivestiti da uno strato di bolo rosso e fogli in oro zecchino brunito. Le parti maggiormente aggettanti erano fissate con chiodi e perni metallici, causanti distacchi dovuti ad ossidazione (D.M. Pagano, Il restauro degli affreschi di Domenichino, in Domenichino. Storia di un restauro, Electa Napoli, ivi 1987, p. 28). 65 È interessante notare come tale obiettivo fosse ancora perseguito nel 1621 quando “essendosi discorso si la cupola della cappella si dovesse ornare di pittura o di musaico, è stato concluso che si procuri farsi di musaico stante che viene di maggior bellezza et ricchezza, et attenta la perpetuità dell’opera” (rip. in F. Strazzullo, La Real Cappella, cit., p. 153). 66 L. Stabile, Guida storico-artistica, cit.; A. Bellucci, Memorie storiche ed artistiche, cit.; E. e C. Catello, La Cappella del Tesoro, cit., passim; F. Strazzullo, La Real Cappella, cit.; Domenichino. Storia di un restauro, cit.; R. Muzii, Disegni di Giovanni Lanfranco per la cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli, in Barocco napoletano, a cura di G. Cantone, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1992, pp. 569-579; F. Strazzullo, La Cappella di San Gennaro, cit., passim; D.M. Pagano, In Paradiso. Gli affreschi del Lanfranco nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, Electa Napoli, ivi 1996; E. Nappi, La cappella del Tesoro, cit., pp. 91-99. 67 Nel settembre del 1616 si decise di interpellare l’artista (cfr. ATSG, AB/2, fol. 18v), con il quale il 7 marzo 1618 venne stipulato un contratto per la fattura dell’affresco al di sotto del primo cornicione della cupola (ivi, fol. 25). 68 Cfr. G.C. Guerra, Pitture della Cappella di S. Gennaro detta del Tesoro nella Cattedrale di Napoli, in M. Gualandi, Memorie originali italiane riguardanti le Belle Arti, Bologna 1844, p. 12; A. Bellucci, Memorie storiche ed artistiche, cit., pp. 37-38. 69 Cfr. N. Spinosa, Speciale restauri: Napoli: una vita difficile. Gli affreschi del Domenichino nella Cappella del Tesoro di san Gennaro, in “Art&Dossier”, 30, 1988, pp. 28-30; F. Strazzullo, Il restauro delle pitture del Domenichino nella Cappella di San Gennaro a Napoli, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, XXXVI, 1988, pp. 94-115; D.M. Pagano, Domenichino alla cappella del Tesoro di San Gennaro, in Domenichino. 1581-1641, catalogo della mostra a cura di C. Strinati e A. Tantillo, (Roma 10 ottobre 1996-14 gennaio 1997), Electa, Milano 1996, pp. 349-367. 70 “Incominciò Domenico anche la cupola, ma a cagione della sua morte lasciolla imperfetta. Per quello ch’egli medesimo mi disse, essendo quella cupola compartita con le costole, tanto istigò, ed ostinossi nel dire, che conseguì l’intento che fossero levate le dette costole, ed egli ebbe sempre pensiero di fingere arazzi attaccati alla volta di quella, ad imitazione delle due volte della loggia de Chigi alla Lungara dipinte da Raffaele, per non obligarsi alla necessità degli scorci, e vedute di sotto non bene intese da tutti” (G. Passeri, Vite de’ pittori, scultori ed architetti che anno lavorato in Roma, morti dal 1641 al 1673, Roma 1772, p. 38, cit. in D.M. Pagano, In Paradiso, cit., p. 45, nota 2). 71 Cfr. ATSG, DA/9, foll. 69-70 e D.M. Pagano, In Paradiso, cit., p. 13. 72 Cfr. R. Muzii, Disegni di Giovanni Lanfranco, cit., pp. 569-579; D.M. Pagano, In Paradiso, cit. 73 Cfr. F. Strazzullo, La Chiesa dei SS. Apostoli, Arte Tipografica, Napoli 1959; Disegni di Lanfranco per la chiesa dei Santi Apostoli nel Museo di Capodimonte, catalogo della mostra a cura di R. Causa e G. Mosca, L’Arte Tipografica, Napoli 1964. 74 Cfr. R. Bosël, Giovanni Lanfranco e la Compagnia di Gesù (Documenti per la sua attività napoletana), in “Paragone”, 329, 1977, pp. 99-114; E. Nappi, Le chiese dei Gesuiti, cit., p. 333; V. Rizzo, Documenti su Cavallino, Corenzio, De Matteis, Giordano, Lanfranco, Solimena, Stanzione, Zampieri ed altri dal 1639 al 1715, in Seicento napoletano, cit., pp. 314-316. 75 Cfr. N. Spinosa, Restauro di un testo fondamentale, cit., pp. 32-33. Per le tecniche esecutive degli affreschi e il più recente restauro ivi effettuato, cfr. D.M. Pagano, I lavori della cappella del Tesoro, in “Art&Dossier”, 30, 1988, pp. 34-43 e R. Garzone, La tecnica e il restauro, ivi, pp. 44-49. Cfr. anche E. Nappi, La cappella del Tesoro, cit., p. 96, doc. 37 in cui è il pagamento “per serrare l’occhi della cupola”. 76 Sull’argomento si rimanda sinteticamente a P. Portoghesi, Borromini decoratore, in “Bollettino d’Arte”, XL, 1955, pp. 12-38; F. Strazzullo, La Chiesa dei SS. Apostoli, cit., pp. 31-41; A. Nava Cellini, Per il Borromini e il Dusquesnoy ai SS. Apostoli di Napoli, in “Paragone”, XXVIII, 329, 1977, pp. 26-38; D. Del Pesco, L’architettura del Seicento, Utet, Torino 1998, p. 41; M. Pasculli Ferrara, Borromi- ni e Napoli: le committenze e i cantieri artistico-architettonici, in Francesco Borromini, Atti del Convegno internazionale (Roma, 13-15 gennaio 2000), a cura di C.L. Frommel, E. Sladek, Electa, Milano 2000, pp. 77-85; L. Lorizzo, L’altare della cappella Filomarino ai santi Apostoli di Napoli alla luce di nuovi documenti romani, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 2001-2002, pp. 62-75. 77 Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 11257, fol. 101, rip. in R. Bösel, Jesuitenarchitektur in Italien, cit., p. 208, doc. 17. “ET PIGLIA FORMA DELLA VOLTA DEL CIELO” 75 Eleonora D’Auria La Cappella di San Gennaro: passi da Gigante Buonasera e grazie di essere presenti. Prima di iniziare vorrei ringraziare la Deputazione di San Gennaro per aver reso possibile, anche quest’anno, l’iniziativa tesa a rinnovare il contributo alla valorizzazione della Cappella. Dunque: il mio intervento, come anticipato da Stefano Causa, riguarderà uno dei maggiori protagonisti della stagione pittorica di primo Ottocento a Napoli: Giacinto Gigante1 (Napoli, 1806-1876), la cui vicenda è da ripercorrere all’interno del solco tracciato dalla cosiddetta “Scuola di Posillipo”2. Sorta verso la fine degli anni Venti a Napoli e incentrata sulla figura di Anton Sminck van Pitloo3 (Arnhem 1790, Napoli 1837), la Scuola andò progressivamente affermandosi negli inoltrati anni Quaranta, fino a concludere la propria parabola nel 1863, soppiantata da una scalciante esigenza di rinnovamento che in quegli anni si manifesterà compiutamente nell’adesione al principio realista. La “Scuola di Resina”4, sorta nel 1864 con interessanti intromissioni ad opera di artisti di differenti località, testimonierà questa interessante fase di passaggio che vedrà la deriva dello spirito romantico, antico retaggio della Scuola di Posillipo. I pittori di Resina cercarono di coniugare la tradizione pittorica del vedutismo con la componente realistica che in quegli anni troverà nella città di Napoli ampia risonanza. Non volendo abusare della vostra pazienza, il mio intervento avrà come oggetto solo un mirato nucleo di dipinti. Per l’esattezza, l’attenzione sarà rivolta all’ultima fase artistica del pittore: quella compresa tra il 1860 e i primi anni Settanta. Una scelta che ovviamente esige una spiegazione. Il motivo va ricercato nel fatto che, proprio questo ultimo decennio, presenta, a mio parere, interessanti spunti riflessivi da ricercare sia nella selezione dei soggetti, sia nel differente utilizzo della tecnica pittorica a Gigante congeniale: l’acquerello. Inoltre l’analisi così filtrata, permette una lettura stratigrafica dell’intero percorso dell’artista, evidenziandone i maggiori riferimenti artistici, fondamentali per una comprensione ad ampio spettro dell’intera vicenda. Dunque, questo ultimo decennio risulta di grande pregnanza ai fini di una giusta messa a fuoco della portata innovativa di Gigante, riflesso di una ben più ampia trasformazione in atto. Offre, altresì, la possibilità di sancirne e documentarne i principali fulcri nevralgici. Un’ulteriore considerazione necessita di essere fatta: l’estrema rilevanza culturale che il momento detiene nel contesto storico. Gli anni Sessanta segnano, infatti, la conclusione del processo di unificazione nazionale. Svolta decisiva per l’Ita76 ELEONORA D’AURIA lia, giunta finalmente ad ottenere, seppur solo su carta, quell’unità territoriale da tempo agognata. Il 1861 vedrà, infatti, il processo risorgimentale giungere a conclusione. Napoli si troverà a dover fronteggiare la riconversione dell’apparato istituzionale, dovuto alla perdita dei numerosi privilegi detenuti nel precedente ruolo di capitale. Il cambiamento dell’intero assetto socio-politico ovviamente comportò la modifica dei numerosi aspetti concernenti altre attività, artistiche o letterarie. Si manifesterà infatti, in sintonia con quelle che furono le metamorfosi strutturali e i cambiamenti innescati dalle vicende politiche dell’Italia oramai unita, un capovolgimento epocale in termini di elaborazione artistica. La tradizione andava progressivamente arenandosi a fronte di un nuovo rapporto instaurato con la realtà. Il realismo nella sua veste ormai consolidata fu figlio di una intera generazione che vide l’esaurirsi delle tematiche fin ad allora particolarmente care al mondo accademico. A Napoli in particolar modo, la congiuntura tra vecchio e nuovo sarà testimoniata da un manipolo di artisti di origine abruzzese, i fratelli Palizzi5 i quali, in anticipo su molte delle altre tendenze pittoriche locali, dimostreranno la precoce adesione al principio realista. Giuseppe in particolare fungerà da traino per il susseguirsi di fenomeni che imposero una nuova scelta rappresentativa, scevra da ogni compiacimento estetico o vincolo accademico. Tra il 1854 e il 1855 infatti ebbe modo di recarsi a Parigi, la capitale del secolo. Sarà proprio quell’anno a decretare l’affermazione di una aperta diaspora tra un nuovo modo di concepire la realtà e dunque rappresentarla e l’assodata formula di sentimentalismo edulcorato o enfatizzato che l’intera produzione pittorica delle Accademie ancora imponeva. Il “Padiglione del Realismo” allestito da Courbet6, in aperta opposizione al gusto imperante, favorì l’accendersi di un focolaio di rivolta fino ad allora arginato, ma non per questo reso inoffensivo. Giuseppe Palizzi, all’indomani del suo soggiorno parigino, non solo attinse a piene mani ad un repertorio iconografico innovativo e ad una tecnica esecutiva dissonante dal convenzionale fluire artistico dell’epoca, ma trasse a sé, facendola propria, la precedente tradizione francese, quella della “Scuola di Barbizon” a ridosso degli anni Trenta con il protagonista indiscusso: Camille Corot7. La scelta di una rappresentazione naturalistica non più percepita come soggetto complementare a caratterizzazione derivativa, ma fulcro autorevole della composizione, sarà tema ampiamente recuperato da Giuseppe Palizzi, ma principalmente dal fratello, Filippo. Il pittore infatti attinse ad un repertorio iconografico che conferirà alla natura la facoltà di detenere il ruolo di egemone autonomia. L’intera sua produzione oscillerà tra la volontà di rendere percepibile la vastità naturalistica del creato (si tenga conto ad esempio dell’opera conservata presso il Museo Nazionale di Capodimonte, Dopo il diluvio, olio su tela, 1861) e la capacità di un serrato dettato analitico ed esecutivo di derivazione e gusto quasi fiammingo. Ovviamente, come in Francia, così in Italia permaneva uno zoccolo duro che recuperava le trame del proprio ordito pittorico dal corredo iconografico antico. Scene ed avvenimenti di carattere storico riletti ad uso propagandistico o educativo, unito alla propensione per il recupero del purismo primo ottocentesco, determineranno l’affermarsi di una vistosa antitesi tra il sussistente impianto pittorico ed il nuovo portato stilistico. In effetti il pittore napoletano Domenico Morelli aveva, in anticipo sui tempi, ben condotto il gusto dell’epoca verso un tentativo di apertura dal quale far deLA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 77 Giacinto Gigante Interno della Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, 1863 Napoli, Museo di Capodimonte 78 ELEONORA D’AURIA Giacinto Gigante (con Francesco Fergola) La Cappella Minutolo nel Duomo di Napoli, 1863 collezione privata LA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 79 fluire le nuove idee in termini di confronto realistico, e non di dissacrante affronto al contesto attuale ancora così fortemente reazionario8. Esattamente negli stessi anni, infatti, tra il 1854 e il 1855 realizzò due opere emblematiche ai fini di una chiara delucidazione delle problematiche in questione. I martiri cristiani e Gli Iconoclasti, ambedue conservate presso il Museo Nazionale di Capodimonte, condensano l’intento stilistico del maestro, teorizzato in numerosi suoi scritti: “Io sentivo che l’arte era di rappresentare figure e cose non viste, ma immaginate e vere a un tempo”9. Così il soggetto, utilizzato solo come pretesto rappresentativo risponderà con puntuale aderenza critica a quelli che furono i tempi e i cambiamenti in atto. Le due opere saranno infatti interpretate come una sorta di messaggio criptato da decifrare proprio tenendo conto dei fatti sociali e politici coevi10. La pittura napoletana partecipò attivamente al rinnovamento, adattandosi alle nuove tendenze dell’epoca o associandosi ad esse. L’ultima produzione di Gigante risulta essere, dunque, particolarmente significativa perché in essa assistiamo, – diversamente dalla precedente, ancora incardinata all’interno di una tradizione pittorica come quella del vedutismo – ad un significativo rinnovamento, spia di un nuovo cambio di rotta. Un rinnovamento che trasse origine da un ulteriore avvenimento, fondamentale per comprendere la nuova prassi esecutiva del pittore. Proprio in quegli anni, infatti, tra il 1860 e il 1861 Firenze inaugurerà la Prima Mostra Nazionale di Pittura. Sarà in tale occasione che un gruppo di pittori, innovativi per il genere proposto, verranno etichettati con il termine di Macchiaioli. Sorgeva il movimento artistico di maggiore rilevanza di tutto l’Ottocento italiano. Nei medesimi anni la congiuntura tra ambito napoletano e il nuovo orientamento affermatosi a Firenze si palesava compiutamente. Gli artisti riuniti nel noto “Caffè Michelangelo” si renderanno interpreti di un nuovo modo di concepire la cronaca o la storia ma, cosa più notevole, offuscheranno nel giro di pochi anni la visuale attraverso cui veniva percepita – dunque realizzata – fino ad allora, l’opera d’arte. Artisti come Toma, Lega, Cecioni, Fattori, proposero un diverso approccio alla realtà, per mezzo di uno scavo nel tessuto sociale, curiosando dentro ambienti ed ambientazioni fino ad allora considerati del tutto inadeguati ad essere rappresentati. Rivoluzioneranno anche il modo di inquadrare le scene, innescando un gioco di scorci e visioni particolarmente arditi tali da rafforzare nell’osservatore l’immediata percezione degli atteggiamenti domestici. La pittura purista, o anche l’indice di storicità che fino a quegli anni avevano mosso il pennello dell’artista, cederanno sotto il peso di un’esigenza costruttiva e fattiva del colore, ai fini di un riconoscimento della fase più istintiva, e creativa, del fare artistico. Questo cambiamento prospettò l’esigenza di adottare innovativi scorci a visione parziale e soprattutto la necessità di adoperare una tecnica pittorica non conforme alle direttive dell’istituzione accademica. I Macchiaioli, in analogia con quanto affermerà l’Impressionismo, circa un decennio dopo in Francia, abbatterono la definizione costruttiva affidata alla linea e al contorno. Punto fondante delle loro ricerche, il colore venne dunque utilizzato in primis per la sua funzione cromatica, ma al contempo recuperò la fase ideativa-costruttiva, andata persa con l’annullamento del disegno. Lo sviluppo di tali novità rese la percezione della realtà completamente differente, conferendo all’esecuzione una maggiore immediatezza data per macchie, tocchi, timbri cromatici giustapposti. La 80 ELEONORA D’AURIA notevole valenza che la produzione di Gigante detiene nel quadro artistico di secondo Ottocento è dunque da rintracciarsi nella capacità di documentare la portata del rinnovamento generale, i cui esiti orienteranno l’operato del maestro prevalentemente su due fronti: la scelta dei soggetti e la tecnica. Quanto ai soggetti, la materia di trattazione della produzione precedente, ancorata all’arco cronologico della “Scuola di Posillipo”, sarà testimoniata da paesaggi e vedute secondo una delle due interpretazioni date dalla produzione pittorica alla rappresentazione naturalistica. Quella scelta da Gigante individuava nella natura la risultante di un rapporto armonico tra ambiente e uomo. Una visione generatrice di serenità nell’abbandono fiducioso al ruolo protettivo della natura. Non raramente nelle scene di Gigante l’elemento umano, dove presente, risulta immerso nel contesto naturale quasi a voler rafforzare quel concetto di osmosi con l’ambiente. La seconda interpretazione, affermatasi con maggiore pregnanza in ambito nord europeo, vedrà invece la natura porsi come una sorta di alter ego spirituale e dunque capace di generare sgomento, senso di inferiorità e inadeguatezza nell’animo umano, schiacciato da una immensità evocatrice di ancestrali forze divine. Dunque, se nella prima fase la pittura di Gigante ricalca il canovaccio naturalistico saccheggiato nelle sue molteplici varianti, l’ultimo decennio vedrà acuirsi l’interesse del maestro per un aspetto più riposto ed accostante della rappresentazione (l’analisi di interni, generalmente ecclesiastici), come si nota in certa coeva pittura toscana. Ed eccoci giunti al punto sul quale occorre riflettere. L’attenzione di Gigante verso un lirico intimismo è da mettere in relazione con quanto il movimento dei Macchiaioli andava affermando e diffondendo con tenacia. Toma o Lega renderanno con consapevole lucidità la visione di una nuova poetica degli interni e degli affetti. Un’attitudine che vide proprio nel nuovo valore artistico ad essi attribuito la possibilità di un riscatto in termini di idoneità rappresentativa. Gigante recuperò proprio questo interesse per un repertorio iconografico minuto, appropriandosi, per lo scopo, di un innovativo procedere pittorico. Bisogna tener conto del fatto che svariate furono le occasioni di reciproco contatto tra artisti toscani e napoletani, grazie a viaggi, scambi epistolari ed esposizioni. Morelli, Altamura, Cammarano, sosteranno ripetutamente a Firenze inserendosi nel vivo di un dibattito che vedrà la città toscana imporsi nel crocevia delle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Al contempo, un nucleo di pittori fiorentini sarà inglobato all’interno della compagine artistica napoletana nota come “Scuola di Resina” (che vide tra i protagonisti anche il pittore e scultore Adriano Cecioni). Dunque la pittura di Gigante subirà una metamorfosi, non solo per quel che riguarda il soggetto, ma cosa ancor più interessante, evolvendosi in direzione di un differente utilizzo della tecnica adoperata. Non mutandola, Gigante apportò modifiche al modo di plasmare la materia pittorica. Mentre infatti, nella produzione precedente, le ampie campiture davano vita a distese omogenee di colore e le zonature dai toni caldi ed avvolgenti conferivano alla natura un senso atmosferico armonico e luminoso; ora la mano di Gigante si dimostra capace di conferire all’opera un pittoricismo molto più mosso, articolato e vibrante, dato per brevi tocchi di colore, per accenni di pennello, al fine di rendere il riflesso della vibrazione atmosferica. Ovviamente tale cambiamento è da mettere in relazione con le nuove ricerche condotte sulle molteplici possibilità degli accostamenti cromatici, nel tentativo di LA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 81 Giacinto Gigante La cappella di Sergianni Caracciolo in San Giovanni a Carbonara, 1862 Napoli, Certosa e Museo di San Martino 82 ELEONORA D’AURIA Giacinto Gigante La cappella di Sergianni Caracciolo, 1820 circa Napoli, Certosa e Museo di San Martino LA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 83 rendere con vivezza gli effetti luministici. Le opere di quest’ultimo decennio appaiono, dunque, rilevanti non solo perché offrono una visione stratigrafica dell’intero percorso pittorico del maestro, ricostruendone le tappe fondamentali ma, cosa più importante, perché decodificano compiutamente il segnale di rinnovamento delle ricerche artistiche di fine secolo, anticipando i cambiamenti inauguratisi con le avanguardie storiche. Vorrei dunque iniziare con la proiezione di un celeberrimo acquerello realizzato dal maestro, emblematico non solo dell’ultimo decennio di vita, ma del suo intero percorso artistico: La Cappella del Tesoro di San Gennaro (Museo Nazionale di Capodimonte, 1863). La scelta dell’acquerello come elemento propulsivo al mio intervento non poteva non influenzare la selezione del periodo da sottoporre alla vostra attenzione. Osserviamo allora questo piccolo scrigno cromatico. Ciò che emerge, ad un primo ed immediato impatto è il particolare taglio adoperato. Una sorta di grand’angolo del quale Gigante si serve per offrire una lettura solo parziale dell’impaginato spaziale. Una scelta stilistica che riflette la contaminazione della pittura con il nuovo mezzo di riproduzione della realtà, la fotografia. Angolature analoghe saranno ampliamente utilizzate negli anni successivi, e raggiungeranno esiti sorprendenti proprio nella cultura francese, culminando nell’elevato grado di virtuosismo raggiunto nella resa degli scorci scelti. È questo, ad esempio, il caso di Degas. L’intento di entrambi i pittori, differenti nell’impostazione ma accomunati dalla medesima passione per il disegno, resterà il medesimo: tendere ad un effetto di dilatazione spaziale. Non realizzando compiutamente l’immagine all’interno della cornice, si garantì la possibilità di far intuire la prosecuzione delle parti mancanti. In altre parole, chi guarda è indotto seppur inconsapevolmente a proiettare interiormente l’immagine complessiva della scena, restituendone un effetto di dilatazione: illusoria sebbene più efficace, proprio perché non vincolata dalla stringente linea-guida del disegno. Ovviamente tale espediente, per quanto indice di un precoce aggiornamento, non garantisce, valutato singolarmente, il rilascio del lasciapassare necessario a qualificare come innovativa l’opera d’arte in questione. Saranno infatti necessari ulteriori elementi al fine di inserirla nel novero di quelle che sanciranno la piena affermazione della svolta di fine Ottocento. A conferma di ciò, basti osservare una tela del pittore realizzata verso la fine degli anni Venti durante il suo soggiorno romano: La basilica di San Pietro (acquerello, coll. privata.) L’opera offre il medesimo taglio visivo, limitando la visione ad una analisi solo parziale della chiesa. Se si prestasse fede esclusivamente alla lettura spaziale dell’interno, anche questo acquerello potrebbe qualificarsi come innovativo; ne avrebbe anzi maggiore diritto, considerando la data di realizzazione, da porsi circa un quarantennio in anticipo rispetto all’acquerello con la Cappella di San Gennaro. Eppure non è così. L’opera, del 1826 circa, appare, nonostante il taglio scelto, ancora vincolata a un retaggio di matrice settecentesca, quella per intendersi del vedutismo e del paesaggismo - tale da ricondursi, ad esempio, ad alcune tra le più ferme vedute di Giovanni Paolo Pannini. Vi mostro come possibile termine di confronto una rappresentazione del Pantheon, (Interno del Pantheon, 1730-50 ca., The Lyman Allyn Museum, Connecticut) e una rappresentazione della Basilica di San Pietro, (Interno della Basilica di San Pietro, 1750-60 ca., Metropolitan Museum of Art, New York ). 