POLEMOS
IL POLITICO E LA GUERRA DALL’ANTICHITÀ AI NOSTRI GIORNI
1
INDICE
PARTE I
PREMESSA
CAPITOLO I. LA TERRA
CAPITOLO II. LA TERRA E IL MARE
CAPITOLO III. IL MARE IN MEZZO ALLE TERRE
CAPITOLO IV. L’ETÀ DI MEZZO
CAPITOLO V. UN “NUOVO MONDO”
CAPITOLO VI. Il LEVIATANO
BIBLIOGRAFIA
3
4
31
52
84
113
138
160
2
PREMESSA
Il Politico e la guerra dall’antichità ai nostri giorni non è che una nuova edizione de Il Politico e la guerra
(opera pubblicata in due volumi da Anteo nel 2015-16). Oltre ad eliminare parecchi refusi e alcune
“imperfezioni” o “sviste” si sono apportate numerose e sostanziali modifiche, tenendo conto che la ricerca
storica anche in una prospettiva geopolitica e metapolitica non può non essere continua revisione dei giudizi1.
Naturalmente, vi sono già numerosi ed eccellenti studi sulla storia della guerra o che analizzano il fenomeno
della guerra da un punto di vista antropologico e culturale. Purtroppo, però in Italia non è raro che perfino a
livello accademico ci si vanti di “ignorare” tutto quel che concerne gli “affari militari”, o che ci si accontenti
di ripetere acriticamente quanto sostenuto da studiosi inglesi o americani. Una lacuna che non è colmata dalle
poche opere “serie e rigorose” di autori italiani su argomenti particolari o da alcune importanti traduzioni.
Inoltre, negli ultimi anni si è imposto anche in Italia il “punto di vista” secondo cui il modello anglo-americano
sarebbe l’“erede” di un processo di occidentalizzazione iniziatosi nell’antica Grecia e che avrebbe portato alla
supremazia dell’Occidente (ovvero del mondo anglo-americano), in virtù di una migliore “allocazione” dei
fattori economici, culturali e militari. Ma si tratta, di una concezione tutt’altro che condivisbile.
Da qui dunque, la necessità di prendere in considerazione, benché a grandi linee, la storia politico-militare
in una prospettiva metapolitica e geopolitica, cercando di separare il grano dal loglio, ovvero secondo
un’angolazione ben diversa da quella che contraddistingue il pensiero unico “politicamente corretto”. Il libro
comunque segue (sostanzialmente) il corso storico degli eventi, per meglio mostrare come quel che concerne
gli “affari militari” di un Paese non è affatto indipendente dal sistema sociale, ma anzi, come sostiene Michael
Howard, è un aspetto costitutivo di quest’ultimo nella sua interezza2. Com’è ovvio, non c’è alcuna pretesa di
completezza, data l’ampiezza del periodo storico preso in esame e logicamente si è “selezionato” in funzione
del tema che qui rileva (ma il lettore scuserà le inevitabili omissioni), benché si sia ritenuto opportuno non
dare per scontato quasi nulla per quanto concerne i tratti essenziali del contesto storico preso (di volta in volta)
in esame3. L’aver seguito grosso modo l’ordine storico degli eventi non deve però trarre in inganno, giacché,
anche se non si è impiegato il “metodo” delle scienze sociali, interessate ad “ordinare” e classificare secondo
diversi criteri, il presente libro, non è affatto un libro di storia. Si tratta piuttosto del tentativo di portare il grano
della storia al mulino della geopolitica, ovverosia, in altri termini, di tracciare una sorta di mappa storicogeopolitica (per quanto la “scala” non sia sempre la medesima)4, certo da aggiornare, completare e modificare,
e quindi da considerarsi come un primo “orientamento” per mettere a fuoco l’intreccio tra il Politico, l’Economico
e la guerra, in vista di una migliore comprensione della “smisurata” volontà di potenza occidentale. Peraltro, si è
ritenuto indispensabile “prendere le mosse” dall’età antica nella convinzione che solo mostrando quel che
l’Occidente non è si può intendere quel che l’Occidente in realtà è. In quest’ottica, tuttavia, si è posto l’accento
soprattutto sul periodo che va dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni. D’altronde, è indubbio che molti
degli argomenti trattati a volo d’uccello richiederebbero un’analisi più approfondita. Ma l’obiettivo principale
di questo lavoro è quello di contribuire a mettere in discussione il “paradigma” geopolitico e metapolitico oggi
dominante nel mondo occidentale. Pertanto, considerando i tempi non proprio “felici” in cui viviamo, le pagine
che seguono, se anche dovessero soltanto riuscire a sollevare dei dubbi su tale “paradigma”, avrebbero già, in
un certo senso, conseguito il proprio scopo.
1
Precisiamo, onde evitare equivoci, che per geopolitica intendiamo il rapporto tra la potenza e lo spazio (non solo geografico, ma politico, sociale,
economico e culturale), mentre per metapolitica intendiamo l’analisi della funzione politica sia in quanto tale sia nei suoi molteplici rapporti con il
mondo dello spirito, gli “affari militari” e la funzione economica o tecnico-produttiva. In questo senso, Terra e Mare (ad esempio) non solo indicano
diversi “spazi geopolitici”, ma designano “campi di forza” che strutturano il rapporto tra il Politico e l’Economico (e lo stesso “mondo della vita”)
secondo prospettive diverse o addirittura opposte.
2
Vedi M. Howard, The Franco-Prussian War, Rupert Hart Davis, Londra, 1961, p. 1. Perciò, chi ignora che le questioni militari sono di necessità
anche questioni politiche e sociali, o chi pretende di comprendere gli “affari militari”, ignorando pressoché del tutto gli eventi bellici, rischia solo di
fare “opera di mistificazione”.
3
Scrive a questo proposito Eric Hobsbawm che chi (come lui) «ha dovuto rispondere alla domanda di un intelligente studente americano, se la
locuzione “seconda guerra mondiale” significasse che c’era stata anche una “prima guerra mondiale”, è ben consapevole che non si può dare per
scontata la conoscenza di fatti anche più elementari della storia del nostro secolo» (E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 2000, p. 15). Ci
sembra che questo valga non solo per il Novecento ma a maggiore ragione per i secoli precedenti.
4
Anche Samuel Huntington ricorre alla metafora della mappa, riconoscendo pure che vi è bisogno di mappe di diverso tipo, a seconda dello scopo che
ci si prefigge, ma per Huntington una mappa è una versione utile e semplificata della realtà (vedi S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo
ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, pp. 25-28). Una concezione discutibile, perché, una mappa della “realtà” la si può confrontare solo con altre
mappe, non essendo possibile confrontare una descrizione della “realtà” con la cosiddetta “realtà in sé”. Ciò non implica un assurdo “relativismo
assoluto”, bensì significa che il nostro mondo “si con-figura” come un determinato campo di possibilità, di modo che si può ritenere che siano lecite
diverse “interpretazioni della realtà” ma non che qualsiasi “interpretazione della realtà” sia valida.
3
CAPITOLO I. LA TERRA
L’inizio. È noto che per Max Weber lo Stato è un’impresa istituzionale di carattere politico in cui l’apparato
amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio dell’uso legittimo della forza. Quest’ultimo di
solito si ritiene abbia due funzioni: una consistente nel fare rispettare un determinato ordine all’interno dello
Stato per mezzo delle “forze dell’ordine”, e un’altra consistente nel difendere la sovranità territoriale dello
Stato per mezzo delle “forze armate”. Una tale definizione solleva però una questione non facile da risolvere,
dato che, se è certo che prima della nascita dello Stato nazionale moderno non v’era alcun apparato politico
che detenesse il monopolio dell’uso legittimo della forza, vi è perfino chi dubita che sia mai esistito un siffatto
monopolio, tanto che quanto afferma Weber riguardo allo Stato denoterebbe tutt’al più una situazione “ideale”,
ma certo non “reale”. Si è però fatto notare (ad esempio da parte di Vincent Gabrielsen)5 che in ogni caso il
concetto di Stato è perfettamente compatibile con entità politiche in cui un sistema “oligopolistico” detenga
l’uso legittimo della forza. Perciò si ritiene del tutto giustificato considerare le città sumeriche come “città
Stato” e definire “Stato” l’impero assiro o quello romano. Comunque, benché sia ovvio che il significato del
termine “Stato” varia a seconda dell’epoca e/o del contesto storico considerati, se si tiene presente la
definizione di Carl Schmitt secondo cui il Politico si caratterizza per la contrapposizione tra amico e nemico
(naturalmente il riferimento è al nemico pubblico, non al nemico privato), la questione dello Stato come unico
detentore dell’uso legittimo della forza, pur non essendo insignificante, sembra perdere gran parte della sua
importanza.
Decisivo è il fatto che in una comunità vi siano delle istituzioni (tempio, palazzo, etc.) che svolgano la
funzione politica, la quale si può chiaramente distinguere allorché si è in presenza di un “centro di potere” che
faccia valere la propria autorità nei confronti dei membri di una certa comunità e (il più delle volte) in un
determinato territorio (anche) grazie all’uso della forza contro i nemici interni ed esterni. La funzione politica
si configura allora, in primo luogo, come un agire strategico per la soluzione di conflitti che possono insorgere tra
i membri di una comunità o tra diverse comunità. Pare lecito ritenere quindi che ogni volta che un gruppo
umano impieghi la forza contro chi è considerato un nemico pubblico (benché talora possa non essere facile
distinguere tra “nemico pubblico” e “nemico privato”) vi sia uno “stato di guerra”, perlomeno in senso lato,
cioè un conflitto armato, sebbene con il termine “conflitto” si possa pure denotare la lotta sociale o controversie
di altro genere (comprese quelle tra “privati”). Queste brevi considerazioni vogliono non solo precisare in che
senso si sono qui usati termini quali Stato, Politico, guerra e conflitto, ma mettere in guardia dal ritenere che,
dove non vi sia un vero Stato bensì solo una “semplice” comunità umana, sia assente pure la funzione politica.
Difatti, perfino se si accetta la distinzione (proposta da Yvon Garlan) tra un “vero stato di guerra” e ciò che
egli definisce “pre-state phase of war”6, non si può non riconoscere che la funzione politica è comunque
sempre presente. Peraltro, tale distinzione si basa sul fatto che il modo di fare la guerra delle società primitive
è largamente (ma non esclusivamente) simbolico.
Come osserva lo storico John Keegan (che ha il merito di aver messo l’accento sul rapporto tra guerra e
cultura)7 i Maring – una popolazione primitiva della Nuova Guinea – differenziavano i combattimenti “da
nulla” da quelli “veri”. I primi erano solo delle battaglie rituali inoffensive, mentre i secondi consistevano in
un “periodo di guerra” che coinvolgeva tutti gli uomini abili, che si recavano sul luogo dello scontro armati di
asce, lance e archi, mentre le donne continuavano ad occuparsi dei lavori domestici. Non si combatteva tutti
giorni e spesso tra un combattimento e l’altro trascorrevano alcune settimane, durante le quali gli uomini
potevano ridipingere gli scudi, celebrare dei riti funebri o dissodare nuovi appezzamenti di terreno. Le perdite
erano rare e perlopiù tra gli uomini che combattevano nelle prime file, i quali duellavano tra di loro mentre gli
arcieri scagliavano nugoli di frecce. Inoltre i Maring non muovevano guerra se non potevano ingraziarsi gli
spiriti degli antenati sacrificando dei maiali, uno per ogni membro del gruppo di clan. E poiché, per disporre
di un tale numero di maiali, occorrevano una decina di anni, gli scontri erano piuttosto rari, uno ogni dieci anni
circa. Questi combattimenti potevano essere seguiti da scorrerie, distinte da semplici incursioni, che causavano
5
Vedi P. Sabin, H. van Wees, M. Whitby (a cura di), The Cambridge History of the Greek and Roman Warfare, Cambridge University Press, Cambridge,
2008 (e. d.), vol. I, pp. 248 e ss. Per quanto concerne la formazione dello Stato si sono proposti diversi “modelli evolutivi”. Secondo alcuni studiosi il
“modello evolutivo” sarebbe: band > tribe > chiefdom > State (vedi M. D. Sahlins, E. R. Service (a cura di), Evolution and Culture, University of
Michigan Press, Ann Arbour, 1960); invece secondo Morton Fried il “modello evolutivo” sarebbe: società “egualitaria” > ranked society (in cui conta
il “rango”) > società “stratificata” > Stato (vedi M. H. Fried, The Evolution of Political Society, Random House, New York, 1967). Comunque, a
prescindere dalle controversie su tali “modelli evolutivi”, si tratta di una questione che rileva poco ai fini del nostro studio.
6
Vedi Y. Garlan, Guerra e società nel mondo antico, Il Mulino, Bologna, 1985.
7
Vedi J. Keegan, La grande storia della guerra, Mondadori, Milano, 1996.
4
diversi morti (donne e bambini compresi), e si concludevano con la distruzione delle abitazioni e degli orti dei
vinti, benché i Maring di solito non occupassero il territorio conquistato, in quanto credevano che in tale
territorio vi fosse il malocchio.
La battaglia rituale quindi, anche se è incontestabile che sia una caratteristica delle comunità primitive, non
implica che non vi siano scontri cruenti. Lo stesso Keegan sottolinea che pure gli Yanomamö - una popolazione
primitiva che vive in una foresta tropicale situata tra il Brasile e il Venezuela - conoscono la battaglia rituale,
sebbene vengano definiti il “popolo feroce” per il loro comportamento. Anche questa popolazione pratica
diverse forme di combattimento. Il duello è la forma meno cruenta e anche lo scontro con le mazze, benché
più violento del duello, è fortemente ritualizzato. Il combattimento con le lance invece può facilmente causare
delle vittime e originare una scorreria contro un altro villaggio. Queste scorrerie hanno permesso agli
Yanomamö di conquistare territori nuovi, ma il motivo principale che li spinge ad attaccare altri villaggi
sembra essere la cattura delle donne, e non è escluso che diversi gruppi si scontrino tra di loro, pur se uniti da
vincoli di parentela attraverso il matrimonio. Gli Yanomamö però, a causa della povertà della loro cultura
materiale dipendono dagli scambi commerciali e dai legami con altri gruppi, di modo che organizzano pure
delle feste, il cui fine è lo scambio di donne. Eppure non tutte queste feste sono “a lieto fine” e possono anche
dare origine a scontri violenti, vuoi perché un villaggio più grande può pretendere un numero di donne
eccessivo, vuoi perché gli Yanomamö hanno l’abitudine di sedurre le donne degli altri. In ogni caso, come
presso i Maring, il combattimento tende a intensificarsi secondo fasi successive e ben distinte l’una dall’altra.
Il che è un’ulteriore conferma che il modo di fare la guerra tra i popoli primitivi è in buona misura rituale. Di
ciò si deve tenere conto nel giudicare il comportamento dei nostri antenati preistorici, sebbene il fatto che la
cultura materiale degli attuali popoli primitivi sia simile a quella degli uomini del Paleolitico non escluda che
possano esserci notevoli differenze tra gli uni e gli altri. Certamente l’uomo del Paleolitico era cosciente di sé,
capace di modificare l’ambiente in cui viveva e di produrre strumenti per appropriarsi di quel che la natura
poteva offrirgli, benché non coltivasse regolarmente le piante, né allevasse animali.
Nonostante che lo stato attuale circa le fonti archeologiche concernenti l’età della pietra non permetta di
avere un quadro sufficiente chiaro riguardo alle condizioni di vita e alle credenze dei cacciatori del Paleolitico
(che si suole distinguere in tre fasi successive: Paleolitico inferiore, Paleolitico medio e Paleolitico superiore, che
è l’età che qui si prende in esame in modo particolare) si può comunque ritenere che durante questo lungo
periodo che precede l’età neolitica, gli uomini vivessero in piccoli gruppi8. Fondamentale anche allora doveva
essere la struttura della parentela e il ruolo degli “stregoni”. Questi oltre alla funzione magico-religiosa
dovevano pure avere una notevole influenza sull’intera vita del gruppo. I capi, se c’erano, dovevano essere gli
anziani, i più esperti e capaci non solo nella caccia, ma pure nel “regolare” la vita della comunità, ingraziandosi
le “forze benefiche” della natura., dato che anche l’uccisione degli animali sicuramente aveva un carattere
rituale. E se l’attività venatoria dei cacciatori del Paleolitico rivela che i nostri antenati, oltre alla conoscenza
dei comportamenti della selvaggina cacciata, avevano la capacità di progettare ed eseguire dei piani complessi,
le pitture rupestri di Lascaux, che appartengono al periodo del Paleolitico superiore, attestano senza ombra di
dubbio che la coscienza di questi cacciatori era “matura” e pienamente sviluppata. Vi è chi ha interpretato
queste pitture come espressione di una forma di sciamanesimo, e in effetti l’esistenza di un certo tipo di
sciamanesimo in quest’epoca appare probabile9. Del resto, non si deve dimenticare che la religione, pur con
profonde “fratture” e differenze più o meno grandi tra popolo e popolo, tra un periodo storico e un altro, ha
sempre svolto una funzione di primaria importanza perlomeno fino all’inizio dell’età moderna Si ritiene pure
che la dipendenza dalle risorse naturali e dalla selvaggina abbia diversificato il modo di vivere dell’uomo a
seconda del clima e delle condizioni faunistiche e floristiche. La struttura delle comunità di cacciatori non
poteva essere però particolarmente articolata e complessa, anche se Müller-Karpe pensa che, almeno in certe
regioni, vi fossero aree migratorie e di caccia piuttosto limitate, in cui i contatti tra diversi gruppi dovevano
essere più intensi e frequenti che con gruppi di un’altra area. Che vi fossero anche scontri, incursioni o scorrerie
lo si può ipotizzare, ma su questo le fonti archeologiche non ci possono illuminare, benché i gruppi dovessero
essere soggetti a frequenti scissioni, per le contese che potevano sorgere tra i membri di un medesima
comunità, e gli strumenti usati per la caccia potessero essere usati come armi10.
8
Vedi H. Müller-Karpe, L’età della pietra, Laterza, Roma-Bari, 1976.
9
La questione però è assai controversa. Vedi comunque il fondamentale J. Clottes, D. Lewis- Williams, Les Chamanes dans la Préhistorie, La Maison
des Roches, Parigi, 2001. Sulle credenze religiose, dalla preistoria fino all’inizio dell’età moderna, essenziale è M. Eliade, Storia delle credenze e delle
idee religiose, Sansoni, Firenze, 2006.
10
La tesi di L. Keeley (in War Before Civalization, Oxford University Press, Oxford, 1996) secondo cui la guerra è una costante della storia del genere
umano, è messa in discussione da K. Otterbein (in How War Began, Texas A&M, College Station, 2004) che sottolinea l’importanza del passaggio
dalla fase contraddistinta dal “big-game hunting” (dell’uomo cacciatore-raccoglitore) a quella del “warfare” (ossia dei conflitti tra gruppi di uomini
5
D’altronde, è noto che nel Paleolitico medio la lancia di legno era la principale arma da caccia, mentre nel
Paleolitico superiore si usavano pure i giavellotti, con una punta dentata ad arpione, che venivano scagliati
avvalendosi di un propulsore (un attrezzo a forma di bastone munito di un uncino e simile a quello usato ancora
oggi dai “popoli cacciatori”). Il ritrovamento di grandi cumuli di ossa di animali ai piedi di dirupi (gli animali
probabilmente venivano fatti precipitare da un pendio) pare indicare che in questo periodo la caccia fosse
organizzata collettivamente. Né mancano scheletri che mostrino chiari segni di ferite inferte dall’uomo con
una punta di lancia. Alcuni dati archeologici farebbero anche supporre che verso la fine di quest’epoca sia
apparso l’arco, sebbene quest’arma sia rappresentata solo in epoca successiva. Invero, all’inizio del Neolitico
compaiono quattro armi letali – la mazza, la fionda, il pugnale e l’arco – e le pitture rupestri mostrano degli
arcieri che combattono tra di loro. Come osserva Müller-Karpe i mutamenti che contraddistinguono questo
periodo, comportarono pure l’affermarsi di un modo di vivere guerresco e degli scontri cruenti per appropriarsi
di cose (e probabilmente pure di persone) appartenenti a gruppi rivali, o per insediarsi in un territorio al posto
di altri gruppi umani. Certo è che una volta che l’uomo era riuscito a produrre una cultura materiale capace di
mantenerlo, ovunque si trovasse, cacciando la selvaggina (il cane fu addomesticato verso il 10.000 a. C. come
animale da guardia e da caccia), i tempi erano maturi per un notevole sviluppo sociale, culturale e tecnico. In
ciò l’uomo fu senz’altro favorito dalla fine dell’età glaciale, avvenuta verso l’8.000 a. C. La configurazione
del nostro pianeta non è molto cambiata da allora11. In particolare, la massa continentale dell’Asia comprende
alcune grandi penisole: l’Europa, l’Arabia, l’India e l’Indocina. La parte mediana di quest’ultima è in parte
affondata, cosicché l’Australia non è più unita con l’Asia ma ne è separata da un groviglio di stretti e di isole,
che formano l’Arcipelago indonesiano, mentre lo stretto di Malacca unisce l’Oceano Indiano e l’Oceano
Pacifico, e l’Africa è unita all’Asia dall’istmo di Suez. Al largo delle coste eurasiatiche si trovano, oltre
all’Antartide, le Americhe, collegate tra di loro grazie all’istmo di Panama, che, come quello di Suez, è stato
trasformato in un canale artificiale. La fine dell’età glaciale vide anche la foresta sostituirsi alle steppe artiche
e portò alcuni gruppi di uomini ad insediarsi nei pressi di laghi e litorali, e a praticare la pesca con reti e ami.
Si giunse anche a levigare gli oggetti in pietra, al fine di lavorare meglio il legno con il bulino e lo scalpello, e
comparvero la ceramica, la filatura e la tessitura. Anche gli scambi e i contatti tra i diversi gruppi umani si
intensificarono, com’è testimoniato dalla vasta diffusione sia dell’ossidiana (un materiale litico, le cui cave
si trovano in alcune isole del Mediterraneo - tra cui la Sardegna, le Eolie e l’isola di Melo - e in Ungheria, e
con il quale si possono costruire diversi strumenti di lavorazione e ovviamente delle armi), sia dell’ambra
(ma in età assai più tarda), grazie alle vie di comunicazione che collegavano il Baltico con la Penisola iberica
e con i Balcani. In quest’epoca si diffuse anche l’uso del rame, conosciuto in Oriente almeno dal IV millennio
a. C., mentre il bronzo prima della fine del III millennio a. C. è raro. Non è però certo se i primi crogioli siano
apparsi in Mesopotamia o altrove, anche se si ritiene che le conoscenze metallurgiche si siano diffuse da sud
a nord e non viceversa. Asce piatte e pugnali triangolari di rame comparvero nell’area del Mediterraneo
orientale e nell’Europa centrale e settentrionale. All’inizio, per ottenere leghe più duttili si usarono l’antimonio
e l’arsenico, ma la scoperta del vero bronzo, ovvero una lega di stagno e rame, si pensa sia avvenuta in una
zona in cui vi erano entrambi i metalli. Giacimenti di stagno, assai più rari di quelli di rame, si trovavano
nelle isole britanniche, nella parte nord-occidentale della Penisola iberica, nell’Europa centrale, in qualche
zona della Francia e dell’Italia, in Persia, nell’Asia sud- occidentale e in alcune aree della Cina. Con la
ömetallurgia la produzione di armi conobbe un impulso eccezionale e portò alla diffusione di spade, lance,
punte di freccia, asce, mazze e corazze. La grande conquista del Neolitico fu però la domesticazione di diverse
specie di piante e di animali. Si ritiene che già i natufiani (una popolazione che viveva stabilmente in Palestina,
alle pendici del Monte Carmelo, verso la fine della fase di transizione tra il Paleolitico e il Neolitico, e che
praticava sia la caccia che la pesca) fossero sul punto di scoprire l’agricoltura, dato che raccoglievano le piante
nei dintorni con un falcetto (formato da un osso cui era attaccata una selce dentata) e pestavano i semi con i
mortai. Peraltro nell’odierno Iraq crescevano spontaneamente l’orzo e il grano, e anche le comunità che
abitavano in questa regione avevano raggiunto un livello tecnico e sociale sufficientemente evoluto per
diventare sedentarie. Inoltre, i primi agricoltori addomesticavano maiali, capre, pecore e bovini. Gli storici
comunque pensano che l’agricoltura si sia sviluppata autonomamente in aree diverse, benché sia stata decisiva
per la nascita della civiltà la coltivazione di frumento e orzo nel Vicino Oriente intorno al 7.000 a. C.12 Da qui
armati).
11
Vedi A. Toynbee, Il racconto dell’uomo, Garzanti, Milano, 1977. Si tratta di un’opera che, pur essendo divulgativa, è ricca di spunti estremamente
interessanti dal punto vista geopolitico.
12
Di notevole importanza è stata la scoperta del santuario megalitico di Göbekli Tepe nella Turchia sud-orientale, il cui strato più antico risalirebbe
addirittura all’XI secolo a. C. In questo sito si sono trovate parecchie ossa di animali e si ritiene che vi si svolgessero dei banchetti sacri in cui si
consumava una grande quantità di bevande alcoliche e di cibo. Pertanto, si è ipotizzato che «in response to the demand, new food sources and processing
6
si sarebbe diffusa nella maggior parte dell’Eurasia e in Africa.
Al fine di comprendere questi eventi di fondamentale importanza per la successiva storia dell’uomo, è di
particolare interesse la scoperta della città di Gerico, uno dei più antichi insediamenti permanenti conosciuti,
situata presso le rive del Giordano, all’interno della quale vi erano delle piccole case di mattoni crudi. Già
prima del 6.000 a. C. Gerico era una città che contava circa 2.000 abitanti. Cinta da un muro (con pietre larghe
quasi due metri, lungo 600 e alto tre metri), con una torre tronco-conica alta nove metri e con un fossato (ai
piedi del muro) largo fino a nove e profondo tre metri, dominava la via che attraversava la valle del Giordano
nella punta settentrionale del Mar Morto. Dopo la scoperta di Çatal Hüyük, ai margini dell’altopiano Konya
nella Turchia meridionale, e di altri insediamenti urbani, non si può ritenere che Gerico fosse un fenomeno di
urbanizzazione isolato. Ma se a Çatal Hüyük i muri delle case esterne presentano una facciata priva di soluzione
di continuità, sì che, come si è osservato, un aggressore esterno che avesse scavato un buco nel muro si sarebbe
trovato in una casa ma non all’interno dell’abitato, Gerico costituisce una vera cittadella fortificata. È evidente
allora che ben prima della comparsa dei grandi imperi si era creata una situazione che imponeva di difendersi
da nemici ben organizzati e non solo da razziatori occasionali. A che altro se non alla guerra, si chiede a ragione
Keegan, sarebbero serviti le mura, la torre e il fossato?
Rispetto al cacciatore del Paleolitico l’uomo di Gerico aveva compiuto un balzo in avanti nel controllo e
nell’organizzazione dello spazio geografico e sociale. Rispetto alla grotte, ai rifugi e agli accampamenti
all’aperto del Paleolitico, l’appropriazione di un pezzo di terra e lo spazio fortificato segnavano non solo il
confine che divideva i seminomadi, perlopiù dediti alla pastorizia, da un popolo sedentario (la cui fonte
principale di sostentamento, oltre all’allevamento, era l’agricoltura), ma presupponevano una organizzazione
sociale complessa, in cui spiccavano la funzione di comando e la capacità di controllare una moltitudine di
uomini e donne in vista di un fine comune. La solidarietà “mistica” tra uomo e natura (che contraddistingueva
la vita dei cacciatori e raccoglitori del Paleolitico) era ancora presente, ma ora l’uomo doveva controllare in
modo più rigoroso i propri impulsi per soddisfare le esigenze della comunità, la quale, tra l’altro, anziché
consumare subito il raccolto, doveva mettere da parte la semente per il raccolto successivo.
La terra tra i due fiumi e la “terra nera”. Passarono però millenni prima che gli uomini, bonificando con canali
di scolo e di irrigazione la regione paludosa compresa tra il Tigri e l’Eufrate, diventassero stanziali, senza
sfruttare direttamente l’irrigazione naturale. Indipendentemente dal fatto che sia vera l’ipotesi di alcuni studiosi
che pensano che un popolo diverso dai Sumeri possa avere operato la prima colonizzazione del “Paese
paludoso”, fondando degli stanziamenti agricoli in seguito diventati centri urbani grazie all’impulso culturale dei
Sumeri13, la bonifica di questa regione fu un’impresa sociale assai più che un’impresa tecnologica. L’opera di bonifica
e la manutenzione di un efficiente sistema di irrigazione, che richiedeva continui lavori per mantenere in ordine
argini e canali, erano operazioni che necessitavano di una forte autorità pubblica, di capi abili e rispettati da
tutti i membri della comunità. Inoltre la produzione di una quantità di cibo che eccedeva il fabbisogno della
comunità favorì la divisione del lavoro e una differenziazione delle classi sociali, di modo che fu possibile ad
una minoranza concentrarsi in città e vivere grazie al surplus prodotto da una maggioranza rurale, mentre i
contadini erano soggetti a corvée, per eseguire quei lavori pubblici da cui dipendeva la vita dell’intera comunità
e naturalmente per prestare servizio come soldati. Una classe sacerdotale venne a distinguersi nettamente da
quella dei governanti (mentre in origine sacerdoti e capi dovevano essere le stesse persone), e con il passare
del tempo (ossia con il declino della “città tempio” di Uruk e la seconda fase di urbanizzazione all’inizio del
III millennio a. C.) il palazzo (in specie nelle città accadiche) divenne il centro di potere principale, pur
rimanendo sempre di grande importanza il ruolo del tempio. Si formò quindi un gruppo dominante che, oltre
al re, comprendeva sacerdoti, alti dignitari, scribi, funzionari, soldati, mercanti e artigiani. “Pilastro cardine”
di questa struttura sociale era senza dubbio lo stilo dello scriba, senza il quale non sarebbe stato possibile
amministrare una tale massa di terra e acqua, né memorizzare le istruzioni e gli ordini necessari per controllare
un così grande numero di individui. Nondimeno, anche se la scrittura sumerica (la più antica che si conosca) è
un capolavoro di intelligenza creativa, è estremamente complicata ed “esoterica”. Solo con l’invenzione
techniques were explored. In this scenario, religious beliefs and practices may have been a key factor in the adoption of intensive cultivation and the
transition to agriculture» (O. Dietrich et al., The Role of Cult and Feasting in the Emergence of Neolithics Communities, “Antiquity”, vol. 86, n. 333,
gennaio 2012, p. 693; vedi anche K. Schmidt, Göbekli Tepe, Southeastern Turkey. A Preliminary Report on the 1995-1999 Excavations, “Paléorient”,
vol. 26, n. 1, 2000, pp. 45-54).
13
In ogni caso, si sa che la civiltà sumerica si formò a partire da un primo processo di urbanizzazione (noto come “rivoluzione urbana”) contrassegnato
dall’egemonia di Uruk (nel IV millennio a. C.), la cui “influenza” si estese certamente almeno fino ad Hama, in Siria. Questa fase fu preceduta in
Mesopotamia dalla cultura di ‘Ubaid (4500-3500 a. C.), contraddistinta dalla fomazione di aggregati socio-economici più complessi dei villaggi
neolitici. Anche se tra il periodo di ‘Ubaid e quello di Uruk non vi fu una rottura netta, nel periodo di Uruk si nota una marcata polarizzazione verso
una centralizzazione del potere politico e dell’economia. Uruk si può quindi considerare la prima città della storia.
7
dell’alfabeto (nella regione siro-palestinese intorno al XIV a. C.) in cui ciascuno dei segni scritti rappresenta
un singolo suono (anche se si ritiene che siano stati i Greci i primi a introdurre dei segni per indicare le vocali),
la scrittura poteva essere, in linea di principio, accessibile a tutti e diventare un potente fattore di promozione
sociale. Pertanto, anche il sistema di scrittura contribuì a rendere più profondo il solco che separava il gruppo
dominante dal resto della popolazione.
A poco a poco il rapporto tra l’apparato “templare-palatino” e le comunità di villaggio si fece ancora più
complesso. Queste ultime erano “incastonate” in una struttura amministrativa e politica che faceva leva sulla
necessità di onorare il dio della città, il quale era una sorta di ipostatizzazione del bene comune e dalla cui benevolenza
si riteneva dipendesse il destino della comunità. Inoltre, cambiò pure il regime della proprietà terriera, con le
assegnazioni ai funzionari di appezzamenti di terra, lavorati da coloni. Questi eccezionali mutamenti sociali
ebbero pure come conseguenza che molti contadini si indebitassero e diventassero servi se incapaci di restituire il
prestito. Non meraviglia perciò che le evidenti e sempre più gravi diseguaglianze (l’apparato “templare-palatino”
poteva giungere ad appropriarsi di ben due terzi del raccolto) inducessero i re, allo scopo di legittimare il
proprio potere, a tentare di convincere il popolo che agivano comunque secondo giustizia e per la prosperità
della collettività. Sotto il profilo geopolitico e geostrategico però è particolarmente rilevante che l’unità
spirituale e linguistica dei Sumeri non abbia impedito che vi fossero diverse “città Stato” in continua lotta tra
di loro (una situazione analoga a quella che si sarebbe verificata in Grecia molti secoli dopo). Ciò dipese anche
dalle particolari caratteristiche geografiche della Mesopotamia. Il complicato sistema di irrigazione favoriva il
frazionamento politico e rendeva più facile liti e contese, mentre il rendimento della pianura alluvionale della
Mesopotamia era talmente elevato (si calcola una resa di 1:25 o perfino maggiore) che anche una sua parte
(ma si stima che il palazzo e il tempio si appropriassero dei 2/3 del raccolto) bastava ad assicurare al gruppo
dominante un elevato tenore di vita. La “terra tra i due fiumi” però non era ricca di materie prime e costringeva
i Sumeri a cercare il rame nell’alto bacino del Tigri e dell’Eufrate, e il legname fin sul Monte Amano in Cilicia.
Rame e legname che i Sumeri pagavano esportando prodotti della terra e tessuti, ma se era facile scendere la
corrente dei due fiumi, non era possibile risalirla, perché, contrariamente al Nilo che scorre da sud verso nord
e quindi è navigabile in entrambi i sensi, nel bacino del Tigri e dell’Eufrate non c’è un vento dominante da
sud-est. La posizione svantaggiosa rispetto alle vie di comunicazione e all’accesso di materie prime ebbe
l’effetto di stimolare il commercio dei Sumeri. La cosiddetta “via dello stagno”, che andava dall’Afghanistan
a Sumer, passando attraverso l’Elam, divenne una arteria strategica di fondamentale importanza. Dalla
Mesopotamia lo stagno veniva trasportato in Anatolia, in Siria e poi in Egitto14. Neppure questa espansione
commerciale però agì come “fattore unificante”, contribuendo invece ad accentuare le rivalità tra le singole
città, tanto che ogni città sumerica era circondata da un fossato e da mura di mattoni di fango (in Mesopotamia
non vi era abbondanza di pietra) essiccati al sole (le mura di Uruk erano lunghe quasi dieci chilometri).
Le continue guerre tra le città sumeriche sono all’origine del detto: «Tu vai e prendi la terra dal nemico, il
nemico viene e si prende la tua terra»15. Le guerre potevano scoppiare per impadronirsi di materie prime, per
acquisire piccole estensioni di terra oppure per il controllo di un canale. Il sistema di irrigazione era talmente
importante che non è strano che Lagash e Umma si siano fatte la guerra per il possesso di un canale ai confini
tra le due città. La lunga guerra si concluse con la vittoria di Lagash. Un monumento di particolare importanza
ricorda questa vittoria: un lato raffigura l’esercito di Lagash condotto da Eannatum, il quale marcia sui corpi
dei nemici, mentre avvoltoi e leoni divorano i cadaveri; l’altro lato raffigura Eannatum che prende in una rete
i suoi nemici. Questo monumento, conosciuto come la “stele degli avvoltoi”, raffigura non solo soldati armati
di scudi e di lancia, ma Eannatum su un carro da guerra. Furono i Sumeri infatti a inventare il carro da guerra.
I carri erano a quattro o a due ruote “piene”. I primi modelli erano alquanto pesanti, ma tutti, compresi quelli
meno rozzi, non erano trainati da cavalli bensì da onagri (o più probabilmente, essendo assai difficile
addomesticare l’onagro, da equidi che erano un incrocio tra un asino e un onagro - un animale che per i Sumeri
valeva assai più di un asino). L’equipaggio di un carro era composto da un auriga e da un soldato armato di
lancia e giavellotto, anziché di arco, che pure era un’arma conosciuta dai Sumeri. Si ritiene che i soldati sui
carri, dopo avere scagliato il giavellotto, combattessero con la lancia a distanza ravvicinata . La principale
funzione del carro, che poteva raggiungere una velocità di 12-15 km/h, consisteva forse nel caricare i nemici
onde scompaginarne le file, ma probabilmente i carri intervenivano solo quando il nemico era già “in rotta”16
14
Vedi W. J. Hamblin, Warfare in the Ancient Near East to 1600 BC, Routledge, Londra- New York, 2006, p. 23.
15
C. G. Starr, Storia del mondo antico, Editori Riuniti, Roma, 1977, p. 50. Il libro di Starr è estremamente prezioso per il tema che qui trattiamo, data
la competenza dell’autore riguardo alle questioni militari. Infatti, a Starr si deve la storia ufficiale della V armata americana in Italia (ossia l’opera From
Salerno to the Alps. A History of the Fifth Army, 1943-45, Infantry Journal Press, Washington D.C., 1948).
16
Secondo D. Dawson i carri in questo periodo non avevano un ruolo bellico, ma puramente simbolico e cerimoniale (vedi D. Dawson, The First
8
(difatti, solo nel secondo millennio a. C. alcune innovazioni tecniche consentirono di realizzare una piattaforma
stabile e meno pesante).
I progressi della metallurgia in Mesopotamia non furono però rapidissimi, anche per la scarsità dello stagno,
e le armi di bronzo si diffusero solo a partire dal 2000 a. C. I Sumeri comunque usavano pure pugnali, asce e
mazze. La spada ricurva, a forma di falce, era conosciuta, ma si pensa che ancora non fosse usata come arma
da taglio bensì come arma contundente17. La principale arma della fanteria era la lancia. La cosiddetta
“falange” sumerica verosimilmente si schierava in modo da presentarsi al nemico con una profondità di sei
righe dietro una fila di soldati armati di scudo. Ovviamente era ben diversa dalla falange greca (D. Dawson,
sostiene che era solo una massa scarsamente disciplinata di armati) e non si sa nemmeno esattamente come si
svolgevano gli scontri, anche se dovevano essere particolarmente cruenti (perlomeno si era particolarmente
spietati nei confronti del nemico una volta che lo si fosse messo in fuga o comunque lo si fosse “vinto”) come
testimonia la stele che ricorda la vittoria di Lagash contro Umma. Una vittoria che fece di Lagash una delle
città sumeriche più potenti e indusse Eannatum ad intraprendere diverse campagne militari, tra cui una
vittoriosa contro gli Elamiti (una popolazione che abitava nell’attuale Iran occidentale e che si erano spinta
fino nel territorio di Lagash), anche se poi dovette difendersi da una coalizione costituita da Akshak, Kish e
Mari. I successi di Eannatum però non alterarono significativamente gli equilibri tra le diverse città sumeriche,
come provano gli eventi successivi che videro i vecchi nemici di Lagash ribellarsi al successore di Eannatum.
Solo con Lugalzagesi, re di Uruk (in cui si è riconosciuto un originario ensi, ossia “governatore”, di Umma,
figlio di un principe accadico) la terra dei Sumeri parve sul punto di essere unificata. Il primato di Lugalzagesi,
in effetti, si estese a tutta la regione meridionale di Sumer, e fu raggiunto, almeno in parte, mediante la guerra,
come testimonia un’iscrizione di Urukagina di Lagash, il quale fu sconfitto da Lugalzagesi, accusato di aver
saccheggiato e incendiato i templi di Lagash da Urukagina, il quale comunque è celebre soprattutto per il suo
“editto di riforma”. Le guerre condotte da Eannatum avevano evidentemente accentuato le tensioni sociali e le
sue vittorie erano state pagate a caro prezzo. Si spiega forse così pure il tentativo di Urukagina, portato al
potere da un gruppo avverso alla dinastia di Lagash, di limitare la “pre-potenza” di quest'ultima, al fine di
restaurare un equilibrio sociale, che in realtà era definitivamente compromesso da una tendenza che agevolava
la scomparsa della piccola proprietà familiare e potenziava le proprietà del tempio e del palazzo, nonché quelle
dei grandi funzionari.
Nemmeno il dominio di Lugalzagesi poté durare a lungo. Nella parte settentrionale del Paese si era assistito
a continue frizioni tra i Sumeri e Semiti. E fu appunto Sargon di Akkad (un semita, cioè uno straniero) a
sconfiggere Lugalzagesi e a unificare Sumer, intorno al 2370 a. C. Dopo essersi assicurato il controllo della
città di Kish, Sargon riuscì con un colpo di mano a conquistare Uruk, mentre Lugalzagesi era impegnato a
radunare un esercito; poi affrontò Lugalzagesi in campo aperto, lo sconfisse e lo fece prigioniero. Dopodiché
attaccò e conquistò tutte le città alleate di Lugalzagesi. Come aveva già fatto ad Uruk abbatté le mura della
città vinte (ma forse si limitò ad abbatterne una parte, se non a rimuovere soltanto le porte delle città sconfitte),
un gesto significativo anche sotto il profilo strettamente politico. Questo successo paradossalmente fu anche
reso possibile dalla politica di Lugalzagesi, dacché egli, sottomettendo le altre città della parte meridionale di
Sumer, aveva creato le condizioni perché, una volta caduta Uruk, cadessero facilmente pure gli altri centri
sumerici. In pratica, sconfiggendo Lugalzagesi, Sargon si aprì la strada per conquistare l’intero Paese.
Acquisito il controllo di tutta la Mesopotamia meridionale, Sargon rivolse la sua attenzione ad oriente e
occidente, anche se non si conosce l’esatto ordine cronologico di queste ulteriori conquiste. È certo che egli
estese il suo dominio su dei territori ad oriente del Tigri, su gran parte della Siria (inclusa la città di Mari),
sull’Amano, nonché su altri centri ad occidente dell’Eufrate, tra cui l’importantissima città di Ebla, che, per la
sua felice posizione strategica (era ubicata nella Siria settentrionale, a sud di Aleppo) si trovava al centro di
una vasta rete di scambi, che determinarono il carattere essenzialmente mercantile della sua economia. La
stessa Assiria, indubbiamente assoggettata dai successori di Sargon, fu forse conquistata da quest’ultimo, il
quale scelse come capitale Akkad, sia per ragioni militari, dato che il Tigri e l’Eufrate nel luogo in cui sorgeva
Akkad distavano solo qualche decina di chilometri l’uno dall’altro, sia per ragioni politiche, in quanto è
Armies, Cassell, Londra, 2001) Invece Hamblin, che sottolinea giustamente l’importanza della religione nell’antico Vicino Oriente, al punto che la
guerra era sempre anche una teomachia (tanto che solo quando si portavano via le statue dai templi di una città, quest’ultima la si considerava vinta),
ritiene che proprio per questo motivo i carri avessero un notevole valore bellico.
17
Com'è noto, le date non possono che essere indicative a causa dei difficili problemi posti dai metodi impiegati per ricostruire la cronologia antica
(vedi M. Liverani, Le civiltà mesopotamiche, RCS, Milano, 2004, pp. 15-21 e pp. 723-735; in generale, per l’Egitto le date qui riportate sono quelle
della cronologia breve, mentre le altre sono quelle della cronologia media). Inoltre, si deve tener presente che sono ancora in corso gli studi riguardo
alla “cultura di Jiroft” (nell’Iran meridionale), che potrebbero modificare quanto si sa sulla nascita della civiltà nel Vicino Oriente (vedi M. Marta, La
“cultura di Jiroft” nel III millennio a. C., Facoltà di Lettere e Filosofia della Università Ca’ Foscari, 2012, (disponibile on line).
9
probabile che Sargon volesse che la nuova classe dirigente accadica non subisse l’influenza di altri centri di
potere, soprattutto dei templi, che godevano ancora di grande prestigio.
Con Sargon quindi appare, per la prima volta nella storia, un impero (sempre che non si consideri già un
impero anche il regno di Lugalzagesi), sebbene poggiasse su basi piuttosto fragili, come dimostrano le diverse
rivolte (anche se fallirono tutte) contro lo stesso Sargon e i suoi successori. Durante il regno di Rimush ci
furono stragi, deportazioni di prigionieri e vennero distrutte intere città. Né mancarono congiure di palazzo, in
una delle quali venne ucciso anche Rimush. In un’altra fu ucciso suo fratello Manishtusu, che gli era succeduto
al trono. Caduto pure Manishtusu, salì al trono Naram-Sin, nipote di Sargon, ma anche lui dovette subito
affrontare una serie di sollevazioni, tra cui quella della città Kish. Naram-Sin si rivelò però un eccellente
condottiero e, oltre a reprimere con successo varie rivolte (non solo dei Sumeri), conseguì importanti, benché
non decisive, vittorie contro dei bellicosi popoli montanari. Questo sovrano accadico costruì pure una serie di
fortezze per presidiare i confini dell’impero. Tali indubbi successi (tra cui si deve ricordare la distruzione della
città di Ebla)18 portarono ad un notevole ampliamento del regno accadico, tanto che Naram-Sin si definì “il re
delle quattro regioni del mondo” (tra l’altro la conquista delle coste del Golfo Persico assicurò ai Sargonidi il
controllo del commercio marittimo nella regione). Ma poco dopo la sua morte, la dinastia sargonide fu
rovesciata dai Gutei, una popolazione di montanari assai rozza, che dominò l’intera regione per un secolo circa,
ossia fino a quando non venne anch’essa sconfitta dal re di Uruk, sebbene di fatto l’impero fondato da Sargon
venisse restaurato da un altro re sumero, Ur-Nammu di Ur. Durante il dominio dei Gutei (verso la fine del III
millennio a. C.) la civiltà sumero-accadica non scomparve, ma su questo periodo disponiamo di pochissimi
documenti, mentre ampia è la documentazione relativa al periodo seguente che testimonia una forte ripresa
dell’attività economica.
In ogni caso, è difficile attribuire il crollo dell’impero dei Sargonidi solo all’invasione dei Gutei. Troppo
forte era l’“identità” delle singole città sumeriche perché bastassero dei funzionari fidati e impiegare la forza
per tenere unito il Paese, senza dar vita a una capillare amministrazione statale, che riducesse il malcontento
dei sudditi e si adoperasse per “amalgamare” i diversi elementi che componevano l’impero. Contare sui legami
tribali, come pare abbiano fatto i Sargonidi, non era sufficiente e richiedeva il continuo ricorso alle armi. E
l’esercito, spegnendo un incendio, ne accendeva un altro, per il fatto stesso di intervenire continuamente.
Questa situazione era resa ancora più grave da torbidi dinastici e da congiure di palazzo. Solo il potente esercito
dei Sargonidi, guidato da capi capaci, poté evitare che le numerose e continue ribellioni avessero successo. Ma
allorché alla pressione “endogena” se ne aggiunse una “esogena” e alla guida dello Stato non vi era più un
Sargon o un Naram-Sin, il destino dell’impero accadico era segnato. Nonostante ciò, la “macchina bellica” dei
Sargonidi era veramente temibile. Se di Rimush si racconta che avesse ucciso decine di migliaia di nemici,
Naram-Sin si vantava di avere inflitto ben 137.400 perdite ai suoi nemici. Queste cifre, anche se sono poco
attendibili, sono indicative della potenza dell’esercito dei Sargonidi e della ferocia con cui venivano represse
le ribellioni. È però alquanto dubbio che le vittorie dei Sargonidi siano state ottenute soprattutto grazie all’uso
dell’arco composito e all’uso del bronzo per la produzione delle punte di freccia, anche se si ritiene che nella
stele che celebra la vittoria di Naram-Sin sui Lullubiti, un popolo che proveniva dai monti Zagros, sia
raffigurato un arco di questo tipo. L’arco composito era davvero un’arma di eccezionale potenza. Costruito
con legno, nervo, corno animale e colla, aveva una portata di quasi 200 metri (benché sia probabile che la
portata effettiva non fosse superiore a 100 metri), cosicché era possibile colpire di sorpresa un nemico
anche se ci si trovava oltre i limiti della sua vista e del suo udito. Ne esistevano di vari tipi, ma quello migliore
fu ottenuto dando all’arco una forma a doppia convessità. L’arco composito comunque non era diffuso tra le
file dei soldati dell’impero accadico, benché fosse decisamente superiore rispetto ad un arco “semplice”.
William Hamblin, che ha approfondito la questione, giunge alla conclusione che se veramente gli Accadi
conoscevano quest’arco o si trattava di un tipo poco efficiente o costava troppo ed era usato solo da una ristretta
élite19.
A Sargon si attribuisce anche la creazione di un vero esercito permanente, benché un’iscrizione in cui si
afferma che “5.400 uomini mangiavano alla presenza di Sargon” si riferisca con ogni probabilità non solo a
soldati, ma anche a dignitari e funzionari vari. Certamente una parte di loro era costituita da soldati che
prestavano servizio regolarmente e che forse erano una sorta di “guardia del re”, mentre in caso di necessità il
sovrano poteva reclutare un esercito tra i suoi sudditi. Si sa che al tempo di Shulgi, figlio di Ur-Nammu, veniva
reclutato (grosso modo) un membro per ogni famiglia, e questo sistema doveva valere pure al tempo di Sargon
e anche in epoche precedenti20. Si è pure supposto che mantenere un esercito permanente potesse essere
18
Ebla però nel II millennio a. C. conobbe un altro periodo di splendore, prima di essere definitivamente distrutta dagli Ittiti.
19
Vedi W. J. Hamblin, op. cit., pp. 89-95.
20
Come scrive Mario Liverani, «strumento statale dell'esercizio della forza è la costituzione di un esercito che avviene a due gradi diversi. Un nucleo
10
talmente costoso da indurre a muovere guerra per fare bottino, arrivando così a fare “la guerra per la guerra”.
Una parte del bottino era divisa tra i soldati, anche come ricompensa per il loro valore. Si può facilmente
immaginare che i soldati, soprattutto gli ufficiali, avessero un certo ruolo anche negli affari di politica interna
(anche se non si è a conoscenza di rivolte contadine, secondo van de Mieroop non si può escludere che il
ricorso alla forza militare in politica interna fosse più comune di quanto risulti dalla documentazione
disponibile)21. Del resto, gli ufficiali avevano funzioni e gradi nettamente distinti. Durante il regno di NaramSin vi erano un generale (shagina) “comandante delle terre di Sumer e Akkad” e anche un comandante della
marina (nam-garash). Naram-Sin afferma di avere catturato, in una delle sue campagne vittoriose, 6 shagina
(generali), 17 ensi (governatori/colonnelli), 78 rabi’anu (capi di tribù nomadi) e 2.000 nubanda (capitani)22. Il
fatto che i Gutei abbiano avuto ragione dell’esercito accadico, la cui organizzazione militare si può
ragionevolmente ritenere assai più complessa di quella dei Gutei, sembra quindi corroborare l’ipotesi che la
distruzione dell’impero accadico sia dipesa anche da fattori di politica interna.
Dopo la cacciata dei Gutei, cominciò con Ur-Nammu il periodo della III dinastia di Ur. Adesso però le città
incluse nel regno di Ur-Nammu (diventato re dopo che in qualità di governatore di Ur aveva soppiantato il re
di Uruk) non erano più autonome ma amministrate da governatori inviati dalla capitale. L'età neosumerica
infatti fu caratterizzata da una forte centralizzazione del potere politico ed economico, che portò ad una
rarefazione della proprietà privata e ad un considerevole aumento del numero dei funzionari e dei dipendenti
del palazzo. Notevole fu quindi lo sforzo per attuare questa politica che portò pure alla realizzazione di
numerose opere pubbliche (come lo scavo di canali e la costruzione di ziqqurat e templi). Tuttavia, neppure i
sovrani di Ur riuscirono a debellare lo spirito di indipendenza delle diverse città, che cominciarono a sottrarsi
al controllo di Ur durante il regno di Ibbi-Sin. (Di particolare importanza fu la dinastia di Isin, che svolse un
ruolo di primo piano dopo la fine dell’impero di Ur, per lasciare poi il posto all'egemonia di Larsa e retrocedere
a piccolo regno cittadino). D’altronde, allorché gli Elamiti conquistarono e saccheggiarono Ur, l’autorità
dell’antica e prestigiosa città sumerica era già gravemente compromessa da difficoltà di approvvigionamento
e da disordini sociali, causati in specie dall’infiltrazione nell’area controllata da Ur di un popolo dedito alla
pastorizia, gli Amorrei, nonostante che si fosse costruita un’enorme fortificazione proprio al fine di proteggere
il territorio agricolo da questi pastori. Con la distruzione di Ur, diversi regni si resero del tutto indipendenti,
tra cui le città di Kish e di Babilonia, nonché l’Assiria sull’alto corso del Tigri e la città di Mari sul medio
Eufrate; ma cominciò pure un periodo di divisioni, caos e guerre, fino a quando il sovrano di Babilonia (il
famoso Hammurabi, che regnò dal 1792 al 1750 a. C.), non riuscì a sconfiggere e sottomettere i vari Stati
epigoni di Ur, tranne la città di Aleppo e l’Elam.
Grazie alla scoperta degli archivi di Mari (contenenti le lettere al re Zimri- Lim) è possibile ricostruire con
sufficiente precisione le relazioni tra le principali potenze della regione in questo periodo23. Nei primi dieci
anni del regno di Hammurabi, Babilonia giocò un ruolo minore nella regione e Hammurabi doveva essere
soltanto un vassallo di Shamshi-Adad I, fondatore di una dinastia amorrea in Assiria e di un (effimero) impero
che si estendeva fino al medio Eufrate e al Mediterraneo24. Quando a Shamshi-Adad I successe il debole IshmeDagan, Zimri-Lim divenne sovrano di Mari, grazie all’aiuto del re di Aleppo, privando così Ishme-Dagan della
parte occidentale dell’impero assiro. La bilancia del potere nella regione ora venne a dipendere dalle relazioni
tra sei Stati: l’Assiria, Eshnunna, l’Elam, Larsa, Babilonia e Mari. Nessuno di questi Stati era tanto forte da
potere sconfiggere gli altri, di modo che si determinò un certo equilibrio, benché fosse chiaro al sovrano di
Babilonia che tale situazione non poteva durare a lungo. Perciò Hammurabi, in questa seconda fase del suo
regno, si preparò alla guerra, che sapeva inevitabile, e fece costruire una serie di fortificazioni, preoccupandosi
militare è assicurato da specialisti della guerra, a tempo pieno; ma in caso di guerra si raccoglie un esercito di corvée, messo insieme dai contributi
coatti di tutta la popolazione - e in questo il “lavoro” della guerra non è dissimile da ogni altro lavoro che richiede la mobilitazione della popolazione»,
M. Liverani, op. cit., pp. 103-104.
21
Vedi M. van de Mieroop, The Ancient Mesopotamian City, Clarendon Press, Oxford, 1997, p. 35.
22
W. J. Hamblin, op. cit.,p. 9.
Si badi che, per quanto concerne le relazioni tra i vari Stati, di solito si conosce solo il punto di vista del vincitore. Un’altra grave limitazione per la
ricostruzione storica del mondo antico consiste ovviamente nel fatto che è quasi impossibile conoscere il punto di vista delle classi sociali subalterne.
24
Risalgono all'inizio del II millennio a. C. i testi relativi alla “colonia commerciale” (kārum) assira situata presso Kanesh, in Cappadocia, che ci
offrono la possibilità di comprendere come allora si svolgevano i traffici commerciali. In pratica, il “mercante” (che si trovava a Kanesh e che
probabilmente si “appoggiava” più che al re assiro ai “notabili” della città di Assur, dacché si ritiene che in questo periodo il potere del re assiro fosse
ancora “limitato” per la presenza di alcune potenti famiglie della comunità cittadina), affidava (avvalendosi talvolta di uno “spedizioniere”) del capitale
(in pratica dell'argento) ad un “trasportatore”, il quale doveva recarsi ad Assur per acquistare i beni da consegnare al “mercante”. In sostanza, si
scambiava argento con tessuti pregiati e stagno. Si è ipotizzato che nell'arco di 40-50 anni si siano importate a Kanesh 100.000 tonnellate di stoffe e
10.000 tonnellate di stagno (vedi M. van de Mieroop, A History of the Ancient Near East, Blackwell, Oxford-Malden-Victoria, 2007, p. 97). Anche
considerando le spese di trasporto, le “tasse” da pagare ai vari regni attraverso i quali la “carovana” (composta di asini) doveva passare e la “tassa”
dovuta al re di Kanesh, il profitto era certamente assai cospicuo. La vera “incognita” era la guerra, che poteva portare ad una improvvisa interruzione
dei traffici.
23
11
in particolare di rafforzate le mura della città di Sippar, situata a nord di Babilonia.
Nel 1769 a. C., il precario equilibrio che si era creato alla morte di Shamshi- Adad I si ruppe, e Hammurabi si
alleò con l’Elam e Mari contro il re di Eshnunna, che venne sconfitto e ucciso insieme con i membri della sua
famiglia. Dei tre Stati che avevano sconfitto Eshnunna, all’Elam, che era il più forte, toccò la maggior parte
del bottino di guerra. Dato che era evidente che il sovrano dell’Elam mirava a conquistare l’egemonia sulla
Mesopotamia, Hammurabi dovette scegliere: o diventare vassallo del re dell’Elam oppure muovergli guerra.
La decisione che prese era prevedibile. Si formò così una nuova alleanza tra Babilonia, Mari e Aleppo, alla
quale però il re elamita ne contrappose un’altra. Dopo alterne vicende, non riuscendo l’Elam ad avere ragione
della solida coalizione avversaria, varie città passarono dalla parte di quest’ultima e la stessa Eshnunna si
ribellò contro il re di Elam, costringendolo a cedere. A questo punto, Hammurabi era pronto ad acquisire il
dominio sulla Mesopotamia, e attaccò anche il re di Larsa. Ma la vittoria non fu facile. Nel 1762 a. C., si formò
una coalizione antibabilonese che cercò di trarre profitto dal fatto che Hammurabi era impegnato nella guerra
contro Larsa. Ma il sovrano babilonese riuscì a sconfiggere tutti i suoi nemici e poi attaccò e conquistò anche
la città di Mari, che era sempre stata al fianco di Babilonia durante queste guerre. Annesse le città di Eshnunna,
Larsa e Mari, grazie anche a una politica spregiudicata, che si potrebbe definire “machiavellica”, Hammurabi
completò l’unificazione della Mesopotamia, con ulteriori vittorie contro l’Assiria.
Né gli archivi di Mari né altre testimonianze ci informano in modo dettagliato sulle varie battaglie che si
combatterono in questo periodo, benché sia noto che scorrerie e incursioni in territorio nemico erano frequenti.
Gli scontri in campo aperto erano piuttosto rari, mentre erano frequenti gli assedi a città e a fortezze, oltre alle
imboscate. La guerra si svolgeva secondo una sequenza di eventi abbastanza precisa: dapprima si
interrogavano gli dei e si interpretava la loro volontà, poi si intraprendeva la campagna militare. Quando si
vinceva una battaglia, si ammucchiavano i corpi dei nemici uccisi (anche se è difficile stabilire quanti soldati
venivano uccisi in combattimento e quanti allorché si erano dati alla fuga o si erano arresi; ma molti prigionieri
erano ridotti in schiavitù ed erano considerati parte del bottino di guerra), poi si celebrava il trionfo del
vincitore. Sulla base dei sigilli dell’epoca parrebbe che l’arma più usata fosse la spada ricurva, ma le fonti
archeologiche mostrano che la lancia, l’ascia e il pugnale erano di gran lunga più diffusi. Si sa pure che, oltre
agli uomini che erano obbligati a prestare servizio militare, vi erano dei soldati di professione e dei mercenari
reclutati tra le popolazioni nomadi. Una struttura burocratica alquanto complessa doveva occuparsi del
reclutamento, nonché di tutti quei servizi e lavori necessari perché un esercito potesse combattere. Gli eserciti
potevano contare su alcune decine di migliaia di uomini (includendo parecchi lavoratori e addetti a vari servizi)
ma cifre come quella di 120.000 soldati sotto il comando del re di Eshnunna si possono considerare grossolane
esagerazioni.
Lo Stato frequentemente assegnava agli uomini armi, cibo e indumenti. A tal fine vi erano diversi magazzini
e depositi. Ma la mobilitazione di un gran numero di uomini rendeva necessario che i soldati spesso dovessero
aiutare i contadini, dato che vi erano poche braccia per il raccolto. E un cattivo raccolto o la distruzione di un
raccolto durante una guerra poteva causare una seria crisi economica a qualsiasi Stato. Un altro serio problema
era la corruzione. Ad esempio, si ha notizia che del grano immagazzinato per l’esercito era stato venduto in
cambio d’argento. Insomma, vi era già il problema di “controllare i controllori”. Particolare rilievo aveva il
trasporto di uomini e merci, per il quale oltre ad animali (in specie asini) si usavano imbarcazioni di diverso
genere. La logistica anche allora aveva quindi un’importanza fondamentale. Vi era inoltre un preciso “sistema
di premi e punizioni”, onde rafforzare la disciplina e stimolare gli uomini ad imitare i più valorosi, e ai soldati
venivano assegnati appezzamenti di terra, in misura diversa a seconda del grado. Ad esempio, ad un alto
ufficiale fu assegnato un terreno di 190 ettari, mentre ai soldati semplici si poteva dare un minuscolo
appezzamento di terra. Com’è ovvio, anche una parte del bottino doveva essere distribuita tra i soldati, sempre
tenendo conto dei diversi gradi e delle diverse funzioni.
Per quel che riguarda la tattica e l’organizzazione, sappiamo che talvolta l’esercito marciava suddiviso in
colonne e l’avanguardia probabilmente era composta da truppe scelte. Truppe scelte erano indubbiamente pure
i carristi. Altri soldati avevano il compito di esplorare il terreno, nonché le posizioni e i movimenti del nemico.
Vi era anche la fanteria leggera, che tendeva imboscate ai nemici; e non mancavano né informatori né vere e
proprie spie. C’erano pure truppe che dovevano presidiare una fortezza o una città, delle guardie di confine e
dei soldati scelti che costituivano il corpo della “guardia reale” (quella di Shamshi-Adad I era composta da
200-400 uomini). Le tecniche d’assedio, benché conosciute fin dal III millennio a. C., non erano avanzate
come quelle impiegate successivamente dagli Assiri. Gli assedianti usavano scale, costruivano rampe e
scavavano tunnel, ma le città erano fortificate e cinte di mura, con torri semicircolari o quadrate, da cui gli
arcieri potevano scagliare le frecce contro gli assedianti. E i difensori potevano cavarsela con una difesa
“attiva” (costruendo “contro-rampe”, usando il fuoco e facendo delle sortite), soprattutto se potevano contare
su un esercito che venisse in loro aiuto. La documentazione che possediamo offre anche la possibilità di avere
12
un quadro dell’amministrazione statale e della società babilonesi al tempo di Hammurabi. Il famoso codice di
questo grande re però non è l’unico né il più antico (il primo codice di leggi che si conosca risale al regno di
Urnammu), benché sia la sintesi più completa pervenutaci. Segue uno schema in uso già da tempo, ovvero
non vengono enunciati dei principi universali, ma si elencano dei casi particolari e le relative soluzioni sulla
base della “legge del taglione”, che teneva conto però di una struttura sociale ben definita. Si distinguevano
perciò tre classi sociali: liberi, “semiliberi” (ossia “semplici” dipendenti del palazzo) e schiavi.
Con la fine del periodo neosumerico si era verificata una notevole estensione della proprietà privata,
soprattutto ai danni dei templi che erano soliti assegnare in usufrutto delle terre ai privati. Le numerose
campagne militari e le conquiste del re babilonese comportarono però che parecchie terre venissero assegnate
a veterani di guerra. Hammurabi, perciò cercò di ridurre la proprietà privata, favorendo l’amministrazione
statale e limitò il potere politico dei templi, controllando le gerarchie sacerdotali e assegnando
l'amministrazione della giustizia a giudici del re. Si tenga presente comunque che adesso i gruppi sociali
privilegiati (sacerdoti, scribi, amministratori, mercanti e proprietari di terre “a vario titolo”) tendevano a
“sganciarsi” dal controllo regio, di modo che le strutture palatine e templari funzionavano tramite una serie di
appalti e sub-appalti, e la centralizzazione templare- palatina era quindi più di natura fiscale che lavorativa25.
Peraltro, osserva significativamente Liverani che per mantenere un superiore equilibrio sociale ed economico
occorreva che il sovrano si prendesse cura delle categorie più esposte, onde fungere «da argine alle spinte che
dai meccanismi economici “di mercato” [sarebbero venute] verso un intollerante asservimento generalizzato»26. Al
riguardo, bisogna fare una breve ma essenziale considerazione sul cosiddetto “dispotismo orientale”. Scrive
Liverani, che il termine “dispotismo” sarebbe «da accantonare, in quanto troppo compromesso, troppo
arricchito di connotazioni, per cui non designa più (ed anzi: quando mai ha designato?) un certo sistema
politico obbiettivamente descrivibile nei suoi meccanismi e nei suoi princìpi teorici, ma implica una precisa
valutazione». Invero, precisa Liverani, il “mito” del dispotismo orientale esprime solo «la nostra sensazione
di superiorità di esorcizzare ogni timore negando l’esistenza di rivali adeguati; ma prospera grazie anche ad
una condizione preliminare che è l’ignoranza». Per rendersene conto, basterebbe tener presente la varietà
dell’ambiente umano, sociale ed economico dell’antico (ma non solo) Oriente, in cui si possono distinguere
due tipi statali: il tipo statale comunitario e quello palatino (cioè il “dispotismo”), anche se i diversi «sistemi
politici partecipano in varia misura ma contemporaneamente di entrambi i tipi»27.
Di fatto, nonostante le differenze, anche assai rilevanti, tra le diverse zone, in particolare tra l’Egitto e l’area
siro-mesopotamica, si può affermare che la caratteristica principale degli Stati nell’antico Vicino Oriente fosse
costituita dall’esistenza di una struttura di potere che si basava sull’afflusso verso il “palazzo” (il “centro del
potere”) di buona parte della ricchezza prodotta da contadini e artigiani, nonché di merci che provenivano
dall’esterno del Paese. In cambio il “palazzo” doveva (almeno “in teoria”) garantire ordine, sicurezza,
“giustizia”, e la difesa delle tradizioni e dei legami comunitari. Ovviamente, sacerdoti, scribi, guerrieri e alti
dignitari costituivano insieme alla famiglia reale un gruppo dominante nettamente differenziato dalla massa
della popolazione. Indipendentemente dalla dicotomia tipo statale palatino/tipo statale comunitario, è ovvio
che tale “sistema” fosse caratterizzato non solo da contrasti tra dominanti e dominati, pur con tutti i distinguo
necessari, ma anche da conflitti tra i membri del gruppo dominante (lotte intestine, congiure di palazzo e così
via) e tra gruppi dominanti (conflitti con altri Stati o con altri popoli). E a mano a mano che il commercio e gli
scambi si intensificavano, aumentavano pure i legami politici e culturali tra i popoli e naturalmente le rivalità
tra i diversi gruppi dominanti. Il tutto in un contesto in cui la religione, se poteva essere anche potente
strumento di controllo e dominio, conferiva pur sempre senso e valore alla vita anche dei più “semplici”,
tramite il “linguaggio”, profondo e simbolico, del rito e del mito, benché “al disotto” della religione ufficiale
vivesse e vibrasse pure una religione dei ceti popolari con i suoi riti e i suoi “racconti sacri”.
Comunque sia, malgrado l’impegno e le energie profuse da Hammurabi nel trasformare Babilonia in un
efficiente centro di potere, lo Stato babilonese non poteva controllare l’intera Mesopotamia, senza giovarsi
della personalità eccezionale di Hammurabi. L’impero babilonese, come l’impero dei Sargonidi, dipendeva
più dalle doti personali del re, che non dall’esistenza di una amministrazione statale e da un’organizzazione
militare efficiente. Troppi i contrasti “interni” e troppe le minacce “esterne” perché l’ancora debole struttura
dell’impero potesse far fronte con successo alle sfide che doveva affrontare. La crisi difatti si manifestò subito
dopo la scomparsa di Hammurabi e Babilonia, pur conservando intatto il suo prestigio culturale, vide contrarsi
notevolmente l’ambito del suo dominio, dopo che (nel 1595 a. C.) venne pure saccheggiata dagli Ittiti,
riducendosi ad essere una pallida ombra di quella che era stata la capitale dell’impero paleobabilonese di
25
26
M. Liverani, op. cit., p. 294.
Ivi, p. 297 (corsivo nostro).
27
M. Liverani, La struttura politica, in S. Moscati et al., L’alba della civiltà, Utet, Torino, 1976, vol. I, pp. 278-281.
13
Hammurabi. Dallo sconvolgimento politico e sociale che derivò dalla razzia compiuta dagli Ittiti, seppe trarre
profitto un popolo di montanari, i Cassiti, che regnarono su Babilonia per diversi secoli. Per la Mesopotamia
centro-meridionale si trattò di una fase di grave declino demografico ed economico (con il rischio di collasso
della rete di irrigazione e della produttività della terra, anche per l'ipersfruttamento del suolo), che vide
nuovamente ampliarsi le funzioni dei templi.