84 ELEONORA D’AURIA Innanzitutto nell’opera di Gigante raffigurante la Basilica di San Pietro prevale ancora una certa esigenza descrittiva che traspare, seppur vivacizzata dal gusto personale, nella scelta di individuare in maniera sufficientemente distinta i rilievi architettonici e gli elementi decorativi (cosa che nell’acquerello del 1863 non è manifesta). Ma l’elemento fondante su cui ruota l’intero giudizio comparativo è la folla, la sua resa pittorica. In San Pietro essa viene ancora vissuta e percepita come individualità, valutata dunque per unità. Permane un’attenzione lineare e selettiva dell’immagine e degli individui, ricostruiti quasi fedelmente, imponendo l’utilizzo della linea ai fini di una definizione costruttiva, ben circoscrivibile ai singoli elementi. Ciò permette di riferire l’opera ad un precedente da ricercarsi, ad esempio, nella tradizione vedutistica romana. L’opera di Gigante, dunque, permane all’interno di una compostezza decorativa ed espressiva ancora collegabile alla sapiente vena descrittiva di un Pannini, (artista presente a Roma dal 1711, fino al 1765, anno della sua morte) e affine al gusto descrittivo e analitico tipico delle vedute dell’epoca. Se ora spostassimo l’attenzione in direzione dell’acquerello del 1863, ci renderemmo conto di come la folla venga, al contrario, percepita e rappresentata in modo totalmente nuovo. In questo caso è vissuta come coralità, e dunque percepibile e godibile solo attraverso una lettura d’insieme. Questo implica l’adozione di una differente resa pittorica, ora sintetica, ora abbreviata, data per tocchi sfuggenti e per macchie cromatiche. Va perdendosi completamente la valenza descrittiva dell’individuo inteso ora, semplicemente, come parte di un insieme; privo di valore se isolato dall’intero contesto. Questo espediente tecnico permette di percepire visivamente un effetto atmosferico altrimenti perso. In realtà, una resa così mossa e articolata garantiva la possibilità di illustrare gli effetti luministici della cappella, caratterizzata da un gioco di riflessi e bagliori, nel quale appaiono immersi gli individui. Troviamo qui un primo elemento utile per l’individuazione di uno spiccato intuito riformatore: la resa atmosferica. Basti a riprova, riflettere sull’esigenza stilistica dell’impressionismo per comprendere come tali ricerche divenissero cardini di un rinnovamento attuato per mezzo di una tecnica data per tocchi di colore spesso complementari. Ma esiste ancora un punto sul quale occorre ragionare: l’attenzione ad una particolare percezione della sfera emotiva. In effetti, più che ad una esigenza descrittiva, la pittura risponde ad un rispecchiamento visivo del sentimento collettivo vissuto in quei minuti dalla folla. È questo un ulteriore elemento da considerare nel valutare l’abilità trasformistica del pittore: l’attenzione rivolta all’aspetto emotivo troverà ampia diffusione proprio all’indomani della piena affermazione dell’impressionismo. Il nuovo messaggio, decodificato dalla mano dell’artista in relazione all’osservazione naturale, ne rifletterà lo stato d’animo e il temperamento. Tornando all’acquerello di Gigante, la folla, oltre a rendere un vibrante senso atmosferico, conferisce caratterizzazione emotiva all’intera orchestrazione cromatica. Ricordiamo come l’interesse per la resa dell’effetto atmosferico derivasse dall’attento studio di un pittore inglese, artefice di una rivoluzione precedente all’avvento degli impressionisti: William Turner. Gigante, che ebbe modo di visionare varie opere del maestro, tentò di assimilarne la resa sintetica e abbreviata, per compiere il grande passo verso una nuova intuizione visiva capace di competere con gli effetti atmosferici naturali. Generalmente, proprio in virtù del fatto che la penLA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 85 Giacinto Gigante Interno di San Giovanni a Carbonara, 1845 collezione privata 86 ELEONORA D’AURIA Giacinto Gigante Interno della chiesa di San Giovanni a Carbonara, 1862 Napoli, Certosa e Museo di San Martino LA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 87 nellata di Gigante possa ricollegarsi alla ricerca tutta francese di sintesi pittorica, si è indotti a commettere un errore di valutazione nel ritenere l’acquerello di matrice quasi impressionista. La pennellata del decennio preso in esame risente di un cambiamento: sia per resa sia per cromatismo, e sicuramente tale passaggio testimonia l’interesse verso nuovi bacini creativi. Ma persiste una differenza notevole e di sostanziale rilevanza tale da non poter in alcun modo equiparare la produzione di Gigante alla compagine impressionista: la differenza sta nell’uso costante del disegno. Nell’intera attività del maestro l’elemento lineare, utilizzato come espediente costruttivo, sarà alla base dell’intero suo percorso. Il disegno deve costruire lo spazio, sondarlo in maniera scrupolosa. Ritroviamo quella politica di recupero che Gigante attuerà in relazione alla sua formazione. Il lavoro svolto presso il Real Officio Topografico di Napoli diretto da Ferdinando Visconti, gli fornì, infatti, i preliminari mezzi per impadronirsi della tecnica dell’incisione e del disegno. Questa accentuazione dell’elemento lineare come spunto essenziale ed iniziale della sua attività lo allontanerà nettamente dalle ricerche messe in atto dall’Impressionismo. Il movimento si era opposto ad un modo di dipingere accademico, ancorato ad una prima fase disegnativa, dunque ideativa e progettuale e ad una seconda, esecutiva o cromatica. Gli impressionisti conferiranno duplice valore al colore facendovi confluire il ruolo andato perso con la negazione del disegno: il colore verrà utilizzato nella sua duplice veste costruttiva e cromatica. Le parole di Raffaello Causa illustrano sapientemente tale differenza: “…Le sue ultime opere risultano abbacinate da questo grande ormai irrisolvibile problema dell’atmosfera luminosa che non si fa impressione, ma impronta di una sua profonda intonazione armonica, le note di riferimento dell’immagine”11. Ancora Causa ha modo di evidenziare la scarsa incidenza che la vena descrittiva esercitò su l’ultimo periodo di attività del pittore: “…una diversa elaborazione della veduta in un processo di interiorizzazione che giunge talvolta fino alla negazione totale del presupposto documentario. Per questa via taluni risultati della maturità verranno a costituire le tappe sensazionali, i raggiungimenti più alti della pittura di Giacinto Gigante “(R. Causa, 1983). In contrasto con l’attitudine del vedutismo, incentrato su un’acuta analisi dei risalti figurativi, il pittore asseconderà un fare sintetico, abbreviato, teso a conferire all’opera un respiro di carattere complessivo, privo di cedimenti al gusto descrittivo e decorativo. Procedendo nella visione delle immagini, vorrei richiamare la vostra attenzione su un altro acquerello: La Cappella Minutolo nel Duomo di Napoli (1863, coll. privata). Siamo ricondotti seppur virtualmente, all’interno del corpo del Duomo. La cappella è, infatti, la seconda a destra del presbiterio. Anche in questo caso il pittore enfatizza l’orchestrazione pittorica, realizzando una tavolozza ancor più brillante della precedente. Prevale, a differenza della Cappella del Tesoro, una maggiore legittimazione dell’aspetto descrittivo, come se Gigante fosse indotto ad effettuare una lettura iconografica degli affreschi. La cappella che preserva la sua architettura gotica, risulta riccamente decorata da artisti del XV secolo, tra i quali si riconosce la mano di Montano d’Arezzo. Si riscontra una attenzione alla leggibilità dell’apparato figurativo. È facilmente riconoscibile il brano pittorico raffigurante un gruppo di guerrieri lungo la parete sinistra, crociati della famiglia Minutolo. Anche in questo caso, lo studio della luce come catalizzatore di ef88 ELEONORA D’AURIA fetti scenici viene potenziato grazie all’espediente della finestra, garantendo che il riverbero detoni all’interno della Cappella. Ritroviamo quella predisposizione mentale ad una costruzione spaziale, ben definita e strutturalmente riconoscibile, al di sotto della veste pittorica, che non maschera lo scheletro disegnativo, ma al contrario ne enfatizza la tenacia12. Gli individui presenti svolgono una funzione completamente differente dal precedente riferimento pittorico: nella Cappella di San Gennaro, la folla era proiezione visiva di uno stato di attesa e sospensione emotiva, o utilizzata per rendere tangibili gli effetti atmosferici di pulviscolo luminoso e vibrante sfavillio, tipici dell’interno del vano. Nell’acquerello della Cappella Minutolo, invece, i personaggi marcano il ritmo, diciamo così, di un tempo spaziale, lungo il quale lo sguardo dell’osservatore è condotto fino a convergere verso i sarcofagi della famiglia Minutolo. Da sottolineare l’utilizzo di una luminosità radente, detentrice di effetti cromatici di particolare vivezza pur non confrontabili con gli esiti pittorici francesi. Prevale una volontà riformatrice che non esita a relazionarsi con realtà esterne differenti, senza perdere quella consapevolezza personale che non cede all’intrigo imitativo. Proseguendo nella visualizzazione delle immagini, vorrei sottoporvi un altro acquerello. Il soggetto è La Cappella di Sergianni Caracciolo in San Giovanni a Carbonara (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 1862). Siamo condotti per mano di Gigante all’interno di uno dei magistrali esempi di architettura ecclesiastica napoletana, utilizzata come Pantheon dagli ultimi angioini. Anche in questa sede, l’acume del maestro si pareggia ad uno scatto fotografico nella capacità di enucleare gli ambienti emblematici dall’intero contesto. La cappella di Sergianni Caracciolo sorse per volontà dello stesso committente, all’interno del complesso ecclesiastico. Gigante non presta attenzione all’impatto scenico del vano, del quale non rende visibile né l’intero apparato iconografico, opera di due artisti, Leonardo da Besozzo e Perino da Benevento, né il ricco pavimento maiolicato. Tutto è focalizzato alla visualizzazione del solo monumento funebre, fatto edificare dal figlio al seguito della morte del padre, assassinato all’interno di Castel Nuovo. Anche in questo caso la bravura del pittore si palesa nell’armonizzare il gioco di rimandi luministici verso toni più ribassati. Riducendo i timbri cromatici, Gigante realizza una sorta di monocromo all’interno del quale sfuggono per vivacità tratti di avorio, di biacca, di bianco, utilizzati per scandire meglio le profilature del monumento funebre sorretto da guerrieri. La propensione ad un maggiore riscontro luministico permette di scongiurare facili effetti di decorativismo per aderire ad una lettura condotta sugli esempi dei pittori napoletani del Seicento. Infatti protagonista appare in questo caso la luce, immessa nell’ambiente tramite una finestra. L’apertura permette di enfatizzare la vibrante volumetria dell’apparato funebre, istituendo un contrastante gioco chiaroscurale addensato nei meandri del sarcofago. L’uso della luce offre al pittore la possibilità di orchestrare effetti scenici di particolare interesse, garantendo una lettura di più ampio respiro. I timbri cromatici, su toni ribassati, istituiscono un rimando visivo tra i vari angoli della cappella. Da evidenziare un elemento, la cui presenza in un primo momento potrebbe apparire priva di interesse: il manto rosso addossato alla parete. Esso viene utilizzato come “torcia” cromatica capace di irradiare colore all’interno dell’ambiente, che come già detto, si presenta rigidamente ancorato a poche tinte. Il drappo esalta il solo punLA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 89 to acceso dell’intera composizione: la figura del santo, ben leggibile e collocata sulla parete di sinistra. Ma oltre a definire una particolare accentuazione pittorica, Gigante se ne serve per un fine più sottile: quello di rendere plasticamente volumetrico l’impianto spaziale. La capacità di coniugare l’effetto lieve dell’acquerello alla densità tipica della pittura ad olio carica l’immagine di una percezione quasi tattile, data per effetto di un corposo impasto materico. Il drappo offre anche la possibilità di definire quasi drammaticamente la scena caricandola di pathos. Nelle ultime rappresentazioni vediamo come il maestro scelga sempre la medesima chiesa ripresa da diverse angolazioni. Nell’immagine che vi mostro, egli si colloca all’interno della Cappella Somma (Interno di San Giovanni a Carbonara, 1845, coll. privata). Ci troviamo dunque a fronteggiare il monumento funebre di re Ladislao, percepibile, seppur confusamente, in lontananza. Al di sotto dello stesso si accede alla cappella Caracciolo appena descritta. Gigante distilla la capacità di conferire effetto scenico alla rappresentazione. Come in un gioco di scatole cinesi, ci introduce nei vari ambienti incastonati all’interno di una costruzione spaziale ben calibrata. Dalla cappella Somma, riconoscibile da alcuni elementi decorativi, il maestro introietta l’immagine dell’intera navata della chiesa, offrendone una visione quasi caleidoscopica. I personaggi creano in lontananza un grumo polveroso che va dissolvendosi in prossimità dell’incombente monumento di re Ladislao, addossato alla parete di fondo. Ancora ritorna il drappo, in questo caso utilizzato quasi fosse un sipario. La tecnica ora non è più mossa, articolata, data per tocchi, come nelle precedenti rappresentazioni. Ritorna una stesura omogenea caratterizzata da vivaci giochi luministici capaci di rendere straordinariamente mosso l’intero percorso della navata. La medesima cosa è osservabile nella successiva immagine, (Interno della Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli, Certosa di San Martino, 1862), dove ai toni molto pacati dell’acquerello fa da contraltare la visione balenante della luce, che struttura la parte superiore della navata. Ciò permette una lettura più marcata e compatta dell’arredo architettonico e decorativo, sulla cui puntualizzazione va certamente ricollegata l’adesione di Gigante al genere del paesaggismo e vedutismo. A conclusione di questa nostra chiacchierata, colgo l’occasione per mostrarvi uno scatto fotografico13 gentilmente segnalatomi dal professore Giorgio Napoletano, che qui saluto e ringrazio. La foto, realizzata nel 1903, mostra proprio l’acquerello di Gigante dal quale siamo partiti. E con questo vi ringrazio per l’attenzione. 90 ELEONORA D’AURIA Su Giacinto Gigante: S. Ortolani, Giacinto Gigante e la pittura di paesaggio a Napoli e in Italia dal Seicento all’Ottocento, Napoli 1970; Napoli e la Campania felix, acquerelli di Giacinto Gigante, catalogo della mostra a cura di R. Causa ed altri, Napoli 1983; A. Schettini, Giacinto Gigante, Napoli 1956; M. Biancale-S. Ortolani-C. Lorenzetti, La pittura napoletana nei sec. XVII-XVIII- XIX, Napoli 1938; R. Causa, Napoletani dell’Ottocento, Napoli 1965; M.A. Fusco, Sulla formazione tecnica di Giacinto Gigante in Scritti di storia dell’arte in onore di R. Causa, Napoli 1988; L. Martorelli, La pittura dell’Ottocento nell’Italia Meridionale (1799-1848) in La pittura in Italia – L’Ottocento, Milano, 1991, pp. 469493; Giacinto Gigante e la scuola di Posillipo, catalogo della mostra a cura di L. Martorelli, Napoli 1993; M. Picone Petrusa, Le arti visive in Campania nell’Ottocento in Storia e Civiltà della Campania, Napoli 1995, pp. 205-240; M. Limoncelli, Giacinto Gigante, Napoli 1934. 2 S. Ortolani, La scuola di Posillipo, serie “L’Arte per tutti”, Bergamo 1934; L. Martorelli, Per una storia del paesaggio: la Scuola di Posillipo in Dal vero: Il paesaggio napoletano da Gigante a De Nittis, Torino 2002, pp. 23-38; R. Causa, Acquerelli di Gigante esposti in San Martino, in “Il Fuidoro”, II (1955), nn. 1/2, pp. 44-45; Acquerelli di Giacinto Gigante, Montanino, Napoli 1955; R. Causa, Vedute napoletane dell’Ottocento. Disegni di Giacinto Gigante, L’Arte Tipografica, Napoli 1955; R. Causa, La Scuola di Posillipo, Fabbri, Milano 1967; R. Causa, La collezione Angelo Astarita al Museo di Capodimonte. Giacinto Gigante e La Scuola di Posillipo, SEN, Napoli 1972; La Scuola di Posillipo, in Storia di Napoli, vol. IX, ESI, Napoli 1972, pp. 783832; M.E. Maimone, in E. Castelnuovo (a cura di), La pittura in Italia. L’Ottocento, Electa, Milano 1991, tomo II, p. 905, ad vocem; L. Martorelli, La pittura napoletana nella prima metà dell’Ottocento, in Civiltà dell’Ottocento a Napoli, Electa, Napoli 1997. pp. 417-424; R. Causa, La Scuola di Posillipo, Milano, 1967; G. Smargiassi, Cenni storici sul paesaggio e sui paesisti napoletani, in “Atti della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti”, Stamparia della Regia Università, Napoli, pp. 139-146; S. Di Giacomo, La scuola di Posillipo in “Il Mezzogiorno Artistico”, fasc. VIII, n. 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Causa, La pittura napoletana dell’Ottocento, in Ottocento, Catalogo dell’arte italiana dell’Ottocento, n. 13, Mondadori, Milano 1984, pp. 57-66; M. Picone Petrusa, L’arte nel Mezzogiorno d’Italia, dall’Unità alla seconda guerra mondiale, in G. Galasso (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, Edizioni del Sole, Napoli 1991, pp. 176-179; C. Farese Sperker, La Scuola di Resina, in G. Matteucci (a cura di), Pittori e Pit- tura dell’Ottocento italiano, Istituto Geografico De Agostini, Milano 1997, pp. 145-172; S. Gallo, Aspetti del realismo a Napoli: l’interferenza di Adriano Cecioni, in “Dialoghi di Storia dell’Arte” (1997, nn. 4/5, pp. 236249; Giuseppe De Nittis e i pittori della “Scuola di Resina”, catalogo della mostra a cura di L. Autiello, E. Piceni e P. Ricci, L’Arte Tipografica, Napoli 1963, n. 109. 5 D. Morelli-E. Dalbono, La scuola napoletana di pittura nel secolo XIV, Bari 1915 (con prefazione di B. Croce); P. Ricci, I fratelli Palizzi (Filippo, Giuseppe, Nicola Francesco Paolo), Busto Arsizio 1960; A. Conti, Breve biografia di Filippo Palizzi precedente il Catalogo della mostra a Vasto, 1929; A. Mezzetti, Contributi alla pittura italiana dell’Ottocento; Giuseppe Palizzi, in “Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione“, III (1955), pp. 244-258; IV (1955), pp. 334-345; A. Ricciardi, Filippo Palizzi e il suo tempo, Arti grafiche Il torchio, Firenze 1988; S. Pipponzi, I Taccuini di Filippo Palizzi alla pinacoteca “Barbella” di Chieti, in Donazione Palizzi. Da Vasto a Napoli verso l’Europa, catalogo a cura di M. Mormone e N. Spinosa, Esi, Napoli 2000, pp. 45-49. 6 Per una bibliografia solo indicativa, consultare: L. Malvano, Gustave Courbet, serie “I Maestri del Colore”, 129, Milano 1966; D. Durbè, Courbet e il realismo francese, Milano, 1969; R. Fernier, Gustave Courbet, pittore dell’arte vivente, Milano 1969; G. Boudailles, Gustave Courbet, Milano 1969; S. Pinto, Courbet, Firenze 1970; F.J. Clark, Immagine del popolo, Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48, Torino 1978; C. Maltese, Courbet, in EUA, IV, ed. 1981, cll. 50 sgg.; L’opera completa di Courbet, presentazione e apparati critici e filologici di P. Courthion, Milano 1985. 7 Si tenga conto che Corot fu in Italia, com’è noto, tra il 1825 e il 1828 con sosta finale a Napoli; poi ancora nel 1834, e poi per l’ultima volta nel 1843. V. Gilardoni, Corot, serie “I Maestri del Colore”, 103, Milano 1965; R. Cipriani, Corot, in EUA, III, ed. 1980, cll. 820 sgg. 8 D. Morelli, E. Dalbono, La scuola napoletana di pittura nel secolo XIX, Bari 1915 (con prefazione di Benedetto Croce); D. Morelli, Lettere a Pasquale Villari, a cura di A. Villari, I, 1849-1859, Napoli 2002; II, 18601899, ibid. 2004; F. Netti, Scritti vari, Trani 1895, pp. 168-170, 192- LA CAPPELLA DI SAN GENNARO: PASSI DA GIGANTE 91 199, 431 S. 448-450; P. Levi, Domenico Morelli nella vita e nell’arte, Roma-Torino 1906; A. Conti, Domenico Morelli, Napoli 1927; G. Cassese-A. Cipriani, Notizie dall’Archivio storico dell’Accademia di belle arti di Napoli, ibid., pp. 58-61; Domenico Morelli e il suo tempo 1823- 1901 dal romanticismo al simbolismo (catalogo), a cura di L. Martorelli, Napoli 2005 cui si rinvia per un esame complessivo e aggiornato della produzione di Morelli e per l’elenco esaustivo delle fonti e delle voci bibliografiche. 