Per quanto concerne gli Ittiti (un popolo di lingua indoeuropea) è noto che nei primi secoli del II millennio
a. C. riuscirono ad imporsi sulle popolazioni dell’area anatolica, sottomettendo o distruggendo diversi Stati
locali e, secondo la tradizione, il re Labarna (forse mai esistito come personaggio singolo) portò i confini del
regno fino al mare. Con il suo successore, Khattushili I, cominciò la spinta militare oltre i confini dell’Anatolia
e Khattusha divenne la capitale dello Stato, ma non senza che continuasse la rivalità contro altre città
anatoliche. Dopo che Murshili I ebbe saccheggiato Babilonia (un’impresa che al re ittita fu possibile grazie
alla conquista di Aleppo, il cui possesso era indispensabile per compiere una incursione contro Babilonia
muovendo dalla penisola anatolica) vi fu un periodo di torbidi dinastici e i capi delle province divennero quasi
dei sovrani locali a causa della debolezza dell’autorità centrale. Il re Telepinu stabilì allora delle regole precise
per la successione al trono, ma torbidi dinastici e lotte intestine non cessarono. Tuttavia, a partire dal XV secolo
a. C. (che segna la fine del cosiddetto “Antico Regno”), con il re Thudaliya I/II (denominato così poiché non
è certo che le imprese a lui attribuite siano quelle di un solo sovrano) cominciò un periodo in cui la potenza
ittita si accrebbe notevolmente, benché sotto il regno di Tudhaliya III, il regno ittita rischiasse di scomparire
sotto la pressione dei Kaska (una bellicosa popolazione di una zona montuosa non distante da Khattusha e mai
del tutto sottomessa dagli Ittiti), che giunsero a prendere la stessa Khattusha, e del Paese di Arzawa,
nell’Anatolia occidentale. Ma Tudhaliya III, insieme con suo figlio Shuppiluliuma I, riuscì nel non facile
compito di ridurre all’ordine le province settentrionali del regno ittita. Inoltre, Shuppiluliuma I debellò Arzawa
in una serie di dure campagne militari e intraprese un’energica politica di conquista in direzione della Siria,
spingendosi fino a Qadesh e stringendo un’allenza con Ugarit, che per i suoi porti, i suoi traffici commerciali
e la fertilità del suo entroterra si può certo considerare lo Stato vassallo più ricco dell’impero ittita nella Siria
settentrionale. Ma trent’anni di continue operazioni militari consumarono parecchie energie e crearono le
condizioni per ulteriori conflitti, di modo che, poco dopo la morte Shuppiluliuma I, Murshili II, dovette domare
diverse ribellioni dei popoli sottomessi. Fu questo sovrano ad “istituzionalizzare” la pratica (già presente
all’epoca del primo Tudhaliya) di deportare gran parte della popolazione di un Paese sottomesso nel “Paese di
Khatti”. Una parte dei deportati veniva assegnata alle terre di proprietà dell’aristocrazia, dato che le continue
guerre avevano spopolato le campagne; un’altra parte era invece di proprietà del sovrano (di particolare
importanza erano i maschi in età militare che andavano a rafforzare le file dell’esercito ittita). Per quanto
sembri che un buon numero di deportati si sia integrato abbastanza bene nella società ittita, è noto che durante
il difficile trasferimento nel “Paese di Khatti” alcuni deportati fuggivano. Certo la presenza di così numerosi
prigionieri di guerra poteva costituire un serio problema per la sicurezza e la stabilità dell’impero ittita28.
Peraltro, si ritiene che in questo periodo il pankuš (che forse designava l’assemblea di alti ufficiali ittiti)
non venisse più convocato (se ne fa menzione per l’ultima volta alla fine del XVI secolo a. C.), probabilmente
perché si era consolidato il ruolo dell’aristocrazia, che aveva compiti sia amministrativi che militari, e che in
larga misura era composta dai parenti del re (il cui potere era comunque fuori discussione). Vi erano anche
titoli come “coppiere” e “maniscalco” che evidentemente erano titoli nobiliari, senza alcun rapporto con le
funzioni designate da tali parole. In periferia gli affari civili erano gestiti da “sindaci”, un “collegio di anziani”
si occupava delle questioni giudiziarie e religiose, e un capo-guarnigione dirigeva gli affari militari. L’impero
ittita durante il XIV e il XIII secolo a. C., ossia all’apice della sua potenza, si articolava in quattro aree ben
distinte: il “cuore” dell’impero, in cui si trovavano la capitale Khattusha e diversi centri amministrativi; dei
territori “periferici”, sotto il diretto controllo del re o di suoi ufficiali; degli Stati vassalli, dipendenti dal
sovrano ittita (benché non sotto il suo diretto controllo), al quale dovevano versare dei tributi oltre a fornire
dei contingenti militari; infine, a partire da Shuppiluliuma I, due vicereami in Siria (Aleppo e Karkemish
sull’Eufrate) governati ciascuno da un membro della famiglia reale29. Il rapporto tra centro e periferia
dell’impero non fu comunque mai tale da eliminare del tutto le tendenze “centrifughe”, ma è indubbio che alla
fine del XIV secolo a. C. l’impero ittita era ormai talmente potente da far valere i propri interessi anche nella
regione siro-palestinese.
Sempre nella prima metà del II millennio a. C. comparve il regno di Mitanni, cui diedero vita gli Urriti, che
erano presenti nella zona compresa tra la Siria e l’Anatolia fin dalla metà del millennio precedente, sebbene si
debba osservare che l’onomastica del re e della classe dirigente era indo-iranica (ma i dati sul periodo formativo
28
Vedi T. Bryce, The Kingdom of the Hittites, Oxford University Press, Oxford, pp. 217-219.
29
Ivi, pp. 45-51.
14
di questo regno, ossia fino alla metà del XVI secolo a. C., sono assai scarsi, né è certo che la classe dirigente
fosse indo-ariana). Nel regno di Mitanni un ruolo fondamentale doveva essere svolto da una aristocrazia
militare, i cui membri si chiamavano maryannu, cioè “giovani guerrieri” che combattevano su carri da guerra
trainati da cavalli. Sembra, infatti, che si debba agli Urriti la diffusione del carro e del cavallo in tutta la “fertile
mezzaluna”30. Invero, alcuni studiosi pensano che il carro inventato dai Sumeri si sia diffuso tra i popoli della
steppa eurasiatica, i quali, avendo addomesticato il cavallo, nel IV millennio a C., non dovettero avere
eccessiva difficoltà a realizzare un carro da guerra trainato da cavalla. Tuttavia, secondo altri studiosi
quest’ultimo potrebbe pure essere derivato direttamente dal carro sumero a due ruote. Comunque sia, l’impiego
del cavallo segnò un progresso eccezionale rispetto all’impiego di altri animali, come l’asino e l’onagro (si
calcola che un carro trainato da cavalli potesse raggiungere una velocità di 30 chilometri all’ora), e adesso il
cocchio era sufficientemente stabile da permettere ad un guerriero armato di arco composito di prendere la
mira e scagliare le frecce.
In effetti, è innegabile che il binomio “carro più arco composito” fosse un “sistema d'arma” temibile e, in
un certo senso, rivoluzionario. Le battaglie tipiche dell'antica e media età del bronzo avevano visto impegnati
grossi eserciti di fanteria e si dovevano risolvere il più delle volte con assedi alle città nemiche, benché
frequenti fossero pure imboscate e razzie, ma sempre condotte da soldati appiedati. Ora invece accanto alla
fanteria apparve il corpo dei carristi, il cui ruolo in battaglia era decisivo anche se la fanteria era assai più
numerosa. I combattimenti tra opposte fanterie diventarono di conseguenza assai meno importanti. Ma i carri
erano assai costosi (si stima che per mantenere un solo team di carristi occorressero 8-10 ettari coltivati a
grano)31 e assai lungo e difficile era l'addestramento dei carristi. Costosa era anche la corazza a scaglie
metalliche indossata dai carristi (mentre la fanteria ne era priva) e che ricopriva anche i cavalli, verosimilmente
per proteggerli dalle frecce scagliate dai potenti archi compositi. I carristi in sostanza erano un corpo scelto
nettamente distinto dalla tradizionale fanteria, tanto più se composta da coscritti. I palazzi adesso dovevano
assegnare a questi “specialisti della guerra”, di cui non potevano fare a meno, cospicui lotti di terra, tanto che
l'assegnazione di terre in cambio del servizio reso ricorda il sistema feudale (anche se ovviamente parlare di
“feudalesimo” sarebbe errato). Della cerchia templare-palatina era quindi parte integrante un gruppo militare,
che veniva così ad assumere una posizione socio-economica privilegiata32. In ogni caso, non si deve pensare che
i carri fossero “invincibili” o non avessero dei limiti di impiego. Di fatto potevano essere impiegati con profitto
solo in pianura, giacché in terreni impervi o in zone montuose era pur sempre necessaria la fanteria. Ma su un
terreno pianeggiante la fanteria dell'epoca poteva far poco contro dei carri in grado di aggirare facilmente uno
schieramento nemico e colpirlo da tergo o ai fianchi. E dato che un bravo arciere poteva scagliare con
precisione e da notevole distanza numerose frecce in poco tempo, si può immaginare che cosa poteva capitare
ad un esercito di fanti scarsamente protetti se veniva attaccato da centinaia o addirittura migliaia di carri. Del
resto, i carri, a due ruote e (perlopiù) a quattro o (dopo il XIV secolo a. C.) a sei raggi, erano veloci e
maneggevoli. L'equipaggio era composto da un auriga e un arciere. I carri ittiti però furono raffigurati dagli
artisti egiziani, che celebrarono la “vittoria” (anche se in realtà non fu taleTu contro gli Ittiti nella battaglia di
Qadesh, con tre uomini di equipaggio: un carrista con la lancia, un altro armato di scudo e l'auriga. Ma pochi
studiosi pensano che questa descrizione dei carri ittiti sia attendibile. Littauer e Crouwel ritengono comunque
che i carristi ittiti abbiano potuto usare la lancia anziché l'arco “almeno” in questa occasione (dato che è
indubbio che anche i carristi ittiti usassero l'arco). Gli Ittiti allora avrebbero usato il carro solo come mezzo di
trasporto, giacché per diverse ragioni di carattere “tecnico” non pare possibile che i carristi caricassero i nemici
con la lancia, sebbene potessero usare dei giavellotti. Si sa però che in battaglia i carri erano seguiti dalla
fanteria leggera, il cui compito era quello di “occuparsi” degli equipaggi dei carri nemici messi “fuori
combattimento”. Durante questo periodo si ricorreva frequentemente anche all'arruolamento di mercenari.
Famosi erano i guerrieri shardana, raffigurati sovente con il caratteristico elmo cornuto. Numerosi dovevano
essere anche gli addetti alla manutenzione dei carri, dato che questi ultimi non potevano percorrere centinaia
di chilometri senza andare incontro a gravi inconvenienti. La fanteria doveva poi svolgere diversi compiti,
quali sorvegliare i prigionieri, presidiare accampamenti e fortezze, assediare città, provvedere al
vettovagliamento e così via.
30
Anche i Cassiti adottarono le nuove tecniche di combattimento. Si formò così un ristretto gruppo di guerrieri professionisti, ai quali i re babilonesi
assegnavano notevoli appezzamenti di terra. Le continue lotte tra la Babilonia cassita e l’Assiria favorirono però l’Elam, le cui numerose incursioni a
danno dei sovrani babilonesi portarono al crollo della dinastia cassita nel XII secolo a. C.
31
Vedi R. Drews, The End of the Bronze Age, Princeton University Press, Princeton, 1993, pp. 111- 112.
32
Non pare allora nemmeno un caso che nella tarda età del bronzo non si abbia più notizia di editti di remissione dei debiti. Al riguardo scrive Liverani
che «il dislocarsi del baricentro militare dalle masse contadine in corvée agli specialisti di mestiere [e] l'identificazione dei principali prestatori di denaro
[…] con gli stessi membri della élite palatina e militare, sono […] elementi che servono a consolidare una comunanza di interessi tra re ed élite dirigente
ai danni della popolazione contadina di base, che viene lasciata indebitarsi ed asservirsi senza più equilibrio alcuno», M. Liverani, op. cit., p. 331.
15
D’altronde, vi sono prove che gli Ittiti abbiano fatto uso di carri trainati da cavalli già durante l’assedio di
una città dell’Anatolia, nel XVIII secolo a. C., anche se il primo documento in lingua ittita che concerne
l’addestramento dei cavalli per scopi bellici risale al XIV secolo a. C.33 (il documento è conosciuto come
trattato di Kikkuli, il quale era di origine mitannica). Certo è comunque che il carro trainato da cavalli si sia
diffuso anche in Grecia e nella regione della valle dell'Indo. Qui, nella seconda metà del III millennio a. C.,
era fiorita una civiltà particolarmente evoluta, caratterizzata da una architettura complessa e dall'uso della
scrittura, che intratteneva anche importanti relazioni commerciali con la Mesopotamia. Oggi però si ritiene che
quando giunsero gli Arii (forse in piccoli gruppi, tra il 1700 e il 1500 a. C.) la civiltà dell'Indo fosse già in una
fase di decadenza e le città principali fossero state abbandonate dai loro abitanti, per ragioni di carattere
ecologico (siccità, mutamento del corso dell'Indo, etc.)34. In Grecia invece misero salde radici i Micenei35, a
cui si attribuisce la conquista di Creta, probabilmente già fortemente danneggiata da una serie di terremoti
connessi all’eccezionale eruzione vulcanica che si verificò nell’isola di Thera (l’odierna Santorini), in cui
sorgeva un centro urbano assai progredito, che controllava i traffici fra la parte settentrionale di Creta e la
penisola greca (sebbene non sia escluso che Thera fosse solo una base avanzata dell’espansione cretese verso
la penisola greca)36. Di conseguenza, in questo periodo il centro della cultura egea si spostò dalle isole alla
terraferma. Nella seconda metà XVIII secolo a. C. anche il Paese dei faraoni fu soggiogato da una popolazione
di lingua semitica, gli Hyksos, che si erano infiltrati in Egitto muovendo dalla Palestina (sembra comunque
che l’occupazione dell’Egitto da parte degli Hyksos vada ricercata non tanto nella superiorità militare degli
invasori, che pure introdussero in Egitto il cavallo e l’arco composito, quanto piuttosto nella debolezza del
Paese a causa di lotte intestine).
L’’Egitto è un “dono del Nilo”: «Salute a te, o Nilo, che sgorghi dalla terra e che vieni ad alimentare
l’Egitto», così comincia un antico inno egiziano37. Il Paese può essere paragonato ad un’oasi, lunga e stretta,
protetta dal deserto. Un’oasi fertilissima, grazie alle periodiche inondazioni del Nilo (e alla continua opera di
manutenzione da parte dell’uomo), che depositavano in abbondanza la “terra nera” che garantiva agli Egiziani
una eccezionale ricchezza agricola. Il fatto che il grande fiume fosse navigabile in entrambi i sensi favoriva
l’unificazione del Paese, ma la lunghezza del Nilo accentuava pure la differenza tra il nord del Paese, aperto
alle culture mediterranee, e il sud del Paese rivolto verso l’Africa. Da qui un equilibrio mai completamente
stabile tra tendenza accentratrice e spinte “centrifughe”, benché la tendenza all’unificazione sia sempre stata la
più forte. La storia dell’Egitto la si può far nascere verso la fine del IV millennio a. C. (alcuni studiosi però
abbassano tale data di qualche secolo), benché nel Paese si trovino i resti di numerose stazioni neolitiche. In
effetti, la civiltà egiziana sembra essersi sviluppata assai rapidamente, forse anche grazie all’influenza
sumerica (analogamente a quanto si ritiene valga per la nascita della civiltà dell’Indo), anche se nel corso della
sua plurimillenaria storia seppe esprimersi in modo originale sia sotto il profilo politico che sotto quello
culturale. Le prime regioni ad unificarsi furono quella settentrionale e quella meridionale. Infine, il Paese fu
completamente unificato sotto Menes (nel quale alcuni vedono una specie di “incarnazione” di una serie di
sovrani locali fusi in un archetipo dell'unità nazionale)38. Il faraone (che era anche il nome con cui gli Egiziani
chiamavano il palazzo di Menfi, la capitale definitiva dell’Antico Regno che venne costruita in un’area situata
poco a sud del Delta) era considerato un dio in terra e il suo ruolo fondamentale consisteva nel conservare
maat, l’ordine divino del mondo (una concezione religiosa che è alla base della costruzione della piramidi; ma
l’architettura monumentale, non solo egiziana, è sempre “veicolo” di precisi “codici ideologici”, dato che non
poteva non essere in rapporto con quel potere che forniva agli architetti i mezzi necessari per realizzare le loro
opere).
33
34
Vedi M. A. Littauer, J. H. Crouwel, Wheeled Vehicles and Ridden Animals in the Ancient Near East, Brill, Leiden-Köln, 1979.
Vedi M. Torri, Storia dell’India, RCS, Milano, pp. 34-44.
35
Benché non si sappia esattamente da dove i Micenei provenissero, diversi studiosi ipotizzano che i Micenei abbiano fatto la loro comparsa nella
penisola greca nei primi secoli del II millennio a. C. Invece, secondo Colin Renfrew, nell’antica Grecia neolitizzazione e indoeuropeizzazione
coinciderebbero (vedi C. Renfrew, Archeology and Language, Penguin, Londra, 1989). Un’ipotesi diversa è stata avanzata da Robert Drews, secondo
cui sarebbero stati i Micenei ad introdurre in Grecia il carro da guerra trainato da cavalli. Drews ritiene che i Micenei siano arrivati nella penisola greca
in piccoli gruppi verso il 1600 a. C. e che siano giunti dal mare, muovendo dalla zona del Mar Nero (vedi R. Drews, The Coming of the Greeks, Princeton
University Press, Princeton, 1988). Secondo Crouwel e Littauer (che sostengono che non vi è alcuna prova che il carro a due ruote trainato da cavalli
sia stato inventato dagli Indoeuropei) la società micenea si sarebbe invece formata per l'emergere nella Grecia continentale di una élite guerriera che
aveva rapporti con Creta, che a sua volta era in contatto con il Vicino Oriente, e quindi grazie a tali rapporti il carro da guerra sarebbe stato introdotto
anche in Grecia (vedi J. H. Crouwel, M. A. Littauer, Robert Drews and the Role of Chariotry in Bronze Age Greece, “Oxford Journal of Archeology”,
13 (6), pp. 297-305).
36
Vedi G. Pugliese Carratelli, Il mondo greco dal II al I millennio .a. C., in R. Bianchi Bandinelli (a cura di), Storia e civiltà dei Greci, Bompiani,
Milano, 1978, vol I, 1, p. 11. Quel che è indubbio è che le flotte minoiche dominavano l’Egeo, al punto che seguendo Tucidide (I, 4) si può parlare di
una “talassocrazia minoica”. Tuttavia, la civiltà palaziale cretese, sebbene non si possa affermare che non conoscesse la terribile “piaga” della guerra,
non sembra affatto profondamente “segnata” dalla guerra come la civiltà micenea.
37
Vedi S. Moscati, Antichi imperi d’Oriente, Newton Compton, 1978, p. 102.
38
Vedi N. Grimal, L’antico Egitto, RCS, Milano, 2004, pp. 40-41.
16
Durante l’Antico Regno (durato sino al 2180 circa a. C.) gli Egiziani intrapresero diverse spedizioni militari
in Libia e soprattutto nella Nubia, da cui importavano oro e in cui costruirono diverse fortezze, lungo il Nilo,
fino a Semnah, a sud della seconda cateratta (solo durante il Nuovo Regno la Nubia fu annessa e amministrata
come una provincia dell’Egitto). L’Egitto importava pure legname dal Libano e rame dal Sinai. Fu però
l’eccedenza, senza precedenti, dei mezzi di sostentamento, oltre all’abbondanza di cave di pietra, che permise
alla classe dirigente di realizzare quell’architettura monumentale che contraddistingue l’arte egiziana. Del
resto, l’amministrazione del Paese era efficiente e vi era una sistema fiscale capillare, basato sul censimento
dei “campi e dell’oro”. La produzione di un così grande surplus bastava a nutrire la manodopera resa
disponibile dall’interruzione annuale dei lavori agricoli e non v’è dubbio che l’edificazione dei monumenti
sia stata resa possibile da un forte e condiviso sentimento religioso, di modo che (anche se non si conosce
l’opinione dei contadini egiziani) si può supporre che la massa della popolazione dovesse essere fiera di dare
il proprio contributo alla costruzione di queste gigantesche opere (è pure ovvio che l’impiego di un grande
numero di braccia non poteva essere del tutto forzato). Malgrado ciò, si venne a creare un’enorme schiera di
sacerdoti e funzionari che, non producendo alcun reddito, era “a carico” dei ceti sociali subalterni. Questo
“gravame” con il passare del tempo si fece ancor più opprimente per i meno abbienti: le cariche dei funzionari
diventarono ereditarie, i nobili, il cui stile di vita era diventato vieppiù raffinato e costoso, godevano di parecchi
privilegi, e i templi ottennero perfino l’esenzione fiscale. Si arrivò quindi al punto in cui questo “peso” divenne
intollerabile, dando origine ad un rivolgimento politico e sociale, che causò la disgregazione del Paese e portò al
frazionamento della proprietà regale39. I prefetti dei distretti, in precedenza di nomina regia, divennero, di fatto,
principi sovrani, mentre ovunque vi erano conflitti e depredazioni, tanto che nella zona del Delta riuscirono a
infiltrarsi bande di beduini. Solo al termine del III millennio a. C. un principe di Tebe, Montuhotep I, riuscì a
riunificare il Paese, mettendo fine a questa fase storica, denominata Primo Periodo Intermedio, durante la quale
i principi di Eracleopoli si erano contrapposti a quelli di Tebe.
Quasi duecento anni di anarchia e lotte sociali, in cui i nomarchi non solo si erano comportati da sovrani
ma avevano dato origine a nuove dinastie locali (assumendo titoli regali, reclutando truppe e costruendo
monumenti), non potevano però non avere lasciato il segno. In un testo letterario del Primo Periodo Intermedio
(scritto da un nobile, che esprime un punto di vista ben diverso da quello di coloro che si erano ribellati) si può
leggere: «I ricchi sono in lutto, i poveri sono pieni di gioia […] chi possedeva è ora unoche non ha»; oppure:
«Le province sono distrutte […] Le vie non sono più guardate […] il viandante notturno […] è accolto a colpi
di bastone ed iniquamente ucciso»40. In realtà, nel corso di questi difficili anni per l’Egitto, si affermò pure una
concezione morale superiore, basata su una diversa idea di maat, al punto che in un testo letterario, l’Oasita
eloquente, si giunge a giustificare il furto se chi lo commette è spinto a farlo per necessità: «La violenza è di
chi è in strettezze, il furto di chi non ha niente. Il rubare da parte di chi è in strettezze – è un’azione cattiva per
chi non ha bisogno – non gli deve portare a biasimo l’averlo cercato»41. Di tale mutamento i faraoni del Medio
Regno dovettero tener conto, sia ricorrendo alla propaganda politica per legittimare il loro potere, sia
premiando i funzionari più capaci e meritevoli. Ci fu anche un miglioramento delle condizioni economiche dei
meno abbienti, e si può addirittura riscontrare la tendenza da parte dei servi (perlopiù prigionieri di guerra,
mentre nell’Antico Regno erano in gran parte individui ridotti in servitù per debiti) ad integrarsi tra i liberi,
non essendo rari i matrimoni tra membri appartenenti a classi sociali diverse. Nel Medio Regno venne
realizzata anche l’importante bonifica del Fayyum, a sud ovest di Menfi (adesso la capitale del Regno era
Tebe) e si consolidarono i confini del Paese. La continuità geografica con la Nubia favorì una politica di
colonizzazione e di annessione, anche al fine di sbarrare la strada ad un invasore che provenisse da sud (nella
fortezza egiziana di Semneh vi è scritto: «Questa, in questo luogo, è la mia fortezza. Nessun negro passerà a
nord di essa»)42, ma le fonti archeologiche confermano che il dominio egiziano si era esteso fino alla costa
siro-palestinese. In quest’area, in cui sorgevano importanti centri (tra cui oltre ad Aleppo e Damasco, sono da
ricordare Ugarit, e le città fenicie di Sidone, Biblo e Tiro), l’Egitto si limitava ad esigere tributi dai sovrani
locali, mantenendo forti relazioni in particolare con Biblo (benché si sia a conoscenza che il faraone Sesostri
III, che aveva reso sicuro il confine meridionale dello Stato, condusse delle importanti campagne militari anche
contro i Cananei - termine con cui si suole designare le popolazioni che abitavano la Palestina prima degli
39
Secondo Karl W. Butzer la fine dell'Antico Regno non fu causata da fattori climatici, come suppongono altri studiosi, ma dalla debolezza del potere
centrale, accentuata dal fatto che Sargon di Accad conquistò Biblo, da cui l'Egitto importava legname, vino e olio (vedi H. Nüzet et al. (a cura di), Third
Millennium BC. Climate Change and Old World Collapse, Springer-Verlag, Berlino-Heidelberg, 1997.
40
E. Bresciani, L’Egitto fino ai Persiani, in F. Rittatore Vonwiller et al., Preistoria e vicino Oriente antico, Utet, Torino, 1969, p. 534, e S. Moscati,
op. cit., p. 108.
41
E. Bresciani, op. cit., p. 536.
42
B. L. Montgomery, Storia delle guerre, Rizzoli, Milano, 1980, p. 59
17
Ebrei e tra cui, com’è noto, si distinsero i Fenici).
Siffatta politica comunque non fu sufficiente ad impedire che nella regione si infiltrassero gli Hyksos,
i quali una volta stabilitivisi, la usarono come base per l’invasione dell’Egitto, occupando il Delta e per breve
tempo (1600-1602 a. C.) anche Tebe. E fu appunto un sovrano di Tebe, Kamose, a guidare la lotta degli
Egiziani contro lo straniero. Una stele che ricorda la vittoria di Kamose contro Apopi, un re degli Hyksos, ci
informa che il sovrano di Tebe si era impegnato a riprendere il controllo della Nubia, resasi di nuovo
indipendente durante il dominio degli Hyksos, che furono definitivamente sconfitti dal successore di Kamose,
Amosi, il quale riuscì ad occupare Avaris, la capitale del regno degli Hyksos. Dalla guerra di liberazione,
l’Egitto uscì estremamente più forte sotto il profilo militare. I faraoni del Nuovo Regno portarono il confine
meridionale fino a Napata, sotto la quarta cateratta, inviarono spedizioni nella “Terra di Punt”, in Somalia,
riaprirono le vie carovaniere che giungevano fino al Mar Rosso e intrapresero una serie di campagne per
sottomettere la Palestina e la Siria. Thutmosi I si spinse fino all’Eufrate (benché si sia trattato solo di una
spedizione punitiva), mentre Thutmosi III guidò ben diciassette campagne militari in Palestina e in Siria.
Grazie alle preziose tavolette d’argilla trovate ad El Amarna sappiamo inoltre che nei territori conquistati
dall’Egitto vi erano diversi presidi militari. Funzionari egiziani controllavano che gli interessi dell’Egitto non
venissero in alcun modo danneggiati e i faraoni intrattenevano buone relazioni con i sovrani di Cipro, Babilonia
e Mitanni. E, dopo le conquiste della XIII dinastia, l’argento fino ad allora piuttosto raro in Egitto, cominciò
ad affluire copioso dall’Asia. Anche l’amministrazione statale venne riformata. Furono eliminati i privilegi di
nobili e sacerdoti, ai templi fu tolta l’esenzione fiscale e i titoli concessi ai funzionari dal faraone non erano
più ereditari. Sotto Thutmosi III si “sdoppiò” anche la funzione di “visir” (il più alto grado
dell’amministrazione statale), cosicché, oltre al “visir” che risiedeva a Tebe (la capitale), vi era un “visir” del
Nord, che risiedeva ad Eliopoli. Ma proprio quando sembrava che l’Egitto avesse raggiunto l’acme della sua
potenza scoppiò improvvisa una crisi religiosa a causa della riforma voluta da Amenofi IV, conosciuto come
Akhenaton, “colui che compie la volontà di Aton”. Spirito geniale e rivoluzionario, Akhenaton, contro la
potente classe sacerdotale di Tebe e il “suo” dio Ammone, fece di Aton il dio supremo e del disco solare il
simbolo della forza creatrice dell’universo. Il faraone fondò anche una nuova città, Akhetaton (“L’orizzonte
del disco solare”), in cui si trasferì lui stesso, insieme con sua moglie, Nefertiti, e i membri della corte. La
riforma di Akhenaton però era destinata a fallire dato che, oltre ad essere fortemente osteggiata dal clero, non
aveva il sostegno del popolo, che difficilmente poteva comprenderla. Scomparso Akhenaton, la città del dio
del sole fu abbandonata e Tebe tornò ad essere la capitale dell’Egitto. Durante il regno di Akhenaton, le
posizioni dell’Egitto in Asia si indebolirono e di questa situazione approfittarono gli Ittiti che, durante il regno
di Shuppiluliuma I, attaccarono e sconfissero lo Stato di Mitanni (verso il 1350 a. C.), la cui parte orientale fu
occupata dagli Assiri, mentre quella nord-occidentale diventò uno Stato vassallo degli Ittiti. Ma gli Assiri erano
sempre più aggressivi, cosicché il confine con gli Ittiti si spostò sull’Eufrate43. Si trattava comunque di una
barriera che allora gli Assiri non avevano la forza di superare, mentre le due grandi potenze dell’epoca, quella
degli Egiziani e quella degli Ittiti, si sarebbero scontrate per il controllo della regione siro-palestinese.
La riforma di Akhenaton aveva scosso lo Stato egiziano dalle fondamenta, ma non ne aveva intaccato la
potenza militare. La struttura logistica dell’esercito, già notevolmente progredita durante il Medio Regno,
venne ulteriormente rafforzata. Lungo le direttrici di marcia dell’esercito egiziano vi era una serie di magazzini
e depositi con viveri, vestiario e armi. E non mancavano neppure officine provviste di pezzi ricambio per i
carri. La fanteria pesante era armata di spada, lancia e scudo (la mazza la si usava ancora, ma si preferiva la
spada, sia corta che lunga), mentre gli arcieri che combattevano a piedi avevano in una faretra, appesa ad una
spalla, una trentina di frecce con la punta di bronzo. Vi erano pure genieri e servizi per il trasporto con carri
trainati da asini o buoi, e imbarcazioni per attraversare i fiumi. Gli Egiziani impiegavano reparti di esploratori
e si avvalevano di informatori che potevano comunicare con i capi dell’esercito grazie ad un efficiente sistema
di staffette. Inoltre, le notevoli conquiste militari durante il Nuovo Regno fecero sì che, oltre ad impiegare
parecchi mercenari, si preferisse fare affidamento su soldati a ferma lunga piuttosto che sul tradizionale esercito
di corvée, che combatteva perché obbligato, ma spesso senza condividere o capire le ragioni per cui doveva combattere.
La flotta invece era composta prevalentemente da marinai originari del Delta. Non v’è dubbio perciò che
l’esercito egiziano fosse all’apogeo della sua potenza, allorquando (nel 1274 a. C.) il faraone Ramses II si
diresse verso la città di Qadesh, presso il fiume Oronte, per scontrarsi con Muwatalli II, il re degli Ittiti. Qadesh
si trovava in una posizione strategica in quanto dominava la via commerciale che conduceva verso l’Anatolia,
43
Fu appunto in questo periodo che l'Assiria diventò una potenza regionale. Le continue guerre contro i Cassiti e i popoli montanari (tra cui i Gutei e i
Lullubiti) portarono alla formazione di una aristocrazia militare che deteneva la maggior parte delle terre (ricevute per concessione regia, ma di cui pare
potesse disporre liberamente), mentre nulla si fece per fermare il fenomeno dell'indebitamento delle famiglie contadine, cosicché non erano pochi i
contadini che venivano ridotti in schiavitù per debiti.
18
la Siria e l’Eufrate. In questa stessa zona, Thutmosi III aveva già combattuto contro il re di Qadesh, che si era
ribellato all’Egitto e aveva riunito un esercito formato da numerosi alleati a Megiddo. Thutmosi III lo sconfisse
in campo aperto ma, probabilmente perché gli Egiziani, anziché inseguire l’esrcito sconfitto, si attardarono a
saccheggiare l’accampamento nemico, il faraone dovette assediare Megiddo per costringere l’esercito dei
“ribelli” ad arrendersi. In seguito, durante il regno di Thutmosi IV, l’Egitto e Mitanni si accordarono per
stabilire i confini delle rispettive sfere d’influenza. L’accordo lasciava all’Egitto il controllo della valle
dell’Oronte e della città di Qadesh. Ma dopo la sconfitta del regno di Mitanni, anche in quest’area di vitale
importanza per l’Egitto la pressione ittita si fece sempre più forte. Tuttavia, il faraone Sethi I intraprese una
campagna militare in Siria, riuscendo a sconfiggere un esercito ittita. A Sethi I si deve anche la fortificazione
della “via di Horus” dal Delta a Gaza. Alla morte del sovrano egiziano pare che gli Ittiti avessero nuovamente
preso il controllo di quest’area. Pertanto, dopo la spedizione di Sethi I, gli Ittiti si prepararono a sfidare gli
Egiziani, una volta sicuri che non vi era nulla da temere da parte degli Assiri, che premevano lungo i confini
orientali dello Stato ittita. Ora Muwatalli II, figlio di Murshili II, era deciso a non cedere, nemmeno se ciò
avesse comportato la guerra con l’Egitto.
Si giunse così, all’inizio del XIII secolo a. C., alla famosa battaglia tra Ittiti ed Egiziani presso la città di
Qadesh, ove si era accampato l’esercito degli Ittiti e dei loro alleati, ossia circa 40.000 fanti e 3.700 carri (ma
le cifre, come la stessa data della battaglia, non sono certe)44. Il faraone avanzò verso Qadesh con quattro
“divisioni” (Amon, Ra, Ptah e Seth), ciascuna con 500 carri e 4.000 fanti (compresi numerosi mercenari).
Inoltre, vi era una “divisione” di alleati cananei (denominata Ne’arin) che copriva il fianco occidentale
dell’esercito egiziano. Ramses II, che si trovava (insieme con la sua guardia, composta da guerrieri shardana)
con la “divisione” Amon (la quale marciava in testa all’esercito), si spinse però pericolosamente in avanti, dato
che due “disertori” dell’esercito ittita (mandati dallo stesso Muwatalli II, allo scopo di far cadere Ramses II in
un’imboscata) gli avevano riferito che gli Ittiti si trovavano molto più a nord. Quando gli Egiziani catturano
altri due soldati ittiti e vennero a sapere dove si trovava in realtà l’esercito di Muwatalli II era troppo tardi,
dato che i carri ittiti avevano già aggirato la colonna dove si trovava il faraone e tagliato in due il suo esercito.
Difficile però stabilire quanti esattamente fossero i carri ittiti che condussero il primo attacco. Secondo
Mark Healy, cui si deve un’analisi dettagliata della battaglia, non sarebbero stati 2.500, come ritiene la maggior
parte degli studiosi basandosi su fonti egiziane, ma soltanto 500 (in tal caso lo scontro sarebbe stato fortuito
anziché frutto di un piano di Muwatalli II)45. Comunque sia, i carri ittiti travolsero la “divisione” Ra che seguiva
la “divisione” Amon, ma poi gli Ittiti si diedero a saccheggiare il campo egiziano, permettendo al faraone di
organizzare un contrattacco radunando tutti i carri disponibili. Solo allora Muwatalli II decise di passare
l’Oronte con altre truppe. A questo punto però, mentre la “divisione” Ptah si stava avvicinando sul luogo dello
scontro, sopraggiunse pure la “divisione” Ne’arin, di modo che Muwatalli II fu costretto a ritirarsi oltre il
fiume, dove si trovava ancora la maggior parte delle sue truppe. Così fini la battaglia di Qadesh, che Ramses
II considerò una grande vittoria egiziana. Per ricordare la vittoria del faraone fu composto il famoso Poema di
Qadesh (o Poema di Penatur, dal nome dello scriba che scrisse una delle redazioni del poema), conosciuto
anche grazie a una serie di bassorilievi (il cosiddetto “Bollettino”) che si trovano sulle pareti dei principali
monumenti dell’Egitto, tra cui i templi di Luxor, Karnak e Abu Simbel. Ben diversa però è la versione dei fatti
raccontata dai documenti ittiti. In effetti, Ramses II era riuscito a trasformare una sconfitta in un brillante
successo tattico, ma sotto l’aspetto strategico erano stati gli Ittiti che avevano vinto. Qadesh era rimasta
saldamente sotto il loro controllo e con essa l’intera area siro-palestinese. E a Qadesh la spinta imperialistica
dell’Egitto era definitivamente terminata. La “parità” tra i due imperi venne confermata pochi anni dopo con
un trattato di pace tra Ramses II e il re ittita Khattushili III (che aveva partecipato alla battaglia di Qadesh ed
era giunto al potere con un vero colpo di Stato, dopo che, scomparso Muwatalli II, si era verificata una
bipartizione del regno). A sancire questa alleanza, una figlia del re ittita venne concessa in sposa al faraone.
Anche se permaneva una forte “tensione” tra Ittiti e Assiri lungo l'Eufrate, pareva quindi che il nuovo equilibrio
fosse destinato a durare a lungo. Invece si trattava di un equilibrio precario, dato che una nuova minaccia
incombeva su entrambi gli imperi.
Dai “popoli del mare” ai Persiani. Il processo di civilizzazione nel Vicino Oriente fu favorito da vari fattori,
44
Per alcuni studiosi gli Ittiti sarebbero stati circa 37.000 (ovvero non 18.000 o 19.000, ma 18.000 più 19.000), di cui 10.500 carristi, contando tre
carristi per ogni carro (vedi A. Santuososso, Kadesh Revisited, “The Journal of Military History”, vol. 60, n. 3, 1996, pp. 423-444). Si badi però che, a
differenza di quanto molti credono, gli Ittiti non impiegarono armi di ferro. Di fatto l’uso del ferro diventò comune solo a partire del XIII secolo a. C. e
fu impiegato su larga scala solo dopo il 1000 a. C., ossia dopo che si erano diffusi i metodi per temperare questo metallo (vedi C. Zaccagnini, Le tecniche
e le scienze, in S. Moscati et al., op. cit., vol. II, p. 333). Il notevole numero di soldati di fanteria nell’esercito ittita si spiega considerando che nelle file
ittite erano presenti numerosi coscritti, contingenti militari alleati e mercenari.
45
Vedi M. Healy, Qadesh 1300 BC, Osprey, Oxford, 1993.
19
ma in particolare dalla necessità di procurarsi quelle risorse che scarseggiavano nei territori dei vari Stati.
Importanti strade collegavano le diverse regioni e le vie di comunicazione marittime, nonché quelle fluviali,
favorivano l’attività commerciale e gli scambi. Oltre ai mercanti delle regioni civilizzate, vi erano anche
popolazioni (semi)nomadi che partecipavano alla vita economica e politica del Vicino Oriente, fornendo
schiavi, metalli e altre materie prime. Insomma, i popoli che abitavano il Vicino Oriente non erano isolati dal
resto del mondo, ma non avevano mezzi e tecniche tali da consentire loro una netta supremazia militare sui
popoli (semi)nomadi delle altre regioni, benché avessero raggiunto un alto e sofisticato livello di civiltà e la
crescita demografica in questa parte della terra fosse stata significativa (si calcola che nel Tardo Bronzo
l’Egitto contasse tre/quattro milioni di abitanti mentre la popolazione della regione babilonese doveva
ammontare a circa due milioni). D’altra parte, quest'epoca era contraddistinta da una fitta trama di rapporti
diplomatici e di intensi scambi commerciali, tanto che si suole definire come un'epoca di civilizzazione
internazionale, e vi è chi ritiene plausibile fare un paragone con la globalizzazione dei nostri giorni46.
Reciprocità e una certa pariteticità contrassegnavano i rapporti tra le diverse famiglie reali. Si venne così a
costituire una fitta rete di matrimoni dinastici (anche se le principesse egiziane non andavano in sposa agli
stranieri, quasi a sancire una certa superiorità dell'Egitto) e i re si rivolgevano ad altri re chiamandoli
“fratelli”. Si diffusero vocabolari bilingui, il babilonese divenne la lingua più usata nelle relazioni
internazionali, mentre interpreti e “specialisti” si muovevano con facilità da un Paese all'altro. Perfino la guerra
sembrava essere condotta seguendo determinati “protocolli”. Sicché, se i nomadi del Levante erano accusati
dagli Egiziani di essere codardi e sleali perché non comunicavano né il posto né il giorno dell’attacco, gli
Ittiti sfidavano i nemici elencando i loro torti e invitandoli ad accettare battaglia. Alla fitta rete diplomatica
corrispondeva e si sovrapponeva una ancora più fitta rete di rapporti commerciali. Le diverse famiglie reali si
scambiavano doni e “contro-doni” (che di fatto equivalevano a delle “tangenti”), mentre il volume degli scambi
cresceva e merci di ogni tipo venivano trasportate anche per mare. Da Ugarit, ad esempio, partivano carichi
per tutto il bacino mediterraneo e arrivavano carichi da tutto il bacino mediterraneo. Questo quadro è stato
confermato appieno dal ritrovamento di diverse navi che fecero naufragio in questo periodo. Il ritrovamento
più importante però è stato quello della cosiddetta “nave di Uluburun dal nome della località (situata sulla
costa sud-occidentale dell'odierna Turchia) presso la quale la nave fece naufragio. Il carico della nave era
incredibilmente ricco e vario: resina in vasi cananei, vetro, ebano egiziano, ambra del Baltico, utensili e armi
in bronzo, avorio, sigilli di vari popoli, oggetti preziosi e perfino uno scarabeo in oro con il cartiglio della
regina egiziana Nefertiti. Vi erano pure circa 10 tonnellate di rame e una tonnellata di stagno in lingotti (una
proporzione che indica che i due metalli dovevano essere utilizzati per fabbricare armi od oggetti di bronzo).
Sul tragitto percorso dalla nave si sono fatte varie ipotesi, tra cui quella secondo cui la nave sarebbe partita
dalla Grecia micenea e poi fosse naufragata nel viaggio di ritorno. Infatti, benché questa sia solo un'ipotesi, è
noto che la fitta trama di relazioni internazionali e commerciali che contraddistinse la tarda età del Bronzo nel
Vicino Oriente riguardava anche il mondo miceneo.
Nondimeno, civilizzazione non è sinonimo di prosperità e benessere. Ad esempio, nella regione siro-palestinese,
ove si svolse la battaglia di Qadesh, nel XIII secolo a. C. vi era una condizione di grave disagio sociale ed
economico, dato che i re cananei, anziché emettere come in precedenza editti di remissione dei debiti, erano
essi stessi, con la cerchia palatina, ad alimentare un sistema che si reggeva sull’indebitamento dei contadini liberi.
Questi ultimi, non solo erano costretti a dare pegni materiali (terre) e personali (mogli e figli) in cambio di
grano, ma rischiavano di essere ridotti in schiavitù anche loro per l’impossibilità di ripagare i debiti. Di
conseguenza molti di loro preferivano darsi alla fuga, sovente unendosi a gruppi di nomadi o predoni, che
vivevano ai margini delle “città Stato” cananee. Si venne a creare così una situazione di instabilità e di
insicurezza, come testimonia il fatto che il termine habiru (che «ha connessione etimologica e semantica con
le prime attestazioni del termine “ebrei” […] prima che questo assumesse valenze etniche»)47 venne a
significare non più “fuggiasco” bensì “nemico”, tanto che si ha anche notizia di diversi scontri con questi
habiru. Né si deve pensare che la situazione sociale presente nell’area siro-palestinese fosse un’eccezione. Del
resto, si ritiene che, intorno al 1200 a. C., nella regione mediterranea (inclusa tutta l’area balcanica) vi sia stata
una terribile carestia, a causa di alcuni anni caratterizzati da scarsissime precipitazioni, e che il processo di
inaridimento che interessava il deserto del Sahara e d’Arabia si sia intensificato proprio in questo periodo.
Benché sia difficile identificare esattamente questi “popoli del mare”, secondo l’ipotesi “tradizionale” la loro
provenienza ultima sarebbe stata la penisola balcanica e sarebbero emigrati proprio a causa di questa
gravissima carestia (ma la questione dei “popoli del mare” rimane una questione assai controversa)48.
46
Vedi R. Cline, 1177 BC. The Year Civilization Collapses, Princeton University Press, Princeton, 2014.
47
M. Liverani, Oltre la Bibbia., Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 31.
48
Vedi E. H. Cline, D. O’Connor, The Mystery of the Sea People, in D. O’Connor, S. Quirke (a cura di), Mysterious Lands, UCL Press, Londra, 2003,
20
D’altronde, già nel 1208/7 circa a. C. il faraone Merenptah (lo stesso che si vantava di aver inviato del
grano «per salvare il Paese di Khatti») dovette respingere un attacco da parte dei Libici a cui si erano uniti
cinque dei cosiddetti “popoli del mare”. E nel 1177 un più numeroso gruppo di “popoli del mare” venne
sconfitto in una doppia battaglia (navale e terrestre) da Ramses III. Il faraone celebrò questo successo facendo
scolpire scene della battaglia sulle pareti del suo tempio funerario a Medinet Habu. Ma la vittoria (che, in
realtà, secondo alcuni studiosi, forse venne ottenuta contro una serie di piccoli gruppi di attaccanti) era stata
pagata a carissimo prezzo. Di fatto i Libici (che il faraone sconfisse di nuovo nel 1175 a. C.) erano riusciti ad
installarsi nel Delta e i cosiddetti “popoli del mare” si erano insediati in massa sulla costa palestinese (ma
alcuni di essi si trovavano già in Palestina prima del 1177 a. C.). Di lì a poco, i disordini sociali, la crisi
economica, la debolezza del potere centrale, il distacco tra gruppo dominante e la maggior parte della
popolazione e un esercito composto perlopiù da mercenari fecero sentire tutto il loro “peso” e il declino del
Paese, che non era più in grado di controllare né la Siria né la Libia, fu inarrestabile. La Nubia si rese
nuovamente indipendente e l’Alto Egitto si costituì come Stato autonomo. E nel 945 a. C. salì al trono una
dinastia libica, anche se Tebe e l’Alto Egitto continuarono ad essere governati dai sacerdoti di Ammone. Ma
l’Egitto ormai era una “canna spezzata”.
In Palestina, ove si installarono i Filistei, gran parte della struttura palatina venne cancellata, ma anche la
regione siriana venne colpita. I testi di Ugarit ci informano che ci si era resi conto del pericolo, tanto che
perfino questa città aveva inviato un contingente militare per aiutare gli Ittiti, rimanendo così sguarnita di
truppe. Fu però tutto inutile: la stessa Ugarit fu completamente distrutta e l’impero ittita venne fatto a pezzi49.
(Un durissimo colpo agli Ittiti lo avevano già inflitto pure gli Assiri nella battaglia di Nikhriya in cui secondo
il re assiro Tukulti-Ninurta I ben 28.000 ittiti sarebbero stati fatti prigionieri)50. Ciononostante, si ritiene che
le incursioni dei “popoli del mare” non potessero da sole causare il crollo del regno ittita. Si ipotizza quindi
che la capitale Khattusha, sia stata distrutta dai Kashka, che avrebbero approfittato del fatto che l’esercito ittita
doveva essersi concentrato ad ovest per cercare di respingere (evidentemente senza successo) le incursioni dei
“popoli del mare”. Del vuoto di potere che si creò nella regione siro-palestinese approfittarono sia gli Aramei
(una popolazione semitica) che le popolazioni (semi)nomadi del luogo, tra cui numerosi dovevano essere gli
habiru, avendo origine in tal modo quel processo storico che avrebbe portato alla formazione di un regno
israelitico (la stele di Merenptah, che celebra la vittoria del faraone contro i Libici, è conosciuta come “stele
di Israele” perché appunto vi è menzionato Israele, il che implica che già prima della fine del XIII secolo a. C.
si stava formando un complesso etnico “proto-israelitico”). Ma l’Egitto ormai era una “canna spezzata”.
Una questione in un certo senso a sé stante è invece quella relativa alla fine della civiltà micenea. Nella
seconda metà del II millennio a. C., nella penisola greca si verificò un processo di trasfusione della civiltà
minoica in quella micenea, di cui l’aspetto più noto fu l’adozione di un sistema di scrittura (conosciuto come
Lineare B), derivato da quello cretese (conosciuto come Lineare A e tuttora non decifrato), essenziale per
l’amministrazione di tipo statale palatino. Sulla terraferma infatti si erano formate diverse “città Stato” micenee
(tra cui Micene, Tirinto, Pilo, Tebe, Atene e altre nella regione centro-settentrionale della Grecia, fino alla
Tessaglia), caratterizzate ciascuna da un nucleo urbano che sorgeva intorno a una cittadella fortificata (benché
a Pilo non si siano trovati resti di mura ma solo del grande palazzo) entro la quale risiedeva il re con cerchia
palatina. Al vertice dello Stato miceneo, infatti, vi era il re (wanax), che doveva pure svolgere un importante
ruolo religioso. Nella scala gerarchica, subito dopo il re veniva il lawaghetas, la cui funzione principale (ma
probabilmente non l'unica) doveva essere quella di “capo militare”. Tra i membri dell'élite palatina un ruolo di
rilievo era svolto dagli heqwetai (i “compagni del re”), che verosimilmente erano alti ufficiali con compiti
militari, e dai telestai, che forse erano preposti alla gestione della terra. Inoltre, vi erano dei funzionari che si
occupavano della amministrazione del territorio. Ad esempio, il territorio del regno di Pilo era diviso in due
province, ciascuna delle quali era a sua volta suddivisa in diversi distretti. A capo di ciascuna provincia vi era
un governatore (damokoros), mentre ogni distretto era amministrato da un funzionario (korete) e da un suo
vice (prokorete). Benché la loro funzione consistesse nel fare da tramite tra il palazzo e le comunità locali, è
probabile che fossero nominati direttamente dal palazzo. Autorità periferiche, connesse con il damos (ossia le
comunità di villaggio) e con competenze direttive e religiose, erano invece i basileis (si badi che il termine
cap. 7.
49
Il che è tanto più notevole se si considera che proprio l’ultimo re ittita a noi noto, Shuppiluliuma II, era riuscito a riconquistare Cipro (nella seconda
metà del XII secolo a. C. l'isola era già stata conquistata dagli Ittiti, che quindi ne avevano perso il controllo se l'ultimo re ittita dovette conquistarla di
nuovo). Tra l'altro Cipro, ricca di rame e caratterizzata da una cultura che era frutto di un fusione fra elementi micenei e locali, dal XII all'XI secolo a.
C. conobbe un periodo di relativa prosperità. Non si sa perciò se le distruzioni avvenute a Cipro tra il 1225 e il 1190 a. C. circa siano state causate solo
dagli Ittiti anziché dai “popoli del mare”.
50
Vedi I. Singer, The Calm before the Storm, Society of Biblical Literature, Atlanta, 2011, pp. 353-373. Il numero dei prigionieri è senza dubbio
esagerato. Nondimeno, gli Ittiti non furono in grado di approfittare delle difficoltà in cui si venne a trovare l'Assiria dopo la scomparsa di TukultiNinurta I (che aveva messo a sacco pure la Babilonia cassita).
21
basileus, dopo il crollo del mondo miceneo, avrebbe designato proprio il re). Non si conosce esattamente
invece quale fosse il ruolo dei cosiddetti “controllori”, benché sembri che potessero essere dei funzionari che
avevano il compito di riscuotere contributi. Particolare importanza avevano pure gli artigiani che lavoravano
il bronzo e che erano dislocati in varie parti del territorio. In fondo alla scala sociale si trovavano invece degli
individui di condizione servile. L’economia dei palazzi micenei era basata sull’allevamento ovino e la
produzione tessile. L’industria della lana, benché decentralizzata, era rigidamente controllata dal palazzo, di
modo che si pensa che la produzione fosse in gran parte destinata al mercato estero51. Fonti archeologiche
provano l’esistenza di intensi traffici (oggetti micenei sono stati trovati in tutta l’area mediterranea – penisola
italiana, Sicilia e Sardegna incluse). La vita economica e sociale del mondo miceneo era in buona misura
diretta dal palazzo, benché si sia supposto che vi fosse pure una economia di villaggio in qualche modo
indipendente da quella del palazzo. Invero, oggi si ritiene che l’economia micenea fosse incentrata non tanto
(o, meglio, non solo) sul meccanismo del prelievo e della “redistribuzione” quanto piuttosto sulla
“mobilizzazione” delle risorse da parte del palazzo. In questo senso, ci sarebbe stata una “combinazione” di
staple finance (ossia l’accumulazione di derrate da parte del gruppo dominante, utili anche in caso di siccità e
carestie) e di wealth finance (ossia il posseso di metalli pregiati e di beni di lusso, utili anche per “ricompense”,
nonché per scambi e traffici vari). Come scrive Paul Halstead, «centrally directed economic activity co-existed
with a non-palatial sector, redistribution with reciprocity and exchange (not true market exchange), and staple
finance with wealth finance»52. In ogni caso, lo stile di vita del gruppo dominante – com'è facile immaginare
osservando le imponenti rovine delle cittadelle di Micene e di Tirinto o il palazzo di Pilo – doveva essere ben
diverso da quello delle comunità rurali che dipendevano dal palazzo, benché sembri che una buona parte della
popolazione (forse la metà) avesse un tenore di vita relativamente elevato53. (Si è anche ipotizzato – ma è
un’ipotesi tutt’altro che confermata - che gli abitanti delle comunità di villaggio fossero perlopiù membri della
popolazione che abitava in Grecia prima dell'arrivo degli Indoeuropei - qualcosa di simile quindi a quanto si
era verificato nel regno di Mitanni, ove uno “strato” indoeuropeo si era sovrapposto agli Urriti; ma in Grecia,
a differenza di Mitanni, la lingua parlata dal gruppo indoeuropeo sarebbe diventata la lingua parlata da tutta la
popolazione). Pare difficile comunque negare che il palazzo fosse il “centro propulsore” della società micenea,
nonostante la presenza dei basileis e di altri personaggi che svolgevano una “funzione di raccordo” tra
comunità e palazzo (tanto che si preferisce parlare di un continuum tra palazzo e comunità dipendenti dal
palazzo, piuttosto che dell’esistenza di due distinte sfere socio-economiche, una palaziale e l’altra nonpalaziale). In ogni caso, le istituzioni militari micenee non dovevano differire granché da quelle del Vicino
Oriente. Essenziale anche qui era il ruolo dei carristi. Si ritiene che sia il regno di Pilo che quello di Cnosso
disponessero ciascuno di diverse centinaia di carri. Dalle tavolette di Pilo risulta che erano presenti anche dei
soldati di fanteria. Ad esempio, in un affresco di Pilo è raffigurata una scena di guerriglia in cui i soldati di
Pilo indossano il tipico elmo realizzato con zanne di cinghiale, che era assai costoso, dato che per farne uno
occorrevano le zanne di oltre 70 cinghiali. Perciò si pensa che non fossero membri di una sorta di “milizia
popolare” (Robert Drews ritiene fossero mercenari stranieri), anche se una qualche forma di coscrizione
doveva essere presente. D’altronde, le imponenti mura di cinta, le lunghe spade, gli scudi che coprivano l’intera
persona e i carri (che secondo alcuni studiosi erano usati solo come mezzi di trasporto e come veicoli di
comando) non lasciano dubbi che i Micenei fossero dei temibili guerrieri.
È pure noto che i Micenei, spingendosi verso l’Asia Minore ebbero diversi “contatti” con gli Ittiti.
Documenti ittiti difatti paiono provare che dei Micenei furono coinvolti (forse come mercenari) nella ribellione
di ventidue piccoli Stati dell'Anatolia occidentale (indicati collettivamente come Assuwa e di cui avrebbero
fatto parte Wilusiya e Taruisa, corrispondenti a Troia e ai suoi “possedimenti”). I “ribelli” comunque furono
sconfitti dal re ittita Tudhaliya I/II, il quale avrebbe preso prigionieri 10.000 soldati oltre agli equipaggi di 600
carri. Inoltre, risulta che al tempo della battaglia di Qadesh gli Ittiti dovettero far fronte ad un'altra ribellione
nell'Anatolia occidentale, fomentata a quanto pare da un re acheo che in precedenza aveva intrattenuto rapporti
amichevoli con il re ittita. Un altro documento ci informa che la ribellione era ancora in corso verso la metà
del XIII secolo a. C. e che vi era una disputa tra Ittiti e Micenei che riguardava la regione di Wilusa (ossia dove
si trovava Troia; ma si sa pure che Troia era stata già distrutta verso il 1300 a. C, anche se probabilmente fu
un terremoto a distruggerla). Quel che comunque rileva è che la direttrice di espansione dei Micenei era
51
Vedi G. Maddoli (a cura di), La civiltà micenea, Laterza, Roma-Bari, 1981. Sull’amministrazione e l’economia dei Micenei vedi anche P. Halstead,
The Mycenaean Palatial Economy, “The Cambridge Classical Journal”, vol. 38, gennaio 1993, pp. 57-86, e C. W. Shelmerdine (a cura di), The
Cambridge Companion to the Aegean Bronze Age, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, in specie pp. 289-309.
52
P. Halstead, op. cit, p. 74. Osserva quindi Halstead: «As the NearEast, recent emphasis on the redistributive nature of Bronze Age economy must be
modified, though this should not be taken licence to return to modern capitalist commerce as a model for the Aegean palaces»(ivi).
53
Vedi O.Dickinson, The Aegean from Bronze Age to Iron Age, Routledge, Londra-New York, 2007, p. 39.
22
soprattutto rivolta verso le coste dell'Asia Minore e il bacino dell'Egeo. Infatti, i Micenei nel XV secolo a. C.
erano giunti anche a Creta (ossia in un periodo precedente la distruzione del palazzo di Cnosso, avvenuta a
causa di un incendio nel XIV secolo a. C.), ove avrebbero fondato il regno di Cnosso. Non sappiamo però quali
fossero i rapporti fra i vari Stati micenei, sebbene si possa immaginare che non dovessero essere sempre
pacifici.
Invero, incerta è pure la fine della civiltà micenea, benché la tesi che sarebbe crollata a causa di una calamità
naturale che avrebbe generato disordini e rivolte non sia affatto provata, come non lo è la tesi secondo cui il
crollo della civiltà micenea sarebbe stato causato solo da lotte dinastiche e/o intestine. Più plausibile è la tesi
secondo cui furono degli invasori a porre fine alla civiltà micenea, posto che sia stato costruito (o si sia cercato
di costruire) un muro nell’istmo di Corinto, onde sbarrare l’accesso al Peloponneso. Peraltro, anche le tavolette
di Pilo proverebbero che venne rafforzata la vigilanza sulla costa. Ma si è fatto notare che poteva pure trattarsi
di una attività di routine e che verosimilmente il muro sull'Istmo non era che un “muro di sostegno”. In effetti,
già verso la metà del XIII secolo a. C., il mondo miceneo aveva conosciuto una serie di distruzioni. A Micene,
ad esempio, vi fu un grave incendio e le difese della cittadella vennero rafforzate e ampliate, anche al fine di
proteggere una cisterna d'acqua, estremamente preziosa in caso d'assedio. Lo stesso si fece nella vicina Tirinto.
Lo scopo difensivo di queste opere pare innegabile. Al riguardo, è di particolare interesse l'ipotesi avanzata da
Robert Drews, secondo cui la fine della tarda età del Bronzo nell'area mediterranea sarebbe stata determinata
da una “rivoluzione militare”54. A giudizio di questo studioso la diffusione di nuove armi (in specie giavellotti
e le spade tipo Naue II o Griffzungenschwert, particolarmente utili nei combattimenti corpo a corpo, al contrario
delle lunghe spade micenee, adatte a colpire “di punta” più che “di taglio”) e di una migliore protezione per la
fanteria55 avrebbero fatto comprendere ai mercenari che militavano nelle file degli eserciti dei vari regni
dell'epoca che potevano avere ragione facilmente dei carristi che difendevano i “palazzi”. In sostanza, dei
gruppi di raiders sarebbero stati i responsabili delle numerose distruzioni verificatesi in questo periodo, tra cui
oltre a quelle sulla costa siro-palestinese, quelle delle principali città micenee, come Pilo, Tirinto e la stessa
Micene56. I centri micenei, in particolare, sarebbero stati distrutti da raiders della Grecia settentrionale, che in
parte avevano servito come mercenari in alcune città micenee. In seguito, alcuni gruppi di incursori, muovendo
dall'area egea e dalla costa siro-palestinese, si sarebbero diretti verso l'Egitto, ove sarebbero stati sconfitti dal
faraone Ramses III (ma secondo i documenti egiziani tra le file degli invasori erano presenti numerosi carri
con donne e bambini, il che proverebbe che si trattava di un tentativo di invasione anziché di una scorreria).
L'ipotesi di Drews come si può immaginare è stata criticata per l'eccessiva importanza attribuita ai fattori
militari57. Peraltro, Littauer e Crouwel osservano che la spada Naue II si trovava già nel mondo miceneo prima
della distruzione dei palazzi e che i Micenei avevano pure inventato un tipo di carro leggero (il cosiddetto “rail
chariot”). Innovazioni che attesterebbero che le nuove tecniche belliche erano ben conosciute dai Micenei nel
XIII secolo a. C. Peraltro, si deve tener conto anche di una ipotesi diversa da quella di Drews. Difatti, solo se
in una città distrutta si trovano numerose punte di freccia (come ad Ugarit) si può ritenere con certezza che la
distruzione sia stata opera dell'uomo. Invece un incendio (e la maggior parte delle città distrutte in questo
periodo recano evidenti segni di incendio) poteva pure essere causato da un terremoto, dato l'abbondante uso
di legno come materiale da costruzione. E gli scavi archeologici hanno dimostrato che Micene e Tirinto nel
XIII e XII secolo a. C. furono colpite più volte da terremoti 58. In effetti, nell'area del Mediterraneo orientale
sono non solo frequenti terremoti devastanti, ma anche delle serie di violente scosse di terremoto in archi di
tempo di non breve durata. Tuttavia, ben difficilmente anche questa ipotesi può rendere conto da sola del crollo
repentino di civiltà così complesse. D’altronde, una serie di violenti terremoti potrebbe aver favorito degli
invasori e/o aggravato delle tensioni sociali già presenti per diverse ragioni, causando di conseguenza rivolte
e sommosse. Si sarebbe quindi creata, per una sorta di “effetto domino”, una vera “crisi di sistema”, cui le
élites dominanti non avrebbero saputo far fronte, anche per la difficoltà di procurarsi in tempi brevi
informazioni attendibili riguardo a quel che effettivamente stava accadendo. In definitiva, il collasso di civiltà
54
Vedi R. Drews, The End of the Bronze Age, cit.
Ma se è vero che la famosa “corazza di Dendra” risalente al XV secolo a. C. poteva essere indossata solo da un carrista, giacché si pensa
che un fante non si sarebbe nemmeno potuto muovere se l'avesse indossata, allora i guerrieri micenei avrebbero dovuto combattere sul carro, anziché
usarlo solo come mezzo di trasporto.
56
La regione dell'Attica però non fu interessata da queste incursioni, al contrario di Troia - non solo Troia VII, distrutta all'inizio del XII secolo a. C.
come altre città micenee (anche se Tebe era stata colpita duramente già nel nel XIII secolo a. C.), ma anche Troia VI, che Drews ritiene sia stata distrutta
dagli “Achei” verso la metà del XIII secolo a. C.
57
Sotto il profilo strettamente militare il punto debole della ricostruzione proposta da Drews consiste nel fatto che non spiega come gruppi di raiders
potessero prendere cittadelle ben fortificate come quelle di Micene e Tirinto.
58
Per questa ipotesi vedi in particolare E. H. Cline, A. Nur, Poseidon's Horse, Journal of Archeology Science, 27, 2000, pp. 43-63; A. Nur, Apocalypse,
Princeton University Press, Princeton-Oxford, 2008, in specie pp. 224-245; E. H. Cline, 1177 BC., cit.; questi autori tengono conto soprattutto dei
risultati degli scavi a Micene e a Tirinto condotti rispettivamente da Spyridon Iakovides e Klaus Kilian.
55
23
così evolute dipese con ogni probabilità non da una sola causa, ma da molteplici fattori, di carattere politico,
sociale, demografico, militare e perfino naturali (terremoti e siccità), anche se a seconda dei casi alcuni di essi
possono essere stati più rilevanti di altri. Certo l'azione delle “forze distruttive” che misero termine alla civiltà
del Bronzo nel Mediterraneo orientale e in Anatolia fu di ampia portata e di lunga durata. Nemmeno la
Mesopotamia venne risparmiata. Salinizzazione del suolo, conflitti endemici e abbandono del sistema di
irrigazione portarono perfino ad un regresso della urbanizzazione in tutta la regione, tanto che rimasero solo
tre centri urbani importanti (Babilonia, Ur e Isin; la stessa Nippur tra il 1200 e 1100 a. C. si ridusse ad un
piccolo centro), mentre verso la metà del XII secolo a. C. crollava la Babilonia cassita e la crisi si estendeva
all'Elam e all'Assiria59.
Per quanto concerne il mondo miceneo, in pratica gran parte della classe dirigente scomparve e con essa
pure la scrittura e le forme di vita tipiche delle élites palatine. Numerosi dovettero essere coloro che cercarono
rifugio nell'area egea (Cipro compresa), benché non si possa escludere che la crescita demografica in questa
zona sia dipesa dal miglioramento delle condizioni di vita della gente del luogo. Ma anche in quelli che erano
stati i più importanti centri della civiltà micenea la vita non cessò e la società si riorganizzò intorno a nuove
istituzioni60. Probabilmente il crollo della struttura di potere “verticale” che contraddistingueva la civiltà
micenea comportò che i capi delle comunità, quali i basileis, assumessero un ruolo di guida61, venendo così a
formarsi delle nuove aggregazioni sociali, sia pure alquanto instabili e sovente di breve durata. Il destino di
molte comunità sarebbe dunque dipeso dalla abilità e dal prestigio dei capi, mentre si sarebbero diffuse le
razzie, le scorrerie e la pirateria. A cavallo tra il XII e l'XI secolo a. C. si verificò comunque un'altra ondata di
distruzioni, che potrebbe essere messa in relazione a quanto la tradizione afferma sull'arrivo dei Dori nella
penisola greca. In Grecia la cosiddetta “età oscura”, contrassegnata dalla scomparsa della scrittura, durò alcuni
secoli (grosso modo fino all'VIII secolo a. C.), ma si deve tener presente pure che in questo periodo maturarono
le condizioni di quella che sarebbe stata la futura civiltà greca.
Ritornando al Vicino Oriente, si deve osservare che nella regione siro- palestinese il venir meno della
struttura palatina (in un contesto geopolitico contraddistinto dalla scomparsa del mondo miceneo e dell’impero
ittita, nonché dalla profonda crisi dell’Egitto) facilitò la crescita dell’elemento tribale e l’adozione di nuove
tecniche funzionali alla nuova realtà socio- politica (si tenga presente che nel Tardo Bronzo le piccole “città
Stato” palestinesi perlopiù non superavano i 15.000 abitanti e solo nei secoli successivi sarebbero arrivate a
contare circa 50.000 abitanti ciascuna). Non è nemmeno casuale che, se prima erano solo le “città Stato” ad
essere cinte di mura, adesso anche i villaggi lo erano e la scomparsa dalla documentazione disponibile di
notizie su quei carristi che il re manteneva con cospicue concessione di terre perché si addestrassero all’uso
del carro in battaglia, testimonia non tanto che la guerra la si combatteva con tecniche diverse, dato che il carro
da guerra fu impiegato ancora per qualche secolo, quanto piuttosto che motivazioni e metodi di reclutamento
erano cambiati62. Inoltre, la fine delle scuole scribali portò, sia pure lentamente, alla diffusione dell’alfabeto
lungo le rotte marittime del Mediterraneo e le piste carovaniere, mentre il collasso delle botteghe palatine rese
necessario impiegare il ferro per produrre utensili e armi, anche perché la lavorazione di questo minerale
richiedeva una attrezzatura modesta e indipendente dal commercio a lunga distanza (ma si badi che ferro e
bronzo coesisterono ancora per lungo tempo: se il ferro era preferito per le lame, il bronzo era considerato
migliore per le corazze; peraltro, in certe zone ricche di stagno, come la Cina, il ferro si diffuse solo verso il V
secolo a. C., benché i Cinesi non siano passati attraverso la fase della forgiatura, dominante in Europa fino al
Medioevo, ma direttamente a quella della fusione, grazie ai progressi nella lavorazione del bronzo)63. Altra
59
Per un quadro generale di questo periodo nell'antico Vicino Oriente vedi M. van de Mieroop, A History of the Ancient Near East, cit., pp. 190-206.
Un fattore di debolezza e di instabilità era rappresentato comunque dalla stessa “civilizzazione internazionale”, dato che una crisi regionale comportando
una improvvisa interruzione dei traffici commerciali avrebbe avuto conseguenze disastrose in tutta l'area mediterranea, tanto più se si considera la
distanza tra la “base” e il “vertice” della struttura sociale.
60
Vedi E. Borgna, I Micenei, in M. Giangiulio (a cura di), Storia dell'Europa e del Mediterraneo. I. Il mondo antico, vol. II., Salerno Editrice, Roma,
2006, pp. 227-268.
61
Questo pare confermato per Tirinto e Micene. Vedi P. F. Bang, W. Scheidel, The Oxford Handbook of the State in the Ancient Near East and
Mediterranean, Oxford University Press, Oxford, 2013, p. 253.
62
Vedi M. Liverani, Oltre la Bibbia, cit., p. 46.
63
È interessante notare che intorno al 1100 a. C. si verificò un importante cambiamento anche in Cina, ove gli Zhou misero fine alla dinastia degli Shang,
che, oltre a conoscere la scrittura, facevano uso di armi di bronzo e carri da guerra, anche se non si deve presupporre che per lo sviluppo della civiltà
cinese siano stati determinanti gli “influssi” del Vicino Oriente. Del resto, oggi si ritiene che pure le tecniche di coltivazione delle piante e
dell’allevamento degli animali non siano state importate in Cina, ma siano sorte autonomamente. Si sa inoltre che nel Neolitico vi furono diverse culture
e che il riso era già coltivato all'inizio del V millennio a. C. Nella fase del Neolitico più recente alcuni villaggi erano protetti da mura in terra battuta,
che attestano la presenza di conflitti e di una élite politico-religiosa. La storicità della dinastia Shang (II millennio a. C.), che fece seguito a quella Xia (di cui
si sa poco), è comunque ormai provata. D’altra parte, la cultura Shang non coincideva con lo Stato Shang e i conflitti fra quest’ultimo e altre entità politiche
“non-Shang” erano frequenti. L’organizzazione militare degli Shang, in effetti, era già complessa, benché si fondasse sulla struttura di parentela. Il nerbo
degli eserciti erano i carri, raggruppati in squadroni di 5 e 25 unità (il carro aveva due ruote, era trainato da due cavalli, e su ciascun carro montavano 3
24
importante innovazione fu l’addomesticamento del cammello e del dromedario, il cui utilizzo permise di
percorrere i grandi spazi desertici. Ma il cammello, oltre ad essere un animale da soma capace di trasportare
un carico più pesante di quello di un asino, poteva essere usato sia in guerra che come animale da monta. E
anche il cavallo, usato dapprima solo per trainare carri, cominciò ad essere usato come animale da cavalcatura.