9 F. Palizzi e la scuola napoletana di pittura dopo il 1840; Discorso commemorativo letto all’Accademia Reale da Domenico Morelli nella tornata del 21 giugno 1900, in V. Caputo, Ricordi della scuola napoletana di pittura dopo il ’40 e Filippo Palizzi, Napoli 2013, p. 51. 10 Basti ricordare che il noto dipinto, Gli Iconoclasti (1855), non solo rappresentò la prima opera di grande impegno nel nuovo stile realista, suggellando l’amicizia col Palizzi, ma offrì un pretesto di identificazione tra i martiri cristiani e i patrioti uccisi o banditi. Non fa dunque meraviglia che il re Ferdinando in visita all’Esposizione napo- 92 ELEONORA D’AURIA letana del 1855 fiutasse sospettosamente, senza per questo riuscire a giustificarlo “nu penziero”, ricollegandosi alle vicende personali di Morelli, che l’avevano visto combattente e ferito al seguito dei garibaldini. Rivisitando la storia e scegliendo accadimenti esemplari e significativi (intesi come radici delle istanze libertarie nazionalistiche), artisti e teorici si impegnarono a comunicare un ideale politico e sociale fino ad attribuire alla pittura e alla scultura il ruolo di una missione. 11 Napoli e la Campania felix acquerelli di Gigante, catalogo della mostra a cura di R. Causa ed altri, p. 14, Napoli 1983. 12 Fu Raffaello Causa a coniare l’originale definizione “a fil di ferro”, come ricorda pure M.A. Fusco, Sulla formazione tecnica di Giacinto Gigante, in Scritti in onore di Raffaello Causa, Napoli 1988, pp. 387-392. 13 Salottino del Mezzogiorno dal lato della finestra. Quinta Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia del 1903 in V. Pica, L’Arte Mondiale alla V Esposizione di Venezia, Istituto Italiano Arti Grafiche di Bergamo, 1903, p. 41. Manlio Titomanlio Nuove tecnologie applicate all’arte L’arte oggi può rivivere ed essere studiata con nuovi occhi ricorrendo a tecnologie che, con approcci inediti, possono garantire un’adeguata conservazione dei nostri beni culturali. L’idea guida affrontata nella ‘conversazione’ di oggi è, in effetti, quella di proporre per i beni della Cappella del Tesoro di San Gennaro due metodi di studio e d’intervento che possano corrispondere a procedure innovative e sperimentali, attraverso l’impiego di dispositivi che negli ultimi anni trovano sempre più applicazioni nei vari settori delle attività umane. In un primo caso si presenteranno le potenzialità offerte dall’uso dei droni per studiare e monitorare le architetture sia all’esterno che indoor. Nel secondo caso si è ipotizzato il ricorso alla prototipazione rapida di modelli virtuali, ottenuti da scansioni ottiche 3D, per la documentazione e la conservazione di opere d’arte come il busto-reliquiario di san Gennaro. Per drone, o più precisamente aeromobile a pilotaggio remoto (APR), s’intende un velivolo privo di pilota umano a bordo, dove il volo è manovrato da un computer, sotto il controllo remoto di un operatore che può trovarsi sul terreno o in un altro veicolo. Lo sviluppo della tecnologia, negli ultimi anni, sta sempre più vedendo l’utilizzo di questi strumenti in ambito civile1 con impieghi disparati come la sorveglianza aerea delle coltivazioni in aerofotogrammetria, o per effettuare riprese aeree cinematografiche, o in operazioni di ricerca e salvataggio, nel controllo di linee elettriche e delle vie fluviali, delle condutture petrolifere e nel monitoraggio della fauna selvatica. In tutti i casi si tratta di dispositivi soggetti ai medesimi concetti normativi che sono disciplinati dalle organizzazioni internazionali e nazionali preposte alla navigazione aerea2. Attualmente esistono molte tipologie di APR e cambiano in base alle caratteristiche del modello, definite da una serie di parametri quali la quota di volo, la durata del volo e il peso massimo al decollo (MTOW). Nel campo dei beni culturali è frequente l’uso di piccoli modelli classificabili come Micro/Mini-APR equipaggiabili con sensori per il telerilevamento, ovvero per la disciplina tecnico-scientifica con finalità diagnostico investigative tendenti ad ottenere informazioni, qualitative e quantitative sull’ambiente e su oggetti posti a distanza. Si tratta di tutti quei casi in cui l’aeromobile a controllo remoto può essere dotato di strumentazioni capaci di misurare le radiazioni elettromagnetiche (emesse, riflesse o trasmesse) che interagiscono con le superfici fisiche rilevate; basti pensare alle indagini territoriali o architettoniche effettuate NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 93 con strumenti che rilevano nello spettro del visibile (camere digitali compatte o professionali), dell’infrarosso (camere termiche), o all’uso di camere multi spettrali fino ad arrivare a sensori più evoluti come ad esempio sensori per le scansioni ottiche tridimensionali. Specialmente per quanto concerne il rilievo architettonico, la possibilità di equipaggiare un drone con un sistema di scansione ottica 3D, oggi consente di acquisire tutte quelle superfici che da terra non sarebbero visibili per lo scanner, in modo da ottenere modelli molto più dettagliati e raffinati qualitativamente. In questa sede si vuole proporre un impiego inedito dei droni integrati con tecnologie di scansione ottica 3D, ovvero il rilievo architettonico indoor tramite un nuovo apparecchio testato recentemente, con la collaborazione di chi vi parla, dal gruppo TRYECO 2.0 a Ferrara, durante una campagna di rilievo dello stato di conservazione sui monumenti colpiti dagli eventi sismici del 20123. Nello specifico si è realizzato un mini esacottero multirotore4 in fibra di carbonio, munito di led luminosi sui dispositivi di protezione delle eliche e capace di trasportare nella sua parte superiore un piccolo sistema di scansione ottica 3D, per le riprese nelle zone non raggiungibili con scanner distanziometrici. In questo modo qualunque rilievo ed operazione di monitoraggio nella Cappella del Tesoro di San Gennaro avverrebbero in maniera puntuale e senza il ricorso ad opere provvisionali per la progettazione della manutenzione delle superfici decorate. Il manifestarsi di un qualunque fenomeno di degrado dell’architettura o delle opere che la decorano potrebbe essere così individuato fin dall’origine e non più solo nelle fasi avanzate quando è visibile da lontano e potrebbe essere troppo tardi per intervenire. L’altro tema qui affrontato riguarda le potenzialità date dall’impiego di processi di prototipazione rapida ottenuti da modelli numerici virtuali acquisiti con scansioni ottiche 3D. Negli ultimi anni è divenuta sempre più complessa e significativa la riflessione sul concetto di realtà virtuale sia dal punto di vista tecnologico che epistemologico. Nel 1995 Pierre Lévy rifiutava una contrapposizione tra mondo virtuale e mondo reale. Partendo dal pensiero di Gilles Deleuze, Lévy ha elaborato una teoria generale del concetto di virtuale intendendolo come “una trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra”. In tal senso virtualità e attualità sono solo “due diversi modi dell’essere non compiuti” interessati da “continui processi problematici”. All’attuale e al virtuale si contrappongono così il possibile e il reale, entrambi già costituiti all’interno di un insieme predeterminato: “il possibile si distinguere dal reale solo nel fatto che non è ancora realizzato”; in definitiva si tratterebbe di un “reale latente cui manca solo l’esistenza e dove la differenza con il reale si fa puramente logica”. Si delinea in tal modo un salto assolutamente qualitativo fra questi due gruppi di categorie contrapposte per cui la virtualizzazione di “una qualsiasi entità significa” inserire quest’ultima “all’interno di un processo problematico dove l’attualizzazione gli risponde definendo la soluzione”5. All’interno di questa visione si collocano a pieno titolo i nuovi mezzi informatici a controllo numerico reale e le tecnologie legate alla prototipazione rapida. Tutto ciò inevitabilmente ha comportato una vera e propria rivoluzione dei paradigmi che sottendono alle modalità di progettazione di oggetti, forme e spazi nonché alla loro realizzazione. Nell’ambito della conservazione dei beni culturali quello che fino a pochi anni fa era solo un’ipotesi si va oggi sempre più concretizzando attraverso l’impiego di strumenti e metodiche che hanno oramai cambiato il modo 94 MANLIO TITOMANLIO Impiego degli aeromobili a pilotaggio remoto per il monitoraggio delle superfici architettoniche NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 95 di operare dei restauratori. Il caso più emblematico è costituito, come si è detto, dai rilievi tridimensionali. Questi ultimi, ottenuti mediante sistemi di acquisizione attiva (scanner laser e a luce strutturata), sono capaci di produrre su supporto informatico modelli numerici reali che consentono l’interpolazione di dati in quantità e soprattutto con una qualità non raggiungibile con i sistemi tradizionali6. Oggi pertanto ai restauratori è data la possibilità di concepire, progettare e realizzare il proprio lavoro secondo dinamiche nuove che, pur partendo dall’imprescindibile conoscenza degli antichi procedimenti artigianali, si avvalgono di tecniche mutuabili dal settore industriale; di procedimenti che consentono il passaggio da modelli virtuali ad oggetti fisici (realizzati nei più svariati materiali) o viceversa. Tutto ciò consente, in modo veramente innovativo, di ottenere copie di manufatti artistici con grande affidabilità e senza rischi per gli originali, per cui si può operare con ottimi risultati nel pieno rispetto della normativa in vigore prevista dal Codice dei Beni Culturali7. A prescindere da questo indubbio vantaggio, lo scopo di questa conversazione è stato quello di mostrare la qualità di queste copie e di preparare una metodologia specifica per i casi previsti in concomitanza di un intervento di restauro. Nello specifico il lavoro ha ipotizzato un intervento sul celebre busto-reliquiario di San Gennaro8 realizzando una copia in scala e una simulazione d’integrazione ottenuta attraverso procedure di Reverse-Engineering e Rapid-Prototyping (o Rapid-Manufacturing) derivate dalla tecnologia di scansione ottica 3D. Normalmente la realizzazione di copie e/o d’integrazioni sulle opere d’arte effettuate dai restauratori avviene ricorrendo ad un’ampia e ben codificata serie di soluzioni che in genere si affidano all’abilità dell’operatore e in alcuni casi ricorrendo a calchi, pratica ormai scongiurata per evitare effetti dannosi sulle opere d’arte. Nel nostro caso si è valutata la possibilità di ottimizzare la qualità delle operazioni tecniche ricorrendo ad una procedura che, partendo da un modello su supporto informatico, consentirebbe sin dalla fase progettuale di avere un pieno e più profondo controllo del risultato finale. Si tratta di una virtualizzazione dei processi che non prescinde dalle necessarie conoscenze del restauratore ma che ha l’indiscutibile vantaggio di ottenere direttamente dalla progettazione dei prodotti finiti, pienamente compatibili con lo scopo prefissato e senza sprechi di materiale. Nel caso testato sul busto-reliquiario, infatti, è stato possibile, senza toccare il manufatto, riprodurre la testa della scultura in altro materiale e generare la ricostruzione di una porzione mancante, perfettamente conformata con la lacuna in materiali che non offrono controindicazioni per quanto riguarda la reversibilità, la riconoscibilità e la compatibilità con i manufatti antichi9. Inoltre questo nuovo approccio metodologico consentirebbe di realizzare facilmente stampe tridimensionali (di copie integrali o di semplici integrazioni) in tempi brevi, permettendo, qualora se ne presentasse l’esigenza, la ripresa o la riparazione di vecchi interventi senza tradire l’originale progetto di restauro. La prima fase del lavoro ha quindi previsto l’acquisizione in virtuale del busto reliquario tramite sistemi attivi di scansione ottica tridimensionale. Queste ultime sono metodologie che vengono definite attive giacché si differenziano dai metodi tradizionali per l’impiego di sensori controllati da sistemi computerizzati che emettono una luce codificata o una luce laser10. La sorgente di luce è integrata nel sensore e l’illuminazione viene opportunamente sincronizzata con la fase di acquisizione. Si tratta, per l’appunto, dei cosiddetti scanner tridimensionali in quan96 MANLIO TITOMANLIO to sono capaci di fornire le coordinate tridimensionali di un oggetto (generalmente all’interno di un sistema di riferimento correlato con lo strumento) acquisendo un numero elevatissimo di punti rilevati da un apposito sensore11. Con queste apparecchiature i processi di acquisizione avvengono in maniera automatizzata e la strumentazione stessa registra su un processore, sotto forma di nuvole di punti, la superficie esterna degli oggetti rilevati evitando all’operatore la tediosa operazione di collimazione dei bersagli tipica dei metodi passivi. L’impiego di fonti di luce ‘attiva’ inoltre rende possibile una restituzione delle forme rilevate ad una risoluzione decisamente più alta rispetto ad altre tecniche basate sul contatto o l’uso di altre forme di energia come gli ultrasuoni. Il sistema, una volta impostata la risoluzione, procede alla registrazione dei punti secondo le coordinate spaziali (X, Y, Z) in un sistema cartesiano che ha origine nel centro strumentale, senza discriminazioni, per tutto il campo che gli è concesso coprire12. Di conseguenza la resa di un oggetto tridimensionale sarà possibile solo se la luce emessa potrà intercettare tutte le superfici dell’oggetto13. La resa di un oggetto tridimensionale dovrà quindi prevedere più scansioni che poi dovranno essere interpolate tra di loro. In questo caso è buona norma prevedere l’impiego di marker, ovvero di identificatori di punti notevoli che concorreranno alla sovrapposizione corretta delle singole scansioni. Le nuvole di punti così ottenute sono però difficilmente gestibili in quanto sono dati di tipo discreto che necessitano di ulteriori elaborazioni. A seconda del tipo di prodotto che si vuole ottenere, si dovranno effettuare una serie di procedure che, come nella fase di acquisizione, dovranno essere ben progettate e prevedere un trattamento dei dati in fase preliminare per la creazione di un modello finale adeguato14. Una volta ottenuta la nuvola di punti corrispondente all’oggetto, la fase successiva prevede la trasformazione del modello tridimensionale attraverso un processo di triangolazione ovvero la costruzione di una mesh poligonale mediante algoritmi di calcolo specifici. L’operazione di triangolazione deve avvenire assicurando sempre una corretta chiusura della mesh e la correzione di eventuali facce anormali. Il modello triangolato deve essere poi dimensionato in base alle esigenze richieste realizzando un’ottimizzazione numerica15. In alcuni casi le informazioni relative all’aspetto o colore dell’oggetto possono essere integrate prevedendo un’operazione di texture mapping, ovvero tramite l’applicazione di rivestimenti bidimensionali a modelli 3D. In questo caso ci si avvale di ortofoto debitamente realizzate in modo da poter coprire l’intera superficie dell’oggetto scansionato16. Il modello tridimensionale così ottenuto può poi, a sua volta, essere esportato nel formato più adeguato in base al tipo di elaborato che si deve realizzare. Tra le tecnologie oggi a nostra disposizione si possono distinguere strumenti a piccola portata (< 1 m, in genere laser triangolatori con approssimazioni sub-millimetriche), strumenti a media portata (1 m - 70 m, distanziometrici o triangolatori con approssimazioni da 0.2 a 6 mm) e strumenti a lunga portata (2 m - 2000 m., distanziometrici con approssimazioni di qualche centimetro)17. Le tecnologie degli scanner si basano principalmente su tipologie diverse di acquisizione: 1. Scanner distanziometrici (a tempo di volo e a differenza di fase); 2. Scanner a triangolazione ottica (con tecnologia laser e a luce strutturata). Gli scanner a tempo di volo (T.O.F - Time of Flight) sono una tipologia di scanner che sfrutta la luce laser18. Sono scanner distanziometrici costituiti dalle cosiddette NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 97 Nuvola di punti del busto-reliquiario di san Gennaro ottenuta con scansione ottica 3D 98 MANLIO TITOMANLIO Elaborazione al computer del modello numerico reale del busto-reliquiario Modello numerico del busto-reliquiario prima della simulazione della mancanza Modello numerico del busto-reliquiario con la simulazione della mancanza NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 99 stazioni totali, ovvero apparecchi che prevedono l’invio di un impulso laser e la successiva misura del tempo impiegato dalla luce per intercettare una superficie e tornare allo strumento di misura. Tale intervallo di tempo consente di risalire alla distanza tra lo strumento e la superficie che, unita alla conoscenza degli angoli, permette di risalire alle coordinate 3D della zona puntata dal laser. Lo strumento prevede l’emissione di un raggio laser che con sistemi ottico meccanici, costituiti da specchi rotanti, viene proiettato sull’oggetto da rilevare. Questo movimento è accompagnato dalla rotazione dell’intero dispositivo di scansione in modo da coprire un’ampia area, con un’apertura di circa 80° in verticale e una rotazione da 360° in orizzontale. Il raggio luminoso emesso viene inviato sulla superficie. Un rivelatore converte l’intensità luminosa riflessa in un segnale elettrico. La misurazione del tempo necessario a coprire la distanza tra sensore e superficie avviene conteggiando le frazioni che intercorrono tra la partenza dell’impulso, nota a priori al sensore, e l’istante in cui l’elettronica preposta al riconoscimento del segnale ricevuto determina un valore luminoso che superi una soglia prefissata. Poiché la velocità della luce è una costante nota (3x108 m/sec), il tempo di andata e ritorno determina la lunghezza della corsa della luce, che è due volte la distanza fra il dispositivo di scansione e la superficie di riflessione. L’intervallo di tempo tra il segnale emesso e quello di ritorno è rilevato da un orologio stabilizzato al quarzo. Il dato viene poi trasmesso ad un microelaboratore interno che lo trasforma in una misura di distanza avendo noti i parametri relativi alla velocità dell’impulso e del mezzo in cui sin propaga. La stima della distanza ovviamente dipende direttamente dalla precisione della stima del tempo di volo, per cui non può essere molto elevata per la presenza di rumore nel segnale di ritorno che può essere dovuto a numerose cause, sia ottiche sia elettroniche19. Gli impulsi sono inviati con passi angolari costanti, producendo una nuvola di punti la cui densità dipende dalla risoluzione del rilievo effettuato20. Il segnale di ritorno, quindi, attraverso appositi software, viene fornito all’utente in prima istanza all’interno di un sistema di assi cartesiano (X, Y, Z) che ha origine nel centro strumentale e successivamente viene riportato nel sistema di riferimento più opportuno con semplici operazioni di rototraslazione nello spazio. Gli scanner a tempo di volo possono misurare migliaia di punti ogni secondo, con precisioni variabile da alcuni millimetri ad alcuni centimetri, con distanze dal centro dello strumento di alcune centinaia di metri. Si tratta di un sistema adatto principalmente a scansioni ambientali a largo raggio, come piazze, edifici architettonici o scavi archeologici dove è importante ricavare modelli digitali del terreno DTM o di superficie DSM. A tale scopo può risultare utile integrare lo scanner ad un sistema GPS (Global Positioning System) che consente di georeferire in coordinate geografiche le scansioni21. In genere i modelli più recenti prevedono la possibilità di associare allo scanner una fotocamera digitale. La fotocamera è calibrata allo strumento per mezzo di un supporto meccanico di precisione, in modo da consentire un esatto accoppiamento tra il sistema di scansione e il sensore digitale, consentendo così fin dalla fase di scansione di associare al dato morfologico anche quello cromatico in valori RGB, del punto acquisito. Gli scanner a differenza di fase appartengono ad una categoria che come il T.O.F. sfrutta l’emissione di una luce laser. Come nel caso precedente si tratta di scanner distanziometrici ma, invece del tempo di volo, rilevano le variazioni di fase 100 MANLIO TITOMANLIO Sistema di funzionamento del processo di stampa 3D NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 101 Prototipo del busto-reliquiario realizzato con metodo 3D printing 102 MANLIO TITOMANLIO Prototipo del busto-reliquiario con la simulazione della mancanza NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 103 dell’onda di ritorno. Ve ne sono di due tipi a modulazione d’ampiezza AM (Amplitude Modulation) e a modulazione in frequenza FM (Frequency Modulation). Si tratta di strumentazioni che diventano interessanti per i valori di distanza tra 2 e i 20 metri. Questo intervallo è di solito eccessivo per i sistemi a triangolazione e troppo breve per i sistemi a tempo di volo convenzionali. Recenti sistemi AM sulla rilevazione di fase, con incertezze inferiori al millimetro