Di conseguenza divennero più frequenti razzie e incursioni del genere “mordi e fuggi” da parte delle tribù
pastorali, che ora potevano opporsi con successo al tradizionale esercito palatino, dato che occorreva parecchio
tempo per radunare carristi e fanteria (perlopiù di leva), di modo che il “palazzo” non poteva reagire con la
necessaria prontezza per far fronte ad una scorreria o ad un attacco improvviso.
Pertanto, se la fine dell’età del bronzo aveva dato origine, direttamente o indirettamente, ad un mutamento
socio-politico che concerneva tutto il Vicino Oriente, la regione siro-palestinese, continuava ad essere
contraddistinta da una notevole frammentazione politica, che anzi si era accentuata dopo l’arrivo dei Filistei e
degli Aramei. Un “quadro geopolitico” ulteriormente complicato dalla scomparsa dell’impero ittita (che portò
pure alla formazione dei cosiddetti “regni neoittiti”) e dal declino di quello egiziano. Di questa nuova
situazione cercò di approfittare l’Assiria che già nel XIII secolo a. C. aveva cominciato a premere sui confini
dell’impero ittita. In particolare Tiglatpileser I (1115-1077 a. C.) colse una serie di successi che resero più
sicuro il regno assiro ad est e ne estesero i confini ad ovest, fino ad includere le città fenicie della costa, anche
se non si trattò di una vera e propria annessione, ma di una espansione del dominio assiro per ragioni
economiche e di sicurezza (ossia per riscuotere tributi e consolidare la “linea geopolitica” ad ovest
dell’Eufrate). Comunque non fu una conquista stabile, dacché dopo la scomparsa di Tiglatpileser I gran parte
dei territori conquistati andarono perduti. Le continue guerre con gli Aramei e le difficoltà interne, unite
all’instabilità politica dell’alta Mesopotamia che si ripercuoteva sull’economia della regione, costrinsero
l’Assiria a rimanere sulla difensiva e a rinunciare ad ogni disegno imperialistico. Ci vollero quasi due secoli
perché i tempi fossero maturi per una ben più importante e duratura espansione del regno assiro.
Durante la fase di transizione dall’età del bronzo a quella del ferro, si verificò anche quel fenomeno di
“sinecismo tribale” cui si è già accennato e che in seguito portò alla formazione di diverse entità politiche tra
cui quelle del regno di Israele e del regno di Giuda. Occorre però precisare che alla luce degli studi attuali più
rigorosi (ossia non basati su fonti che hanno subito notevoli “rimaneggiamenti”, per ovvi motivi religiosi e
ideologici), non solo è necessario distinguere la storia d’Israele da quella “raccontata” dalla Bibbia, ma non è
nemmeno più possibile accettare che sia esistito uno Stato unitario sotto David e Salomone64. I due regni di
Israele e Giuda erano due “normali” Stati palestinesi (perlomeno sotto il profilo geopolitico), ossia due Stati
come allora potevano esserlo quelli di Damasco e di Tiro, per i quali però non disponiamo di alcuna “narrazione
biblica”. Sicuro invece è che il lento e complicato processo di unificazione fece sì che, tra le antiche “città
Stato” di Gerusalemme e Sichem, prendesse forma il piccolo regno di Saul, limitato al territorio di due tribù,
quella di Efraim e quella di Beniamino, con un esercito di 3.000 uomini, non senza contrasti interni e in
perpetua guerra con i vicini, tra cui i più pericolosi, per lo “staterello” israelitico degli altopiani centrali della
Palestina, erano i Filistei. Furono appunto questi ultimi che, dopo alcune brillanti operazioni di Saul, inflissero
agli Israeliti la terribile sconfitta nella battaglia di Gilboa, in cui lo stesso Saul trovò la morte (in questa
occasione decisivi furono i carri dei Filistei, che non ebbero eccessiva difficoltà a risalire i dolci pendii dei
monti su cui si trovava Saul e quindi a lanciare il loro micidiale attacco contro l’esercito degli Israeliti)65.
Significativo è pure che si ammetta (1 Sam. 29) che David, giovane capo della tribù di Giuda, avrebbe potuto
partecipare alla battaglia contro Saul se i Filistei si fossero fidati di lui (in epoca posteriore il contrasto tra
Saul e David venne interpretato come scontro tra funzione regale e funzione sacerdotale, dato che Saul nella
Bibbia è esplicitamente accusato di follia ed empietà).
Eppure, persino il regno di David sembra essere stato poco più ampio di quello di Saul, benché sia
considerato assai più rilevante dalle “fonti tradizionali”. Le imprese iniziali di David sono quelle tipiche di un
abile “capobanda”, che sa tendere imboscate e compiere incursioni, ma anche sfruttare l’occasione favorevole
e destreggiarsi in situazioni difficili e pericolose. La conquista di Gerusalemme segnò indubbiamente una
svolta storica, ma nemmeno adesso David riuscì ad ottenere successi definitivi contro i Filistei. Né più potente
fu il regno di Salomone, che anzi dovette essere meno esteso di quello di David, giacché non si ricordano
uomini). Anche gli eserciti degli Zhou si basavano sui carri (tirati però da 4 cavalli). L’armamento (arco e ascia-pugnale) era simile a quello degli Shang,
ma gli Zhou avevano diviso il territorio in tre zone ciascuna difesa da un’armata, e quella più importante era stanziata presso la capitale Hao, sotto il
comando del re e formata da 6 “divisioni” (2.500 uomini ciascuna). Vi erano inoltre delle truppe locali organizzate in modo simile. Per quanto concerne
l'organizzazione dello Stato nell’epoca di queste antiche dinastie, è indubbio che il potere fosse nelle mani degli sciamani, tanto che si ritiene che il re
(wang) non fosse che il loro capo. Al “duca di Zhou” (probabile organizzatore della nuova dinastia) si attribuisce la dottrina politica in base a cui il potere
dell’imperatore derivava dal Cielo (T’ien Ming, il “Mandato del Cielo”), ma poteva perderlo nel caso non ne fosse stato degno (vedi M. Sabattini, P.
Santangelo, Storia della Cina, RCS, Milano, 2004).
64
Fondamentale al riguardo è Oltre la Bibbia di Mario Liverani.
65
Vedi C. Herzog, M. Gichon, Le grandi battaglie della Bibbia, Newton & Compton, Roma, 2003, pp. 84-87.
25
campagne vittoriose intraprese da questo re. Può darsi allora che ad un regno militaresco (David) sia succeduto
un regno amministrativo (Salomone), basato in specie su corvées e tassazione66. Alla morte di Salomone, il
regno di Giuda perdette il territorio della tribù di Efraim, rimanendo sotto il dominio di Gerusalemme
unicamente quello della tribù di Giuda e quello di Beniamino, che doveva essere difeso dagli attacchi del
Regno d’Israele. Fu solo con la “casata di Omri” (IX secolo a. C.), espressione con cui gli Assiri designavano
il regno di Israele, che si venne a formare un regno israelitico con una capitale (Samaria) che era un autentico
centro politico e amministrativo (fatto quasi ignorato dalla Bibbia, per pregiudizio antisamaritano, avendo i
membri della “casata di Omri” introdotto il culto di Baal). Con gli Aramei e innanzi tutto con la forte città di
Damasco, il figlio di Omri, Achab, ebbe rapporti ora di alleanza ora di inimicizia. In particolare, si alleò con
il re di Damasco e quello di Hama per far fronte alla minaccia assira. Questa coalizione si scontrò con l’esercito
assiro a Qarqar (853 a C.), una battaglia dall’esito incerto ma che ci mostra quali erano i rapporti di forza tra i
principali regni che vi presero parte: Damasco avrebbe messo in campo 20.000 fanti, 1.200 carri e 1.200
cavalieri; Hama 10.000 fanti, 700 carri e altrettanti cavalieri; Israele 10.000 fanti e 2.000 carri. In totale contro
l’esercito assiro sarebbero stati schierati circa 60.000 fanti, 4.000 carri, 2.000 cavalieri e 1.000 cammellieri,
mentre l’esercito assiro avrebbe messo in campo circa 100.000 uomini (ma il condizionale in questi casi è
d’obbligo). Tuttavia, dopo questa battaglia, che prova che Israele era una potenza regionale, Achab trovò
la morte in uno scontro a Ramot e la “casata di Yehu”, succeduta a quella di Omri, dovette accontentarsi di
governare uno Stato assai più piccolo e di gran lunga meno potente, tanto che il re d’Israele Yoas diventò
vassallo del sovrano di Damasco.
Il Paese conobbe poi una forte espansione economica, durante il regno di Geroboamo II, il quale recuperò
anche i territori della Transgiordania persi da Israele negli anni precedenti. Non mancarono però critiche anche
durissime a questo re, per il lusso sfrenato in cui viveva la corte di Samaria. La polemica del profeta Amos
contro Geroboamo II (Am. 8:4-6) testimonia quanto potessero incidere sugli equilibri di potere dello Stato
d’Israele (e di quello di Giuda) i profeti in quanto considerati “interpreti” della volontà divina e di quella
popolare. Se la consultazione mantica era tratto distintivo delle religioni del Vicino Oriente (specialmente per
quel che concerne gli Assiri), in Israele questa pratica religiosa era considerata negativamente, mentre
grandissimo rilievo avevano i profeti, che in periodo di forti tensioni sociali potevano assumere il ruolo di
“capipopolo”, come appunto nel caso di Amos. «È evidente - osserva Liverani – che l’attività dei profeti aveva
grande valenza politica: in nome del dio essi potevano incoraggiare il re (ovvero frenarlo) nell’attività militare,
ma potevano liberamente riprenderlo per comportamenti scorretti (pubblici e privati), esacerbare conflitti
sociali e religiosi, influenzare persino le scelte per la successione al trono o aizzare il colpo di Stato (è il caso
di Yehu)»67. Le parole di Amos quindi acquisiscono particolare significato, giacché mettono in luce come
l’aumento della ricchezza non avesse generato automaticamente un miglioramento delle condizioni di vita dei
più, ma anzi le avesse peggiorate, concentrandosi la ricchezza nelle mani di pochi e dando vita così a uno
squilibrio sociale tanto forte da indebolire gravemente quel legame comunitario che è presupposto essenziale della solidità e
della coesione di una qualsiasi comunità politica. Solidità e coesione senza le quali si formano delle “fratture”, che
non si possono facilmente “sanare”. Eventi naturali, come siccità e terremoti, potevano allora essere interpretati
dai profeti come segni di “punizione divina” cui la comunità sarebbe andata incontro per le colpe di chi la
governava. E così fu per il regno d’Israele, anche se ciò dipese, in primo luogo, dalla mancanza di realismo geopolitico
dei suoi sovrani che vollero intraprendere una politica di potenza per la quale non avevano le risorse necessarie. Salito al
trono di Israele, dopo una serie di torbidi dinastici, Peqah, insieme al sovrano di Damasco, cinse d’assedio
Gerusalemme, inducendo così il sovrano di Giuda a chiamare in soccorso il re assiro Tiglatpileser III, il quale
colse l’occasione per intervenire nella zona e mettere sul trono di Samaria un suo vassallo, Osea. Ma, alcuni
anni dopo, Osea confidando nell’appoggio del faraone, non versò più il tributo al re assiro. Questa volta gli
Assiri intervennero assai più pesantemente, conquistando Samaria e mettendo fine al regno d’Israele.
L’improvvida richiesta di aiuto del re di Giuda aveva favorito l’intervento di una potenza ben più grande e
pericolosa d’Israele. Una potenza che ormai non aveva più rivali nel Vicino Oriente.
Dopo decenni di difficoltà e di anarchia, infatti l’Assiria era riuscita, con Assurnasirpal II (883-859 a. C.),
a riconquistare i territori perduti. E adesso era la geografia stessa che in un certo senso indicava le direzioni
geostrategiche che l’Assiria, situata nell’alta valle del Tigri e nelle valli del Piccolo e Grande Zab, doveva
seguire per espandersi. Non v’è dubbio che la linea di minore resistenza fosse quella verso ovest, ossia verso
il Mediterraneo, dacché a nord l’Assiria doveva fronteggiare il pericolo degli Urartei, un popolo di origine
urrita. (In effetti, gli Assiri più volte sconfissero Urartu, la cui capitale era Tušpa, sulla riva orientale del lago
Van, ma senza riuscire ad annientarlo del tutto, anche a causa dell’eccezionale posizione geografica che faceva
66
Vedi M. Liverani, Oltre la Bibbia, cit. p. 111.
67
Ivi, p. 132.
26
sì che Urartu fosse una sorta di imprendibile fortezza naturale). A sud Babilonia, anche se ora assai più debole
della Babilonia di Hammurabi, era troppo forte e grande (si stima che contasse in tutto circa due milioni di
abitanti) per poter essere annessa, senza che ciò suscitasse continue rivolte. Anche l’Elam non era affatto facile
da conquistare benché non avesse alcuna possibilità di distruggere l’Assiria. Ad ovest vi erano invece tanti
Stati di popoli diversi - Aramei, Fenici, Israeliti, Filistei e altri - che solo unendosi avrebbero potuto
rappresentare un serio ostacolo per la politica imperialistica degli Assiri. Ma naturalmente era assai improbabile
che un’unione di questo genere si potesse verificare e soprattutto che potesse essere un’unione duratura.
Gli Assiri, con Salmanassar III (858-824 a.C.), poterono così sfruttare tale situazione per espandersi verso
occidente. Ma si trattò di operazioni militari poco più importanti di semplici scorrerie (dato che miravano
essenzialmente a sottomettere i vari Stati siriani onde imporre loro di pagare dei tributi). Del resto, il regno
assiro dopo Salmanassar III conobbe un'altra fase di caos, che portò ad un notevole indebolimento del potere
dei re a vantaggio di alcuni alti funzionari assiri, fino a quando non giunse al potere Tiglatpileser III (744-727
a. C.) che, oltre a risolvere le difficoltà interne e ad infliggere una pesantissima sconfitta ad Urartu, presso
Kishtan, riprese con vigore la politica imperialistica ad ovest dell’Eufrate. Ma con Tiglatpileser III si ebbe
anche una radicale svolta politico-strategica, dato che ora il re assiro mirava ad una politica di annessione, per
controllare direttamente i territori conquistati ed eliminare definitivamente i propri nemici. La politica di
Tiglatpileser III continuò con Salmanassar V e il grande Sargon II. Città come Damasco, Hama e Samaria
furono conquistate e i loro territori ridotti a province, mentre l'esercito egiziano venne sconfitto a Rafia. Alle
città fenicie venne lasciato, per motivi di carattere economico, un certo margine di autonomia (benché
Tiglatpileser III avesse annesso la parte settentrionale della Fenicia, esclusa Biblo) 68, ma Sargon II acquisì il
controllo definitivo della Cilicia, incorporò la parte meridionale del regno di Urartu, condusse spedizioni in
Anatolia, ottenne una grande vittoria contro i Cimmeri e impartì una severa lezione a Merodach-baladan, che,
dopo aver riunito le diverse tribù caldee sotto il suo scettro, si era proclamato re di Babilonia, distrutta in
seguito dal successore di Sargon II, Sennacherib, cui si deve pure la fondazione di Ninive. Ma fu con
Assurbanipal (668-631 a. C.) che l’impero assiro raggiunse il suo apogeo. Il re assiro domò anche una rivolta
dell’Egitto, già conquistato dal successore di Sennacherib, Esarhaddon, che aveva trasformato l’Alto Egitto in
una provincia governata da principi a lui fedeli e da funzionari assiri.
Questi straordinari successi, che portarono sotto il dominio degli Assiri praticamente quasi tutto il Vicino
Oriente antico (Egitto incluso), non si spiegano senza considerare l’organizzazione e soprattutto l’efficienza
della “macchina bellica” dello Stato assiro. Eppure, non si deve nemmeno trascurare il ruolo della religione
che, insieme con motivazioni economiche e strategiche, spinse gli Assiri a creare un impero così vasto e
potente. In quanto il fondamento della monarchia era la credenza nell’origina divina del re, gli Assiri
ritenevano non solo che i propri successi dipendessero dalla volontà divina, ma che la loro politica di conquista
e di potenza fosse espressione di questa volontà, al punto che la monarchia assira tendeva a configurarsi come
una “monarchia universale”, come dominio di Assur sulla terra e di conseguenza, in linea di principio, su tutti
i popoli. Si può comprendere allora il terribile trattamento che gli Assiri infliggevano ai vinti e perché i re
assiri non esitavano a vantarsi di avere massacrato i propri nemici e saccheggiato le loro città. D’altronde, a
causa delle continue guerre, vi era scarsità di manodopera nelle campagne, ma vi era pure la necessità di
assegnare terre ai veterani e di inviare truppe e funzionari nei territori conquistati. Si creò quindi un flusso di
persone che si dirigevano verso le nuove conquiste ed uno di deportati che si dirigevano in Assiria. Solo da
Israele furono deportate oltre 40.000 persone e in seguito circa altre 200.000 furono deportate da Giuda.
Massacri e deportazioni miravano non solo ad eliminare la classe dirigente di un popolo vinto, ma anche ad un
sorta di “assirizzazione” forzata degli sconfitti, benché ai deportati, che dovevano contribuire nel migliore dei
modi alla vita economica del Paese, non venisse imposta la religione degli Assiri, tranne alcune dichiarazioni
di principio. Inoltre, è noto che alcuni “stranieri” raggiunsero posti importanti nell’amministrazione assira,
obiettivo fondamentale dei re assiri essendo sempre quello di favorire lo sviluppo dell’economia del Paese e
di eliminare ogni possibilità di resistenza politica, cercando di annientare l’identità culturale dei popoli
sottomessi. Si trattava essenzialmente di un processo di livellamento, in base a cui anche gli ex prigionieri di
guerra dovevano diventare sudditi dello Stato assiro fedeli al sovrano come tutti gli altri. In teoria, quindi
chiunque poteva e doveva diventare “assiro”.
L’impero assiro, comunque, poggiava su basi politiche e militari saldissime. Un efficiente sistema di
governo aveva il pieno controllo dello Stato. Il sovrano era coadiuvato da cinque alti funzionari, ossia
68
Alla fine dell'impero assiro (612 a. C.) la Fenicia (termine con cui si designa la striscia di terra siro- libanese compresa tra le montagne e il mare) era
divisa in tre province assire. Erano rimaste autonome, ancorché tributarie, solo le città di Biblo, Tiro e Arwad. Le città fenicie passarono poi sotto il
controllo dei Babilonesi e in seguito divennero parte dell'impero persiano, pur godendo di un certo margine di autonomia. Infatti, «l'impero achemenide
contava sulla flotta fenicia per le sue necessità sia belliche (guerre contro le città greche, controllo sempre difficile di Cipro e dell'Egitto) sia
commerciali», M. Liverani, Le civiltà mesopotamiche, cit., p. 511.
27
(nell'ordine) il turtānu (che, insieme con il sovrano, comandava l’esercito), l'“araldo di palazzo”, il “gran
coppiere”, l“intendente” e il sukkallu (il “maggiordomo”). Pare che l'amministrazione centrale si
caratterizzasse per la presenza di due classi di funzionari, “principi” ed eunuchi, legati da un rapporto personale
con il re, cosicché rivalità e “intrighi di palazzo” erano assai frequenti. Nei centri minori invece vi erano
“sindaci e “collegi di anziani”. Comunque, con la riforma di Tiglatpileser III il Paese venne diviso in province
(in verità notevolmente estese, il che poteva essere un pericoloso “fattore di frazionamento” politico),
amministrate da funzionari regi (šaknu). Si trattava di incarichi non ereditari, anche se non si può ovviamente
escludere che vi fosse parziale sovrapposizione tra incarichi politici e strutture di parentela. Particolare
importanza aveva il regime tributario, dato che l'economia del Paese divenne sempre più dipendente dai tributi
che affluivano al “centro” dalla “periferia” (cioè dai Paesi sottomessi; tra l'altro, legname e cavalli provenivano
da terre lontane che gli Assiri ebbero sempre difficoltà a controllare). Inoltre, con l’estendersi dell’impero si
accentuò la differenza tra città e campagna69, e la crescita dei traffici commerciali portò allo sviluppò di una
rilevante economia monetaria, basata sullo scambio di lingotti d’argento. Vi erano pure corporazioni di
mestieri, alla testa delle quali vi erano funzionari che si occupavano di riscuotere le tasse e della leva militare,
benché, per questo servizio, un cittadino libero potesse farsi sostituire da un servo. Ma, nonostante il baratro
che divideva la classe dirigente dalla massa della popolazione, è logico supporre che, essendo l’intera società
assira strutturata in funzione della potenza dell'esercito (il cui altissimo grado di efficienza non poteva certo
essere ottenuto solo con la “frusta”), per buona parte degli Assiri il servizio militare dovesse essere un fattore
di promozione sociale.
Naturalmente ciò valeva assai meno per i deportati o per popoli asserviti che pure erano soggetti alla
coscrizione militare (per capire quanto l’impero dipendesse dalla deportazione dei popoli vinti, basta tener
presente che secondo alcune stime il numero dei deportati non fu inferiore a 1,5 milioni, se non addirittura di
4,5 milioni)70. La forza dell’esercito assiro, del resto, non era fondata su una sorta di superiorità materiale o tecnologica, ma
sulla disciplina, sull’organizzazione e su una notevole “flessibilità tattico- operativa” che portava i comandanti assiri ad
usare armi e uomini sempre in funzione dei particolari compiti che si dovevano eseguire. Particolarmente
innovative furono le tecniche d’assedio, connesse alla costruzione di fortificazioni sempre più sofisticate e
robuste da parte dei Paesi che cercavano di opporsi agli Assiri. In queste operazioni gli Assiri impiegavano
ingegnose macchine d’assedio come arieti e torri mobili. Famosi sono l’assedio di Lakish (qui si sono trovati
i resti dell’enorme terrapieno costruito dagli Assiri) e quello di Gerusalemme durante il regno di Ezechia che
si era ribellato agli Assiri. Il primo si concluse con l’espugnazione della città (evento non frequente nel mondo
antico, data la difficoltà di portare a termine un assedio con pieno successo da parte degli assedianti), il secondo
fu un “mezzo scacco” per gli Assiri, dato che Ezechia aveva accumulato in Gerusalemme abbondanti riserve
d’olio, farina e soprattutto d’acqua, grazie a un canale che egli fece scavare nella roccia e che portava l’acqua
in un cisterna all’interno della città. Sennacherib fu quindi costretto a togliere l’assedio a Gerusalemme (anche
per l’incombente ritorno di un esercito egiziano e il propagarsi di un’epidemia tra le file assire), ma è degno di
nota che Ezechia abbia dovuto comunque pagare un pesante tributo.
Anche in questo periodo comunque i carri da guerra erano importanti (durante il regno di Assurbanipal vi
era pure un carro pesante, con quattro uomini d’equipaggio e trainato da quattro cavalli), ma a partire dall’XI
secolo a. C. l’impiego della cavalleria divenne più frequente e significativo. Vi erano sia arcieri a cavallo che
lancieri a cavallo. Gli arcieri a cavallo operavano in coppia: mentre un cavaliere reggeva le redini, l’altro
impugnava l’arco, un’arma ormai assai evoluta. Anche la fanteria si componeva di lancieri e arcieri, e la
fanteria pesante era dotata di un grande scudo tondo laminato in bronzo (ma con una sola impugnatura a
differenza dello scudo degli olpiti greci). Esistevano inoltre unità di arcieri leggeri e perfino di frombolieri (un
celebre bassorilievo di Sennnacherib li raffigura mentre agiscono in coppia dietro gli arcieri). Assai curati
erano i servizi, oltre alla specialità del genio militare, di modo che gli Assiri potevano muovere agevolmente
eserciti numerosi su ogni tipo di terreno. Fino al IX secolo a. C. i maggiori scontri però dovevano vedere
raramente schierati più di circa 20.000 combattenti per parte (il numero dei soldati impegnati nella battaglia di
Qarqar dovendosi considerare un caso eccezionale), ma nei secoli seguenti si arrivò a mettere in campo eserciti
anche cinque volte più numerosi. D'altronde, le battaglie campali erano rare (per quanto ne sappiamo in questi
scontri erano la cavalleria e i carri a svolgere il ruolo principale), mentre frequenti erano gli assedi alle fortezze
o alle città nemiche, il che conferiva ai genieri un ruolo di primo piano. In ogni caso, è innegabile che le
spedizioni degli Assiri richiedessero una complessa organizzazione militare. È noto, ad esempio, che nelle
69
Nelle città (in specie nelle capitali: prima Kalkhu, poi Khorsabad, sotto Sargon II, e infine Ninive) si concentravano le grandi realizzazioni
architettoniche che veicolavano l'ideologia imperiale assira, secondo cui l'azione sapiente e “benefica” del sovrano e dei suoi più stretti collaboratori,
irradiandosi dal “centro” dell'impero verso la “periferia”, assicurava “ordine e giustizia” a tutti i sudditi dell’impero.
70
Vedi P. R. Bedford, The Neo-Assyrian Empire, in I. Morris, W. Scheidel (a cura di), The Dynamics of Ancient Empires, Oxford University Press,
2009, p. 33.
28
città assire vi erano enormi arsenali, dato che la macchina da guerra assira aveva bisogno di un continuo
rifornimento di armi. Inoltre, si ritiene che l’esercito assiro fosse suddiviso in unità di 1.000, 100 e 10 uomini
e che vi fosse un rapporto di 1:100 tra carri e cavalli e di 1:10 tra cavalli e fanti. Numerosi dovevano essere gli
ufficiali (superiori e inferiori) e i sottufficiali, e si può immaginare il numero di funzionari minori e di servi
che occorresse per approvvigionare un tale esercito e dotarlo di tutti quegli strumenti di cui aveva bisogno per
operare per lungo tempo e a grandi distanze dal “centro” dell’impero. Se si attribuisce agli Assiri anche il
merito del sistema dell’arruolamento regolare, si deve ritenere che «i procedimenti da loro [gli Assiri]
introdotti, tra cui l’assunzione di militari a tempo pieno, la creazione di arsenali e depositi, la costruzione di
caserme e la produzione centralizzata dell’equipaggiamento costituissero un modello per quello di altri imperi
successivi»71. In effetti, l'esercito assiro comprendeva una “coorte” permanente - in teoria dipendente
direttamente dal sovrano, ma in pratica dal “capo eunuco”, e costituita da varie unità, tra cui una “aramaica” e
una di “deportati” - e le “truppe del re”, costituite da diversi contingenti, incluse unità di leva, reclutate in
diverse province, oltre a numerose truppe di presidio e di supporto logistico. Dell'esercito assiro, facevano
parte anche numerose unità composte da stranieri, tra cui due formate da due distinti gruppi tribali: gli Itu'ei e
i Gurrei, il cui ruolo viene paragonato da alcuni autori a quello dei Gurkha in servizio presso l'esercito
britannico e che erano unità permanenti “inquadrate” fra le “truppe del re”. Secondo Mario Fales composizione
e quantità di queste ultime potevano variare parecchio a seconda delle circostanze, ma “di norma” dovevano
comprendere 60/70.000 uomini72.
Questa imponente “macchina da guerra” naturalmente non era invincibile e gli Assiri subirono delle
sconfitte cui però seppero reagire sempre con grande fermezza. In realtà, i problemi dell’impero neoassiro
derivavano, in un certo senso, dal modo stesso in cui gli Assiri lo avevano edificato. Si è giustamente
evidenziato che l’efficienza militare e la “cooperazione imposta” ai vinti fossero tratti distintivi dell’impero
neoassiro. Sono aspetti che non li si può comprendere però se non si dà il giusto rilievo a quella concezione
“ideologica” che portava gli Assiri ad “assirizzare” i popoli vinti. Se anche l’architettura monumentale che
celebra la potenza degli Assiri è “espressione” di una monarchia che aspirava ad essere universale, è palese
che una tale politica di conquista e di “colonizzazione” non solo generasse nei confronti degli Assiri un odio
difficile da estirpare, ma rendesse impossibile a popoli con una forte coscienza “nazionale” e un alto livello
culturale condividere l’“ideologia” assira al punto da poter sentirsi realmente parte di un impero universale73.
Di questo gli Assiri stessi dovevano essere consapevoli, almeno in una certa misura, dato che cercarono a lungo
di evitare un politica annessionistica nei confronti di Babilonia che era pur sempre un centro politico e culturale
di primaria importanza. Perfino dopo il terribile saccheggio della grande e opulenta città mesopotamica da
parte di Sennacherib, Babilonia veniva considerata un problema politico e culturale da risolvere se Esarhaddon,
decise di ricostruire la città semidistrutta. Ma già verso la fine del regno di Assurbanipal cominciarono a
manifestarsi i segni della crisi dell’impero. Se l’Egitto fu definitivamente perso (sebbene i rapporti con questo
Paese continuassero ad essere positivi), la pressione da nord e da est si fece più forte senza che i successi del
re assiro contro i Medi potessero venire considerati definitivi. Inoltre, la campagna contro l’Elam, che si
concluse con la totale disfatta di questo Paese e la distruzione della sua capitale, Susa, ebbe come conseguenza
l’eliminazione di un prezioso (per gli Assiri) Stato cuscinetto, cosicché non vi fu più alcuno ostacolo tra gli
Assiri e i temibili cavalieri medi, una popolazione di stirpe iranica.
Fu infatti Ciassarre, re dei Medi, che, profittando di lotte intestine che indebolivano l’impero neoassiro,
sferrò il primo terribile colpo contro l’Assiria, avvalendosi della collaborazione o perlomeno della neutralità
degli Sciti (una popolazione di lingua indoeuropea, proveniente dall’Asia centrale). A Ciassarre si unì
Nabopolassar, il re di Babilonia, ancora una volta pronta a ribellarsi contro un potere percepito come un potere
“straniero”. Ma Ciassarre e Nabopolassar avevano pure capito che non si poteva dare tregua all’Assiria
altrimenti l’ancora potente Stato nemico avrebbe potuto superare le difficoltà interne e trovare ancora una volta
la forza di reagire. Gli Assiri furono nuovamente battuti e Assur venne saccheggiata; infine Medi e Babilonesi
riuscirono anche a prendere e distruggere Ninive (612 a. C.)74. La sconfitta fu totale e l’Assiria venne cancellata
dalla faccia della terra, tanto era l’odio che gli Assiri suscitavano negli altri popoli. La monarchia
neobabilonese seppe anche sfruttare assai bene la scomparsa della “nazione” assira e conobbe il suo apogeo
con Nabucodonosor II, noto per la presa di Gerusalemme e la deportazione degli Ebrei a Babilonia, ma pure
per le grandi opere pubbliche che evidenziano chiaramente l’intenzione del sovrano babilonese di fare della
71
72
73
J. Keegan, op. cit., p. 269.
Vedi M. Fales, L’impero assiro, Laterza, Bari-Roma, pp. 71-73.
Su questo argomento vedi P. R. Bedford, op. cit., pp- 30- 65.
74
Secondo Mario Fales, gli attaccanti furono favoriti anche dalla vastità e dalla forma allungata di Ninive nonché dal mancato completamento dei
fossati intorno alle mura e dalla morfologia delle porte non progettate per resistere ad un assedio prolungato e deciso (vedi M. Fales, op. cit., p. 12).
29
capitale il centro di un grande impero. Fu infatti Nabucodonosor II che fece costruire i famosi giardini pensili
di Babilonia e cingere questa grande città con una duplice cinta di mura lunga dieci miglia. Il suo regno fu
lungo e stabile ed egli compiva regolari spedizioni a settentrione e ad occidente per la riscossione dei tributi e
per assicurarsi la fedeltà degli alleati, scoraggiando ogni iniziativa dell’Egitto, dato che era stato proprio lui,
quando era ancora principe ereditario, a sconfiggere il faraone Nekao II a Karkemish e poi presso Hama,
mettendo fine alla speranza dell’Egitto di poter svolgere un ruolo di primo piano nella regione siro-palestinese.
Nondimeno, si può ritenere la monarchia neobabilonese solo un interregno tra l’impero assiro e quello
persiano, un popolo di stirpe affine a quella dei Medi, in quanto anche il regno fondato da Ciassarre non fu
nulla più che una “meteora”. Il regno dei Medi venne abbattuto da Ciro il grande (550 - 539 a. C.) che in pochi
anni travolse ogni opposizione, sconfisse la Lidia, occupò Babilonia, come sempre dilaniata da discordie
interne, ed estese il suo dominio dall’India fino all’Anatolia e ai confini con l’Egitto. E con suo figlio, Cambise,
si compì addirittura l’unificazione dell’intero Vicino Oriente, Egitto incluso. Alla morte di Cambise
scoppiarono gravi disordini, finché Dario I, membro di un ramo collaterale degli Achemenidi, prese il potere,
dando una forma definitiva all’impero persiano. Impero immenso, composto da numerosi popoli, da etnie,
culture, lingue e religioni assai diverse. Basti pensare che i re persiani, grazie alle loro conquiste, governavano
un Paese che si calcola contasse 17 milioni di abitanti o addirittura 30/35 milioni di abitanti secondo altre
stime75. Ma questo straordinario successo fu reso possibile non tanto (o non soltanto) dall’abilità dei
comandanti e dei cavalieri persiani quanto piuttosto dalla Weltanschauung dei Persiani. La loro proverbiale
tolleranza, aveva “intercettato” un bisogno di stabilità diffuso in tutta l’area del Vicino Oriente antico, specie
dopo il terribile dominio assiro, e li aveva portati a non imporre la loro religione (è certo però che Dario I si
fosse convertito alla religione di Zarathustra, basata sulla credenza della potenza divina della luce e della verità
- ossia Ahura Mazda - contrastata da una forza negativa, ossia Ahriman)76, bensì a rispettare organizzazioni e
tradizioni dei diversi popoli dell’impero (difatti a Ciro il grande si deve anche la liberazione degli Ebrei dalla
cattività babilonese). L’autorità indiscussa del sovrano, «il grande re, re dei re, re di territori sui quali vivono
molti popoli diversi, re di questo grande e vasto mondo» come recita l’iscrizione della porta di Persepoli, la si
comprende alla luce di una concezione politica che voleva tutelare un ordine condiviso da tutti i membri
dell’impero. Un impero quindi ben diverso da quelli precedenti, tanto che lo si potrebbe definire il primo vero
impero della storia, lontano cioè dall’imporre una visione del mondo astrattamente universale, ma in realtà tipica di un solo
popolo, come quella degli Assiri77.
L’impero persiano si basava su un regime fiscale rigoroso ed efficiente, ed era suddiviso in regni tributari
e in grandi province, amministrate da governatori, chiamati satrapi, che erano assistiti da funzionari regi. Il
sovrano persiano però non mirava ad un “livellamento” né politico né religioso dei propri sudditi, benché tutto
il territorio dell’impero, abitanti inclusi, appartenesse di diritto al re, e «su questo principio era fondata
l’esazione del prodotto della terra e la richiesta di prestazioni personali e del servizio militare»78. I satrapi erano
controllati da ispettori che si muovevano, insieme con ambasciatori e mercanti, lungo le strade dell’impero
(costruite innanzi tutto a scopo militare), tra cui famosissima era quella, lunga circa 2.500 chilometri, che
collegava Susa a Sardi. I nobili come recita un’iscrizione della terrazza di Persepoli, erano educati «a cavalcare,
lanciare le frecce e dire la verità» (Erodoto, I, 136). Coraggio, lealtà e fiducia reciproca erano quindi
componenti essenziali per il buon funzionamento dello Stato, mentre corruzione e abuso di potere da parte dei
satrapi (di fatto simili a monarchi locali, con i pericoli che ne potevano derivare per l’impero) dovevano essere
assolutamente contrastati sul nascere. Inoltre, a Dario I si deve la creazione di un vero e proprio sistema
monetario (anche se la moneta era già stata usata in Lidia e circolava nelle città greche della Ionia), basato sul
darico d’oro e d’argento. Fu durante il regno di Dario I comunque che i Persiani, spingendosi verso occidente,
si scontrarono con i Greci. E non fu certo uno scontro di poco conto conto.
75
Vedi J. Wiesehöfer, The Achaemenid Empire, in J. Morris, W. Scheidel (a cura di), op. cit., p. 77.
A tale proposito, ricorda Mario Liverani (in Le civiltà mesopotamiche, cit., p. 679) che si suole definire come età assiale (l’espressione è del filosofo
tedesco Karl Jaspers) il periodo compreso tra il 650 e il 450 a. C., che vide il sorgere di una serie di riformatori e innovatori: in Cina Confucio, in India
Buddha, in Israele i grandi profeti Deutero-Isaia e Geremia, in Iran Zoroastro e in Grecia i filosofi “presocratici” che aprirono la strada alla “Grecia
classica”. In effetti, nonostante i diversi protagonisti e le diverse tendenze che la caratterizzarono, l’età assiale nacque da un comune approfondimento
della dimensione umana, segnando una netta cesura rispetto al passato.
77
Osserva però Liverani che si deve distinguere tra Ciro e Dario I, in quanto quest'ultimo, pur non rinnegando la politica di Ciro, usò tutta l'implacabilità,
di cui una religione dualista come il mazdeismo poteva essere capace, contro i “cattivi”, specie se ostacolavano il suo potere o i suoi progetti (ivi, p.
670).
78
H. Berve, Storia greca, Laterza, Roma-Bari, 1976, vol. I, p. 269.
76
30
CAPITOLO II. LA TERRA E IL MARE
Le guerre persiane. Nel capitolo precedente si sono delineati alcuni tratti fondamentali della lotta politica
e delle guerre assai prima dell’inizio della cosiddetta “civiltà greca classica”. Si è avuto modo inoltre di notare
che conflitti e strategie dei popoli del Vicino Oriente antico non possono essere compresi indipendentemente
dal loro sistema di credenze religiose (e quindi “ideologico” e culturale), in quanto si trattava di una
“tradizione” che articolava e “orientava” una lotta politica e sociale che implicava una molteplicità di rapporti:
quello tra tempio e palazzo, quello tra struttura palatina e struttura comunitaria, quello tra diverse comunità
politiche, quello tra i membri di ogni gruppo dominante e così via. Con i Greci avvenne una “rottura”. La
“tradizione” intesa come sostrato culturale comune e orientamento spirituale non venne mai meno, ma con la
nascita della filosofia si sviluppò un modo di pensare indipendente da ogni “vincolo” di carattere tradizionale.
L’agonismo, tipico della mentalità dei Greci, si sviluppò in ogni campo, promuovendo una “indagine razionale”
intorno ai “principi” della natura. Già nella Grecia arcaica si assisté ad una eccezionale fioritura artistica,
letteraria e filosofica, come se un’umanità nuova prendesse forma con il venire alla luce di una dimensione
della realtà che prima era celata “nel profondo”. Logos e mythos (l’argomentazione razionale e la narrazione mitica)
vennero dunque progressivamente a distinguersi, creandosi così le premesse perché si potesse pure riflettere
esplicitamente sulla condizione umana, sia sotto il profilo “esistenziale” (nascita della tragedia e della
commedia) che sotto quello storico.
Nondimeno, sarebbe estremamente riduttivo e fuorviante intendere la physis (la “natura”) dei Greci allo
stesso modo della “natura oggettivata” dei moderni. Il “nucleo sapienziale” che contrassegna la filosofia dei
Presocratici conferma, secondo l’interpretazione difesa da Giorgio Colli, che si trattava pur sempre di una
indagine rivolta, in primo luogo, a cogliere l’aspetto “interiore” (o “meta-fisico” se si preferisce) del mondo
della natura, che non era certo pensato in contrapposizione al mondo dell’uomo79. Anzi, per Anassimandro
ed Eraclito come per Parmenide ed Empedocle il mondo della natura concerne la totalità delle “cose” (ossia
degli “essenti”, esseri umani compresi). Conoscere la natura equivale per i “sapienti” dell’età arcaica a
conoscere perciò anche i “giusti” rapporti che devono esserci tra i membri di una comunità, al fine di agire in
modo conforme all’ordine del mondo ed evitare quegli squilibri che possono generare non solo la guerra (polemos)
ma la guerra civile, la sedizione, la lotta intestina (stasis). Ma la ricerca della giusta misura non si può disgiungere
dalla ricerca della “verità” ovvero dalla conoscenza dell’ordine che “governa” il cosmo. La sapienza dei
“maestri di verità” della Grecia arcaica ha quindi pure un innegabile significato politico, mirando ad evitare
ogni forma di hybris (di “dis-misura”e di “pre-potenza”). Con la sofistica però cominciò a manifestarsi la
differenza tra mondo della natura e mondo dell’uomo, che si fece via via più netta e grande, finché l’agonismo
prese il sopravvento sulla ricerca stessa della “verità” diventando fine a sé stesso e la sofistica degenerò in
eristica, in conflitto teso a sopraffare l’avversario con qualsiasi mezzo retorico. Invero, fu l’intera vita sociale e
politica dei Greci ad essere sempre afflitta da conflitti e tensioni “insanabili”, anche se paradossalmente nessun
popolo come quello greco avvertì la necessità di fondare l’esistenza su un’idea “fortissima” di giusta misura.
Che a tutto ciò abbia contribuito pure la geografia del Paese non è facile contestarlo. La Grecia è
frammentata in tanti piccoli territori e il terreno in buona parte è montagnoso e impervio, adatto all’allevamento
di ovini e alla coltivazione dell’ulivo e della vite, piuttosto che a quella del grano. Ma la Grecia è in primo
luogo una penisola e nessuna parte del Paese dista dal mare più di due giorni di cammino. Il mare penetra
profondamente da ovest verso est, fino a Corinto e spesso le piccole pianure non sono che strisce costiere.
Numerosissime sono poi le isole, piccole e grandi, sia ad occidente che ad oriente della terraferma. Insomma,
il Mediterraneo, soprattutto l’Egeo, in un certo senso fu per l’antica Grecia quel che il Nilo fu per l’Egitto o
l’Eufrate e il Tigri furono per la Mesopotamia. Tutto questo favoriva il particolarismo e la rivalità tra le diverse
comunità o le “città Stato” più o meno grandi, ma stimolava pure il commercio, lo spirito di intrapresa e di
conquista. Sicché, l’unità culturale e religiosa del popolo greco (non compromessa dall’esistenza dei vari
dialetti) di per sé non fu mai in grado di generare delle istituzioni politiche e militari panelleniche. Inoltre, i
Greci (che prima della fine dell’VIII secolo a. C. avevano cominciato ad usare nuovamente la scrittura,
avvalendosi dell’alfabeto fenicio) erano eredi a pieno titolo dell’antica civiltà minoico-micenea, non solo per
quanto concerne la lingua. L’“apertura al mare”, tipica della civiltà minoico-micenea, continuava ad essere
una caratteristica del mondo greco, anche se in forma diversa e assai più radicale.
Anche la colonizzazione greca, che riguardò tutto il bacino mediterraneo (incluso il Mar Nero che si può
79
Fondamentale al riguardo G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 1990-1993; sulla physis in quanto ancora comprensiva di tutti gli essenti e
la sua progressiva differenziazione dal “mondo degli uomini” vedi A. Jellamo, Il cammino di Dike, Donzelli Editore, Roma, 2005.
31
considerare una specie di appendice del Mediterraneo), fu una manifestazione del particolare spirito
d’intrapresa dei Greci. La colonizzazione che, in età micenea o “postmicenea” si era indirizzata verso oriente,
ora si indirizzò sia verso occidente che verso oriente, oltre i Dardanelli. Ad ovest si sviluppò parallelamente
alla colonizzazione dei Fenici, la quale però dipendeva in primo luogo da motivazioni commerciali (anche se
è possibile che pure i Fenici fossero interessati ad una strategia di popolamento, dacché oggi si ritiene che la
colonizzazione fenicia si sia iniziata prima della pressione assira che portò ad una limitazione della libertà di
commercio delle città fenicie, favorendo così lo spostamento del baricentro dei traffici commerciali di queste
ultime verso ovest). Almeno all’inizio l’espansione dei Greci fu invece (perlomeno in buona misura) una
risposta alla sfida posta da problemi demografici e agricoli (dovuti alla scarsa fertilità della terra e all’aumento
della popolazione). Infatti, i Greci trascurarono di insediarsi in quei tratti costieri che offrivano migliori
approdi, benché in effetti una penetrazione nell’entroterra della penisola italiana o altrove fosse assai
difficile per la presenza di popolazioni bellicose e perfino capaci di assimilare rapidamente la cultura dei
colonizzatori. Di notevole rilievo fu comunque la colonizzazione della Sicilia, allora assai fertile, per il suo
eccezionale valore geostrategico tanto che fu per il controllo di quest’isola che si arrivò allo scontro tra città
greche e Cartagine, una colonia fenicia, che anche secoli dopo la sua fondazione mandava a Tiro un tributo
ogni anno. (La tradizione secondo cui la fondazione di Cartagine fu opera di fuoriusciti politici di Tiro pare
dunque che sia dovuta al fatto che Greci e Romani interpretavano la colonizzazione fenicia sulla falsariga di
quella greca).
Ma una forte spinta ad emigrare verso nuove terre (che non potevano essere ovviamente quelle a sud-est
della terraferma greca, dato che qui la strada era sbarrata da altri Stati, in specie da quello assiro e quello
egiziano, anche se nel VII secolo a. C., alcuni Greci, con l’approvazione del faraone, fondarono l’importante
colonia di Naucrati nel delta occidentale del Nilo), derivò pure dal «prepotere dell’aristocrazia che dissanguava
e spossessava il piccolo proprietario [e] costringeva chi non volesse rassegnarsi alla vita del salariato o
dell’artigiano a cercar fortuna al di là del mare»80. L’iniziativa di tale espansione fu di quelle città in cui più
progredita era la tecnica della navigazione81. Ma alle singole imprese coloniali potevano prendere parte Greci
di diverse comunità non solo per spirito d’avventura ma per migliorare le proprie condizioni di vita.
Significativo del resto è che le nuove comunità fossero autonome, in quanto i legami con la madrepatria,
benché almeno in una prima fase non assenti, non avevano (salvo eccezioni) alcun carattere di dipendenza
politica. Non si deve tuttavia dimenticare che nonostante il progresso dell’industria e dei commerci (nelle
colonie greche dell’Asia Minore, nonché ad Egina, si cominciò in questo periodo a coniare monete) gran parte
della Grecia dipendeva sempre dalla pastorizia e ovviamente dall’agricoltura.
Certo è che l’emigrazione poté allentare le tensioni sociali ma non ridurle, tanto più che sperequazioni e
squilibri diventavano vieppiù forti con il passare del tempo. Si assisté così non solo all’opera dei primi legislatori
(che fecero valere, al di là delle differenze tra le diverse riforme, la netta superiorità della comunità rispetto ai
singoli individui e alle stesse famiglie aristocratiche, fissando obblighi e divieti che tutti i cittadini dovevano
rispettare)82, ma anche alla presa del potere da parte di individui, indubbiamente ambiziosi e abili, ovvero i
cosiddetti “tiranni”, termine che in verità non necessariamente si deve considerare dispregiativo, dato che
in origine il termine “tiranno” «indicava un uomo che aveva occupato e teneva il potere senza legittima autorità
costituzionale (a differenza di un re), senza implicare un giudizio sulle sue qualità come persona o come
governante»83. Tra questi sono da ricordare specialmente i tiranni di Corinto, Cipselo e suo figlio Periandro, e
Policrate di Samo. Sotto il governo dei primi due Corinto conobbe un eccezionale sviluppo economico
sfruttando la sua posizione geografica che dava accesso ai due mari (Ionio ed Egeo). Ma Corinto cercò di
rendere ancor più saldo il proprio controllo dei traffici commerciali fondando la colonia di Potidea, nella
penisola calcidica, e, insieme ai suoi coloni corciresi, quella di Epidamno, sulla costa dell’odierna Albania. Al
contrario però di quanto accaduto fino ad allora, Corinto mantenne forti legami politici con queste colonie e
riuscì a sottomettere perfino Corcira, con cui Corinto si era già scontrata in una battaglia navale nel VII secolo
a. C. Eppure, era evidente che la tirannide di Cipselo e di Periandro, una volta reso il demos più forte e
consapevole di sé, aveva esaurito il suo ruolo; sicché il successore di Periandro venne abbattuto e la tirannide
80
.G. De Sanctis, Storia dei Greci, La Nuova Italia, Firenze, 1975, vol. I , p. 407.
Probabilmente già dopo il 1000 a. C. vi furono innovazioni tecniche che consentivano la navigazione con il vento di tre quarti. Quanto alle “navi
lunghe” ossia le pentecòntori, erano navi a fondo piatto, con cinquanta rematori, venticinque per lato, e con un rostro per speronare altre navi.
82
Con la nascita della polis (IX-VIII sec. a. C.) il centro della vita politica, sociale ed economica non fu più l’acropoli, su cui sorgevano i templi della
città, bensì l’agorà, lo spazio pubblico per eccellenza. Scrive Vernant: «Ora si conferisce valore a questo centro; la salvezza della polis è affidata a
coloro che sono chiamati hoi mesoi [quelli che stanno “in mezzo”] perché, essendo ad uguale distanza dagli estremi, costituiscono un punto stabile per
equilibrare la città» (J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 119).
83
M. I. Finley, Gli antichi Greci, Einaudi, Torino, 1968, p. 35.
81
32
rovesciata. In tal modo finì anche l’impero coloniale corinzio dacché si resero autonome sia Corcira che
Epidamno, e Corinto nel VI secolo a. C. entrò a far parte della lega peloponnesiaca diventando la più preziosa
alleata di Sparta, la cui politica era invece avversa ai regimi dei tiranni e favorevole ai regimi aristocratici o
timocratici.
Particolare attenzione merita anche Policrate di Samo, che giunse al potere con un colpo di mano, essendosi
potuto procurare aiuti e seguaci grazie alla ricchezza accumulata dal padre, «il quale secondo l’iscrizione di
una statua seduta da lui offerta “raccoglieva il bottino di Era” (cioè esercitava la pirateria al servizio della
grande dea di Samo). Policrate accrebbe il suo potere e la sua ricchezza con la pirateria, al punto che la sua
flotta arrivò a contare ben cento navi corsare, e si guadagnò probabilmente il favore di operai e maestranze
varie con opere edili grandiose (tra cui la costruzione di un acquedotto in una galleria di circa un chilometro e
mezzo). Ma la sua brutale personalità, il suo comportamento da despota e la sua politica di potenza che ben
pochi vantaggi arrecava alla nobiltà e ai contadini dell’isola, rendevano il suo dominio odioso a molti. Policrate
però aveva trasformato Samo in una fortezza pressoché inespugnabile ed era riuscito a respingere un attacco,
cui parteciparono pure Corinto e Sparta, da parte di elementi scontenti con i quali egli stesso aveva
equipaggiato una flotta di 40 navi (che aveva mandato in aiuto di Cambise, allorché il re persiano si apprestava
a conquistare l’Egitto). Ma ben difficilmente i Persiani potevano tollerare i disegni egemonici del tiranno di
Samo. E infatti Policrate fu catturato proditoriamente da un satrapo persiano che lo fece mettere a morte tra
atroci supplizi (anche se questo non dovette dispiacere alla maggior parte dei suoi sudditi) e in seguito i Persiani
riuscirono pure ad acquisire il dominio dell’isola.
Che il tiranno di Samo praticasse la pirateria non si deve comunque considerare un fatto eccezionale, dacché
per molti Greci del tempo non vi era nulla di disdicevole in ciò, e perfino al tempo di Tucidide la pirateria era
ancora praticata da certe popolazioni greche. A tale proposito occorre osservare che solo alcune comunità
greche erano delle vere “città Stato”84, altre avendo conosciuto un processo di urbanizzazione di scarso rilievo,
sebbene per ovvi motivi di solito gli studi si concentrino su alcune città, in particolare, com’è naturale, su
Sparta e Atene. D’altronde, è proprio la storia di Atene che offre la possibilità di intendere meglio il significato
politico e sociale che rivestì per l’antica Grecia l’azione dei riformatori e il ruolo dei cosiddetti “tiranni”. Fu
infatti il terribile flagello del debito, che minacciava di trasformare i piccoli proprietari terrieri (o comunque
buona parte dei contadini) dell’Attica in “servi della gleba”, ad aprire la strada alle riforme di Solone. Nominato
(nel 594-595 a. C.) arconte con pieni poteri85, Solone prima di tutto abolì (o ridusse significativamente) i debiti, in
particolare le ipoteche prese sul corpo e sui beni, e poi riformò l’ordinamento politico, sia pure in senso
timocratico, giacché Solone voleva restaurare più che sovvertire, tanto che si rifiutò di fare una riforma terriera.
In effetti, la riforma di Solone (anche se invero non si conosce bene nei dettagli) teneva conto della diffusione
dell’“oplitismo” (che si esaminerà più avanti) e quindi distingueva nettamente i cittadini che erano in grado di
armarsi a spese proprie (e questi li divise in tre classi) da quelli (i teti) che non possedevano terre e si dovevano
guadagnare da vivere come salariati o semplici artigiani. Ragion per cui egli prese a base queste quattro classi
«per la ripartizione dell’imposta e per l’obbligo del servizio militare, proporzionando diritti e doveri»86.
Ciononostante, dopo il governo di Solone, vi fu un periodo di turbolenze e profonde lacerazioni che in parte
resero vana la stessa riforma di Solone, dacché troppo radicali erano le contrapposizioni tra i proprietari terrieri
della pianura, gli abitanti della costa e quelli della zona montuosa. A tali gravi conflitti mise fine soltanto la
tirannide di Pisistrato, il quale non si limitò a ripristinare la pace sociale ma, consapevole dell’importanza
crescente dell’importazione del grano scitico, dato che la produzione granaria dell’Attica era ormai
insufficiente a coprire il fabbisogno di Atene, si adoperò per rafforzare la flotta ateniese, allora di poco valore,
riformando le naucrarie, che erano associazioni, a base locale, il cui compito consisteva nel costruire ed
equipaggiare delle navi da guerra (una per ogni naucraria). Queste non erano più le pentecòntori ma le triremi,
che avevano fatto la loro comparsa in Grecia probabilmente non prima del VII secolo a. C. Si trattava di navi
di 68 tonnellate (ma a pieno carico arrivavano a 90 tonnellate circa), lunghe 38 metri, sperone incluso, e a tre
Il termine polis designa non solo la “città” ma anche e sempre il “centro del potere politico”. Perciò secondo Hansen «the concept of polis in the
sense of town was much more closely connected with the concept of polis in the sense of state than many modern historians are inclined to believe», M.
H. Hansen, The Copenhagen Inventory of Poleis and the Lex Hafniensis de Civitate, in G. Lynette, P. J. Rhodes (a cura di), The Devolopment of the
Polis in Archaic Greece, Routledge, Londra-New York, 1997, p. 10.
85
In età storica l’arcontato era composto dai magistrati più importanti, ovvero l’arconte re, cui era attribuita la funzione sacrale in passato svolta dai
re, l’arconte polemarco, che era il comandante dell’esercito, l’arconte eponimo che dava il nome all’anno e i sei tesmoteti, che erano i “custodi” delle
leggi.
86
G. De Sanctis, op. cit., vol. I, p. 477. Si ritiene comunque che Solone abbia riservato le magistrature più importanti (arconti e tesorieri) alle classi più
abbienti, ma che alle magistrature minori potessero accedere gli zeugiti (ovvero la terza classe a partire da quella più ricca) e tutti i cittadini potessero
partecipare all’assemblea. Solone forse istituì pure un Consiglio dei 400 e vietò l’esportazione dei prodotti agricoli dell’Attica, tranne quella dell’olio.
84
33
ordini sovrapposti di remi, con 85 vogatori per lato. Sulla base di alcune indicazioni di Tucidide si ritiene che
potessero raggiungere una velocità media di 8,5 nodi e perfino di 12 nodi in combattimento. Di solito avevano
ciascuna 200 uomini di equipaggio dovendosi contare oltre ai 170 vogatori 30 uomini tra nocchieri e fanti di
marina87. (Questo tipo di nave, pur considerando le numerose varianti, avrebbe dominato il Mediterraneo fino
all’inizio dell’età moderna).
Ma la tirannide anche se arrecava vantaggi all’intera comunità non poteva non essere in contrasto con
quell’aspirazione all’isonomia (ossia eguali leggi per tutti i membri della polis e quindi nessuno potendo
reputarsi “al di sopra” della legge) che aveva messo radici saldissime nella polis attica88. Sicché, una volta che
gli Alcmeonidi, con l’aiuto degli Spartani, ebbero cacciato Ippia (che governava Atene dopo l’assassinio di
suo fratello, succeduto al padre Pisistrato, e che cercò riparo presso i Persiani), Clistene (appartenente appunto
agli Alcmeonidi) ebbe la possibilità (nel 508 a. C.) di procedere a quella radicale riforma dell’ordinamento
politico che fece di Atene uno Stato democratico, nel senso letterale, ovvero uno Stato fondato sul potere del
demos, termine che designava l’insieme dei cittadini (maschi) adulti, di qualsiasi condizione sociale fossero,
purché non fossero né schiavi né meteci (questi ultimi erano stranieri residenti in Atene, perlopiù mercanti,
banchieri o, come si direbbe oggi, “liberi professionisti”, ma privi di diritti politici). Con la riforma di Clistene
era evidente che erano le leggi a dover governare la città. Ma le leggi di chi? Adesso ad Atene era chiaro che le
leggi erano quelle della polis democratica, nel doppio senso del genitivo: erano quelle con cui si doveva
governare la polis e quelle con cui la polis stessa si governava. Nei suoi lineamenti fondamentali l’architettura
politica disegnata da Clistene rimase immutata nel V secolo a. C., benché vi fossero alcuni cambiamenti che,
anziché indebolire, rafforzarono il carattere democratico dello Stato ateniese.
Il perno dell’intera vita politica ateniese era l’assemblea popolare, ma decisiva per l’ordinamento
democratico della città fu pure l’istituzione di dieci nuove tribù, ciascuna composta da tre distretti (chiamati
trittie, ognuna delle quali doveva fornire 300 opliti): uno nella zona “interna”, uno nell’area urbana e uno sulla
costa, onde evitare quei conflitti che avevano arrecato tanto danno ad Atene in passato. In tal modo si volle
eliminare anche il pericolo delle consorterie aristocratiche, essendo ora le genti nobili “spezzate” tra tribù
diverse. Ciascun distretto poi era suddiviso in demi, che erano una sorta di piccoli municipi. Le tribù
eleggevano gli strateghi cui spettava il comando militare, ma che nel V secolo a. C., proprio in quanto non
sorteggiati ma eletti, acquisirono un ruolo eminentemente politico, di modo che il comando militare venne
esercitato da ufficiali subordinati, i tassiarchi, che erano 10, ossia uno per tribù, come gli strateghi. In ciascuna
tribù venivano invece sorteggiati 50 consiglieri tra i cittadini, di modo che il Consiglio (chiamato bulè) era
diviso in dieci sezioni, una per tribù, e ciascuna sezione (chiamata pritania), aveva la presidenza del Consiglio
per la decima parte dell’anno. Il Consiglio aveva varie funzioni, tra cui quella di redigere l’ordine del giorno
dell’assemblea popolare, che deteneva in ogni caso il potere sovrano. La magistratura che con il passare del
tempo divenne sempre più importante però fu quella dell’Eliea, ovvero i 6.000 giudici popolari (600 per tribù)
estratti a sorte tra i cittadini. Con Pericle si giunse alla remunerazione di queste cariche da parte dello Stato,
rendendo dunque possibile anche ai più poveri una effettiva partecipazione agli affari dello Stato, dato che
prima tale diritto era notevolmente limitato dal fatto che la maggior parte dei cittadini dovevano guadagnarsi
da vivere lavorando, cosicché non avevano tempo per l’attività politica. A Pericle probabilmente si deve anche
l’istituzione del cosiddetto “fondo teorico”, al fine di consentire ai cittadini poveri di assistere agli spettacoli
teatrali (cui assitevano anche le donne). Un altro istituto tipicamente ateniese era l’ostracismo, che dava la
possibilità al demos di bandire da Atene per dieci anni chiunque fosse ritenuto pericoloso per la democrazia.
Il voto veniva dato scrivendo il nome di colui che si voleva esiliare (per dieci anni) su un pezzo di terracotta
(òstrakon), ma era valido solo se all’assemblea partecipavano non meno di 6.000 cittadini. Anche limitandosi
alla descrizione di questi pochi ma essenziali tratti della democrazia ateniese del V secolo a. C., si comprende
quanto fosse diversa dalla cosiddetta “democrazia liberale” di tipo anglo-americano. Non solo perché si trattava
di una democrazia diretta e perché lo Stato ateniese spendeva ingenti somme per promuovere la partecipazione
del demos alla vita politica, ma perché il cittadino ateniese era innanzi tutto membro di una comunità, al punto
che cittadino e individuo si “sovrapponevano”, tanto è vero che i meteci, anche se erano ricchi mercanti, erano
del tutto esclusi dalla partecipazione agli affari pubblici, il che nel mondo antico era segno di grave inferiorità
sociale. E se con Pericle il diritto di cittadinanza subì ancora più forti restrizioni, più gravoso diventò anche
87
M. Sordi, Il mondo greco, Jaca Book, Milano, 2004, pp. 47-48.
88
Sulla isonomia e la necessità di porre un freno alle diseguaglianze economiche che minacciavano di disintegrare la struttura comunitaria della polis
vedi le considerazioni di Santo Mazzarino in C. Ampolo (a cura di), La città antica, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 175-209. Mazzarino ricorda pure
che «un muro è il nòmos per Eraclito […] il più deciso critico del “plùtos” e della aristocrazia efesina», benché egli stesso rampollo della massima
famiglia aristocratica di Efeso (ivi, p. 188).
34
l’onere finanziario dello Stato per remunerare magistrature popolari, soldati e vogatori delle triremi, per
garantire sussidi ai cittadini più bisognosi e meritevoli (per i cittadini poveri anche il costo del biglietto per
assistere agli spettacoli teatrali era a carico dello Stato)89.
Di tutto ciò non si può tener conto allorché si prende in esame la guerra del Peloponneso, che in questi
ultimi anni suscita enorme interesse nel mondo angloamericano per evidenti motivi geopolitici e “ideologici”.
Al riguardo, non è di poca importanza che il noto storico militare americano Victor Hanson scriva: «I nostri
leader politici e i nostri Soloni vogliono trarre insegnamenti dagli errori e dai successi degli Ateniesi. Non
sanno bene se il destino di Atene sarà anche il nostro o se gli Americani potranno ancora eguagliare la civiltà
e l’influenza degli Ateniesi pur evitandone l’arroganza. La guerra del Peloponneso non è mai stata tanto
rilevante per gli Americani come oggi. Proprio come gli Ateniesi, siamo potentissimi, ma insicuri,
dichiaratamente pacifisti ma quasi sempre impegnati in qualche conflitto, spesso più desiderosi di piacere che
di essere rispettati, e fieri delle nostre arti e della nostra letteratura anche se più versati per la guerra»90. A parte
l’opinabile giudizio sui “talenti” e sulle “virtù” degli Americani, perfino la stessa talassocrazia ateniese si
configurava in modo assai diverso dalle moderne talassocrazie inglese e statunitense, pur avendo in comune con
esse alcuni aspetti niente affatto marginali. Del resto, il Mediterraneo è sempre stato un “mare interrato”, ancor
prima della scoperta dell’America; assomiglia a un grande fiume che scorra dallo Stretto dei Dardanelli (ove
“riceve” le acque di un altro “mare interno”, ossia il Mar Nero) allo Stretto di Gibilterra; è come un fiume cioè
che nasca ad oriente e che sfoci ad occidente, nell’Oceano Atlantico. In nessun modo quindi lo si può
paragonare ad un Oceano, che si presenta come uno spazio “im-menso” che circonda la terraferma, a differenza
del Mediterraneo, che significa appunto “mare in mezzo alle terre”. Nondimeno, se il paragone tra Atene e
l’America è sicuramente da rifiutare, non per questo si può negare che Atene era una talassocrazia, con
caratteristiche politiche e militari che la rendevano assai differente da Sparta, il cui ordinamento politico e
sociale (il kosmos) noi non lo conosciamo nel suo divenire, bensì nella forma in cui si presentava ai Greci
dell’età classica, anche se si ritiene che si fosse formato tra l’VIII e il VII secolo a. C., grosso modo nel periodo
delle due guerre messeniche, con cui Sparta conquistò la supremazia nel Peloponneso meridionale91. (Sul modo
in cui si formò e su come si configurasse in età arcaica il kosmos spartano vi sono molti dubbi e interrogativi,
ma si tenga conto che era certo meno “chiuso” di quanto lo fosse nel V sec. a. C., come prova anche la presenza
a Sparta di diversi artisti stranieri)92.
La tradizione vuole che Licurgo avesse sostituito all’antico ordinamento aristocratico un regime fondato
sulla piena eguaglianza tra coloro che potevano servire come opliti e che per questo avesse assegnato loro
9.000 lotti di terra. Ovviamente non si trattava di eguaglainza economica, anche se i “pari”, ovvero gli spartiati,
erano in effetti gli unici cittadini che godessero di pieni diritti politici, dato che la società spartana era
nettamente divisa in tre classi sociali: oltre agli spartiati vi erano i perieci, che abitavano nelle zone adiacenti
al territorio occupato dagli spartiati e le cui comunità dovevano godere di una qualche autonomia (benché i
perieci dovessero “seguire gli spartiati dovunque questi ultimi volessero condurli”), e gli iloti, che erano
cetamente degli schiavi, quantunque la loro reale condizione sia una questione “controversa”. Lo Stato aveva
provveduto al sostentamento dei suoi guerrieri garantendo loro terra e schiavi (certo assai numerosi dopo la
conquista della Messenia), ma gli spartiati «non dovevano più vivere se non per lo Stato e, poiché come sua
funzione essenziale lo Stato considerava la guerra, dovevano vivere solo per prepararsi alla guerra e
combatterla93. Dai venti ai sessant’anni, dopo aver ricevuto una severissima educazione premilitare, i “pari”
dovevano prestare servizio militare. Fino a trent’anni vivevano in gruppi di quindici circa (quelli che nascevano
con difetti potevano essere soppressi anche per volere degli anziani) e fino al compimento degli obblighi
militari dovevano prendere pasti in comune. Né potevano usare moneta dacché Sparta non batteva moneta ma
si limitava a usare per gli scambi dei pezzi di ferro di scarso valore (solo intorno al 300 a. C. Sparta si decise
a coniare delle monete di metallo prezioso). Qualunque altra attività diversa da quella politico-militare veniva
svolta dai perieci (in particolare questi si occupavano del commercio dello Stato spartano, benché in tempo di
guerra servissero anche come opliti) e dagli iloti che avevano pure il compito di lavorare le terre degli spartiati.
Si deve ricordare che nel mondo greco era diffusa anche la “liturgia”, che consisteva nell’obbligare i cittadini più ricchi a contribuire alle spese
militari o a quelle per festività religiose o comunque “pubbliche”, dato che allora si ricorreva alla riscossione di imposte dirette solo in casi straordinari.
Di particolare importanza ad Atene era la trierarchia che consisteva nel sostenere le spese per allestire la trireme che si doveva comandare.
90
V. D. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, Garzanti, Milano, 2010, p. 23.
91
Si ricordi che in questo torno di tempo si combatté pure la cosiddetta “guerra lelantina” fra Eritrea e Calcide, che con ogni probabilità terminò con
la vittoria di quest’ultima città, benché anch’essa uscisse del tutto logorata dal lungo conflitto.
92
Sulla genesi e la struttura del kosmos spartano vedi, oltre a P. Cartledge, Sparta and Lakonia, Routledge, Londra-New York, 2002, la lucida sintesi
di M. Lupi, Le origini di Sparta e il Peloponneso arcaico, in M. Giangiulio (a cura di ), op. cit., vol. III, pp. 363-393.
93
G. De Sanctis, op. cit., vol. I., p. 491.
89
35
In tal modo lo Stato spartano “si chiuse” ad ogni influsso esterno ma anche ad ogni mutamento o rinnovamento
culturale, sì che il kosmos spartano (che ha affascinato sin dall’antichità non pochi filosofi) venne a configurarsi
(perlomeno a partire dalla seconda metà del VI sec. a C.) come una società quasi perfettamente “chiusa”.
Altra caratteristica di Sparta era la presenza di due re (lo Stato spartano era cioè una diarchia), che
detenevano il comando dell’esercito ma il cui potere era subordinato al controllo degli efori (cinque alti
magistrati due dei quali accompagnavano il re cui era affidato il comando in una campagna militare, giacché
quasi sempre solo uno dei due re era impegnato in operazioni militari all’estero). Il potere esecutivo,
indipendentemente dalle competenze del potere regio, era nelle mani di questi cinque alti magistrati, che erano
eletti da tutti gli spartiati e duravano in carica un solo anno (nel VI secolo a. C. i loro poteri si ampliarono,
anche se non raramente erano scelti tra gli spartiati meno abbienti). Non si deve però sottovalutare il ruolo del
consiglio degli anziani (gerousìa), cui anche i re partecipavano a parità di voto con gli altri (Erodoto, VI, 57,
5) e che «trattava le più importanti questioni dello Stato, su convocazione degli efori, che, congiuntamente
avevano potere deliberativo nel consesso»94. All’assemblea (apella) potevano invece partecipare tutti gli
spartiati, purché avessero compiuto i trent’anni. Per quanto possa apparire strano e perfino puerile, il voto
veniva espresso solo con grida (Tucidide, I, 87), come si conveniva ad uomini per i quali contava unicamente
il mestiere delle armi.
Facile dunque rendersi conto che la struttura stessa della società spartana era tale da “frenare” ogni tentativo
dello Stato di espandersi ulteriormente e da favorire invece una politica che mirasse a difendere lo statu quo.