a una distanza di circa cinquanta metri e con una portata massima fino a circa 80 metri di distanza, hanno reso quest’ultimi obsoleti. Come nel caso precedente possono essere integrati da una fotocamera digitale in modo da implementare le informazioni acquisibili. Sono strumenti che risultano particolarmente convenienti per le applicazioni su oggetti medio-grandi quali ambienti architettonici e archeologici di medie dimensioni, grandi sculture e oggetti dove non è richiesta una risoluzione submillimetrica22. Un’altra tipologia di scanner è quella che utilizza la tecnologia laser attraverso un sistema di triangolazione ottica23. Le coordinate spaziali vengono sempre determinate mediante l’emissione di un raggio laser che, deflesso secondo un passo incrementale, colpisce l’oggetto. Il segnale riflesso viene poi catturato da un sensore d’immagine CCD che è posto ad una distanza prefissata e calibrata rispetto alla sorgente del laser. Quindi, secondo lo stesso principio delle triangolazioni topografiche, essendo nota sia la distanza tra la sorgente di emissione del laser, sia quella del sensore e la misura degli angoli di inclinazione degli strumenti, un software integrato allo scanner determina le coordinate (X, Y, Z) del punto intercettato dal laser. Il volume di ripresa utile, tenendo conto della distanza del bersaglio rispetto alla camera, è definito dalla profondità di campo del sistema complessivo formato da illuminatore e ottica del sensore. I sistemi di questo genere cambiano a seconda del tipo di sorgente luminosa che può essere costituita da un singolo spot laser o un insieme di punti allineati che vanno a formare un segmento detto lama di luce. Questi ultimi, appunto, emettono un fascio laser che viene riflesso da uno specchietto rotante o da una lente cilindrata. La lama di luce quando viene proiettata su una superficie non piana deforma il suo profilo luminoso. Un software analizzando le variazioni del profilo, rispetto al riferimento interno della camera, ottiene le coordinare spaziali. In genere hanno un grado di definizione che può essere sub-millimetrica e sono strumentazioni che possono essere integrate entro una piccola camera di ripresa per gli oggetti di piccole dimensioni. Questi sistemi per ottenere un’immagine tridimensionale necessitano in genere di un movimento meccanico, dato da un sistema micrometrico di movimentazione del sensore, che nel caso del singolo spot sposta la testa di ripresa almeno lungo le due assi X e Y, in modo da ricoprire un’intera area. Questo consente di avere una buona resa poiché le traslazioni meccaniche sono controllabili con margini di incertezza estremamente ridotti, dell’ordine del centesimo di millimetro. Con la lama di luce laser, invece, la copertura di un’intera area rettangolare può avvenire con movimento rotatorio o traslatorio della testa di scansione, prodotto da una meccanica micrometrica che sposti la lama di luce in direzione del segmento di luce proiettato. Quindi i movimenti da imporre meccanicamente scendono da due a uno, con conseguente abbassamento dei costi per la realizzazione. In entrambi i casi si ha una rang map relativa ad un’area rettangolare la cui dimensione dipende dall’estensione del movimento. La portata delle distanze per 104 MANLIO TITOMANLIO l’acquisizione degli oggetti necessariamente non può essere elevata poiché un apparato a triangolazione per funzionare correttamente utilizza una distanza camerasorgente in genere dello stesso ordine di grandezza della distanza tra camera e superficie da misurare. Pertanto inquadrare aree a grande distanza dal sensore con una sorgente disassata rispetto alla camera vorrebbe dire porre sia la camera sia la sorgente ad una distanza tale da non essere gestibile. Questo metodo di acquisizione è tipico degli scanner impiegati nel Reverse-Engineering quindi ideali per le acquisizioni estremamente accurate e che in genere riguardano oggetti di piccole dimensioni. È certamente la categoria più indicata per la modellazione 3D di oggetti per la creazione di copie digitali e/o processi di prototipazione rapida accurati. I modelli in commercio sono di vario genere e comprendono sia scanner statici con una camera di scansione entro cui viene collocato l’oggetto, sia scanner trasportabili. Gli scanner a luce strutturata hanno una tecnologia di acquisizione a triangolazione ottica che a differenza degli altri non impiega luce laser24. Questi sensori utilizzano un apposito proiettore che produce un pattern luminoso (o sequenza di frange luminose) che viene rilevato da una camera digitale. La tridimensione dell’area coinvolta dalle frange luminose viene così calcolata senza nessun processo di movimento per cui si può parlare di un sistema a campo intero L’immagine prodotta dal proiettore è in sostanza una sequenza di strisce verticali bianche e nere. Quando la telecamera intercetta le strisce su una superficie non piana, registra un’immagine che viene distorta in base alla forma della superficie sottostante. Ogni transizione da bianco a nero delle singole frange, può avere un ruolo analogo a quello delle scansioni a lama di luce. Più transizioni si riescono ad avere nell’immagine e più fine sarà il campionamento spaziale della superficie con conseguente aumento della risoluzione. Per evitare ambiguità e distinguere meglio le forme, il sistema genera più pattern in sequenza secondo un opportuno codice. La codifica prevede un primo pattern con una sola transizione bianco/nero, costituito da una metà nera e una metà bianca. Dopo che la camera digitale ha acquisito questo primo pattern, il passo successivo prevede una proiezione con un’alternanza invertita delle frange (nero/bianco) e una nuova acquisizione. Il processo va avanti con un raddoppio progressivo del numero delle strisce verticali, fino a quando non arriva alla massima frequenza di alternanza nero e bianco. Il numero di immagini corrispondenti ai vari livelli cambia a seconda della risoluzione del sensore e della qualità dell’ottica. Queste possono essere analizzate in sequenza per estrarne l’informazione che serve ad identificare le singole transizioni proiettate. Gli ultimi modelli con questa tipologia di acquisizione, essendo corredati di telecamera, consentono, contestualmente al rilievo, di registrare anche gli aspetti relativi al colore. I campi dell’area di acquisizione sono regolabili da un minimo di un formato A6 ad un massimo di un A0 con una decrescita progressiva della risoluzione. Complessivamente consentono rilievi molto accurati ideali per la restituzione di forme che vanno da dimensioni minime a medie, quindi con una discreta versatilità ideale per un’applicazione sui beni culturali di piccole e medie dimensioni. La possibilità di avere precisioni sub millimetriche rende quindi particolarmente adatti a questa metodologia di acquisizione per oggetti e forme che devono poi essere restituiti tramite processi di prototipazione rapida per la reaNUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 105 Prototipo del busto-reliquiario con l’integrazione della mancanza 106 MANLIO TITOMANLIO Prototipo del busto-reliquiario integrato NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 107 lizzazione di copie di beni culturali. In generale le varie tipologie di scansione vanno quindi concepite come complementari tra loro dove per contesti e oggetti di grosse dimensioni sono più adeguati gli scanner distanziometrici, mentre, per la resa di dettagli accurata, sono decisamente più efficaci gli scanner che si basano sul principio della triangolazione. La realizzazione vera e propria della nostra replica del busto reliquario di San Gennaro è stata, come s’è detto, di fatto ottenuta tramite processi che fanno uso delle tecnologie per la prototipazione rapida. Prototipazione rapida è un termine derivato dal mondo dell’industria per indicare un insieme di tecniche volte a realizzare un prototipo25. Per prototipo s’intende il primo oggetto di una serie. Quindi, a prescindere da come lo si realizza, il prototipo attiene alla fase di progettazione di un oggetto ed è finalizzato a sperimentare in una fase embrionale ciò che si vuole realizzare. Si tratta fondamentalmente della verifica di un’idea ed è una pratica che precedentemente all’era industriale era relegata nell’ambito del disegno e della modellazione manuale. In base agli obbiettivi del progetto la realizzazione di un prodotto ha necessariamente bisogno di sviluppare una serie di tipologie diverse di prototipi che, partendo da problemi di tipo concettuale, passa a quelli funzionali, poi tecnici fino alla realizzazione del prototipo definitivo o pre-serie26. Grazie allo sviluppo delle tecnologie oggi è possibile affrontare e ottimizzare tutte le fasi per la realizzazione di un prototipo in maniera nuova e molto più veloce attraverso un processo che, partendo da un modello matematico dell’oggetto da realizzare, consente in seconda battuta la sua realizzazione tramite tecniche automatizzate27. La prototipazione rapida si basa sulla gestione di un modello tridimensionale, prodotto tramite appositi software, i cui dati vengono comunicati direttamente ad una stampante tridimensionale che avvia la produzione dell’oggetto, con materiali differenti a seconda del tipo di prototipazione. Si tratta di un tipo di lavorazione che quindi si differenzia da altre in quanto procede per aggiunta di materiale, in genere applicate per piani o per strati, che si contrappone ai metodi di produzione classici come quelli che deformano plasticamente il materiale (stampaggio), oppure lo rimuovono (fresatura, tornitura), o lo aggregano mediante saldatura o lo formano partendo dal liquido (fusione)28. I vantaggi di un tale approccio sono indubbi, infatti, con questo tipo di tecnologia sono possibili elaborazioni di forme complesse ed eventuali correzioni in tempi notevolmente ridotti, avendo inoltre un pieno e diretto controllo di tutti i passaggi dal modello virtuale a quello fisico. La realizzazione di un oggetto tramite la prototipazione rapida prevede sempre una procedura che contempla quattro fasi: 1) la creazione del modello in formato STL; 2) la gestione del modello STL in preparazione alla stampa; 3) la stampa 3D mediante tecnologia di prototipazione rapida strato su strato; 4) la solidificazione della stampa e l’applicazione di finiture superficiali e/o tonalizzazioni. La prima fase per la realizzazione di una stampa tridimensionale consiste nella generazione del modello STL. Il file STL (Standard Triangulation Language To Layer) è uno standard grafico che si ottiene mediante algoritmi di calcolo finalizzati alla costruzione di una mesh, in cui, più fitta sarà la triangolazione, migliore sarà l’approssimazione di una superficie29. I modelli tridimensionali STL si possono ottenere in diversi modi: si possono generare mediante l’ausilio integrale di software CAD oppure modificando un pro108 MANLIO TITOMANLIO dotto esistente in altro formato. Un’altra modalità per la generazione dei file STL può avvenire mediante tecniche di ingegneria inversa, ossia partendo da modelli numerici reali ottenuti tramite processi di scansione tridimensionale. Durante la creazione dei file STL è importante evitare di commettere errori che possono essere di diversa natura. Si possono, infatti, generare discontinuità nel verso dei triangoli per cui gli stessi presentano differente orientamento generando rugosità superficiali sul pezzo finito. Nei casi in cui si ricorre spesso ad operazioni booleane si possono verificare problemi di sovrapposizione (overlapping) dei triangoli, che risultano parzialmente o completamente sovrapposti30. Altri errori che vanno evitati sono la presenza di fori ovvero superfici non chiuse dai triangoli e la presenza di contorni imperfetti (Bad contours). In quest’ultimo caso i triangoli, per effetto di una errata scelta della tolleranza e delle caratteristiche della superficie, risultano discontinui e pertanto si deve ricorrere a una operazione di ricucitura (stitching), ossia la superficie o una parte di essa deve essere corretta in modo da far combaciare i lati dei triangoli. Una volta generato il file STL si deve quindi verificare che sia esente dagli errori sopracitati. Il controllo si realizza attraverso software dedicati, coi i quali oltre a individuare e correggere gli errori presenti, si possono progettare i supporti per le parti a sbalzo, si può dare lo spessore necessario alla resa migliore dell’oggetto, orientare gli oggetti (operazione che può influenzare fortemente il risultato finale), effettuare modifiche ed eseguire lo slicing, cioè generare le ‘fette’ che sovrapposte le une alle altre daranno vita al solido finale. Lo slicing è un’operazione critica perché determina le caratteristiche superficiali dell’oggetto finito. Questa operazione può essere di tipo uniforme oppure adattativo quando lo spessore delle slice (letteralmente: fette) è variabile e lo si sceglie in funzione della curvatura della superficie al fine di adattare meglio la geometria finale, riducendo l’effetto staircase (le superfici inclinate sono approssimate da scalini). In pratica è la procedura che permette di generare i Voxel31. Data la particolare metodologia di lavorazione, la superficie finale del pezzo presenterà un aspetto a gradini. È evidente che a differenti spessori delle slice corrisponderanno differenti risultati finali, in particolare per le superfici curve. Il risultato finale è quello di avere una superficie a gradini, effetto denominato staircase cioè letteralmente gradinata, o scalinata32. Una volta preparato il modello, attribuendo le caratteristiche necessarie, viene poi inviato alla stampante tridimensionale per la produzione del modello fisico. La stampa 3D consiste praticamente nell’inviare alla macchina il modello STL, o le slice, a seconda del modello di prototipatrice, che procede con la stampa per strati di minimo spessore in modo da garantire un alto livello di dettaglio della resa finale. Questa fase può durare alcune ore in funzione delle dimensioni dell’oggetto e in particolare per l’altezza. Pertanto un’accurata scelta dell’orientamento è importante sia per la finitura superficiale sia per ridurre i tempi. A tal proposito bisogna sempre assicurarsi se il prototipo possa contenere o meno la superficie nominale. Se il profilo nominale si trova all’interno del prototipo, con una successiva figura di finitura, nel caso non siano rispettate le tolleranze indicate, il prototipo può essere accettato. Se il profilo nominale è all’esterno del profilo, e le tolleranze lo permettono, il prototipo può essere considerato buono33. La fase finale della stampa 3D prevede una serie di operazioni manuali il cui scopo è togliere l’oggetto stampato dalla macchina, liberarlo dal supporto o dal maNUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 109 teriale in eccesso ed eventualmente operare ulteriori finiture34. In alcuni casi, a seconda delle esigenze, si possono eseguire delle operazioni di tonalizzazione finale per ottenere un prodotto con caratteristiche cromatiche adeguate, allorché tali caratteristiche non siano raggiungibili solamente con le materie prime impiegate dalla stampante tridimensionale35. Attualmente varie casi produttrici hanno sviluppato tecniche diverse di prototipazione rapida. In genere vengono classificate in base allo stato di aggregazione o consistenza dei materiali impiegati e a seconda del tipo di procedura: vi sono le tecniche che prevedono l’uso di liquidi e possono essere solidificati o tramite processi di fotopolimerizzazione (mediante una luce laser o ultravioletta) o con stampe a getto. Altra categoria che trova largo impiego nel mondo industriale è quella che prevede l’impiego di materiali solidi, in genere termoplastici, che vengono fusi e poi creano forme attraverso processi di estrusione o incollaggio. In fine vi sono quelli che fanno uso di polveri di vario genere la cui aggregazione può avvenire o tramite un legante o tramite processi di sinterizzazione. Le principali metodologie sono state per praticità sintetizzate nello schema sottostante36. Tecniche di prototipazione rapida Materiali liquidi Materiali solidi Materiali in polvere Fotopolimerizzazioni Incollaggio sinterizzazione Un componente Fotopolimerizzazioni con laser La tecnica della Stereolitografia La tecnica Lamined object manifacturing La tecnica Laser sintering Fotopolimerizzazioni con UV La tecnica Polyjet La tecnica Laser engineered net shaping Stampe a getto Estrusione Un componente e un legante La tecnica Multi Jet Modelling La tecnica Fused deposition modelling La tecnica 3D Printing La tecnica Selective laser melting Per realizzare la replica del busto-reliquiario di San Gennaro, una volta effettuata la scansione con un laser scanner a triangolazione ottica37, si è quindi realizzato un prototipo in scala mediante la tecnica 3D printing con una stampante tridimensionale Zcorporation 650 3D Printer che fa uso di polveri di gesso38. La tecnologia di questo dispositivo si basa fondamentalmente su un sistema “layer by layer” di costruzione del prototipo. Il modello digitale è stato, quindi, elaborato dal sistema di stampa ZCorp e scomposto in sezioni ognuna dello spessore di singolo layer di stampa pari a 0,085 mm, consentendo quindi un’alta affidabilità nella resa del modello fisico. Il modello numerico reale ottenuto dalla scansione, dopo essere stato sottoposto a necessari trattamenti preliminari alla stampa tridimensionale, è stato poi gestito da appositi software che controllano il sistema di funzionamento della stampante. Il sistema di funzionamento del processo di stampa è riassumibile in una serie di fasi (si veda lo schema del sistema di funzionamento del processo di stampa 3D). Inizialmente la stampante 3D distende, attraverso un rullo (L), uno strato sottile di polvere proveniente dalla camera di ca110 MANLIO TITOMANLIO rico del gesso (N). Successivamente viene rilasciato dalle testine di stampa (M) uno strato di collante (Q) unicamente nelle zone che devono essere create. Terminate queste due fasi il pistone, che controlla il tavolo di lavoro, si abbassa facendo spazio al prossimo strato, la polvere di gesso in eccesso viene raccolta nel canale di caduta del gesso (P) ed il processo è ripetuto sino al completamento del modello all’interno della camera di costruzione (O). Una volta terminato il modello (R), questo è sostenuto dalla polvere di gesso che non è stata oggetto di stampa. Per rimuovere il prototipo dalla stampante è sufficiente elevare il pistone che controlla il piano di lavoro e asportare la polvere di gesso non incollata. Il consolidamento effettuato dalla macchina non genera comunque pezzi capaci di resistere a sollecitazioni meccaniche di tipo medio. Di conseguenza le superfici devono necessariamente essere sottoposte a trattamenti finali, applicati a spruzzo o a pennello, capaci di migliorarne la resistenza e che nel caso specifico sono stati effettuati con una resina epossidica. Durante la fase di elaborazione dei dati informatici del nostro modello numerico reale, inoltre, si è elaborata una mancanza in corrispondenza dell’orecchio destro della scultura del quale è pure stata effettuata una ricostruzione tridimensionale. In questo modo è stato possibile simulare un danno al quale si è ovviato compiendo un’integrazione altamente reversibile mediante l’impiego di un prototipo realizzato con il processo di stampa tridimensionale. Un’operazione di rilievo tridimensionale con metodi che per di più non comportano rischi per le opere d’arte, non solo rappresenta un tipo di documentazione più significativa ma, grazie alla prototipazione rapida, può divenire un fondamentale strumento per eventuali interventi di carattere filologico quando si deve effettuare un’operazione d’integrazione di parti mancanti. Il lavoro qui presentato ha, quindi, il proposito di tracciare una nuova metodologia operativa volta a considerare la Cappella del Tesoro di San Gennaro un luogo ideale per la sperimentazione e lo studio di nuove tecnologie impiegate per la conservazione dei nostri beni culturali. Nel campo del restauro, o in qualunque altro tipo di studio di carattere scientifico effettuato sulle opere d’arte, diviene infatti essenziale, specialmente in fase preliminare, poter acquisire dati sempre più elevati sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. L’impiego di aeromobili a controllo remoto equipaggiati con metodi di telerilevamento, come il ricorso alle tecnologie di scansione ottica e/o ai metodi di prototipazione rapida può contribuire a migliorare e rendere più efficiente il lavoro del restauratore dei beni culturali prospettando soluzioni fino ad oggi inedite e che si collocano pienamente all’interno di una cultura della conservazione dei beni culturali. NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 111 L’utilizzo degli APR, come per molte altre innovazioni tecnologiche, ha visto i suoi primi impieghi in ambito militare soprattutto a partire dalle due guerre mondiali allo scopo di effettuare bombardamenti e/o rilievi territoriali senza rischi per il pilota. 2 Le organizzazioni preposte al regolamento della navigazione aerea sono l’ICAO, ovvero l’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile, e l’ENAC, ovvero l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile. La prima è un’agenzia autonoma delle Nazioni Unite incaricata di sviluppare i principi e le tecniche della navigazione aerea internazionale, delle rotte e degli aeroporti; mentre la seconda è l’autorità italiana di regolamentazione tecnica, certificazione e vigilanza nel settore dell’aviazione civile sottoposto al controllo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. 