Da qui l’ostilità verso i tiranni e, in linea di principio, verso ogni regime non aristocratico. Insomma, l’obiettivo
fondamentale della classe dirigente spartana consisteva nell’evitare che gli iloti, che erano assai più numerosi
degli spartiati, potessero ribellarsi e nell’adoperarsi per mantenere la pace (sia quella sociale sia quella tra le
diverse “città Stato”) all’interno del Peloponneso, onde impedire qualsiasi mutamento o “squilibrio di potenza”
che potesse influire negativamente sull’ordinamento politico e sociale di Sparta. Ciò, da un lato, richiedeva
una assidua e attenta vigilanza sull’enorme massa degli iloti, dato che questi erano una costante minaccia per
Sparta (come dimostra la simbolica dichiarazione di guerra indetta ogni anno dagli efori contro di loro) ed era
ovvio che avrebbero approfittato di ogni debolezza o difficoltà di Sparta per ribellarsi; dall’altro, implicava
l’acquisizione di una indiscussa egemonia politico-militare sull’intero Peloponneso, che solo dei “guerrieri
professionisti” come gli spartiati potevano garantire. D’altronde, Sparta, priva com’era di grandi ambizioni
economiche o commerciali poteva offrire una “protezione” politica e militare che non avrebbe danneggiato in
alcun modo i traffici delle altre città peloponnesiache, rendendo anzi più sicuri i regimi oligarchici di queste
ultime. Si può affermare perciò che la formazione di un lega peloponnesiaca nel VI secolo a. C., con Sparta
nel ruolo di potenza egemone, aveva la sua ragione d’essere nello stesso kosmos spartano. Un tale equilibrio
spiega pure la rivalità tra Sparta e Argo, che aveva, per storia, tradizione e posizione geografica, ambizioni di
potenza che non potevano non contrastare con quelle di Sparta. Peraltro, pare (ma è solo una ipotesi) che siano
stati proprio gli Argivi i primi a impiegare la falange oplitica ad Isie (669/668 a. C.), infliggendo agli Spartani
una memorabile sconfitta. Comunque sia, con il diffondersi dell’“oplitismo” l’arte della guerra sarebbe
cambiata e Sparta si sarebbe presa una terribile rivincita su Argo nella battaglia di Sepia nel 494 a. C.
Erano infatti gli opliti i guerrieri greci per eccellenza95. Ovviamente anche in Grecia vi era la fanteria
leggera e non mancava la cavalleria, ma la prima aveva compiti di minore importanza e la seconda trovava
scarso impiego anche perché il territorio della Grecia è assai poco adatto all’allevamento dei cavalli (tranne la
Tessaglia, in cui piccolo era il numero di opliti, mentre si contavano ben 6.000 latifondisti, che potevano servire
a cavallo a spese proprie). Sicché, almeno fino alle guerre persiane (incluse) furono gli opliti a decidere le sorti
di una battaglia e la loro “voce” divenne quella che contava negli affari pubblici di diverse città greche. Il
processo che portò dal “campione” che sfidava a duello i suoi pari, al fante corazzato, l’oplita che combatteva
secondo la tattica della falange, è testimoniato solo dalla pittura vascolare, ma si pensa risalga all’inizio del
VII secolo a. C. Un tale cambiamento fu reso possibile grazie al numero relativamente elevato di piccoli
proprietari che potevano permettersi la panoplia, ossia l’armatura completa dell’oplita, anche se verso la fine
del secolo V a. C. spesso era lo Stato a fornirla ai cittadini meno abbienti per aumentare il numero degli opliti.
Nondimeno, in questo periodo non di rado la panoplia dell’oplita (che allora costava non meno di 70-80
dracme) si era notevolmente “alleggerita”, ma comprendeva sempre lo scudo e la lancia, che erano le armi
principali dell’oplita (il quale poteva perciò combattere anche quando non era “inquadrato” nella falange). Lo
scudo (hoplon) era di legno, con un rivestimento esterno di bronzo. Era pesantissimo (otto chili circa), rotondo,
94
U. Cozzoli, Lo Stato spartano del V secolo, in R. Bianchi Bandinelli (a cura di), op. cit., vol. II, 3, p. 108.
Sull“oplitismo” vedi di V. D. Hanson (a cura di), Hoplites, Routledge, Londra-New York, 1993, The Wars of theAncient Greeks, Cassell, Londra,
1999, L’arte occidentale della guerra, Garzanti, Milano, 2009, e The Cambridge History of the Greek and Roman Warfare, cit., vol. I.
95
36
di circa un metro di diametro, e a forma concava. Lo si impugnava con il bracco sinistro, ma poiché non
copriva tutta la parte anteriore della persona, l’oplita cercava di ripararsi dietro lo scudo del compagno alla
propria destra, di modo che gli opliti, allorché muovevano contro il nemico, tendevano a spostarsi verso destra.
Il che portò a rafforzare l’ala destra della falange schierandovi i migliori soldati, al fine di colpire con la
massima energia possibile il fianco sinistro dello schieramento nemico e cercare nel medesimo tempo di
aggirarlo. La lancia, lunga due metri e mezzo, aveva due punte metalliche: quella anteriore (di ferro o di
bronzo) era sottile, tagliente e a forma di foglia, mentre quella posteriore, più pesante, serviva per conficcare
la lancia nel terreno durante le soste. Ma poteva servire anche per colpire un nemico caduto a terra durante il
combattimento oppure, nel caso (non affatto infrequente) che la lancia si spezzasse nella mischia, per
continuare a combattere senza che si fosse costretti ad impugnare la spada, che era corta e di ferro. La panoplia
comprendeva pure la pesante corazza di bronzo, l’elmo (metallico, benché successivamente potesse essere
sostituito anche da un semplice copricapo) e gli schinieri (ossia i gambali) e pesava complessivamente circa
30 kg. Gli opliti avevano quindi degli schiavi o comunque degli aiutanti per il trasporto dell’armatura (e questo
accadeva anche quando la panoplia non comprendeva più la corazza metallica, gli schinieri e l’elmo di bronzo).
Si ritiene che nel VI secolo a C. la guerra tra poleis (e vi erano circa 1.500 poleis, comprendendo anche
quelle più piccole) consistesse non solo in scorrerie o razzie (o che si ricorresse a stratagemmi e “astuzie” pur
di vincere, il che certo accadeva), ma in scontri tra opliti in “campo aperto”, nei quali sia gli attaccanti che i
difensori miravano ad una soluzione del conflitto che fosse la più rapida possibile, anche perché, gli opliti
essendo perlopiù contadini o comunque proprietari terrieri, avevano premura di non rimanere troppo a lungo
lontani dai campi durante la buona stagione. Inoltre per i difensori vi era la necessità che gli invasori
arrecassero il minor danno possibile alle loro terre. Ciononostante, Victor Hanson ha provato con argomenti
convincenti che non era affatto semplice fare “terra bruciata”: la vite e l’olivo non si distruggono facilmente e
persino devastare un campo coltivato a grano non è semplice96. Certamente i danni potevano essere notevoli,
anche nel caso che gran parte del raccolto fosse già stata messa al sicuro, ma è l’aspetto “agonale” del
combattimento che rileva. Alla provocazione e alla sfida si doveva rispondere prontamente, arrivando alla
battaglia decisiva, ovvero allo scontro “faccia a faccia” tra opposte falangi. In sostanza, secondo la
“tradizionale” ricostruzione della formazione della polis nell’antica Grecia, a partire dall’inizio del VII secolo
a. C. la falange oplitica avrebbe (sia pure progressivamente) cambiato il “volto” della guerra e della politica,
dacché, come scrive De Sanctis, adesso «la vittoria non dipendeva più dal valore individuale di pochi guerrieri
meglio armati che combattevano nella prima fila seguiti dal codazzo dei loro clienti, sì dalla tenace resistenza
degli opliti provvisti di panoplia stretti gli uni agli altri in una linea in cui gli scudi si serravano agli scudi, irta
di lance sporgenti verso il nemico, salda come un muro contro gli assalti dei più prodi guerrieri che
l’affrontassero a piedi o a cavallo, terribile come un ariete quando sorretta e sospinta dalle linee successive
degli armati di scudo prementi da tergo si precipitava sul nemico»97. La poesia di Tirteo (benché non tutti gli
studiosi ritengano che Tirteo si riferisca già al modo di combattere tipico della falange oplitica) si considera
allora emblema della virtù guerriera (l’areté) degli opliti che, scudo contro scudo e petto contro petto,
combatevano, saldi come rocce, filo all’estremo sacrificio per la difesa e la grandezza della propria polis.
Infatti, la falange oplitica è descritta come un muro di scudi, che aveva generalmente una profondità di otto
righe (ma poteva essere assai maggiore). L’urto tra guerrieri che si scagliavano gli uni contro altri era
violentissimo, e gli ultimi metri li si percorreva a passo di corsa, badando di non perdere coesione. Mentre gli
uomini delle prime tre righe, stretti gli uni agli altri, combattevano a corpo a corpo contro gli avversari, gli altri
premevano da dietro o sostituivano i caduti delle prime file. La lancia la si puntava in alto, mirando alla gola
96
Vedi V. Hanson, Warfare and Agriculture in Classical Greece, University of California Press, Berkeley, 1998 e Idem., The Other Greeks, California
University Press, Berkeley-Los Angeles- Londra, 1998. Hanson però considera il piccolo proprietario greco come se fosse stato una sorta di farmer
americano, dedito solo a migliorare il rendimento della sua proprietà, lavorando egli stesso la terra, coltivando anche terre marginali e sperimentando
nuove tecniche. L’aspetto ideologico di tale concezione è evidente. Del resto, altri autori hanno dimostrato che nella Grecia arcaica il piccolo proprietario
terriero possedeva alcuni schiavi e non aveva bisogno di lavorare per mantenere la propria famiglia, potendo quindi partecipare agli affari politici della
polis (vedi H. van Wees, Farmers and Hoplites. Models of Historical Development, in D. Kagan, G. F. Viggiano (a cura di), Men of Bronze, Princeton
University Press, Princeton, 2013). Inoltre, la tesi di Hanson non vale affatto per la “polis oplitica” per eccellenza, ossia Sparta, per la quale lo studioso
americano non offre alcuna spiegazione. Più convincente è la tesi che già in epoca arcaica la battaglia tra opliti fosse (o almeno tendesse a configurarsi
come) una sorta di “agone”, anche se non necessariamente si configurava come un conflitto regolato da determinati protocolli, che comunque è facile
immaginare che non sempre venissero rispettati, dato che che razzie, agguati e incursioni dovevano essere tutt’altro che infrequenti (ma sulla differenza
tra guerre “con regole e guerre “senza regole” nella Grecia arcaica vedi W. R. Connor, Early Greek Warfare as Symbolic Expression, “Past and Present”,
n. 119, 1988, pp. 3-29). In ogni caso, che la guerra tra poleis si configurasse anche come un agone difficilmente si può considerare solo frutto di una
“invenzione della tradizione” nel V secolo a. C. D’altronde, è essenziale che i Greci abbiano avvertito l’esigenza (politica non solo etica) di “mettere
in forma” la stessa guerra..
97
G. De Sanctis, op. cit., vol. I, p. 475. Nondimeno, si è messo in evidenza come anche nei poemi omerici la “massa” dei guerrieri svolga un ruolo non
affatto marginale. Vedi H. van Wees, Way of War. The “Iliad” and the Hoplite Phalanx (I e II), “Greece&Rome”, vol. 41, n. 1 e n. 2, 1994, pp. 1- 18
e pp. 131-155.
37
o al collo, oppure in basso, cercando di colpire il nemico all’inguine o alle cosce. Lo scopo era di aprire una
breccia nelle file avversarie e poi di allargarla spingendo con gli scudi (l’othismos). Se il nemico non resisteva
alla pressione, “si disuniva” e si lasciava prendere dal panico, il “muro” di scudi e lance si disintegrava. La
“rottura” della falange (denominata parrexis) comportava la fuga ignominiosa del vinto, che non aveva alcuna
possibilità di riformare lo schieramento sul campo di battaglia. Eppure anche in questo caso assai raramente i
vincitori inseguivano gli sconfitti. Un compito invero assai arduo tenendo conto dell’armatura indossata
dall’oplita. Per questo - o anche per questo – le battaglie tra falangi benché terribili e cruente difficilmente si
concludevano con un elevato numero di vittime (Peter Krentz ha dimostrato che nello scontro tra opliti le
perdite assommavano in media al 5% tra i vincitori e al 14% tra i vinti, anche se si deve tener conto che gran
parte delle vittime erano opliti che si trovavano nelle prime file della falange)98. Tuttavia, se questa era la
regola, non mancavano le eccezioni, come a Sepia, allorché gli Spartani annientarono gli Argivi, facendo 6.000
morti tra le loro file – ma anche in tale occasione è significativo che si incaricarono gli iloti di dar fuoco al
boschetto in cui gli Argivi si erano rifugiati dopo la sconfitta, quasi che gli spartiati non volessero macchiarsi
di una tale colpa (Erodoto, VI, 77-79; VII, 148)99.
Recentemente si è però messo in discussione quasi tutto quel che concerne la falange greca, compreso il
modo di combattere degli opliti, in specie riguardo all’othismos e al fatto che lo scudo degli opliti (con due
impugnature, porpax e antilabè, una al centro dello scudo e una sul bordo, che costringevano gli opliti a
sollevare lo scudo all’altezza del gomito)100 non poteva che favorire un “ordine chiuso”101. Diversi studiosi
pensano che in età arcaica l’ordine della falange greca fosse meno “chiuso” di quanto si sia supposto (oggi la
tesi “tradizionale” è difesa soprattutto da V. D. Hanson)102 e che anche il ruolo della fanteria leggera non fosse
del tutto marginale103. Si sostiene pure che la falange oplitica lasciava un certo “spazio” anche a combattimenti
individuali e quindi all’abilità dei singoli opliti (i quali non necessarimante dovevano essere tutti armati allo
stesso modo). Inoltre, l’“oplitismo” sarebbe diventato rilevante nelle vicende politiche dell’antica Grecia solo
a partire dalla fine del VII secolo a. C. o addirittura in seguito, ossia con il progressivo aumento del numero
degli opliti nel VI secolo a. C. Non sarebbe perciò particolarmente significativo il rapporto fra ascesa dei tiranni
e “oplitismo”, in quanto gli opliti sarebbero stati tutt’al più solo un “mezzo” per conquistare il potere104. In
ogni caso, diffcilmente si può mettre in dubbio che la falange oplitica avesse il vantaggio (sempre che non
operasse su un terreno accidentato), rispetto a qualsiasi altra formazione dell’epoca, di “sviluppare” una
eccezionale forza d’urto, grazie all’armamento, alla disciplina e allo spirito di sacrificio degli opliti, che
dovevano, uno accanto all’altro, “incatenarsi alla terra”, fino alla morte se necessario. In definitiva, è ancora
lecito ritenere che gli opliti in battaglia fossero in grado di formare una “massa granitica” contro cui potevano
ben poco gli attacchi impetuosi dei cavalieri o l’abilità degli arcieri, come i Persiani dovettero amaramente
constatare.
Dopo la conquista della Lidia, l’impero achemenide aveva continuato ad espandersi verso occidente,
riuscendo a sottomettere le città greche della Ionia. Nel 514 a C. Dario cercò addirittura di sottomettere gli
Sciti, che abitavano i territori oltre il Danubio. La campagna militare però fallì nelle vaste pianure della Russia
Vedi P. Krentz, Casualties in Hoplite Battles,“Greek, Roman and Byzantine Studies”, 27, 1985, pp. 13-20; per la killing zone vedi J. F. Lazenby,
The Killing zone, in V. D. Hanson (a cura di), op. cit., pp. 87-109.
99
Si ha anche notiza di uno scontro tra 300 campioni argivi e 300 campioni spartani, una vera e propria sfida tra Argo e Sparta avvenuta intorno alla
metà del VI sec. a. C., per il possesso della Tireatide. Solo uno spartano e due argivi sarebbero sopravvissuti, ma i campioni argivi, a differenza del
campione spartano, avrebbero abbondanato il campo di battaglia, dirigendosi ad Argo per annunciare la vittoria. Dato allora che sia Sparta che Argo
rivendicavano la vittoria, fu inevitabile che si giungesse ad una vera e propria battaglia tra le due poleis, nella quale Argo subì una rovinosa sconfitta.
100
Degno di nota è che il termine usuale per designare il grande scudo degli opliti fosse non hoplon bensì aspis e che lo stesso termine “oplita/i” non
fosse impiegato prima del V secolo a. C. Vedi J. F. Lazenby, D. Whitehead, The Myth of Hoplite’s Hoplon, “The Classical Quaterly”, vol. 46, n. 1
(1996), pp. 27-33.
101
Di particolare importanza è il fatto che se è vero che nell’esercito di Tiglatpileser III (che prese Damasco nel 732 a. C.) erano presenti dei mercenari
ioni, non si può escludere che il grande scudo degli opliti possa essere derivato da quello della fanteria pesante assira, benché diversi studiosi siano
convinti che la sua origine vada ricercata nell’Europa barbarica in cui erano assai diffuse le armi di bronzo (vedi J. R. Hale, Not Patriots, Not Framers,
Not Amateurs. Greek Soldiers, of Fortune and Origins of Hoplite Warfare, in D. Kagan, G. F. Viggiano (a cura di), op. cit., cap. 9. Hall ritiene che siano
stati i mercenari greci a diffondere l’“oplitismo”).
102
Hanson, in effetti, alterna giudizi e paragoni assai discutibili, se non addirittura assurdi, con considerazioni di estremo interesse , tra cui quella
secondo cui la battaglia oplitica sarebbe stata innanzi tutto un'idea, un agone, il frutto di una “ideologia agraria” che affondava le sue radici nella vita
della polis arcaica. Ragion per cui gli opliti sarebbero stati “figli della terra” e della agricoltura, non “figli del mare”, dei commerci e dell'industria,
come invece, in un certo senso (ma solo in un certo senso, ché anche Atene fu sempre comunque “figlia” dell'ulivo e della vite), lo sarebbero stati i
rematori delle triremi.
103
Su questi argomenti vedi le considerazioni di E. L. Wheeler, B. Strauss, Battle, in P. Sabin, H. Van Wees, W. Whitby (a cura di), op. cit., pp. 185247.
104
Sulla complessa questione della falange oplitica e dell’“oplitismo” in generale è fondamentale l’opera Men of Bronze a cura di D. Kagan e G. F.
Viggiano già citata.
98
38
meridionale dato che gli Sciti, abilissimi nello spostarsi rapidamente si erano rifiutati di dar battaglia105. Dario
I dovette ritirarsi attraverso il ponte di barche sul Danubio, ma nonostante questo insuccesso, era evidente che
la forza dell’impero era tale che le città ionie ben difficilmente potevano mettere fine al dominio persiano.
Nulla dunque poteva lasciar pensare che la Persia si sarebbe rassegnata a perdere il controllo della costa
occidentale dell’Asia Minore. Eppure nel 499 a. C. le città ioniche si ribellarono: cacciarono i tiranni
filopersiani e incendiarono Sardi. La rocca però rimase in possesso di Artaferne e gli Ioni, che avevano respinto
come sacrilego il consiglio di Ecateo di Mileto, vale a dire di impiegare i tesori dei templi per allestire una
potente flotta, dovettero ritirarsi ad Efeso. La reazione della Persia non si fece attendere e nel 495 a. C. si arrivò
alla battaglia navale presso l’isoletta di Lade, davanti a Mileto, la più pericolosa delle città ribelli. Battaglia
vinta dai Persiani, che furono favoriti dalla diserzione delle navi di Samo e di parecchie altre. La ribellione fu
domata e Mileto distrutta. In aiuto degli Ioni comunque gli Ateniesi avevano inviato 20 navi, non poche se si
tiene presente che la flotta di Atene allora non era affatto numerosa (gli Spartani invece ritennero fosse meglio
non inviare un esercito così lontano dalla loro terra). Era logico che Dario non tollerasse l’intervento di Atene
(definito dallo stesso Erodoto «il principio di tutti i mali tra i Greci e i barbari», Erodoto, V, 97) in quelli che
non potevano non considerarsi come gli “affari interni” dell’impero persiano. Pertanto, nel 490 a. C., dopo che
un primo tentativo di invasione della Grecia per mare e per terra era fallito106, Dario inviò in Grecia un altro
esercito, guidato da Dati e Artaferne, per dare una lezione agli Ateniesi. Che si trattasse solo di una spedizione
punitiva non è certo, ma pare confermarlo anche il numero dei soldati persiani che dovevano essere non più di
20/25.000 fanti e 1.000 cavalieri, trasportati da una flotta che fece scalo a Samo e a Nasso. Dopo aver
conquistato Eretria, nell’Eubea, dacché anche questa città aveva inviato 5 navi ai ribelli della Ionia, i Persiani
sbarcarono sulla terraferma, nella piana costiera di Maratona, distante meno di 50 chilometri da Atene.
Qui gli Ateniesi, guidati da Milziade (ma il comandante in capo era Callimaco e può darsi che il merito
della vittoria greca vada pure a lui) decisero di dare battaglia, senza aspettare l’esercito spartano, a cui avevano
chiesto aiuto, temendo alcuni che gli Spartani potessero tramare con i Persiani, nel cui accampamento peraltro
si trovava Ippia. La tattica degli Ateniesi consisté nell’allungare lo schieramento della falange, indebolendo il
centro, al fine di poter accerchiare l’esercito persiano, che era certo più numeroso di quello ateniese (si ritiene
che nella piana di Maratona vi fossero 9.000 opliti ateniesi e 1.000 opliti di Platea, ma pure che una parte delle
truppe persiane, si trovasse a bordo delle navi; in tal caso i Persiani che si scontrarono con i Greci sarebbero
stati circa 14.000)107. Al centro i Persiani ebbero la meglio, pur senza causare la rotta dello schieramento greco,
ma sulle ali lo scontro con la falange oplitica si rivelò disastroso per i Persiani, che facevano affidamento
soprattutto sui loro archi, i quali, pur avendo (contro dei nemici ammassati in uno spazio ristretto) un tiro utile
di circa 150 metri (una distanza che gli Ateniesi potevano percorrere in breve tempo per “caricare” il nemico
a passo di corsa), si dimostrarono poco efficaci contro l’armatura degli opliti. La disfatta persiana fu totale: i
Greci contarono 192 caduti contro i 6.400 caduti persiani (Erodoto, VI, 117). Milziade però non perse tempo
e si diresse con l’esercito verso Atene, onde sventare la minaccia di un altro sbarco persiano, cosicché ad
Artaferne non rimase che ritirarsi. Dopo la battaglia, arrivò un esercito spartano di 2.000 uomini, che dovettero
constatare che gli Ateniesi avevano sconfitto il potente esercito straniero senza alcun aiuto, tranne quello dei
valorosi 1.000 opliti della piccola Platea. Ma la vittoria contro la Persia per quanto decisiva non era definitiva.
E pochi anni dopo fu chiaro ai Greci che i Persiani sarebbero ritornati con forze di gran lunga superiori. Fortuna
(per i Greci) volle che si scoprisse un nuovo filone d’argento nelle miniere del Laurio (in Attica), ma ancor più
rilevante è che gli Ateniesi si lasciassero convincere da Temistocle ad usare il profitto derivante da questa
scoperta (ovvero 100 talenti d’argento)108, per potenziare la propria flotta (un rafforzamento ritenuto allora
105
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, War in World History, MacGraw-Hill, New York, 2009, p. 105. Gli Sciti avevano eccellenti reparti di
cavalleria leggera e la loro arma preferita era l’arco (peraltro, si ritiene che anche le donne fossero capaci di combattere). Per oltre tre secoli dominarono
la Russia meridionale, ma furono sconfitti dai Sarmati, un popolo di lingua iranica, proveniente dall’Asia centrale. Anche i Sarmati erano eccellenti
cavalieri ma usavano corazze, lancia e lunghe spade (vedi R. N. Riasanovsky, Storia della Russia, RCS, Milano, 2004, pp. 15-16).
106
I Persiani sottomisero Taso e le città greche dell’area tracia (perfino la Macedonia riconobbe l’autorità della Persia), ma l’esercito comandato da
Mardonio subì gravi perdite nel territorio dei Traci Brigi e la flotta persiana fu sorpresa da una tempesta mentre doppiava il monte Athos.
107
Due delle 10 tribù ateniesi (900x10=9.000) erano schierate al centro su 4 file anziché su 8, di modo che gli Ateniesi presentavano un fronte di 1.350
uomini. In pratica, il fronte ateniese era equivalente a quello di 12 tribù, ciascuna di 900 uomini, schierate su 8 file (10.800/8=1.350). Agli opliti ateniesi
si affiancavano i 1.000 opliti di Platea schierati su 8 file (sul lato sinistro), sicché il fronte greco era composto da 1.475 uomini (1.350+125). I 14.000
Persiani dovevano essere schierati su 10 file: 5.000 uomini su ogni lato (una “miriade” persiana contava 10.000 soldati ed era divisa in 10 “reggimenti”
di 1.000 uomini ciascuno), mentre al centro dovevano esserci altri circa 4.000 uomini. Vedi N. Sekunda, Marathon 480 BC, Osprey, Oxford, 2002.
Tuttavia, la ricostruzione di questa battaglia (come quella di molte battaglie antiche) è assai incerta, tanto che rimane un problema se vi partecipò solo
metà dell’esercito persiano senza neppure la cavalleria. In pratica vi sono numerose e diverse ricostruzioni della battaglia di Maratona (vedi, ad esempio,
P. Krentz, La battaglia di Maratona, Il Mulino, Bologna, 2011 per una ricostruzione “originale” e ingegnosa, ma invero poco convincente, di questa
famosa battaglia).
108
Il talento d’argento valeva 60 mine, mentre una mina (che pesava 436 grammi) valeva 100 dracme (una dracma era divisa in 6 oboli).
39
necessario perché una spedizione ateniese contro Egina, dopo la battaglia di Maratona, si era risolta in un grave
scacco). Atene giunse così a disporre di ben 200 triremi e per la prima (e unica volta) la maggior parte dei
Greci, consci del gravissimo pericolo che incombeva, misero da parte le loro rivalità e si apprestarono a fare
causa comune contro lo straniero (il “barbaro”, termine con cui designavano chiunque non fosse di lingua
greca) riconoscendo a Sparta la funzione di comando. Giunsero perfino a chiedere aiuto al potente tiranno di
Siracusa, Gelone, che poteva mettere in campo unesercito forte di 20.000 opliti, di cui la metà mercenari, e
2.000 cavalieri, oltre a disporre di più 200 navi da guerra. Il tiranno di Siracusa «si dimostrò disposto a fornire
molti uomini, numerose navi e i rifornimenti granari per l’intera durata della guerra pretendendo in cambio il
supremo comando delle forze alleate, il che [ovviamente] non venne concesso»109
Serse, che era succeduto a Dario, pianificò bene la campagna contro i Greci, deciso a conquistare tutta
l’Ellade con la forza, giacché sia Atene che Sparta avevano rifiutato di offrirgli “terra e acqua” in segno di
sottomissione. La flotta persiana poteva contare su 1.207 navi da guerra (tra cui 300 fenicie, 200 egiziane, 150
cipriote e 100 degli Ioni) e su circa 3.000 navi per il trasporto dei rifornimenti e dei cavalli, ma la cifra di
2.100.000 soldati (e addirittura oltre 2.000.000 di addetti a servizi, senza contare i marinai) che si trova nelle
Storie di Erodoto è senza dubbio enormemente esagerata. Non si è però lontani dalla realtà se si afferma che
l’esercito persiano contava 120.000/180.000 uomini, tra cui i 10.000 “immortali” (armati di archi compositi,
spade corte e lance riccamente decorate), gli sparabara con i loro grandi scudi (dietro i quali si potevano
riparare gli arcieri) e con lance lunghe quasi due metri, e guerrieri provenienti dalla Lidia, dalla Caria,
dall’India, dall’Assiria, dalla Libia, dall’Etiopia e dall’Egitto; vi erano inoltre cavalieri iraniani, saci e di
numerosi altri popoli110. Un gigantesco ponte di barche venne gettato sull’Ellesponto e, onde evitare che si
ripetesse un disastro come in passato, venne scavato un canale, nell’istmo ove si trova il monte Athos, lungo
2,4 chilometri e largo abbastanza da far passare due navi affiancate. L’esercito infatti marciava lungo la costa,
mentre la flotta navigava non distante per proteggerlo e rifornirlo. Temistocle però aveva compreso che, in
primo luogo, si dovevano concentrare tutte le forze per sconfiggere la flotta persiana, anche se gli Spartani
decisero di costruire un muro lungo l’istmo di Corinto, trascurando che la flotta persiana poteva aggirarlo e
contare su Argo per prendere alle spalle i difensori. Si addivenne comunque ad un accordo: un piccolo esercito
di 8.000 uomini, sotto il comando del re spartano Leonida, si sarebbe diretto a nord per ritardare l’avanzata dei
Persiani, mentre la flotta greca con 271 triremi (cui poi se ne aggiunsero 53, tutte ateniesi) avrebbe bloccato,
presso l’Artemisio, lo stretto tra la terraferma e l’isola di Eubea. Si riteneva che i Persiani non si sarebbero
allontanati dalla costa, dato che dovevano tenere uniti la flotta e l’esercito. Si scelse perciò di difendere il passo
delle Termopili, che era una striscia di terra compresa tra i monti e il mare, larga poche decine di metri. Mentre
l’esercito di Serse si avvicinava alle Termopoli, una tempesta causò delle perdite alla flotta persiana e un’altra
distrusse le 200 navi che Serse aveva inviato a sud dell’Eubea per “imbottigliare” la flotta greca. La battaglia
navale che si combatté all’Artemsio si concluse così senza né vinti né vincitori, mentre il sacrifico di Leonida
e dei 300 spartiati al passo delle Termopili non poté arrestare la marcia dell’esercito di Serse, benché i Persiani
fossero riusciti a prevalere solo dopo aver aggirato la posizione difesa dagli opliti greci, che pure avevano
respinto anche gli assalti degli “immortali”.
Nel frattempo Atene era stata evacuata. La popolazione ateniese trovò riparo a Salamina, ad Egina e a
Trezene, mentre in città rimasero alcuni Ateniesi che invano cercarono di difendere l’Acropoli. Templi, edifici
pubblici e abitazioni, tranne quelle dei filopersiani, furono distrutti dagli invasori. Ora tutto dipendeva dalla
flotta greca che si trovava nelle acque di Salamina, davanti alla baia di Eleusi, poco distante da Atene. Secondo
Erodoto, Temistocle, che di fatto era il comandante della flotta greca, benché formalmente fosse lo spartano
Euribiade a comandarla, lasciò sguarnito il canale tra Salamina e Megara, per schierare il maggior numero di
navi contro il grosso della flotta persiana e inviò un messaggero a Serse per informarlo che i Greci colti dal
panico pensavano di darsi alla fuga (Erodoto, VII, 75). Siano state o no le parole del messaggero inviato da
Temistocle a convincere Serse ad attaccare i Greci in uno spazio così ristretto e in acque che Ateniesi ed Egineti
conoscevano alla perfezione, al contrario dei capitani della flotta persiana, quel che conta è che Serse (che
dopo lo scontro all’Artemisio probabilmente disponeva ancora di oltre 700 navi da guerra) si decise ad
attaccare le navi greche, che assommavano ad oltre 300 triremi, e mandò 200 navi egiziane verso il canale di
Megara per aggirare la flotta greca111. Questa manovra non ebbe successo (all’ultimo minuto 70 navi corinzie
si diressero verso il canale di Megara ma non avendo incontrato nessuna nave nemica, tornarono indietro),
mentre il resto della flotta persiana si trovò subito in difficoltà. Le triremi greche cercavano di spezzare i remi
109
F. Sartori, L’evoluzione delle città coloniali d’Occidente, in R. Bianchi Bandinelli, op. cit., vol. II, 3, p. 142.
110
Vedi K. Farrokh, Shadows in the Desert. Ancient Persia at War, Osprey, Oxford, 2007, pp. 77-78.
111
Vedi P. de Souza, W. Heckel, L. Llwellin-Jones, The Greeks at War, Osprey, Oxford, 2004, pp. 68 e ss.
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delle navi persiane o di speronarle per poi abbordarle e il maggior numero delle navi in questo caso non costituì
un vantaggio per i Persiani, rendendo anzi assai difficile la manovra ai loro capitani. Invece, l’ala sinistra della
flotta greca, composta da triremi ateniesi ed eginete, manovrando con abilità vicino alla costa, ebbe la meglio
contro la destra persiana, spingendola verso il centro, ove vennero ad ammassarsi in disordine le navi di Serse.
E dopo dura lotta anche il centro e la sinistra dello schieramento persiano dovettero cedere. I Greci persero
circa 40 triremi contro le oltre 200 navi perdute dai Persiani che abbandonarono la lotta in disordine. La vittoria
greca era stata ancora una volta straordinaria e nettissima.
Non per questo si può condividere il giudizio secondo cui la successiva battaglia di Platea (479 a. C.)
sarebbe stata assai meno importante della battaglia di Salamina. Rifiutando il consiglio di Temistocle – che
propose di distruggere il ponte di barche sull’Ellesponto, per “tagliar fuori” l’esercito persiano - i Greci
correvano ancora un pericolo mortale, tanto più che i Tessali e i Tebani erano passati dalla parte dello straniero
(in seguito si sarebbero giustificati sostenendo che non avevano altra scelta). Questa volta fu la falange
lacedemone a coprirsi di gloria contro l’esercito nemico che probabilmente non doveva schierare più di
120.000 uomini (compresi i loro alleati greci), mentre secondo Erodoto l’esercito greco, comandato dallo
spartano Pausania, schierava 38.700 opliti (tra cui 5.000 perieci e 5.000 spartiati, il maggior numero di spartiati
che Sparta sia mai riuscita a mettere in campo, “coadiuvati” da 35.000 iloti), oltre a vari contingenti di fanteria
leggera. Entrambi gli eserciti tennero le loro posizioni per otto giorni, durante i quali la cavalleria di Mardonio
interruppe più volte le linee di comunicazione dei Greci, inducendo così Pausania (il re spartano comandante
in capo dell’esercito greco) a spostare l’esercito greco su un’altra posizione. Fu proprio allora che Mardonio
decise di attaccare. Sulla sinistra i cavalieri beoti e gli opliti tebani misero in difficoltà gli Ateniesi, che non
erano più collegati con l’ala destra, ove si trovavano i Lacedemoni, i quali però resistettero bravamente sotto
la pioggia di frecce scagliate dai Persiani e poi contrattaccarono spingendosi fino al campo nemico. Nel
frattempo sopraggiunsero anche gli Ateniesi, dopo aver messo in fuga i Beoti. L’accampamento dei Persiani
fu saccheggiato e i Greci fecero strage dei nemici. Ancora una volta, l’equipaggiamento, la disciplina e
l’eccellente addestramento dei Greci avevano avuto la meglio contro l’esercito persiano. Nell’agosto dello
stesso anno il re spartano Leotichida con le navi greche, la maggior parte delle quali erano navi ateniesi, si
diresse a Micale, approfittando del fatto che gli Ioni dopo la battaglia di Salamina erano nuovamente disposti
a ribellarsi contro i Persiani. Ancora questa volta i Greci prevalsero, tanto che poterono incendiare la flotta
nemica. Con le vittorie greche a Platea e a Micale terminò l’ultima spedizione dell’impero persiano contro
la Grecia.