3 La campagna di rilievo è stata effettuata sia all’interno che all’esterno della chiesa di San Paolo proprio per verificare la corrispondenza tra i danni all’interno e quelli rilevabili sul tetto, specialmente per quanto concerne il degrado generato dalle infiltrazioni d’acqua meteorica successivamente ai fenomeni sismici. 4 L’APR in questione è un multirotore esacottero con un raggio operativo fino a duecentocinquanta metri dall’operatore, con un’autonomia di circa quaranta minuti e una portata di peso massimo al decollo di circa sette chilogrammi. 5 Cfr. P. Lèvy, Qu’est que le virtuel, Paris, 1995, traduz. italiana a cura di M. Colò e M. Di Sopra, Il virtuale, Milano 1997, pp. 1-15. 6 Sulle potenzialità offerte ai beni culturali dalle nuove tecnologie si veda il testo a cura di G. Coppola, M. Marazzi e L. Repola, Tecnologia scanner applicata ai Beni Culturali. Analisi monitoraggio restauro. L’esperienza a Monastiraki e in altri luoghi del Mediterraneo, Napoli 2009. 7 Le norme relative alla riproduzione dei beni culturali sono disciplinate dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, articolo 107, sue proroghe, modificazioni e integrazioni, cfr. A. Ferretti, Il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, Commento organico al D.Lgs. 22 gennaio2004, n.42, Aggiornato al D.P.R. 139/2010 (procedimento sem1 112 MANLIO TITOMANLIO plificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità), Napoli 2010, pp. 144-145. 8 Sul busto-reliquiario si veda principalmente di P. Leone de Castris, il busto reliquiario, in Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro, catalogo della mostra a cura di P. Jorio e C. Paolillo, (30 ottobre 2013-16 febbraio 2014) Milano 2013, pp. 30-41; Idem, Il busto-reliquiario di San Gennaro, in San Gennaro patrono delle Arti, conversazioni in cappella, Napoli 2012, pp. 9-17; Idem, in Restituzioni 2008, catalogo della mostra (Vicenza, 29 marzo-29 maggio 2008), Venezia 2008, pp. 204-213; L. Morigi, in Relazione di restauro, 31-122007; V. Cerino, San Gennaro. Un Santo, un voto, una cappella, Napoli 2003, pp. 19, 27, 139-143; C. Catello, Argenti antichi. Tecnologia, restauro, conservazione, rifacimenti e falsificazioni, Sorrento-Napoli 1994, pp. 14-15, 40; E. e C. Catello, La cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli 1977, pp. 91-93, 113-118. 9 Si tratta quindi di una metodica che è nel pieno rispetto dei principi che dovrebbero caratterizzare qualunque intervento di restauro; cfr. C. Brandi, Teoria del Restauro, Torino 1963, pp. 29-76; H. Jedrzejewska, Principi di restauro, Firenze 1983, pp. 7-14. 10 Per sistemi tradizionali e passivi invece s’intendono i sistemi di acquisizione che si limitano ad osservare una scena inerte convogliandola in un sistema ottico o optoelettronico in grado di estrarre dalla visione informazioni di carattere geometrico, quali la topografia e la fotogrammetria; cfr. G. Guidi, M. Russo e J. Beraldin, Acquisizione 3D e modellazione poligonale, Milano 2010, pp. 10-14. 11 La quantità di punti rilevabili al secondo può essere anche nell’ordine delle migliaia e varia in base alla tipologia e al modello di scanner. 12 La procedura prevede due fasi: prima la determinazione del sistema di riferimento e successivamente la registrazione delle nuvole con operazioni di rototraslazione nello spazio. Per ogni punto acquisito vengono rilevati una serie di valori: la distanza tra il centro di presa dello strumento e l’oggetto colpito dalla luce emessa (d), l’angolo di inclinazione (φ) del raggio emesso rispetto all’asse verticale dello strumento e l’angolo azimutale (θ) del raggio emesso rispetto ad un asse orizzontale preso come riferimento; cfr. L. Repola, Corso di Diagnostica Strumentale, materiale didattico del corso di laurea in Conservazione e Restauro, presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli studi Suor Orsola Benincasa, Napoli 2008, p. 5. 13 Per il rilievo delle superfici esistono scanner statici e scanner mobili. Gli scanner statici, in genere per rilevamenti di alta precisione, hanno una posizione fissa e sono integrati entro “camera di scansione” dove le acquisizioni avvengono nel tempo e secondo un range strumentale. Gli oggetti vengono collocati su un piatto rotante, all’interno della camera di scansione, che attraverso una rotazione di 360° lungo l’asse delle Z consente il completamento della scansione. Gli scanner mobili o trasportabili, sono in genere di dimensioni ridotte e posizionabili su treppiedi per campagne di rilevamento che prevedono acquisizioni da posizioni diverse rispetto all’oggetto. 14 In questa fase il trattamento dei dati prevede una serie di operazioni direttamente effettuate sulla nuvola di punti per la creazione di un modello tridimensionale dell’oggetto scannerizzato. Sostanzialmente sono una serie di operazioni riassumibili nei seguenti punti: ricerca di punti noti all’interno della scansione in genere costituiti da marker o entità geometriche di vario tipo le cui dimensioni sono note; filtratura, tramite appositi algoritmi (soothing), della nuvola di punti per l’eliminazione degli errori di acquisizione (outliers e gross errors) e del rumore presenti; eliminazione dei punti non contestualmente legati all’oggetto (ad es. punti di sfondo o di primo piano); allineamento automatico di modelli tridimensionali adiacenti; eventuale georeferenziazione delle nuvole di punti in un sistema di riferimento esterno noto a priori; utilizzo di procedure di triangolazione rigorosa a modelli indipendenti per un miglior allineamento delle scansioni laser; eventuale colorazione della nuvola di punti per mezzo delle immagini realizzabile negli scanner integrati con una fotocamera o interna o esterna alla strumentazione; cfr. L. Bornaz, Il trattamento dei dati generati da laser a scansione, software per l’estrazione di informazioni da modelli tridimensionali, in Tecnologia scan- ner applicata ai Beni Culturali. Analisi monitoraggio restauro. L’esperienza a Monastiraki e in altri luoghi del Mediterraneo, op.cit., p. 23. 15 Modelli numerici definiti da maglie poligonali troppo fitte rischiano, laddove non è richiesto, di creare oggetti non gestibili dal punto di vista informatico. È bene quindi trovare il giusto compromesso tra il tipo di lavoro che si deve realizzare e una soluzione gestibile dai software tridimensionali. 16 Particolarmente funzionali allo scopo sono i sistemi di scansione muniti di una camera digitale o comunque che possono essere integrati con una fotocamera calibrata con lo strumento. 17 Le specifiche di distanza e il grado di approssimazione variano principalmente in base alla tipologia di acquisizione e al modello di strumentazione. Le indicazioni qui riportate quindi vogliono essere solo un riferimento di massima per le strumentazioni disponibili e bisogna tener presente che negli ultimi anni si registrano sempre nuovi modelli in continua evoluzione; cfr. G. Guidi, M. Russo e J. Beraldin, Acquisizione 3D e modellazione poligonale, op. cit., pp. 76-114. 18 I sistemi a raggi laser consistono in apparecchiature in grado di emettere un fascio di luce coerente, monocromatica (cioè con tutti i quanti di energia elettromagnetica che la compongono in fase tra loro) e concentrata in un raggio rettilineo estremamente collimato attraverso il processo di emissione stimolata. Il termine L.A.S.E.R. è l’acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission of Radation (Amplificazione della Luce per Emissione Stimolata da Radiazione), cfr. Dizionario del restauro e della diagnostica, a cura di C. Giannini, Fiesole (Fi) 2000, p. 101. 19 Le cause ottiche risiedono essenzialmente nel fatto che la luce laser, emessa come una radiazione coerente, una volta riflessa da una superficie ad una certa distanza, genera contributi di luce con lunghezze diverse e quindi una serie d’interferenze nel segnale di ritorno che originano un’intensità luminosa irregolare. Dal punto di vista elettronico i problemi si possono creare nel sistema di blocco di stima del ritardo. Il sistema prevede un contatore che è attivato dall’impulso trasmesso e fermato da quel- lo ricevuto. In caso di un ritorno con rumore questo sistema può non riconoscere la soglia del segnale di ritorno; cfr. G. Guidi, M. Russo e J. Beraldin, Acquisizione 3D e modellazione poligonale, op. cit., pp. 97-98. 20 Per avere un’idea indicativa, la scansione con questo tipo di strumenti genera un fascio laser con angolo conosciuto, garantendo con una divergenza del raggio laser pari a 0, 25mrad, un passo angolare di 0,01 gradi, una risoluzione angolare di 0,0025 gradi e una risoluzione delle misure di 5 millimetri. 21 Cfr. Sistemi a scansione per l’architettura e il territorio, Firenze, 2007, pp. 52-56. 22 Per un approfondimento di questi sistemi si veda G. Guidi, M. Russo e J. Beraldin, Acquisizione 3D e modellazione poligonale, op. cit., pp. 99-102. 23 Ibidem, pp. 78-87. 24 Ibidem, pp. 87-95. 25 Il termine corretto sarebbe prototipizzazione rapida, anche se il termine utilizzato correntemente è prototipazione rapida o in inglese rapid prototyping; cfr. A. Gatto e L. Iuliano, Prototipazione rapida. La tecnologia per la competizione globale, Milano 1998, p. 1. 26 I prototipi concettuali per la produzione di un oggetto comprendono la valutazione della forma, le verifiche di montaggio, l’analisi delle difficoltà tecnologiche, l’analisi a sollecitazioni particolari. I prototipi funzionali vengono realizzati per una valutazione delle prestazioni ed eventualmente ottimizzarle. I prototipi tecnici presentano materiali molto simili a quelli finali e sono finalizzate a quei casi in cui il prodotto deve essere inserito in un ciclo di lavorazione per cui si ottimizzano le tecnologie di fabbricazione. Il prototipo pre-serie è un prodotto definitivo in cui si compie una valutazione finale e sono ammesse poche modifiche. 27 Lo sviluppo delle prime macchine di prototipazione rapida è dovuto a Charles W. Hull, che per primo realizzò una macchina di tipo SLA-1 (StereoLitographic Apparatus) alla fine degli anni Ottanta. Successivamente gli studi sono avanzati così da giungere a generazioni successive della SLA e messa a punto di tecnologie differenti quali LOM (Laminated Object Manufactoring), SLS (Selective Laser Sintering), FDM (Fused Deposition Mode- ling), LENS (Laser engineered net shaping); cfr. A. Gatto e L. Iuliano, Prototipazione rapida. La tecnologia per la competizione globale, op. cit., p. 3. 28 Alcuni nomi alternativi della prototipazione rapida sono: fabbricazione stratificata, fast prototyping, rapid manufacturing, layer by layer manufacturing o layered manufacturing, solid free form fabrication e material incress manufacturing. 29 Lo standard STL fu sviluppato inizialmente dalla “3D Systems” ed è attualmente lo standard accettato da quasi tutti i sistemi di prototipazione rapida in commercio; cfr. A. Gatto e L. Iuliano, Prototipazione rapida. La tecnologia per la competizione globale, op. cit., pp. 188-201. 30 Per operazioni booleane s’intendono delle procedure che permettono di creare solidi complessi a partire dalle primitive solide mediante tre operazioni di trasformazione: unione, sottrazione e intersezione; cfr. M. Limoncelli, Il restauro virtuale in archeologia, Roma 2012, p. 123. 31 Voxel è il volume elementare (l’analogo del pixel in tre dimensioni) e cioè il più piccolo elemento distinguibile in uno spazio tridimensionale. Ogni voxel sarà individuato dalle coordinate X, Y, Z di uno dei suoi otto angoli o dal suo centro; cfr. A. Gatto e L. Iuliano, Prototipazione rapida. La tecnologia per la competizione globale, op. cit., pp. 229-230. 32 Ibidem, pp. 184-201. 33 Ibidem, pp. 119-120. 34 La fase di estrazione può essere semplice, nel caso in cui si tratti di rimuovere il prototipo dalle polveri in eccesso, o leggermente più complicata, come nel caso della tecnica PolyJET, dove si ricorre a un idro-pulitrice che rimuove il liquido di supporto. In altri casi si può procedere a un miglioramento delle superfici e della meccanica del prodotto ricorrendo a trattamenti superficiali di varia natura. 35 Vi sono poi una serie di procedure per ottimizzare la qualità della stampa. Prima di tutto è importante la scelta di un orientamento piuttosto che di un altro, perché questo permette di avere risultati differenti. Ottimizzare la fase di stampa quindi consiste nello scegliere la corretta orientazione per tutti i corpi messi sulla tavola di lavoro. Nel caso in cui si debba disporre per la stampa un solo pezzo, l’orientamento è un’operazione abbastanza semplice e non comporta l’obbligo NUOVE TECNOLOGIE APPLICATE ALL’ARTE 113 di tempi brevi durante il processo di stampa. Inoltre bisogna cambiare l’angolo che una superficie forma con la base di lavoro quando aumenta o diminuisce la rugosità a causa dell’aumentare dell’effetto staircase. Quando invece si devono disporre più pezzi, oltre a tenere sotto controllo quanto appena esposto, si deve cercare di ridurre il più possibile il tempo di lavorazione. In fine si deve tener presente che una disposizione con i pezzi lungo l’asse Y, ha un tempo di costruzione molto superiore a quello per realizzare gli stessi pezzi disposti lungo l’asse X della macchina. Per cui è molto importante valutare preventivamente l’orientazione ottimale e tenere presenti le disposizioni possibili. Tra le orientazioni possibili è sempre meglio scegliere quelle che presentano altezza inferiore. È inoltre importante disporre sulla tavola di appoggio pezzi che presentano altezza il più possibile omogenea; Ibidem, pp. 134-135. 36 La tabella riportata sintetizza la descrizione delle singole tecniche descritte nel testo di A. Gatto e L. Iuliano, Prototipazione rapida. La tecnologia per la competizione globale, op. cit., pp. 37-136. 114 MANLIO TITOMANLIO La scansione tridimensionale del busto-reliquiario di San Gennaro è stata effettuata per il Museo del Tesoro di San Gennaro al fine di agevolare la lavorazione della replica curata da Armando Arcovito; cfr. A. Arcovito, Il busto allo specchio in Il tesoro di Napoli. I Capolavori del Museo di San Gennaro, op. cit., pp.42-49. 38 La stampa tridimensionale è stata effettuata presso i laboratori del gruppo TRYECO 2.0 di Ferrara. Per praticità si è eseguito il test di prototipazione su un modello leggermente più piccolo delle dimensioni reali e considerando soltanto la testa e parte del collo della scultura per un volume di circa 23x20x19 cm. Questo modello della stampante 3D della Zcorporation è caratterizzato dal fatto che impiega una miscela di polveri a base di gesso idrato ed emiidrato mantenute insieme da un collante di natura ureica spruzzato mediante una testina simile a quelle presenti nelle stampanti a getto d’inchiostro. 37 Stefano Causa San Gennaro messo a fuoco. Materiali per una storia fotografica della Cappella del Tesoro A Mimmo Jodice, per il suo ottantesimo compleanno Questo pomeriggio di maggio accoglie l’ultima chiacchierata sulla Cappella del Tesoro. Ormai non mi stupisco più che gli studenti superino largamente quanti altri avrebbero potuto venire (piccoli e grandi docenti compresi). Da mesi abbiamo posto l’assedio al monumento e beato chi ha partecipato alle operazioni sia pure da spettatore. Un architetto in senso stretto ci ha fatto idealmente arrampicare sulla cupola. Uno storico in senso largo ha sceverato alcune ricadute antropologiche di questo ambiente nella cultura napoletana. Altri hanno passato in rassegna bronzi, rami, argenti e tessuti. S’è registrata una digressione verso nuove sperimentazioni nel monitoraggio dei manufatti. Una giovane studiosa di cose moderne ci ha raccontato di come rifulgesse l’ambiente in pieno Ottocento negli acquerelli di un Gigante, colto nella veste di storico d’arte. Con me facciamo otto e, come si dice volgarmente, non ci siamo fatti mancare nulla. Rispetto alla prima tornata (2012), ideata come ouverture ai temi principali sulla Cappella del Tesoro, dall’arte alla fortuna critica del monumento, in questo secondo ciclo di relazioni ho deciso di raddoppiare gli interventi, invitando studiosi di età e retroterra diversi a ragionare di tecniche e materiali, salvo due casi, incluso il mio di taglio più generalista concernente non le opere, ma propriamente le loro riproduzioni moderne. Per un discorso sulla Cappella fotografata, invece, come set di raccoglimento e miracoli sarà per un’altra occasione. Nessun dubbio che, in quel caso, si dovrà ripartire dalle inquadrature del vano affollato di popolo impetrante che Mimmo Jodice scelse per il volume Chi è devoto (1974), un viaggio con Roberto De Simone che, a quattro decenni dalla pubblicazione, si tramanda come un atto di cultura civile. Una di quelle rare occasioni in cui andarono congiunte intelligenza e avventura, indagine sociale, sensibilità figurativa, ricerca rispettosa sul campo e consapevolezza delle proprie radici1. Qualcosa di simile, in altro contesto, al Vangelo secondo Matteo di Pasolini (1964) o alla Buona Novella di Fabrizio De André (1970). Sebbene non sia presente, non so a chi avrei potuto dedicare questa parlata se non a Jodice che è il primo motore di quanto, corretto o fuori controllo, proverò a dire. Intanto condividerò tre citazioni che, per il retrogusto paradossale ci accompagneranno nel corso della conversazione. La prima l’avrei scelta volentieri come titolo della mia chiacchierata: “non si può sostenere di aver veramente viSAN GENNARO MESSO A FUOCO 115 sto qualcosa finché non lo si è fotografato”. Efficace. Inevitabile. Questa frase che, nel 1901, Zola diceva a Luigi Capuana, me la figuro su una maglietta o su un muro. Come quest’altra, del fotografo americano Emmet Gowin (nato nel 1941): “La fotografia è uno strumento per occuparsi di cose che tutti conoscono, ma alle quali non badano”. L’ultima, più difficile da memorizzare ma con cui entriamo nel vivo del discorso, è di Walter Benjamin e risale al 1935: “Rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima… Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata all’immagine (…)”2. Rolof Benny Cristo velato marmo Napoli, Cappella Sansevero Fotografi e storici d’arte Sono sicuro che, nella mia responsabilità di curatore del ciclo di incontri, non avrei potuto sperare in un parterre di relatori più qualificato. Per questo sono a disagio nel conferire quando l’uditorio è prostrato e, per non rincasare deluso, si aspetta una chiusa a effetto, un ultimo fuoco d’artificio. Ma non ho in serbo nulla di questo. Anzi, siate clementi quando scoprirete come – più che di nessi tra gli interventi calibrati che mi hanno preceduto – io sia carico di quesiti da girarvi. Come ritorna l’immagine della Cappella dalle campagne fotografiche enciclopediche di fine Ottocento? Come si è differenziato l’apporto alla conoscenza del vano quando i fotografi hanno affiancato gli studiosi? E in che cosa la collaborazione avrebbe condizionato il nostro avvicinamento al maggior Teatro Sacro della città?3 Insomma: vorrei fare qualche osservazione sul modo in cui è stata fotografata la Cappella del Tesoro nell’ultimo secolo. Non parlerò di opere d’arte ma di foto di opere d’arte. E lo farò davanti agli originali provando a non dimenticare dove finisca la riproduzione e dove cominci l’oggetto. Le foto ci faranno scoprire ciò che non sapevamo di certi capolavori. O ci parleranno piuttosto di chi ha scattato la fotografia. In ogni caso guadagneremo qualcosa. Il fatto è che il nostro sguardo su San Gennaro ha mutato pelle proprio sulla spinta ordinatrice del mezzo fotografico. E l’affermazione vale per altri monumenti. Non sarebbe meno stimolante allungarci fino alla Certosa di San Martino dove, nei primi anni Settanta, Jodice si sarebbe educato alle sfumature del bianco nero. A quell’icastica nettezza del particolare che si chiarirà come contrassegno di stile4. Da qui parte il percorso che lo porterà, vent’anni dopo, a studiare le vedute dei quindici marmi di Canova del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo: un punto di svolta nella vicenda di Jodice e nella fortuna moderna dello scultore veneto5. Indizi di un mutamento c’erano già stati a Napoli. Ma è con questo portfolio canoviano di Jodice che il mestiere di riprendere le opere d’arte, con le sue regole e codici rompe gli argini. Salvo eccezioni, il contributo blandamente positivistico che i responsabili dei gabinetti fotografici di Soprintendenza avevano messo a disposizione degli storici d’arte si carica di nuove ambizioni. Lo sguardo si fa scandaglio autonomo. Persino alternativo al testo, come nelle sequenze della Ebe, che non mostrerò perché ci porterebbero lontano. Ma una volta fuori di qui, tempo e curiosità permettendo, controllate in rete le foto del panneggio della scultura di Canova. Dietro quelle immagini si deve presumere un addestramento di Jodice al mestiere archeologico, a partire dai marmi di collezione Far116 STEFANO CAUSA SAN GENNARO MESSO A FUOCO 117 nese del Museo Nazionale di Napoli, messi a fuoco nella seconda metà degli anni Ottanta6. Alla fine, vien fuori uno scultore che è la somma di uno scultore e un fotografo. Canova più Jodice. Jodice più Canova. Saggiate il confronto tra il Canova di Jodice e il Canova di Aurelio Amendola (nato nel 1938). Ogni volta che un fotografo lo ritraduce, reinventandolo nella sua lingua, Canova s’inabissa o rinasce7. Così lo scrittore Gianni Celati (1937) importa la Certosa di Parma o l’Ulisse nel proprio stampo espressivo. Come avvertiva Eugenio Battisti commentando le foto di Jodice di alcune sculture di Michelangelo di epoche diverse, “per distruggere l’immagine idolo, che è divenuta tale proprio attraverso la riproduzione fotografica, c’è un solo mezzo, ed è quello di reinterpretarla fotograficamente, con un forte tasso di diversa arbitrarietà” (corsivo mio)8. Cesare Barzacchi Apollo e Dafne particolare dalla copertina del catalogo della Galleria Borghese di Roma, 1954 Una storia fotografica della storia dell’arte meridionale Addentrarsi nella fortuna fotografica di un monumento equivale a farne la storia recente. Sullo sfondo si delinea l’ormai vecchia questione, sempre da riconsiderare, del tiro alla fune tra storici d’arte e fotografi. La fune è in tensione se i contendenti sono di pari forza. Ma è fatale che uno dia uno strappo: e se è il fotografo, lo storico inciampa… Bisognerà chiedersi, allora, quando i fotografi si siano svincolati dal ruolo di badanti degli storici d’arte. Interrogarsi su quanto lo smarcamento abbia pesato negli studi. Isolare il momento in cui l’obiettivo sul patrimonio si è mutato, da reportage vicario in interpretazione autonoma: questo (e molto altro) c’interessa capire. Per quanto riguarda il panorama napoletano, io credo che la transizione si sia consumata negli anni Settanta con un pugno di titoli (in seguito le linee delle rispettive competenze appariranno marcate). La Cappella del Tesoro offre la visuale migliore per documentare quel salto di livello ora che una generazione di nativi digitali sta ripensando alla tradizione degli studi meridionali, avendo maturato un rapporto col mezzo fotografico molto diverso dai maestri che hanno aperto loro le strade. Quello dei fotografi storici d’arte resta un tema vasto perché non lo si affronti che nuotando a pelo d’acqua. Ma un libro intitolato Storia fotografica della storia dell’arte meridionale ci costringerebbe a rivedere certe rendite di posizione. Per ora mi accontento di palleggiare sotto rete, partendo dalla Cappella del Tesoro. Che la mia trattazione cada dopo relazioni così asseverative non mi conforta. Se vi chiedessi di raccontarla a chi non la conosca, verrebbero fuori altrettante visioni dell’articolata ricchezza di questo sacrario barocco. Perciò ho deciso anch’io di giocare al fotografo col passatempo dell’arte. Anzi da fotografo (storico) d’arte. Per quanto asino due volte. Dai sorrisi d’assenso vedo che avete riconosciuto nella verticalizzazione di toppe bianche e nere il pavimento su cui ci troviamo. Giorni fa ero corso a fotografarlo nella speranza di ingannarvi, trasformandolo in un rompicapo alla Escher. Isolati bisbigli mi fanno capire inoltre che, nelle dita storte e nel corpo della giovane focomelica, qualcuno abbia individuato al volo un passo dal rame col San Gennaro che guarisce gli storpi del Domenichino. Nella prima immagine si compone un divertissement ininfluente alla comprensione dell’oggetto (si tratta, semmai, d’una sollecitazione a seguire il disegno di questo magnifico pavimento che di solito calpestiamo senza guardare). 118 STEFANO CAUSA SAN GENNARO MESSO A FUOCO 119 La presenza delle cose Nella seconda delle foto che ho proposto mi sono comportato, invece, da storico che intenda ribadire come il lascito di Domenichino in San Gennaro costituisca un serbatoio di invenzioni per la cultura napoletana. Lo sappiamo, penserete! Non ne sono sicuro. A lungo si è sottostimata l’importanza del Domenichino nell’ambiente locale; ed è tanto più grave che lo si continui a fare. Capita di leggere di questo pittore bolognese come di una negativa rovesciata del naturalismo caravaggesco. Però se si va a vedere, il Domenichino è pieno di strappi naturalistici accomodati finché si voglia, ma pur sempre tali. Saltando tra l’uno e l’altro rame sugli altari si incoccia nel dettaglio della donna che alza le braccia. Per quanto con altro significato, il gesto ricorda quello analogo nella Sepoltura di Cristo, uno dei rari enunciati parentetici del Caravaggio maturo. Credo l’unico retorico, reperibile nella sua storia. Con questo non dico che Domenichino sia un pittore caravaggesco. Ma diffido di vie d’uscita del tipo: Domenichino classicista, Caravaggio naturalista. Sono formule di massima utili a trarsi dagli impicci. Ma poi lo sguardo deve addentrarsi, accettando le problematicità quando ci siano. Divisioni del genere sono meccaniche, insulse, e di solito gli artisti non sono così scemi. Non è che un esempio. Ma mi preme ribadire la prima di molte ovvietà. Nessuno s’illuda di varcare questa soglia con uno sguardo vergine. E se lo sguardo sulle cose non è mai innocente, l’accostamento al Tesoro è regolato da schemi visivi modellatisi con l’ausilio di letture autorevoli e soprattutto grazie a quei copiloti degli studiosi che, con crescente autonomia sono divenuti i fotografi negli anni Settanta (ultima ansa cruciale della fotografia napoletana). Il Grande Mistificatore Qualche mese fa in un piazza del Vomero, un uomo è uscito dalla stazione della funicolare, ha disceso alcuni gradini ed è caduto a terra morto. Fino a che non è stato coperto da un lenzuolo, nessuno lo guardava. Ma tutti lo fotografavano. Spesso osservo le persone dinanzi ai quadri. Ormai si preferisce fotografare più che vedere. Un tempo erano azioni conseguenti. Oggi alternative. Dice Oliviero Toscani: “crediamo attraverso le foto: la verità è un’immagine o un video. Perfino la realtà al confronto è meno reale”9. Il rimedio sarebbe dimenticare a casa ogni apparecchio. Ma si sa che è impossibile. D’altronde persino una foto amatoriale, quando non pretenda di sostituirsi allo scrutinio diretto, fornisce una maggiore sensazione di presenza delle cose. Talvolta succede di avere l’illusione che, in certe condizioni di luce, le fotografie girino meglio degli originali. Se la proviamo significa che l’operatore ha fatto uno, due passi al di là dell’opera. Il fotografo e storico d’arte Clarence Kennedy lo aveva capito fin dal 1937: “I have never been worried by charges… that the photographs are sometimes more beautiful than the originals, for in every case there is in my memory a clear recollection of the appearence of the work itself as it looked at the time the negative was made – far more lovely than any image on paper could ever be”10. Alcuni anni dopo André Malraux avrebbe riflettuto sull’uso, ai suoi tempi già diffuso, del dettaglio espressivo (le détail expressif) nella fotografia delle opere d’arte11. Ma delle possibilità dell’odierna comunicazione digitale cosa direbbe Kennedy?12 E Malraux stesso? A molti è successo di incontrare quel dipinto che si desiderava vedere da tempo e ammettere: me lo figuravo diverso! Riapriamo i due volumi sulla scultu120 STEFANO CAUSA ra in Italia del Sei e Settecento di Antonia Nava Cellini, usciti nei primi anni Ottanta soffermandoci sull’apparato iconografico selezionato per un testo che scorre, senza sussulti, per ambiti regionali13. In qualche caso la spettacolarità dell’immagine rema contro la leggibilità dell’opera. Accade per quella che è forse la scultura più famosa del Settecento. Il Cristo velato della Cappella Sansevero viene servito a tutta pagina da una inquadratura del canadese Rolof Benny (19241984) che sceglie una ripresa dal basso, annegando il marmo nel nero e annullando lo spazio intorno in un effetto da odissea nello spazio. Il lettore ignaro delle chiese napoletane ignora dove si trovi la scultura. Potrebbe essere incapsulata in una navicella o conservata nel più famoso cimitero di Parigi. La foto, peraltro, è ingegnosa. Arricchisce il viaggio poetico di Benny in Italia, morto a Roma sessantenne e offre un diversivo all’interpretazione di Sanmartino. Ma non è di ausilio filologico allo studioso come invece, nella pagina precedente, sono le foto di Fabrizio Parisio del gruppo di Vaccaro con l’Angelo Custode di San Paolo Maggiore14. Allo stesso modo, nel volume sul Seicento, sono di Jodice due scatti. Il primo raffigura un dettaglio del paliotto in argento della Cappella della Vergine della Grazie in Santa Maria la Nova a Napoli. È una foto in stile documentario, ma spinge a guardare con attenzione il manufatto per coglierne le vibrazioni pittoriche di superficie15. A partire da Diane Arbus si è detto che il soggetto rappresentato è sempre più importante della foto. Se le cose si rovesciano la percezione dell’opera ne risente. Da qui nascono le accuse ai fotografi accusati di prevaricare le intenzioni degli artefici, di fraintenderne le intenzioni di stile. Fino a sostituirvisi. È successo con la foto, di memorabile capziosità, di Cesare Barzacchi che Italo Faldi scelse per la copertina del catalogo della Galleria Borghese di Roma (1954). La zoomata sulla Dafne, ne ridisegna il profilo, quasi riequilibrato sul piano in un cammeo antico. Un taglio così rischioso esige di essere valutato come atto creativo. Bernini è un pretesto. Ciò che si vede è l’Apollo e Dafne di Barzacchi. Ossia: un Bernini reinventato da Barzacchi. Quanto al tipo di servizio che renda alla storia dell’arte la foto: se ne può discutere (il mezzo fotografico come un testo qualsiasi obbedisce ai limiti dell’interpretazione). Copiloti Proviamo a riaprire il volume di Elio e Corrado Catello sulla Cappella del Tesoro partendo dall’apparato iconografico, concepito come integrativo ai saggi; ma che possiede la dignità sedimentata di un testo parallelo, autonomo dallo scritto16. Le immagini del libro, uscito nel 1977, rivelano cos’era stata la fotografia d’arte a Napoli fino a allora e cosa sarebbe divenuta in seguito17. Quelle tavole esplicitano le tipologie di accostamento al monumento nel quale ci troviamo. In principio, con modulazione anodina (si vede l’interno, se ne percepiscono le dimensioni), il fotografo sparisce dietro l’immagine. Come se la foto si fosse fatta da sola. Poi con minor timidezza affiorano frammenti di pezzi, selezionati con uno sguardo alterato dalla passione. Un passo misurato sul conteggio dei particolari, e non solo dei totali, ha segnato anche la storia dell’arte napoletana. Questo discorso per immagini fa sì che un ineccepibile assieme della cappella prepari il lettore del volume ai dettagli rivelatori di Jodice, passando per l’intelligenza fotografica delle tavole di un non fotografo di professione come Roberto Pane. SAN GENNARO MESSO A FUOCO 121 Luciano Pedicini Copertina del primo volume del catalogo della mostra Civiltà del Seicento a Napoli 122 STEFANO CAUSA Luciano Pedicini Copertina del secondo volume del catalogo della mostra Civiltà del Seicento a Napoli SAN GENNARO MESSO A FUOCO 123 Altri titoli galleggiano nel mare scuro degli anni Settanta. Alcuni nomi di quei napoletani discesi più a fondo nelle miniere della Storia dell’Arte – oltre a Jodice, i Pedicini padre e figlio, Giuseppe Gaeta, Gianni Leone, Massimo Velo, Stefano Fittipaldi, Libero De Cunzo o Luciano Romano – rivendicano uno spazio di manovra nel quale scagionarsi dal ruolo sussidiario cui sono stati costretti a lungo. E per la Cappella di San Gennaro penso anche a Pina Catino. Alla fine si è dato un nome ad un mestiere – la Fotografia dei Beni Culturali – che è sempre esistito. Il fatto che uno tra i più bravi lo insegni all’Accademia è un indicatore ufficiale dell’avvenuto pareggiamento tra fotografi e storici d’arte18. Tutto fa credere di poter riesaminare la fotografia napoletana situandosi dalla visuale della storia dell’arte, ma bisognerebbe fare un poco di storia e cronologia. Non rompiamoci la testa prima di essercela fasciata! Il forcipe dello sguardo Nella cultura italiana dove la storia dell’arte si è sempre amata poco, la divulgazione di quella materia è riuscita a filtrare attraverso le copertine di libri e dischi. Si tratta di un veicolo privilegiato più sorvegliato di quanto si pensi19. Anche a Napoli l’eventualità di un contagio storico-artistico si è data in quella modalità specie quando, dal principio degli anni Ottanta, una porzione dell’editoria ha avuto uno sviluppo abnorme inseguendo il treno delle mostre. Molti cataloghi significano molti fotografi. Le Opere di Misericordia riprodotte, limitatamente alla parte superiore sulla sovra coperta di Opere d’arte nel Pio Monte di Misericordia (Di Mauro 1970) è una foto da menzionare nella fortuna del dipinto del Caravaggio che, al tempo del libro di Raffaello Causa, dava segni d’effervescenza. Per ammiccamento tipografico l’angelo appoggia la mano sul bordino sotto cui si leggono autore, titolo ed editore. Nel 1984 Luciano Pedicini (1957), che ha imparato il mestiere dal padre scatta, nella Cappella del Tesoro, quelle che si sarebbero impresse nella memoria come le immagini più famose dell’arte napoletana. Sono i particolari di un dipinto e un argento. Due inquadrature (la prima soprattutto) che hanno fatto strada. Molta più di quanto Pedicini non immaginasse. Si tratta del ragazzino urlante tratto o, meglio, sottratto, al rame del Ribera con San Gennaro che esce illeso dalla fornace (1646). E del dettaglio della testa del San Michele Arcangelo, opera congiunta dello scultore Lorenzo Vaccaro e dell’argentiere Gian Domenico Vinaccia (1691). Queste fotografie sono le copertine della mostra Civiltà del Seicento, apertasi a Capodimonte trent’anni fa. Il catalogo è discontinuo come sono sempre le operazione corali20. Ma la foto del primo volume si è imposta come un modello21. Ed è tra le copertine più indovinate tra le dozzine di cataloghi che stancheranno l’attenzione di un pubblico, coartato ad affollare mostre disertando i musei. È difficile seguire le sorti di un’immagine. Ma non c’è dubbio che il dettaglio del bambino urlante, cavato col forcipe dalla folla atterrita, è un lampo di genio di ermeneutica storico-artistica22. E sarebbe diventato, per sineddoche, l’Immagine del Seicento napoletano. La definizione, suggestiva ma parziale, di secolo di furore discende da questo inserto di Ribera. Nessun altro ha goduto del discutibile privilegio di incarnare un secolo, per come lo si divulgava trent’anni fa e per come lo si vende sul mercato estero. Neanche il Caravaggio, scontata matrice di questo dettaglio. Quello del ragazzino alterato della copertina 124 STEFANO CAUSA della mostra del Seicento è un viso familiare. Ma è dubbio che tutti ne riconoscano l’autore. C’è chi suppone sia nato così. A me è capitato di sentirmelo attribuire non già al Ribera bensì al Caravaggio. Il fatto che un volto tutto lavorato di pittura, con acribia e controllo dell’insieme abbia finito per surclassare in popolarità il dipinto di cui fa parte (meno noto di quanti si pensi) è merito del fotografo che, scegliendo il dettaglio offre le chiavi per entrare, da un ingresso laterale, nell’opus magnum a Napoli nel secondo ventennio del Seicento. A parte far percepire la derivazione dal Caravaggio, qui non c’è volontà di far scaturire l’effetto speciale dall’esorbitanza del dettaglio o far corrispondere lo stupore dello spettatore al panico del giovane. Dall’ingrandimento vien fuori la qualità della scrittura estrema del Ribera, che non è più quella del Caravaggio e non è Velàzquez, più sintetici, ma che li presuppone entrambi, una materia altrimenti spersa nell’imprimitura eterna del supporto in rame, su cui i colori deflagrano diversamente, a seconda delle ore del giorno. Il viso esplode in superficie solo in parte; una striscia di nero ne determina il contorno che, senza soluzione, va a finire nel grumo informe dell’orecchio. La parte dell’occhio in luce è segnata da brevi acciaccature con una pennellata ricchissima ed elaborata, quanto veloce. La canna del naso è segnata in alto da una linea più scura; mentre in basso, fino al colpo di luce sulla punta, si accende una combustione, che continua fino alle labbra dove si addensano piccoli colpi di pennello, come sbuffi di caligine (solo un controllo maggiore nel disegno ci assicura che non siamo nel primo Ottocento). Nel viso in ombra si squaderna un breve triangolo di luce. Questa cura nel dettaglio è il segno di un’autorità assoluta anche sui recessi dell’immagine. Faccia unta di cenere e sudore: a mala pena se ne coglie la densità di materia dentro un quadro immenso che, nella porzione superiore si apre in un’azzurrità perlacea che il supporto enfatizza e ha conservato23. Questo è il testo su cui si applica Giordano consapevole di non aver ancora trovato, nel contesto locale che si preparava ad accoglierne l’ascesa, un compagno di viaggio pari a lui. Un altro deciso a far deflagrare le storie di ferma dei caravaggeschi e le istanze del barocco storico (e che fosse altrettanto sicuro dei propri mezzi…). Nel riguardare la copertina del catalogo seicentesco si potrebbe obiettare che un tale livello di resa dell’immagine renda superflua ogni restituzione verbale, qualunque tentazione ecfrastica. Il fotografo ruba il mestiere al critico. Foto simili parlano da sole! Che avrebbe detto un critico della parola come Roberto Longhi dinanzi a questo dettaglio del rame? Avrebbe rinforzato o sconfessato la sua granitica antipatia per i virtuosismi di Ribera? Avrebbe gradito o sarebbe rimasto in silenzio?24 Eppure, credo non vi sia opposizione. Se c’è un buon servizio che questa foto, come altre di simile impatto, rende alla storia dell’arte, sia scritta sia orale. Se c’è un buon servizio, è questo: che ci costringe ad uno scrutinio anche verbale più preciso. Una sollecitazione più che un sostituto del testo. Dinanzi a quest’urlo scovato in mezzo alla calca, è vietato un commento generico. Bisogna controllare, con un esame da dentro, che la visita a San Gennaro, a priori, renderebbe difficoltoso. Perciò, allo stesso modo in cui la migliore sortita di Longhi fa parlare un dipinto; così una foto bella (ossia riuscita) rende l’opera meno inerte. Cioè: rende meno inerte la nostra attitudine rispetto all’opera. È come se la smontasse. E così, scuote il nostro sguardo, che è una meravigliosa macchina pigra. Se SAN GENNARO MESSO A FUOCO 125 letta in questo modo: costringendoci a rallentare, la foto del Ribera pubblicata in copertina pareggia in valore una lezione di storia dell’arte, tenuta da chi usi i particolari come strumento e non come fine. Nell’analisi formale ottenuta col mezzo fotografico, deve compendiarsi la massima precisione: proprio come avviene sul tavolo operatorio. Non a caso sotto la voce ‘chirurgia’, un virtuoso della stilcritica come lo storico dell’arte Alessandro Ballarin ricoverò i primi saggi cinquecenteschi sui pittori veneti Bassano (dal 1964)25. Questo per (la foto di) Ribera. Il fatto che non altrettanta strada abbia fatto l’immagine del secondo volume dipende dal proverbiale ritardo dell’apprezzamento della scultura. Il profilo del santo sopravviene dopo una rincorsa e una moltiplicazione di piani di luce su una materia sfarzosa: argento, rame dorato e bronzo con applicazioni in bronzo dorato, che non ha eguali nel concerto europeo tardo-barocco26. La scalata alla fortuna critica di Vaccaro e Vinaccia, geni vulcanici e vesuviani del secondo Seicento, trova in questa inquadratura del San Michele uno dei suoi rampini. La soluzione di isolarne dall’alto il profilo consente di esplicitare la pittoricità, desunta da Giordano, della scultura polimaterica. La luce si insinua nelle piume, schizza sul rame dell’elmo e si placa, definendo a chiazze chiare lo scivolo del viso: tra canna nasale, labbro inferiore e mento. L’originalità del taglio non è capziosa. Né contraddice le dimensioni della scultura, alta quasi il vero, come si controlla da un intero preso da Jodice, a fine decennio27. S’immagini il peso specifico che ebbero per gli studiosi foto così elaborate; e lo dico per me, che ho imparato a fare attribuzioni sulle cartoline. Certo fare oggi l’inventario di quelle migliaia di immagini cartonate, polverose, spiegazzate, rese opache dal tempo, che intasano i cassetti domestici, mi sembra moralmente e persino fisicamente impegnativo. D’altronde non ho nostalgia di quei formati che non prevedevano tagli particolari o di particolari. Vi si incontravano colori mai coincidenti con quelli dell’originale, elaborati dal cromista che saturava le gamme, alterandole in un anticipo del photoshop. Al confronto di quelle vecchie, le cartoline vendute oggi sono molto più fedeli. Ma scompariranno anche quelle. Una solitudine mondana Come ogni fotografo anche il fotografo d’arte è solo. Ma la sua è una solitudine particolare, una solitudine mondana che si alimenta di scontri taciti e nuovi accordi con gli studiosi. Tra le più estreme letture di storia dell’arte in presenza dell’opera vi sono le inquadrature che uno storico dotato di apparecchio fotografico, Clarence Kennedy, trasse da Verrocchio, da Antonio Rossellino o da Desiderio da Settignano intorno al 192928. Vi sono i particolari di Giuseppe Pagano dalla Colonna Traiana (1940) o dalle sculture di Wiligelmo29. O le foto che il fiorentino Giacomo Pozzi-Bellini eseguì per la mostra sulla Scultura pisana del Trecento (Pisa 1947)30. Oppure ancora quelle di Barzacchi dai pulpiti due e trecenteschi. Foto che si alimentano di letture. Letture che si alimentano di foto. Non sono che degli esempi. Ma arriviamo al panorama napoletano recente. Uscito da quasi vent’anni l’immenso volume dal titolo eduardiano di Napoli. Le luci di dentro (1996) non può mancare nel promemoria per una storia fotografica dell’arte meridionale. A parte testi non memorabili, il grosso libro realizzato dall’Enel contiene il più rivelatore calepino fotografico di fine secolo sul patrimonio napoletano. I nomi coinvolti in questo viaggio a colori fatto − avrebbe det126 STEFANO CAUSA to il Beaumont Newhall − di spiegazione, critica ed interpretazione sono quelli, già citati, di Jodice, Fittipaldi e Romano. Ignoro la strada fatta da un libro difficile da maneggiare ma carico di suggestioni. Suppongo che non ne abbia fatta molta. Chi conosca la pigrizia di molti storici d’arte; chi ha avuto a che fare con il loro inestirpabile specialismo non se ne stupirà31. Se si parla di nuovi nessi, a beneficio di una panoramica sul secondo Seicento meno angusta e limitata alla pittura: il libro di cui parliamo ne è stracarico. Si guardi, per esempio il confronto, imbastito da Luciano Romano, tra i cicli napoletani di Francesco Solimena nella sagrestia di San Paolo Maggiore e il paliotto di Vaccaro e Matteo Treglia di Santa Maria la Nova (1689). Si tratta di esperienze cronologicamente e stilisticamente contigue che, di solito, lo studioso fatica a connettere, per la tradizionale sperequazione tra pittura e arti decorative. Inoltre: per rientrare in San Gennaro, che dire di come Stefano Fittipaldi provi a incunearsi nei rami alla ricerca di indizi che allontanino il sentore di tedioso, che si trascina dietro l’interpretazione del Domenichino napoletano? Al punto che diventa meno inaspettato il confronto tra gli infermi nella Guarigione con l’olio di san Gennaro e una testa di pastore attribuita al settecentesco Colicci. Ma gli apici della visita interessano le opere plastiche. Difficilmente l’occhio nudo saprebbe cavare dalla cancellata d’ingresso il dettaglio della testa mozza di San Gennaro (1688). Romano, invece, risolve la veduta del paliotto di Vinaccia con un’inquadratura centrata di smagliante nitidezza. Ma Jodice allarga lo sguardo ad altre chiese, confrontando la donna morta del primo piano del paliotto con un analogo particolare nel dipinto di Francesco de Maria in Santa Maria di Monteoliveto con il Beato Bernardo Tolomei che comunica gli appestati di Siena (1688). Un secolo di furore Dinanzi all’opera il fotografo è uno storico che non usa la scrittura ma un altro strumento. Anche per questo il centinaio di riprese di Cosimo Fanzago, selezionate e raccolte da Giuseppe Gaeta in volume di trent’anni fa, rimane un unicum nella bibliografia su un maestro cruciale, lo ricordiamo, per l’architettura e la decorazione meridionale per due secoli. Quella di Gaeta è una monografia senza parole, una “monografia visiva”32. E prova l’apporto imprescindibile dei fotografi alla conoscenza del meridione figurativo33. Al principio del decennio due mostre diversamente importanti avrebbero riavviato gli studi di settore (La pittura napoletana dal Caravaggio a Luca Giordano, 1982; Civiltà del ’6oo a Napoli, due anni dopo, ma priva della guida, anche morale di Causa che l’aveva impostata). A me sembra chiaro, a distanza di tempo che, nella piena di ricerche innescata da quelle rassegne gli affondi più rivelatori sulle metamorfosi del Barocco e sulla sua convivenza con l’assenza di educazione civica delle genti meridionali, spettassero a un pugno di fotografi, Gianni Leone (1939), Marialba Russo (1947), Giovanni Chiaramonte (1948)34. O, per rientrare in San Gennaro, ricordo il catalano Joan Fontcuberta che avvicina l’obiettivo alla Sant’Irene di Schisano fino a sentirle il respiro mozzo, parlandole in bocca in un colloquio che gli indugi sulle scabrosità di pelle, enfatizzati dall’obiettivo, rendono penoso…35. E penso, di nuovo, a Jodice. Perché per la situazione locale (e per la storia interna dell’artista) la rottura dei confini tra le discipline va segnalata in una selezione di dipinti napoletani del SAN GENNARO MESSO A FUOCO 127 Joan Fontcuberta Senza titolo (Sant’Irene di Schisano) 128 STEFANO CAUSA Seicento, commissionatagli dall’IRI (1985)36. La rassegna fotografica, dedicata in modo non formale a Causa, s’inaugurò a Villa Pignatelli il 15 marzo ’85 e sortì un’eco non solo locale37. Viene da chiedersi come mai, a parte un parere molto ritardato di chi vi parla (2007), quella mostra e il suo catalogo non abbiano destato curiosità tra gli specialisti. Facili le risposte. Una riguarda l’intrinseca ambiguità che si imputa a proposte ritenute non di critica né di fotografia pura. Quattro sono le riprese dal San Gennaro che esce illeso dalla fornace, il rame firmato nel 1647. Cosa fanno capire di Ribera? E di Jodice, pazzo per il colore? Non vi sfibro con altre domande retoriche. Le foto si devono leggere a più livelli. Se si controllano le recensioni si rileva che molti batterono sull’attualizzazione di quelle tele nel perseguimento, da parte di Jodice, di un Barocco moderno. Non a tutti fu chiaro come quel progetto mirasse a rileggere i quadri napoletani del Seicento con un occhio educato ai colori patinati degli anni Ottanta. Il rinvio a Luigi Ghirri (1943-1992), l’ultimo dei compagni di strada di Jodice, è, o dovrebbe essere, evidente. Dell’operazione, tra le più interessanti nella critica del Seicento resta un catalogo raro, che interessa la Cappella del Tesoro. Ai tempi di queste foto colui che è l’artista più significativo emerso dalla scena napoletana di secondo Novecento aveva cinquant’anni. E da quindici praticava le opere d’arte seminando prove del contatto38. Ma è da quella mostra che il suo accostamento alle opere si sarebbe qualificato in un corpo a corpo talvolta rivelatore. Ma rivelatore di cosa? A partire dalla metà degli anni Ottanta, il tenore squisitamente documentario di Jodice storico d’arte (senza virgolette) appare meno esplicito, o solo meglio camuffato rispetto al decennio precedente. Penso al libro su l’Arte nella Certosa di San Martino (1973), uscito a nome di Causa ma che, per la forza delle immagini, in un bianco e nero che Jodice, l’ho già detto, ha affinato dinanzi ai marmi certosini, meriterebbe di essere cofirmato. Come recitano i crediti al principio del secondo volume, Jodice fu il coordinatore responsabile degli apparati fotografici del catalogo della rassegna di Civiltà del ’7oo a Napoli 1734-1799 (1979-1980; lo avrebbero affiancato in prima battuta il già citato De Cunzo, Fabrizio Parisio, lo stesso Pedicini e Giuseppe Russi). Questa antologia di arti varie risulta l’ultimo evento che coinvolse la cultura meridionale. Alla fine bisogna convenire che la reinvenzione del Seicento, la rilettura dei bronzi ercolanesi, di alcuni grandi siti archeologici e, dopo un addestramento pluridecennale, persino la rivisitazione di Canova sono tutte cose che misurano la durata dello sguardo di Jodice più di quanto non servano a immettere quegli argomenti, spesso logori, su nuove frequenze. Altri fotografi sono studiosi in senso lato svincolatisi dalla marcatura a uomo degli storici d’arte. Ad altra occasione bisognerà rimandare il discorso su come mai soprattutto nell’Antico lo smarcamento sia apparso più convincente e, nel caso di Jodice, anche l’antico scoperto e riscoperto per le strade della sua città39. A questo misurato classicismo, guadagnato da Jodice sulla base di una familiarità con le arti figurative, corrispondono letture più mitizzanti che criticamente avvertite. Rispetto all’attitudine investigante degli studiosi che ne scrissero episodicamente, gli specialisti di Jodice si sono passati la parola nell’adottare un parametro alto. Ma nell’annullare la distanza tra critico e oggetto, il criterio finisce per abdicare ad ogni giudizio. Si è confezionato per la taglia di Jodice un abito internazionale con i rischi di semplificazione che quest’operazione comSAN GENNARO MESSO A FUOCO 129 La Cappella del Tesoro di San Gennaro foto Anderson porti in ambito extra-locale. Nell’ultimo libretto monografico il cammino dell’artista viene ritracciato in un terreno ripulito da ogni scabrosità40. Il rapporto con la scena napoletana viene sì documentato (per quanto sinteticamente). Ma riaffiora come ovattato. Una volta che gli sia stata fatta indossare la camicia pulita, Jodice diviene un profeta della visione da cui aspettarsi parole e immagini salvifiche. Una sorta di Tiziano Terzani della fotografia. Se il brodo di coltura di Jodice è l’ambiente in cui si forma nei primi anni Settanta; allora niente di più dell’analisi del corredo iconografico dei libri di storia dell’arte, nei quali raffina la sua vena più grezza potrà aiutarci a immaginare, per Jodice, un retroterra molto più ricco e articolato. Spazio vivo sguardo neutro. La “Cappella del Tesoro” negli apparati del “Touring Club Italiano” (1936) In principio c’è la Cappella ripresa con intenti documentaristici41. Dinanzi a uno spazio gremito − dove il contributo di ciascun artista rialza la posta in gioco, integrando il precedente − lo sguardo è freddo. La foto, un’incisione in nero fornisce quante più informazioni con ogni chiarezza di presentazione. Ulteriori dettagli sono superflui. La foto è propedeutica allo scrutinio diretto, in nessun caso potendovisi 130 STEFANO CAUSA sostituire. Lo stile è documentario. Deve contribuire ad assodare un’idea: per questo si privilegia la veduta frontale come se, entrato in Cappella, le spalle alla cancellata con il ritratto bifronte del santo il visitatore mirasse a un’impressione del vano, abbracciando il prospetto con le sculture di Finelli e almeno due altari con i rami del Domenichino. I coretti superiori sono protetti da cortinaggi raddoppiati di cui s’indovina il colore; mentre lungo tutto il perimetro della cappella corre una balaustra42. Più angolata, ma ineccepibile la foto Alinari del presbiterio cui si affidarono i principali esegeti della Cappella del Tesoro43. Su immagini del genere, spesso eccellenti, gli storici d’arte di primo Novecento hanno aggiustato gli sfalli di memoria; e su queste foto hanno impostato i loro corsi di lezione. Fino a ieri si è trattato del repertorio basico della pubblicistica d’arte, fuori e dentro le università. Oggi è un materiale che serve agli archeologi moderni e ai restauratori: “…Strutturati secondo l’esempio dell’incisione descrittiva che li aveva preceduti – nota Federico Zeri – i criteri delle riprese fotografiche grazie alle quali il tardo Ottocento diffondeva, e rendeva accessibile ad un pubblico di massa, la conoscenza delle opere d’arte, erano criteri di stretta, inderogabile marca positivistica. Si trattava, cioè, grazie all’ausilio dell’obiettivo e della lastra sensibile, di procedere, nel campo storico-artistico, all’impresa esplorativa, alla summa di dati, alla catalogazione universale… Ed è doveroso riconoscere che a questa impresa… dobbiamo gli strumenti per ogni ricerca, per l’avvio cioè verso la intelaiatura razionale della classificazione filologica che è il fondamento della ricerca storico-artistica odierna. Ma è altrettanto innegabile che l’obiettivo fotografico positivista si rivolgeva alle opere d’arte come a cadaveri distesi sul marmo della morgue… Vi manca l’intento di adeguarsi alla realtà ambientale… e manca il benché minimo tentativo di ricorrere ad angolature suggerite dall’oggetto ripreso… Il punto di vista abituale, salvo rare eccezioni, di regola era quello rigorosamente frontale; per restare nel campo della plastica, la luce veniva artatamente smorzata in una diffusa uniformità… in altre parole, il più antico capitolo della fotografia degli oggetti d’arte riproduce una sola faccia della realtà, quella puramente documentaria…”44. Lo scandaglio di Giulio Parisio Non conoscendo bene il resto del fondale, non so dire se Giulio Parisio (18911967) sia stato il più importante fotografo napoletano di primo Novecento. Ma fu tra i più presenti sulla scena e dei più sperimentali, oltre l’impegno ‘alimentare’ che non gli è mai mancato. Qualche anno fa scrissi un saggio sul raggio del suo lavoro invitando, da casa Parisio per così dire, a un ripensamento sul passato prossimo della fotografia napoletana45. In quell’occasione imperniata in un riesame del Futurismo storico, mirai ad approfondire le adesioni di Parisio, e di un suo fortuito compagno di strada come lo scultore Guglielmo Roehrssen, alle estreme bave napoletane del movimento, a partire dagli anni Trenta46. Giunto a toccare la sua attività nel secondo dopoguerra, provai a lanciare qualche esca sulla sua importanza come battistrada nel segmento, per me cruciale della fotografia dei beni culturali. Volevo capire meglio i precedenti. I prodromi di Jodice e di Pedicini (che appartiene ad una generazione diversa da quella di Jodice). E, risalendo la corrente, mi ero imbattuto in Parisio (e in Giovanni Aucone). Altri nomi si potrebbero fare47. Nei primi anni Sessanta Parisio esegue una mostra sulle realizzazioni del Comune di Napoli nei padiglioni della Mostra d’Oltremare; inolSAN GENNARO MESSO A FUOCO 131 Giulio Parisio Splendori Cappella del Tesoro di San Gennaro 132 STEFANO CAUSA Roberto Pane Capitello della Cappella del Tesoro di San Gennaro SAN GENNARO MESSO A FUOCO 133 Mimmo Jodice Paliotto di Vinaccia particolare tre, nel 1962, si interroga sulla tradizione locale con una mostra al Circolo Politecnico (‘Artisti dell’Ottocento’). Appartiene a questo finale retrospettivo una decina di foto, segnalatemi da una conoscitrice del Fondo Parisio come la sempre sollecita Giulia Milanese. Tralascio, per ora, l’insieme della cupola con gli affreschi di Lanfranco, e mi concentro sulle inquadrature degli splendori di Filippo del Giudice e Bartolomeo Granucci, questi due argenti ai lati del prospetto, che Parisio fu tra i primi a valorizzare. Uno spicchio in più di tempo ci consentirebbe di soffermarci anche sul paliotto d’altare, di cui Parisio sceglie di fissare le parti laterali. La fortuna di un grande artefice di fine Seicento come il Vinaccia passa attraverso queste rare riprese degli anni del secondo dopoguerra. Lo storico d’arte come fotografo Nelle referenze della monografia dei Catello (1977) s’incontra il nome di Roberto Pane (1897-1987)48. L’eccezionalità della presenza è segnalata a parte dai due autori49. La breve selezione – meno di dieci scatti – rimane uno dei pregi del volume. Le foto concernono i capitelli dell’arco maestro, i dettagli delle balaustre, la cancellata e le portelle in bronzo. Esplicitano la sensibilità di un architetto e storico dell’architettura, interessato all’uso del mezzo fotografico nel mestiere50. Bastano poche inquadrature a farci capire come egli tratti le articolazioni formali muovendo da una logica strutturale; di come, cioè, anche qui, approdi alla storia dell’arte partendo dall’analisi dei contesti architettonici, come dovrebbe essere e non è quasi mai nelle chiose degli storici d’arte interessati a ricacciare le opere nel loro contesto51. In tre scatti Pane contribuisce a resuscitare uno degli eroi sommersi della Cappella del Tesoro, Onofrio d’Alessio. Una delle portelle per balaustra per gli altari (eseguite tra il 1662 e il ’65) viene ripresa per intero, annullando le digressioni di sfondo; nelle immagini successive si mette finalmente a fuoco, al centro della raggiera della balaustra, la figura di San Gennaro. Le reali dimensioni della statuina, meno di 40 cm, non sono mai alterate. Come strumento di lavoro la foto non tollera ambiguità. Pane imposta un discorso per immagini; suggerisce una pista critica autonoma. Se l’ornamentazione è sempre ricondotta alle ragioni portanti, altrove si invita lo spettatore a valutare gli elementi strutturali del vano, in una visita meno scontata. Vi mostro la foto di uno dei capitelli della parasta degli archi maestri (1610-1630), eseguito da Francesco Vannelli e da Rinaldo Mele, e che è un altro degli apici del primo Seicento in Cappella. Non so quanti lo abbiano notato, sebbene quel capitello si trovi sulla traiettoria delle vostre teste, guardando a destra. Personalmente, non lo avrei valutato secondo il merito; o non ci avrei neanche fatto caso, se non avessi visto questa foto52. Sub Jodice Quando una mia brava allieva, Alessandra Manca, è venuta a chiedermi una tesi su Jodice le ho chiesto quanti decenni intendesse dedicare al lavoro. Perciò abbiamo deciso insieme di tagliare l’argomento su Jodice storico d’arte (il titolo dell’elaborato). Ma non si è trattato di un ripiegamento. Anzi. Mano a mano che il discorso di laurea veniva strutturandosi, ci siamo accorti che uno sforzo di approfondimento in questa direzione avrebbe consentito di ripensare alla figura di Jodice dalla posizione più favorevole, diciamo così, per inquadrare la porta. Spigolando poi nell’ormai vasta bibliografia sull’artista, ci saremmo accorti di 134 STEFANO CAUSA SAN GENNARO MESSO A FUOCO 135 un paio di cose. La prima è che il peso dello storico d’arte non era stato messo a fuoco con dovizia dagli studiosi di Jodice (salvo omissioni, in nessuna delle mostre si è deciso di ripresentare il materiale incandescente su San Martino o sul paliotto di San Gennaro!). La seconda è che anche i più assidui specialisti dell’artista non sembrano considerare più che strumentali, i libri in cui Jodice affianca gli storici d’arte. E d’altronde, anche quando ne parlino, lo fanno partendo dalla seconda metà degli anni Ottanta, tralasciando la prima parte degli anni Settanta. Difatti nella copia di Alessandra Manca della monografia su Jodice della Valtorta, incontro un appunto a penna: il discorso va anticipato di un decennio. È vero. Quegli incrementi di Jodice meritano di essere assodati con largo anticipo. Nel prosieguo ne avrebbero arricchito i dati di stile, strutturando il suo modo di porsi dinanzi ad un viso, ad un paesaggio o alla memoria dell’antico. Pertanto occorrerà ripensare ai termini in cui, nel corso degli anni Settanta, Jodice si spende affianco dei Causa o dei Catello e, finalmente, approda a dirigere la sezione fotografica dei cataloghi di Civiltà del ’7oo a Napoli (1979). Ora, proprio nello sfogliare il libro dei Catello l’attenzione è catturata dall’apparizione di un signore con gli occhiali che volta la testa. Non è altri che l’autore del paliotto, Vinaccia, autoritrattosi nell’altare maggiore della Cappella del Tesoro. Roberto Pane Portella della balaustra della Cappella del Tesoro di San Gennaro, particolare Dentro e fuori la storia dell’arte Il dettaglio – nella realtà quasi invisibile – è super ingrandito. Jodice che ha scovato quel volto nelle rifrazioni di superficie del paliotto ha la pazienza di un cecchino, insieme a una mira che non ha nessuno dei giovani storici che conosco. Una foto così ha una valenza duplice: è un documento e, come tale, equivale allo scoprimento d’una firma. Ed è insieme un atto critico. Nell’attesa che decidiate quale delle due opzioni preceda l’altra, colgo l’occasione di ripresentarvi l’autore di questa che mi pare tra le grandi foto degli anni Settanta. Dentro e fuori la storia dell’arte. Jodice aveva quarantatré anni: non un novizio, anche rispetto al patrimonio di San Gennaro. Qualche anno prima i Catello lo avevano interpellato per integrare il corredo iconografico in parte eseguito dagli studi Parente e De Rosa, nel repertorio sugli argenti53. In quello stesso anno affiancava Causa, più anziano di un decennio, nel volume certosino (1973). Senza l’assidua frequentazione della storia dell’arte; senza il contatto vivificante o avvilente con gli studiosi non si può seguire la progressione di Jodice nel decennio precedente il terremoto54. Ma torniamo a San Gennaro e al paliotto. L’autoritratto di Vinaccia è un capolavoro nel capolavoro. Voglio pensare che la foto rivesta, nelle ricerche meridionali, lo stesso valore che detiene, negli studi sulla scultura gotica, il particolare del viso della Vergine dall’Annunciazione di Giovanni Pisano dal pulpito di Pistoia. Jodice avrà visto la foto di Pozzi–Bellini alla mostra che si tenne a Villa Pignatelli nel 1983; ma non è da escludere, ed è anzi probabile che possieda il fascicolo di quel monumento illustrato da quel fotografo55. Si tratta, lo dico ancora, di fare spiegazione, critica e interpretazione. Di fare, cioè, della buona storia dell’arte. Azzerare per ricominciare a vedere. Camillo Ripaldi nella Cappella del Tesoro Nell’avviarci alla conclusione, un’ultima voce di talento s’incunea nel discorso 136 STEFANO CAUSA SAN GENNARO MESSO A FUOCO 137 Camillo Ripaldi Affreschi della cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro, particolare Sono più di vent’anni che ne discutiamo insieme. Camillo come manipolatore di immagini. Io come chi provi, dopo, a riordinare la stanza. Abbiamo disimparato a vedere. Non sappiamo vedere. O lo facciamo in modo diverso dal passato. Il paesaggio naturale. Un nudo vero e uno scolpito. Le facce della tv. Il cibo che ci ossessiona. Il Vesuvio o le Opere di Misericordia. Il grido di Ribera. Gli storpi del Domenichino. Il display del cellulare. L’ultimo sms prima di stringere la mano al relatore. Tutto si sovrappone istantaneamente ed è difficile cogliere il nesso che unisce queste voci, ammesso ci sia. Il rimedio è l’offuscamento progressivo. Figure dipinte, sculture e oggetti: da questo momento non saranno più a portata d’occhi. Lo spettatore deve sforzarsi di scavare dentro l’inquadratura scansando detriti e crepature messe a velare l’oggetto per costringere a guardare meglio. Ma se occorre che lo sguardo riprenda a fare il suo mestiere, bisogna sottrarsi a questo imperativo di documentare e documentarsi. Io non so che cosa ne pensiate. Perciò vi esorterei a continuare, per conto vostro, il dialogo con le sue foto. A quaranta anni compiuti, Ripaldi rimane uno dei maggiori e più sottovalutati fotografi napoletani del decennio. Ma uno spirito avventuroso è difficile possa acquietarsi in una città culturalmente inerte con oasi di intermittente rinfrancamento58. E con questo vi ringrazio della pazienza. 1 sul contratto più o meno tacito tra fotografi e studiosi. In questi giorni, dietro mia commissione, Camillo Ripaldi ha preso ad aggirarsi in questo luogo sacro fino a consegnarmi un mazzetto di foto che presento come appena colte! Anni fa cominciò a farsi conoscere a Napoli fotografando, come se nessuno li avesse visti, i capolavori di Capodimonte; per passare, quindi, a riprendere le sale del contenitore museale, private artatamente dei quadri. Vedere quelle immagini e decidere di farne una mostra fu un tutt’uno56. Era l’estate del 2004. Camillo fu adocchiato da galleristi che si sono frettolosamente attribuiti l’onore della scoperta di chi avrebbe meritato una strada più sgombra57. In seguito ha continuato a pubblicare cose che pochi amici fortunati, io tra questi, hanno avuto l’agio di apprezzare. È un lavoro di una decade, che non posso riassumere. Dico solo questo: prima di rendersi conto di non poter vivere né lui, né la sua famiglia di sola fotografia, Ripaldi ha covato una preparazione di storico d’arte nel momento eroico del corso di Conservazione dei Beni Culturali all’Università del Suor Orsola, nella prima metà degli anni Novanta. Le foto migliori, oggi, sono quelle che non si fanno. Bisogna negare l’immagine e renderne difficoltoso l’esame affinché, una volta pungolato, lo sguardo torni a ritrovare la sua funzione indagatrice. 138 STEFANO CAUSA Chi è devoto. Feste popolari in Campania, Napoli 1974. 2 Ho ricuperato queste citazioni, e specie quella di Gowin che avevo scordato, nell’antologia della critica approntata da Susan Sontag nel sempre fertilissimo insieme di saggi Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società (1973), ed. cons. Torino 1992. 3 Coglie bene questo aspetto la fotografia di Laura Valentini, pubblicata in Storia e civiltà della Campania, (Il Rinascimento e l’Età Barocca), a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli 1994, p. 341. 4 Quest’ultima definizione è di R. Pane, Le fotografie di Jodice, in Antico e Nuovo, in “Napoli Nobilissima”, vol. XX, gennaio-aprile 1981, p. 78. 5 Canova all’Ermitage. Le sculture del Museo di San Pietroburgo, catalogo della mostra, Roma 1991. Su questo aspetto particolare, anche Roberta Valtorta, Mimmo Jodice, Milan-Torino 2013, pp. 100-101. Da registrare, da ultimo, l’ulteriore offerta antologica, dal titolo programmatico di Jodice-Canova, catalogo della mostra a cura dello stesso Mimmo Jodice, Bassano del Grappa 2013. 6 Classicismo di età romana. La collezione Farnese, testi di R. Aiello, F. Haskell e C. Gasparri, Napoli 1988. Evidente l’omaggio a Mapplethorpe nella definizione dei nudi dei Tirannicidi e dell’Ercole. 7 Richiesto da alcuni studiosi francesi se vi fosse differenza tra fotografare un dipinto o una scultura, Jodice ha fatto notare: “Photographier une sculpture requiert une manière completèment différente de celle utilisée pour un tableau. La sculpture a un volume qui doit être mis en évidence; le rapport entre l’ombre et la lumière est important ainsi que celui des pleins et des vides. C’est seulement à travers une étude attentive de la lumière que l’on réussit à capter l’ame intérieure de la sculpture”(M. Jodice, Les yeux du Louvre, texte de Q. Bajac, entretien de M.L. Bernadac, catalogo della mostra, Parigi 2011). 8 Michelangelo scultore, testi di E. Battisti, Guida, Napoli 1989, p. 11. 9 Si legga l’intervista a Toscani di Jaime d’Alessandro in “La Repubblica”, 9 agosto 2014, p. 30. 10 B. Newhall, Clarence Kennedy, in Photographs by Clarence Kennedy, catalogo della mostra, Smith Col- lege Museum of Art, Northampton Massachussets 1967, pp. 12–13. 11 Le Musée Imaginaire (1947 e ’51), ed. cos. Paris 1965, pp. 88 e sgg. 12 “Le immagini su un cellulare acquistano un grado di verità e un’intensità di esperienza che non si accontentano di essere equivalenti al contatto con la “cosa vera”, vogliono essere superiori ad essa. Consentono manipolazioni (ingrandire un dettaglio), archiviazione di impressioni momentanee, scambi di opinione via Facebook. L’oggetto d’arte diventa il mero innesco di un processo sensoriale che si svolge prevalentemente altrove. Davanti alla Gioconda, il 2 per cento dell’esperienza (diciamo) è quella del quadro nell’affollatissima sala del Louvre; ma l’8 per cento ha luogo nello smartphone, nell’Ipad, in un labirinto di modalità interattive che consentono inedite forme di appropriazione. Secondo Conn, la storia (la “cosa vera”) sta diventando noiosa, la tecnologia la rivitalizza; la realtà virtuale è superiore alla realtà tangibile, l’illusione prende il posto della riflessione, la duplicazione spodesta l’unicità dell’originale…” (S. Settis, Se troppo SAN GENNARO MESSO A FUOCO 139 successo fa male al museo, in “La Repubblica”, 30 luglio 2014). 13 A. Nava Cellini, La scultura del Seicento, Torino 1982; Ead., La scultura del Settecento, Torino 1982. 14 Nava Cellini 1982. 15 Nava Cellini, La scultura del Seicento, Torino 1982, p. 228. 16 E. e C. Catello, La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli 1977. 17 Per un consuntivo fotografico sulla Cappella del Tesoro, si guardi anche l’immenso volume Le dieci Meraviglie del Tesoro di San Gennaro, a cura di P. Jorio e F. Recanatesi, Roma 2010. 18 Emblematica l’operazione del catalogo della mostra di Luciano Pedicini, Sguardi di facciata, a cura di A. Porzio, Napoli 2014. È una mostra sullo stile di Pedicini e, al tempo stesso, benché i due termini non siano sempre sullo stesso piano, sulle sculture tardo–ottocentesche della facciata del Palazzo Reale di Napoli. 19 Cfr., da ultimo, R. Calasso, L’impronta dell’editore, Milano 2013, pp. 20 e sgg. Sulle copertine dei dischi in particolare, ma in generale per un discorso sul limite e il valore delle copertine, si tenga conto di L. Ghirri, Immagini per musica (1990), in L. Ghirri, Lezioni di fotografia, a cura di G. Bizzarri e P. Barbaro, con uno scritto biografico di G. Celati, Macerata 2010, pp. 200-236. 20 Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, 2 voll., Napoli 1984-1985. 21 Nelle referenze fotografiche in coda al secondo volume del catalogo, ivi, p. 499, è riportato che le fotografie in copertine furono eseguite da Pedicini S.n.c. Napoli. Come ho potuto appurare personalmente, l’autore ne fu Luciano Pedicini. 22 Sopravvaluta la componente bolognese di questa parte precipua del quadro A.E Perez-Sanchez, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984-1985, vol. 1, p. 420. 23 Decisamente più allargata l’inquadratura, in modo da far vedere anche il groviglio di mani, teste e braccia, pubblicata in copertina di N. Spinosa-O. Ferrari, Ribera, in “Art e Dossier”, inserto redazionale allegato al n. 66, marzo 1992. 24 Non rare le raccomandazioni di Longhi sull’uso del mezzo fotografico nella storia dell’arte. Cfr. Il critico accanto al fotografo, al fotocolorista e al documentarista, in “Para- 140 STEFANO CAUSA gone”, 169, 1964, pp. 28 e sgg. 25 Vedi, ora, A. Ballarin, Jacopo Bassano. Scritti 1964-1995, a cura di V. Romani, Padova 1995. 26 La foto è servita anche come copertina per Storia e Civiltà della Campania (Il Rinascimento e l’Età Barocca), a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli 1994. Per una prima scheda orientativa sull’opera si riparta da A. Catello, in Civiltà del ‘6oo a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984-1985, vol. II, pp. 316-317, n. 5.9. 27 Cfr. E. Catello, Sanmartino, Napoli 1988, p. 12, fig. 1 (in bianco e nero). 28 Cfr. C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia, Annali 2 (L’Immagine fotografica. 1845-1945), Torino 1979, figg. 499-503. 29 Di primario interesse, per il nostro discorso, rimane il catalogo della mostra, per molti versi storica, di Giuseppe Pagano fotografo, a cura di C. De Seta, Bologna e Roma 1979 (particolarmente il saggio di L. Di Mauro, Archeologia ed arte, ivi, pp. 42-61). 30 Giacomo Pozzi–Bellini. Trentacinque anni di fotografia. 1940–1975. Con due testimonianze di Alessandro Bonsanti e Michelangelo Antonioni, catalogo della mostra, Napoli 1983, pp. 36 e sgg. 31 Napoli. Le luci di dentro, a cura di F. Lucarelli e G. Marotta, consulenza storico-artistica di G. Borrelli, Napoli 1996. 32 Nell’occasione di una mostra, che si tenne nel febbraio e nel marzo del 1985 nel salone neoclassico di Villa Pignatelli, Floriana Causa, (Cento immagini a colori per un itinerario sui luoghi storici della Napoli barocca, in “Napoli Oggi”, 28 febbraio 1985, ora in Per piacere non ricollocare!, Napoli 2003, pp. 185186), rifletteva: “Le cento immagini di Gaeta fanno parlare da sole le opere che, nonostante qualche taglio anticonvenzionale e un velato uso dell’obbiettivo grandangolare mai troppo spinto, sono state riprodotte nel modo più fedele possibile. Sarà così perdonata a Gaeta qualche libertà compositiva… La statua marmorea dell’Assunta, per esempio, del Seminario Arcivescovile (che Gaeta ha fatto salire in un cielo rosso e violetto, dove c’è anche la luna), quella la faremmo scendere un’altra volta dove l’aveva messa lo scultore…” 33 G. Gaeta, Cosimo Fanzago, la sua bottega, il suo tempo, prefazione di M. Bonuomo, Napoli 1985. Si veda al- meno la tempestiva segnalazione di F. Scandone, Splendore barocco, in “Il Mattino”, 15 marzo 1985, p. 5. 34 Cfr. Napoli ’84. Fasti barocchi, catalogo della mostra a cura di C. De Seta, Napoli 1984-1985. In qualche modo tendenzioso il titolo per esteso riportato nel frontespizio (Fasti barocchi nella fotografia contemporanea). Puntuale la recensione di F. Causa, Storia inedita di Napoli all’ombra dei fasti barocchi, in “Napoli Oggi”, 27 dicembre 1984 (ora in Per piacere non ricollocare!... cit., 2003, pp. 162-163). Il lavoro di approssimazione alle genti e alle terre di Napoli deve avere condizionato la risolutezza espressiva con cui la Russo fotografa le singole sculture del Presepe: cfr. Il Presepe Napoletano, a cura di M. Piccoli Catello, fotografia di M. Russo, saggi di R. Causa…, Napoli 1990. S’incunea bene nel nostro discorso anche il precedente volume, Capua antica, testo di W. Johannowsky, fotografie di M. Russo, Napoli 1989. 35 Fasti barocchi…, ivi, p. 119. 36 Un secolo di furore. L’espressività del Seicento a Napoli. Fotografie di Mimmo Jodice, catalogo della mostra, Napoli–Roma 1985. Sul progetto di Jodice leggi, ora, anche in relazione a quanto esposto qui sopra, nel testo: S. Causa, La strategia dell’attenzione. Pittori a Napoli nel primo Seicento, Napoli 2007, pp. 228-229: “ …Queste ottanta sequenze, virate in un colore acceso, rivelano soltanto dei brandelli che riemergono dall’ombra affocata che li lavora, artatamente, ai bordi. Le abbiamo percorse spesso: per non staccare gli occhi dall’evoluzione di Jodice e andando alla ricerca di nuove prospettive su di un nucleo di tele, che c’illudevamo di sapere a memoria… Il ricorso ossessivo al particolare, a discapito dell’intero, obbliga l’osservatore a questa enumerazione barocca. Al tempo stesso, ne educa la memoria visiva, costringendolo a ricomporre, mentalmente, nell’insieme, quel dettaglio che, altrimenti, godrebbe di un’ambigua, effimera esistenza… Il Seicento napoletano di Jodice si srotola per flashes. Esiste per piccoli fari, apparizioni che verranno risucchiate nel buio. L’effetto vagamente flou dell’inquadratura non intende rinunciare al privilegio di scegliere, secondo la sensibilità dell’operatore. Sorprendentemente, questa lettura da contro manuale non è mai uniforme…”. Senza conoscere il mio scritto, valorizza il viaggio seicentesco di Jodice anche R. Valtorta, con almeno uno spunto meritevole: Mimmo Jodice, Milano–Torino 2013, pp. 8990 (“Questo lavoro di rilettura fotografica dei dipinti barocchi ha un significato rilevante sulla storia di Mimmo Jodice da molti punti di vista… favorisce la sua concentrazione su un tipo di luce, quella barocca appunto, diversa e più agitata, infuocata, più viva di quella metafisica, invece più fissa e uguale, più fredda e mentale, da lui adottata per guardare lo scenario urbano a partire dai primi anni Ottanta. È quella luce carica di sentimento, di bagliori e insieme nerissime ombre, immaginifica, che ritroveremo nella sua fotografia dagli inizi degli anni Novanta…”). 37 Per una rassegna parziale delle recensioni apparse sui giornali si tenga conto di R. Valtorta, Mimmo Jodice. Una storia di lontananza e di appartenenza, in Mimmo Jodice. Retrospettiva 1965-2000, catalogo della mostra a cura di P.G. Castagnoli, Torino 2001, p. 245, nota 74. 38 Imprescindibili, su questo, le osservazioni di R. Pane, cit., 1981. 39 Cfr. Neapolis, a cura di F. Zevi, fotografie di M. Jodice, Napoli 1994. Come nel caso del volume di Causa del decennio precedente su l’Arte nella Certosa di San Martino (1973), l’interscambio con l’autore è la chiave per leggere bene il volume. Pure qui si ricava l’impressione d’una maggiore autonomia del fotografo. L’impronta di Jodice è netta nell’illuminazione adottata per oggetti e dipinti e persino negli esterni urbani, dove si cerca di individuare i vari tracciati antichi. La specificità dell’occhio del fotografo è un valore aggiunto caricando il reportage di un senso che non era previsto scaturisse dai saggi introduttivi (in questo caso di un archeologo). Sempre in Neapolis, ivi, p. 292, l’inquadratura del Monumento sepolcrale di Marino Spinelli in San Pietro a Maiella, esemplare per intendere il problema del reimpiego dei frammenti antichi (una testa di Augusto) ha un impatto diverso da quello provocato dallo stesso monumento ma fotografato in modo più anodino in A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, sd., Milano, p. 51, fig. 49. O per fare un altro esempio: le due vedute delle colonne in cipollino e del cortile con la tholos del Macellum (cosiddetto Tempio di Serapide) a Pozzuoli sono vivacizzate dalla presenza di un volo di uccelli (Puteoli, a cura di F. Zevi, fotografie di M. Jodice, Napoli 1993, pp. 226-227). Una soluzione del genere parrebbe desueta in una fotografia di ‘servizio’, dove l’inserto verrebbe valutato come surplus narrativo; persino di disturbo. Ma è quello il Serapeo di Jodice. Succede più o meno la stessa cosa quando, nel corredo iconografico del volume di F. Gualdoni, Le forme del presente, Torino 1997, s’incontra, a pag. 276, l’ingresso della scuola a Broni di Aldo Rossi (1969-1970), come se l’avesse inquadrata Luigi Ghirri; salvo scoprire, poi, che la foto è davvero di Ghirri. 40 R. Valtorta, Mimmo Jodice, Milano 2013. 41 Si veda, per esempio, il coro della chiesa della certosa di San Martino tratto da un album con il titolo Italie-Naples, circa il 1880 (Napoli e dintorni negli album fotografici del Museo Nicéphore Niépce, catalogo della mostra, Napoli 1992, fig. 56). 42 È questa l’immagine, a cura dello studio Anderson, della Cappella di San Gennaro riprodotta nel settimo volume della collana Attraverso l’Italia, dedicato alla Campania dal “Touring Club Italiano” nel ’36, p. 41, fig. 62. Il commento, di Sergio Ortolani, è un’asciutta didascalia conforme al tono positivistico della ripresa: “La Cappella di San Gennaro, una delle massime espressioni del Seicento a Napoli, fu eretta per voto popolare fatto in occasione di una terribile pestilenza (1526)”. 43 E. e C. Catello, La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli 1977, tav. II. 44 F. Zeri, prefazione ad A. Mulas, San Pietro, Torino 1979, pp. 12–13. Sulla fotografia e le opere d’arte cfr. anche lo scavo parziale ma esemplificativo di L’oeuvre d’arte et sa reproduction, catalogo della mostra a cura di D.de Font-Réaulx et J. Bolloch, Parigi 2006. 45 S. Causa, La città che scende. Parisio, Roehrssen e il futurismo a Napoli tra le due guerre, in Corrente del golfo. Giulio Parisio e Guglielmo Roehrssen futuristi a Napoli, catalogo della mostra a cura di S. Causa e S. Zoppi Garampi, Napoli 2009, pp. 22-93. Scrivevo tra l’altro: ‘‘Solo un commento capillare – scrivevo tra l’altro – e, diciamo così, un’edizione critica di Parisio permette- ranno di giustificare l’alta tenuta di quattro decenni di lavoro: 1919– ’65… Quale è stato il peso specifico: riconosciuto, misconosciuto o sottaciuto delle sperimentazioni di Parisio sulle ricerche di fine anni ’6o? Cosa, di questo magistero, ha avuto forza di tracimare nelle esperienze napoletane più recenti? Vi sono esempi che dimostrano come egli riuscisse, assemblando pochi emblemi, uno spartito, dei pesci, o una rara Piazza del Plebiscito sporca di neve -; come riuscisse a sciorinare le viscere della città: inconsapevolmente e, perciò, con efficacia maggiore di occhi più smagati che non riconoscerebbero in quel primato del mestiere le matrici della loro storia …”. 46 Faccio ammenda, ora, di non aver citato A. D’Onofrio, Giulio Parisio, in Napoli e la fotografia, a cura di S. Cocurullo e L. Sorbo (in ‘‘Meridione. Sud e Nord nel Mondo”, n. 3, 2002, pp. 95-100). Ringrazio Francesca Commone per la segnalazione. 47 Scrivevo allora, ivi, 2009, pp. 9192: ‘‘Credo che: all’apporto fornito, nei trascorsi quarant’anni dall’occhio, anche critico, di Mimmo Jodice e, ora, con nuovi traguardi da un intelligente, e ben pilotato, interprete soprattutto della scultura dell’Antico o del Rinascimento come Luciano Pedicini; corrisponda, nella prima metà del Novecento, lo sforzo di documentazione portato avanti nell’officina di Parisio. Si provi ad allineare, per esempio, alcuni dettagli dell’Arco Trionfale di Alfonso D’Aragona in Castel Nuovo; o le inquadrature degli affreschi di Francesco Solimena in San Giorgio a Salerno o nel coro di Donnaregina Nuova; oppure, ancora, si guardino le sequenze del Mortorio ligneo di Mazzoni nella Sagrestia di Monteoliveto. Si tratta, evidentemente, di un servizio indispensabile allo storico ma che, in un progetto di mera catalogazione, si offre come primo commento a caldo. Il fotografo come storico dell’arte… È superfluo ricordare che, da tempo, la catalogazione delle opera d’arte fosse una esigenza prioritaria per la salvaguardia del patrimonio e le ricerche degli studiosi e degli eruditi…”. 48 Il titolo di questo paragrafo rovescia quello del capitolo, dedicato all’apporto di Jodice alla conoscenza critica della pittura napoletana, contenuto in un mio libro SAN GENNARO MESSO A FUOCO 141 seicentesco: Il fotografo come storico dell’arte in Meglio tacere. Salvator Rosa e i disagi della critica, Napoli 2008, pp. 89-92. 49 ‘‘…Le tavole contrassegnate dai numeri… sono state tratte da alcune riprese fotografiche di eccezione per noi eseguite e gentilmente offerte dal prof. Roberto Pane che qui ancora ringraziamo” (Catello, ivi, 1977). 50 La densità della bibliografia di Roberto Pane si accende, nella rivista ‘‘Napoli Nobilissima” di diversi interventi militanti sulla fotografia d’arte. 51 Le foto di Pane della Cappella di San Gennaro rinviano, stilisticamente, a quelle approntate per i volumi sul Rinascimento nell’Italia meridionale (Milano 1975-1977). Per una bibliografia degli scritti, cfr. G. Pane e A. Pane, in Roberto Pane tra storia e restauro. Architettura, città e paesaggio, atti del convegno nazionale di studi, Napoli 2008, pp. 580 e sgg. 52 La fisionomia di Pane come fotografo (storico) d’arte avrebbe bisogno di un avvicinamento monografico. Un’apertura spetta a M. Picone Petrusa, La fotografia, in Fuori dall’ombra. Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal ’45 al ’65, catalogo della mostra, Napoli 1991, pp. 424 e sgg.: ‘‘Un settore che andrebbe indagato più a fondo è poi quello degli architetti e degli artisti che nelle loro ricerche hanno fatto uso della fotografia… Fra questi emerge Roberto Pane… che si poneva a debita distanza tanto dall’enciclopedismo generico della visione degli Alinari, quanto dalla ricerca del frammentismo suggestivo ed inedito sul piano visivo, quasi straniante, quale sarà poi successivamente ricercato dalle più giovani generazioni di fotografi di architettura… Pane, infatti, coniugava nella fotografia la lettura ‘tecnica’ dell’architettura – che è una lettura per dettagli architettonicamente ‘compiuti’ e ‘significativi’ – con la ricerca di un’immagine colta, accuratamente composta e ciò non di meno aderente ai luoghi ritratti…”. 53 E. e C. Catello, Argenti napoletani dal XVI al XIX secolo, prefazione di B. Molajoli, Napoli 1973. 54 Non mi pare che la cosa sia stata messa in evidenza nel consuntivo su Mimmo Jodice negli anni Settanta, a cura di F. Maggia, Cologno Monzese 2001. Una valutazione dello sti- 142 STEFANO CAUSA le maturo di Jodice spetta a C. Bertelli, in Mimmo Jodice fotografie, catalogo della mostra, Parigi 1988, p. 7. Scrive tra l’altro Bertelli, che resse dal ’63 al ’73 il Gabinetto fotografico Nazionale: ‘‘Jodice si pone così davanti alle cose per sorprendere l’ambiguità delle cose nel loro più evidente manifestarsi, ma fa tutto ciò con una metodologia fredda, anti-espressiva, volutamente non retorica e sommessa, che molto deve alle esperienze dell’arte minimal e che si apparenta talvolta alla metafisica di De Chirico proprio nel modo in cui l’arte povera italiana è debitrice a De Chirico …”. 55 Il Pulpito della Pieve di Sant’Andrea a Pistoia, serie ‘‘Forma e Colore”, Firenze, Sadea Sansoni, n. 15, 1964. 56 Notizie da Capodimonte, catalogo della mostra a cura di S. Causa, Napoli 2004. 57 Alla domanda di Luca Sorbo se la ‘‘fotografia napoletana riesce a trovare un proprio spazio nelle gallerie nazionali ed internazionali”, così rispondevano Lucia e Laura Trisorio dodici anni fa: ‘‘Sicuramente c’è una grande attenzione nei confronti della fotografia napoletana… Quest’anno abbiamo ospitato una mostra di un giovane fotografo Camillo Ripaldi, che è alla sua prima personale. È una nostra scoperta e speriamo che abbia successo. Continuiamo a puntare su giovani autori così come negli anni Settanta abbiamo scommesso su Jodice e D’Alessandro” (in Napoli e la fotografia, a cura di S. Cocurullo e L. Sorbo, in ‘‘Meridione. Sud e Nord nel Mondo”, n. 34, 2002, pp. 145-146). Non sembra che per Ripaldi le cose siano state troppo facili. Resta da precisare che la scoperta e la valorizzazione del suo talento non spettano, con tutto il rispetto, al gallerista ma allo storico dell’arte; e a chi scrive in particolare. 58 Su Ripaldi vedi, ora, anche M. de Gemmis, in Paleocontemporanea, mostra e catalogo a cura di H. Milkau, Napoli 2013, pp. 60-61. finito di stampare nel dicembre 2014 per conto di prismi editrice politecnica napoli srl stampa e allestimento officine grafiche francesco giannini & figli spa, napoli