Notevole è pure che, secondo la tradizione, i Greci occidentali guidati da Gelone di Siracusa avessero
sconfitto i Cartaginesi presso Imera nello stesso giorno della battaglia di Salamina. Benché ciò non corrisponda
a verità, è significativo che si siano volute “unire” le due battaglie, per sottolineare come le due vittorie
elleniche avessero salvato la Grecia dai “barbari” (peraltro non è nemmeno certo che Cartaginesi e Persiani
avessero agito secondo un piano comune)112. Tuttavia, anche se la vittoria contro i Persiani alimentò non poco
lo sciovinismo dei Greci (e soprattutto degli Ateniesi), già per Erodoto la contrapposizione tra le libere città
greche e l’Asia era assai meno netta che non nella retorica patriottica. E a Tucidide fu chiaro come tale retorica
fosse funzionale all’imperialismo ateniese. Gli è che non solo gli stessi Greci avevano idee diverse riguardo alla
libertà – indipendentemente da che cosa gli schiavi dei Greci ne potessero pensare – ma che, come già si è
sottolineato, la contrapposizione tra “mondo libero” e “dispotismo orientale” è solo frutto di una
semplificazione fuorviante. Tanto più grave se si tiene conto che in età moderna Voltaire avrebbe addirittura
visto nelle guerre persiane l’inizio della vera storia, non essendoci prima, a suo giudizio, che vasti imperi,
“avvolti” nelle tenebre, che si sarebbero retti sulla miseria pubblica. Si è giunti così ad identificare del tutto
arbitrariamente Oriente e “dispotismo”, ed è ancora frequente trovare giudizi secondo cui con i Greci l’umanità
sarebbe uscita dalla “magia e dalle tenebre”. Tali mistificazioni sono servite e servono ancora a giustificare
l’imperialismo, vecchio e nuovo, dell’Occidente. Invero, un Persiano avrebbe difficilmente convinto un
Ateniese di non essere uno “schiavo”, dacché «il “rifiuto” reciproco tra due aree vige e opera sul piano della
coscienza comune. È il fenomeno descritto da Fernand Braudel nella Grammatica delle civiltà: “A una civiltà
ripugna in generale l’adozione di beni culturali capaci di mettere in pericolo le sue strutture profonde”: per cui
tra Turchi e Latini Bisanzio sceglie i Turchi e, nel secolo successivo, alla Riforma rimangono chiuse la penisola
iberica e l’Italia»113.
112
Si deve rammentare pure che pochi anni dopo, nel 474 a. C., il fratello di Gelone, Ierone, sconfisse gli Etruschi in una battaglia navale presso Cuma,
“vendicando” così la sconfitta greca nella battaglia navale combattuta presso Alalia (circa 540 a. C.), allorché Cartaginesi ed Etruschi avevano fatto
causa comune contro i Greci di Focea.
113
L. Canfora, Dalla logografia ionica alla storiografia attica, in R. Bianchi Bandinelli, op. cit., vol. II, 3, p. 353.
41
La guerra del Peloponneso. Indiscutibile comunque che le guerre persiane abbiano segnato un punto di
svolta rispetto al passato. La scelta ateniese di rafforzare la flotta si rivelò essere una delle “carte vincenti”
contro i Persiani e una scelta che avrebbe mutato il corso della storia di Atene e di conseguenza di tutta l’Ellade.
Infatti, la decisione «di far dipendere la città dal Pireo, la terra dal mare» (Plutarco, Temistocle, 19, 6) comportò
da un lato che Atene venisse ad assumere un ruolo politico e militare di primo piano, dall’altro che i ceti
popolari della polis attica assumessero ancora maggiore importanza, in quanto erano sia i costruttori che, in
buona misura, i marinai della flotta ateniese. Di conseguenza Atene con la costituzione della lega delio-attica
(477 a. C.) si pose alla testa della guerra contro i Persiani. Gli alleati di Atene dovevano fornire navi o tributi,
ma la simmachia, cioè l’unione in funzione della guerra contro la Persia, era inevitabile che si tramutasse ben
presto nel dominio di Atene, nonostante alcuni brillanti successi come la conquista di Sesto e la distruzione da
parte di Cimone di una flotta persiano-fenicia presso il fiume Eurimedonte, in prossimità della Panfilia. Di
fatto, la politica di Atene era sempre più rivolta alla formazione di un impero marittimo. La stessa ricostruzione
della città portò all’edificazione delle Lunghe Mura, che cingevano oltre ad Atene il Pireo, porto che ben presto
divenne il centro di tutti i traffici del Mediterraneo, tanto che «la città di Atene si andò trasformando in una
città di artigiani e commercianti […] facendo sì che il contatto con la terra divenisse sempre più precario» 114.
In effetti, pare che nel 403 a. C circa il 20/25% degli Ateniesi fossero del tutto privi di proprietà fondiarie,
benché una così radicale trasformazione sociale non fosse ancora in atto all’inizio della guerra del Peloponneso
(probabilmente dovette influire su tale fenomeno lo spopolamento delle campagne a causa della peste).
Insomma, è indubbio che i successi contro la Persia favorirono l’espansione commerciale e militare di Atene,
sostenuta in particolare dai ceti popolari, il cui benessere dipendeva appunto da tale espansione, mentre gli
altri membri della lega delio-attica venivano progressivamente relegati al ruolo di sudditi della grande polis
attica. Già subito nel 470 a. C. circa Nasso, che forniva delle navi alla lega, si era ribellata venendo punita
duramente da Atene, che le impose di rientrare nella lega ma come Stato tributario. Con Taso, anch’essa uscita
dalla lega, Atene fu ancora più dura: oltre a consegnare le navi, come Nasso, le fu imposto di abbattere le mura
e di pagare un tributo elevato. Inoltre dovette cedere i possessi di Tracia non alla lega bensì ad Atene. In pratica,
sotto il profilo dei “rapporti di forza”, gli alleati che fornivano navi e quelli che pagavano tributi vennero a
trovarsi in una posizione simile (certo non eguale) a quella che occupavano rispettivamente i perieci e gli iloti
nei confronti di Sparta. Questa politica non solo causava preoccupazioni in Grecia ma nella stessa Atene ove
il partito conservatore era ancora forte. Caso volle però che proprio quando Atene era impegnata nell’assedio
di Taso, Sparta venisse colpita da un terremoto devastante, di cui approfittarono gli iloti messeni per rivoltarsi
contro i loro padroni. Sparta riprese il controllo della pianura, ma gli insorti che si trovavano sul monte Itome
resistevano ostinatamente all’assedio degli Spartani. Cimone, che in Atene rappresentava il partito oligarchico
e gli interessi dei proprietari terrieri, colse l’occasione per farsi inviare con un esercito per aiutare Sparta,
nonostante l’opposizione del capo del partito democratico, Efialte. La spedizione di Cimone fu un totale
insuccesso, dato che gli Spartani non si fidavano degli Ateniesi, temendo l’influenza negativa delle idee
democratiche sul proprio kosmos, e licenziarono l’esercito inviato da Atene. Il che produsse un forte
risentimento nella polis attica che portò all’esilio di Cimone e alla sconfitta dei conservatori filospartani da
parte del “partito democratico” guidato, dopo la morte di Efialte, da Pericle, il quale fu colui che, di fatto, negli
anni seguenti resse le redini del governo di Atene, ricoprendo la carica di stratego115. Pertanto, subito dopo
l’ostracismo di Cimone, nel 461 a. C., Atene concluse con Argo, l’eterna rivale di Sparta nel Peloponneso, un
trattato cui aderì anche Megara (posta nella regione compresa tra l’istmo di Corinto, la Beozia e l’Attica)
suscitando così la reazione di Corinto. La lotta tra Ateniesi e Peloponnesiaci, mentre Atene era ancora
impegnata contro la Persia, coinvolse presto anche l’isola di Egina, i cui interessi commerciali erano
gravemente danneggiati dalla lega delio- attica. Vi furono quindi diversi scontri non decisivi, fino a quando
non intervenne direttamente Sparta (457 a. C.), che mandò un proprio contingente in soccorso dei Doriesi
114
G Nenci, Significato etico-politico ed economico-sociale delle guerre persiane, in R. Bianchi Bandinelli, op. cit., vol. II, 3, p. 32. Osserva comunque
De Sanctis che in Atene come negli altri centri greci più progrediti si era «tanto lungi dall’accumularsi della ricchezza o della proprietà fondiaria in
poche mani che una proprietà di 8-10 talenti appariva considerevole […] e certo è che quando i Trenta misero a morte Nicerato figlio del ricchissimo
Nicia non riuscirono a impadronirsi che di 14 talenti», De Sanctis, op. cit., vol. II, pp. 174-175. Tra l’altro, come scrive Finley, vi era un muro divisorio
tra proprietà terriera e capitale liquido, che nel V secolo a. C. era perlopiù nelle mani di meteci (vedi M. I. Finley, L’economia degli antichi e dei
moderni, Laterza, Roma-Bari, 1977, p. 56). Anche sotto questo aspetto la differenza tra la talassocrazia ateniese e le moderne talassocrazie “occidentali”
non potrebbe dunque essere maggiore.
115
Dopo l’ostracismo di Tucidide di Melesia (avvenuto probabilmente nel 443 a. C.) che guidava il “partito antidemocratico” (ma ovviamente non si
trattava di un partito nel senso moderno del termine), il potere di Pericle fu pressoché incontrastato, tanto che Tucidide (da non confondere con Tucidide
di Melesia) scrive che ad Atene a parole vi era la democrazia, ma di fatto vi era il governo del “primo cittadino” (Tucidide, II, 65). Tuttavia, ad Atene i
contrasti che, prima erano “venature nel metallo”, al tempo di Pericle erano divenuti “tagli profondissimi”(Plutarco, Pericle, 11, 3).
42
minacciati dai Focesi.
L’esercito lacedemone entrò in Beozia, minacciando la stessa Atene. Ne derivò una battaglia, presso
Tanagra, tra gli Ateniesi e Lacedemoni, che questi ultimi vinsero grazie anche al cambiamento di fronte della
cavalleria tessalica che all’ultimo momento non se la sentì di stare dalla parte del demos ateniese. Fu una
battaglia comunque che non ebbe conseguenze particolarmente rilevanti, tanto che poco dopo gli Ateniesi, con
la vittoria ad Enofita, affermarono il proprio predominio sulla Beozia, tranne Tebe, e poi riuscirono anche a
far capitolare Egina, dopo quasi due anni di assedio, imponendole di versare un tributo non inferiore a 30
talenti annui. E, sbarrata la via dell’Egeo ai Corinzi, nel 456/5 a. C l’ateniese Tolmide compiva, con 100 triremi
e 4.000 soldati, una serie di incursioni a sorpresa sulla costa peloponnesiaca, incendiando il porto di Sparta,
Gizio, e insediando addirittura una colonia di iloti messeni a Naupatto, presso l’ingresso del Golfo di Corinto.
Cominciava così un nuovo genere di guerra, frutto della strategia navale decisa da Pericle, che comportava
saccheggi e massacri anche di civili inermi.
Atene però già nel 459 a. C aveva inviato in Egitto 200 navi in aiuto al libico Inaro che si era ribellato ai
Persiani. All’inizio parve che l’impresa avesse pieno successo con la distruzione di una flotta persiana e
l’occupazione di Menfi. La reazione della Persia fu lenta ma decisa: nel 456 a. C. un esercito persiano, sotto il
comando di Megabizo, cinse d’assedio Menfi, che dopo una resistenza durata un anno e mezzo dovette
capitolare. Gli Ateniesi furono decimati e solo pochi di loro poterono far ritorno in patria, mentre una squadra
attica di rinforzo, giunta in ritardo, venne distrutta presso la foce Mendesia (454 a. C.). L’iniziale successo
degli Ateniesi si era mutato in un immane disastro che mostrava i limiti della potenza di Atene. Ragion per cui
la grande città dell’Attica, dopo che anche Cimone (richiamato in patria dopo la catastrofe della spedizione in
Egitto) aveva trovato la morte a Cipro, mise termine alla fase più acuta della guerra contro la Persia con la
cosiddetta “pace di Callia” (si dubita però che sia stato stipulato un vero trattato con la Persia). Del resto, anche
le operazioni in Grecia non erano particolarmente favorevoli agli Ateniesi che furono duramente sconfitti dai
Beoti nella battaglia di Cheronea, in cui perse la vita lo stesso Tolmide e che segnò la fine delle ambizioni di
Atene sulla Grecia centrale. Ciò malgrado, Pericle, che dopo la scomparsa di Cimone aveva “campo libero”
nella conduzione degli affari pubblici di Atene, riuscì a domare la pericolosa rivolta dell’Eubea e a concludere
una pace di trent’anni con Sparta (446/5 a. C.). Ma era un pace che aveva basi tutt’altro che solide, benché non
si debba necessariamente condividere una concezione deterministica, secondo cui la guerra tra Sparta e Atene
era inevitabile dato che, come scrive Tucidide, la vera ragione di essa era la paura che la grande potenza di
Atene ispirava a Sparta.
Che Atene fosse sempre più potente è comunque indubbio, com’è indubbio che la politica di Pericle fosse
prettamente imperialistica e mirasse ad una egemonia su tutta la Grecia. Questo lo avevano perfettamente
capito gli Spartani, che fecero fallire un congresso panellenico proposto da Pericle, forse già nel 448 a. C.,
dacché il suo vero scopo era naturalmente quello di sancire la supremazia di Atene. D’altronde, con il
trasferimento del tesoro federale da Delo ad Atene, nel 454 a. C., si erano già poste le basi per il nuovo corso
della politica ateniese, sì che, anche dopo la “pace di Callia”, allorché la lega non avrebbe avuto più ragione
d’essere, gli alleati di Atene dovevano continuare a pagare il phoros, ovvero il tributo per la guerra contro i
Persiani, ma in realtà per contribuire alla politica di potenza di Atene e per soddisfare le esigenze del demos
attico. Non solo adesso erano remunerate le magistrature e si dovevano pagare i rematori della flotta (oltre agli
opliti), ma le finanze pubbliche dovevano anche “trainare” l’intera economia ateniese, mediante la costruzione
di grandiose opere pubbliche, tanto che Plutarco attribuisce a Pericle le seguenti parole: «Occorre che la città,
una volta sufficientemente fornita di quanto occorre per la guerra, rivolga la sua abbondanza di mezzi verso
opere di tal genere, dalle quali verrà una fama immortale, una volta realizzate, mentre nel corso della
realizzazione daranno un adeguato benessere, facendo nascere industrie di ogni genere e bisogni diversi, che
risvegliano ogni arte, mettono in moto tutta la manodopera rendendo quasi tutta la città salariata, la città che
da sé nello stesso tempo si nutrirà ed abbellirà» (Plutarco, Vite parallele, Pericle, 12, 4). Il programma politico
ed economico di Pericle, per quanto “avanzato” potesse essere, si basava quindi non tanto sulla capacità della
città di “nutrirsi da sé” bensì di “nutrirsi” a spese degli alleati, come in definitiva ebbe ad ammettere lo stesso
Pericle allorché affermò che «gli alleati non forniscono né cavalieri, né navi, né opliti: solo denaro. Ma il
denaro non è più di chi lo dà bensì di chi lo riceve sempre che fornisca i servigi in cambio dei quali appunto
lo riceve» (Plutarco, Vite parallele, Pericle, 12, 3). Orbene, è innegabile che per gli alleati, e in specie per i ceti
popolari delle città alleate, vi fossero dei vantaggi derivanti dall’aumento dei traffici commerciali, ma che il
tributo non fosse poco oneroso (ammontava a 460 talenti allorquando fu costituita la lega) e soprattutto che i
“servigi” menzionati da Pericle non fossero una “ricompensa” sufficiente per gli altri membri della lega, lo
provano proprio le numerose ribellioni degli alleati (è da ricordare che nel 440 a. C. si era ribellata anche Samo,
che chiese aiuto agli Spartani, i quali però non vollero violare il trattato di pace con gli Ateniesi). Né dalla lega
43
si era liberi di uscire, giacché una volta entrati, si doveva, volenti o nolenti, sottostare al dominio ateniese. Dalla symmachìa
(alleanza) si era quindi passati all’archè (al dominio) di Atene. La lega delio-attica ormai era una sorta di “catena” che
aveva mutato gli alleati di Atene in sudditi, come lucidamente osserva Tucidide commentando l’assedio di
Nasso: «Questa fu la prima città alleata fatta schiava dagli Ateniesi, contro giustizia» (Tucidide, I, 98). In
quest’ottica, si spiega pure la concessione della cittadinanza ateniese solo a chi avesse entrambi i genitori
ateniesi (misura restrittiva che recise però anche molti legami che le consorterie aristocratiche avevano ancora
con stranieri), e per quale motivo Atene “puntasse” sulla fondazione, in posizione strategica, sia di colonie
indipendenti, quali Anfipoli presso la foce dello Strimone (al confine tra la Macedonia e la Tracia), e Turi ove
una volta sorgeva Sibari116. (il che prova l’interesse di Atene ad ampliare i suoi traffici verso occidente, a danno
di Corinto), sia di colonie non autonome ma dipendenti dalla madrepatria, le cosiddette “cleruchie” (tra cui si
possono ricordare Lemno, Imbro e Sciro, nel Chersoneso). Difficile quindi ritenere che non si possa parlare di
un impero ateniese, sebbene si possa mettere in questione che fosse un vero impero, in particolare se si tiene
conto di quel che si è affermato riguardo all’impero persiano, mentre è indiscutibile che si trattasse di una
talassocrazia117. L’impero marittimo ateniese riguardava probabilmente 2.000.000 di persone circa, a fronte di
una popolazione dell’Attica che, nel 431 a. C. doveva assommare a circa 350.000 abitanti (di cui 172.000
cittadini, 115.000 schiavi e 28.500 meteci)118. Che una tale “potenza”, fondata su un ordinamento politico
democratico e in buona misura sul commercio, costituisse per il fatto stesso di esistere una reale minaccia per
Sparta e per quei regimi oligarchici che in Sparta avevano la loro protettrice, pare logico. Ciononostante, non
si devono sottovalutare quelli che sembrano essere stati semplici pretesti per dare inizio ad una guerra che
entrambe le parti sapevano che sarebbe stata terribile e che avrebbe anche potuto portare alla rovina l’intera
Ellade.
Tre furono, com’è noto, i pretesti o le “cause prossime” che, a giudizio di Tucidide, condussero alla guerra
del Peloponneso. Dapprima, vi fu lo scontro tra Corinto e Corcira nelle acque delle isole Sibota, presso la costa
dell’Epiro, che vide intervenire delle navi ateniesi inviate a sostegno dei Corciresi (la deliberazione degli
Ateniesi di aiutare i Corciresi è comprensibile se si considera sia l’importanza della flotta corcirese sia il fatto
che dall’isola di Corcira si poteva agevolmente controllare la rotta verso l’Italia meridionale e la Sicilia). Poi
vi fu la ribellione di Potidea, che faceva parte della lega delio-attica anche se i Corinzi continuavano a inviarvi
ogni anno i propri magistrati. Atene impose a Potidea di non accogliere più questi magistrati e diverse altre
misure che riducevano fortemente l’autonomia della città alleata. Gli abitanti di Potidea allora si rivolsero agli
Spartani che garantirono la loro protezione. Fu inviato un esercito di 1.600 opliti e 400 armati alla leggera al
comando del corinzio Aristeo. Gli Ateniesi allora reagirono a quella che era una palese violazione del trattato
di pace con Sparta sbarcando presso Potidea. Nello scontro che ne seguì l’ala comandata da Aristeo ebbe la
meglio, ma gli Ateniesi sopraffecero il resto dell’esercito nemico, costringendolo a cercare riparo in città.
Anche Aristeo dovette quindi rifugiarsi a Potidea, ma in seguito si adoperò per scatenare la guerriglia “alle
spalle” dell’esercito ateniese, mentre quest’ultimo cingeva d’assedio Potidea. Infine (e questo forse fu il fatto
più grave, anche se Tucidide, che aveva grande stima di Pericle, non ne sottolinea l’importanza) vi fu il
“blocco” di Megara, decretato da Pericle per una questione di confine di poco conto e che consisteva
nell’escludere i Megaresi dai porti e i mercati controllati da Atene. Misura gravissima (presa forse in
conseguenza della partecipazione di Megara a fianco di Corinto nella guerra contro Corcira)119, dacché non
solo anch’essa violava il trattato con Sparta, ma mirava ad affamare i Megaresi che si rifornivano di granaglie
nei porti attici scambiandole con i propri prodotti. Il risultato, prevedibile, fu che il partito della guerra ne uscì
rafforzato sia ad Atene che a Sparta e che la “pressione” sugli Spartani da parte dei loro alleati (in specie da
parte dei Corinzi) per un intervento a difesa della “libertà dell’Ellade” divenne sempre più forte.
116
Sibari, dopo avere conosciuto un periodo di grande splendore e ricchezza, era stata sconfitta nel 510 a. C. (secondo la cronologia comunemente
accettata) dai Crotoniati, che deviarono il fiume Crati per cancellare ogni traccia della città nemica. Si trattò dunque di una guerra che ebbe un carattere
tutt’altro che “agonale”. Un tale accanimento contro i vinti non è facilmente spiegabile, benché forse sia da mettere in relazione con il fatto che allora
Sibari era governata dal tiranno Telys, che aveva instaurato un regime antioligarchico costringendo 500 aristocratici a rifugiarsi a Crotone (che allora
era guidata da Pitagora, deciso ad evitare che a Crotone si diffondesse la mollezza dei costumi tipica dei Sibariti).
117
Secondo Giuseppe Nenci l’archè ateniese più che un impero era una “epicrazia”, ossia non era altro che «una superiorità di fatto, finalizzata alla
realizzazione di regimi affini e di un’area comune di scambi, ottenuta con tutti i mezzi che l’epoca metteva a disposizione – diplomazia, presenza o
interventi militari, propaganda ideologica – tendente ad ottenere un sempre più largo consenso» (citato in C. Bearzot, Pericle, Atene, l’impero, in M.
Giangiulio (a cura di), op. cit., vol. IV, p. 314). Com’è ovvio giudizi simili sull’antica Atene (non affatto infrequenti) mirano, benché implicitamente, a
giustificare l’imperialismo britannico e quello americano (con tutte le loro storture e i loro crimini). Sollevano quindi una questione estremamente
delicata che potremo affrontare solo nella parte fine del nostro studio.
118
Vedi D. Musti, La Grecia classica, RCS, Milano, 2004, p. 332. I cittadini maschi, di età compresa tra i 18 e i 59 anni, dovevano essere poco più di
40.000 di cui 25.000 di censo oplitico e oltre (ibidem).
119
Vedi D. Kagan, A new History of the Peloponnesian War, Cornell University Press, Ithaca, 2013, pp. 265 e ss.
44
Il re spartano Archidamo però si rendeva conto che non era facile sconfiggere una città come Atene. Certo
l’esercito spartano era pur sempre potente (benché il numero degli spartiati fosse ancora diminuito - si stima
che non superasse i 4/6.000 uomini). All’inizio del conflitto non doveva essere molto diverso dall’esercito
messo in campo nella battaglia di Mantinea (nel 418 a. C.), che, lasciati di riserva i più giovani e i più anziani,
comprendeva (secondo Tucidide) 7 lochoi, oltre a reparti minori tra cui 600 sciriti e i neodamodeis (che erano
iloti di condizione non servile). Ogni lochos era suddiviso in 4 pentekostyes, ognuna composta da 4 enomotiai,
che si schieravano con 4 uomini sul fronte e 8 in profondità, per un totale di 128 opliti (32x4), cosicché ogni
lochos comprendeva 512 uomini (secondo Senofonte invece al tempo dell’egemonia spartana di norma
l’esercito lacedomone era formato da 6 morai, ciascuna suddivisa in 4 lochoi, costituiti da 2 pentekostyes,
comprendenti a loro volta 2 enomotiai, di 36 uomini anziché 32, ovvero 3 uomini sul fronte e 12 in
profondità)120. E se gli opliti di Sparta erano pur sempre i più temuti guerrieri greci, la lega peloponnesiaca
poteva mettere in campo alcune decine di migliaia di opliti (oltre 20.000, secondo alcuni studiosi, “disponibili”
però solo per brevi campagne al di là dei propri confini), a cui si dovevano aggiungere reparti di fanteria
leggera e di cavalleria, nonché altri contingenti di truppe, tra cui quelli della Beozia che assommavano a 1.000
ottimi cavalieri e 10.000 opliti agguerriti. D’altra parte, anche se Atene poteva schierare 1.000 cavalieri
reclutati nelle due classi più ricche e oltre 15.000 opliti, vi era da dubitare che questi fossero all’altezza dei
“maratonomachi”, considerando quanto fosse mutata la città dalla battaglia di Maratona. Né poteva
preoccupare i Lacedemoni Argo, che pure era una potenziale alleata di Atene e poteva mettere in campo un
esercito numeroso, dacché nel 454 a. C. si era accordata con Sparta per una pace trentennale. Pur tuttavia, era
palese che assai più floride delle finanze dei Peloponnesiaci (Sparta allora poteva contare sul tesoro dei templi
di Olimpia e di Delfi) fossero le finanze dello Stato ateniese. Il tesoro federale, perfino dopo le spese per
l’abbellimento dell’Acropoli (più di 2000 talenti), assommava ancora a ben 6.000 talenti, e contava su un
tributo annuo di 600 talenti, oltre a 400 talenti derivanti da altre entrate. Inoltre, in caso di necessità Atene
poteva aumentare le entrate e il tributo degli alleati (come in effetti accadde, tanto che il phoros nel 424/5 a.
C. superò addirittura i 1.460 talenti; ma la guerra anche per Atene si rivelò di gran lunga più costosa di quanto
Pericle avesse previsto). Fortissima sul mare era Atene e non solo per il numero delle triremi che possedeva
(300, più di quante la città ne potesse armare contemporaneamente) ma soprattutto per l’esperienza e l’abilità
dei suoi marinai. E con l’alleanza difensiva con Corcira, Atene, che già poteva contare sulle flotte alleate di
Chio e di Mitilene, si era assicurata l’unica altra marina greca oltre a quella di Corinto che fosse davvero degna
di essere presa in seria considerazione.
Logico allora che gli Spartani, intanto che insieme con gli alleati peloponnesiaci si preparavano allo scontro
con Atene, continuassero le trattative per evitare la guerra, certo grazie anche all’impegno del prudente e saggio
Archidamo. E che Sparta non volesse solo prendere tempo lo prova non soltanto il fatto che ogni ulteriore
indugio avrebbe favorito Atene, ma pure che Sparta, limitandosi a richiedere l’annullamento del cosiddetto
“decreto di Megara” (chiaro esempio dell’uso di sanzioni economiche come strumento bellico) e lasciando
cadere sia la richiesta di porre fine all’assedio di Potidea sia quella di rescindere il trattato con Corcira, in
definitiva chiedeva ad Atene solo di dimostrare di volere veramente la pace. Su tutti i punti invece Atene o
meglio Pericle rispose negativamente. Scrive De Sanctis: «Rifiutando ogni benché minima soddisfazione agli
Spartani in quel momento decisivo, Pericle ha assunto di fronte alla storia la responsabilità dello scoppio della
guerra del Peloponneso dopo averla del resto già resa egli stesso inevitabile con la irruente ed egoistica politica
d’impero da lui patrocinata»121. Secondo Gaetano De Sanctis, per Pericle era quello il momento migliore per
il “regolamento bellico dei conti” con Sparta, considerando che la preparazione militare e finanziaria della
grande polis attica non poteva essere migliore. E il giudizio di De Sanctis rileva tanto più se si tiene presente
che molti studiosi oggi tendono invece a ritenere Sparta responsabile della guerra e a scagionare quasi del tutto
Pericle, per ragioni ideologiche tutt’altro che convincenti122. Eppure anche Pericle, indipendentemente dalla
sua complessa personalità, non era che un “interprete”, sia pure dotato di grande talento, di una funzione
politica “oggettiva”, ovverosia di quell’imperialismo che era a fondamento della prosperità e della eccezionale
crescita di Atene. Indubbiamente Pericle non era un demagogo ed egli stesso considerava la sua azione politica,
120
Vedi U. Cozzoli, op. cit., pp. 111- 112. Vedi anche N. Sekunda, The Spartan Army, Osprey, Oxford, 1999.
121
G. De Sanctis, op. cit., vol. II, p. 266.
122
Questo non significa che Sparta non avesse alcuna responsabilità per lo scoppio della guerra o che non vi siano buoni argomenti per giudicare
diversamente da De Sanctis la politica di Pericle e in particolare le conseguenze del “decreto di Megara”. Al riguardo vedi le considerazioni di J. F.
Lazenby - in The Peloponnesian War, Routledge, Londra-New York, 2004, pp. 16-30 - che perviene alla conclusione che «one has the impression that
beyond a certain point both sides were on separate roaller-coasters on a collision course, with neither prepared to give way» (ivi, p. 30); Donald Kagan
ritiene decisivo invece il fatto che Pericle avesse fiducia nella “sua” strategia difensiva e che per questo non abbia voluto ritirare il “decreto di Megara”
(vedi D. Kagan, The Peloponnesian War, Harper Perennial, Londra, 2005, p. 54).
45
per così dire, un “freno” (ossia una sorta di katechon) agli smisurati “appetiti” del demos ateniese, ma è ovvio
che non potesse né volesse contrastare la “spinta” oltre i “confini tradizionali” della polis attica, ben sapendo
che essa era la logica conseguenza della decisione di far dipendere le sorti di Atene dalla flotta, della scelta
cioè compiuta da Temistocle, di cui Pericle si può considerare il vero “erede”. Non fu quindi tanto la potenza
di Atene, quanto piuttosto la politica di potenza della talassocrazia ateniese che rese inevitabile la guerra contro
Sparta (senza per questo che si debba ignorare che la stessa crescita di potenza di Atene non poteva che
“spingere” Sparta e i suoi alleati, in specie Corinto, verso la guerra, come sostiene Tucidide).
La scintilla che fece divampare il conflitto, fu un attacco di sorpresa, nel marzo del 431 a. C., dei Tebani
contro Platea, la cui amicizia con Atene risaliva al VI secolo a. C. e che si era coperta di gloria nelle guerre
contro i Persiani. L’attaccò fallì e gli aggressori presi prigionieri furono massacrati dai Plateesi. Ad Atene
furono arrestati tutti i Beoti e Sparta dichiarò che avrebbe messo a morte i mercanti ateniesi. E informato
dell’arrivo dell’esercito nemico, Pericle fece concentrare gran parte della popolazione in città, da dove i
contadini ateniesi poterono vedere l’esercito lacedemone devastare le loro terre e incendiare le loro case.
S’iniziava così una guerra che taluni definiscono la guerra dell’elefante contro la balena: a Sparta che invadeva
l’Attica con il potente esercito della lega peloponnesiaca, senza conseguire però alcun risultato strategico di
rilievo, l’Atene di Pericle replicava con incursioni e saccheggi lungo le coste del Peloponneso, fidando nella
potenza della propria flotta, contro la quale ben poco potevano i Peloponnesiaci. Questa strategia di
logoramento poteva forse avere successo se l’Attica fosse stata un’isola, sempre che la flotta ateniese fosse
rimasta padrona dei mari, ma la scelta di abbandonare le campagne dell’Attica ogniqualvolta fosse comparso
l’esercito nemico e di ammassare oltre 200.000 persone in una città costruita per 100.000 persone si rivelò
catastrofica. Il sovraffollamento e le terribili condizioni igieniche che si crearono fecero sì che una pestilenza
occasionale si trasformasse in un orribile flagello che causò la morte di 4.400 opliti e 300 cavalieri (Tucidide,
III, 87). Indubbiamente morirono a n c h e moltissimi altri cittadini Ateniesi, tra cui lo stesso Pericle (429 a.
C.).
In un certo senso, anche l’epidemia di peste mostra i limiti della strategia di Pericle, giacché perfino in
un’epoca in cui nulla si sapeva di batteri o di virus, le condizioni che potevano favorire una epidemia non erano
sconosciute. Ma il risultato, per certi versi paradossale, di una strategia che impediva all’elefante di schiacciare
la balena, fu di contribuire sia all’abolizione di ogni distinzione tra combattenti e non combattenti sia alla
diffusione di combattimenti non “convenzionali”. Né le invasioni dell’Attica né le incursioni compiute (per
ritorsione) dagli opliti ateniesi nel territorio di Megara (che furono ben 14 contro le 5 invasioni del territorio
attico da parte dei Peloponnesiaci, nel periodo della guerra archidamica, cioè dal 431 a. C. alla pace di Nicia
del 421 a. C.) condussero ad uno scontro tra fanterie oplitiche. Ragion per cui i civili vennero vieppiù coinvolti,
direttamente o indirettamente, negli scontri tra le due parti in lotta, e il rapido estendersi del conflitto in tutte
le zone della Grecia, isole comprese, cambiò la natura della guerra. Osserva Berve: «L’inasprimento della
grande lotta non era dovuto all’approssimarsi della decisione finale: al contrario, l’aggravata brutalità era
piuttosto provocata dal fatto che la guerra minacciava di restare senza via d’uscita»123. Ormai polemos e stasis
non si distinguevano più e pressoché ovunque i democratici, in generale favorevoli agli Ateniesi, si
contrapponevano agli oligarchici, mentre nella stessa Atene la lotta politica una volta scomparso Pericle - che
negli ultimi anni della sua vita era stato costretto a difendersi davanti ai giudici dagli attacchi dei suoi numerosi
nemici - divenne ancor più aspra. Tra la popolazione rinchiusa nella grande città dell’Attica, adesso che pure
la peste infuriava crescevano “a dismisura” le passioni e i rancori, e demagoghi e oligarchici alimentavano lo
spirito di fazione, compromettendo l’unità della polis. Eppure Atene era lungi dall’essere sconfitta né la fine
della guerra era vicina.
Potidea cadde nel 430 a. C. quando Pericle era ancora in vita, ma presso Spartolo 2.000 opliti e 200 cavalieri
ateniesi furono sconfitti da reparti calcidesi di cavalleria e di fanteria leggera. Una sconfitta che mostrava come
le tattiche di guerra si stessero modificando: ogni volta che gli opliti attaccavano, i Calcidesi si ritiravano,
mentre quando gli opliti si ritiravano, la fanteria leggera passava all’attacco; e infine, allorché lo schieramento
ateniese era in grave disordine, anche la cavalleria attaccò travolgendo le file degli opliti (Tucidide, II, 79).
Facevano così la loro apparizione da “protagonisti” nel conflitto i fanti armati alla leggera. E i peltasti traci
(che usavano un piccolo scudo a forma di mezzaluna denominato pelta ed erano armati di spada e giavellotto)
combatterono nelle file degli Ateniesi, degli Spartani e dei Beoti, acquisendo con lo scorrere del tempo pari
importanza, se non maggiore, degli opliti124. Lo scacco di Spartolo era però meno preoccupante del costo
123
H. Berve, op. cit., vol. II, p. 426.
124
Dopo la bataglia di Spartolo, fece la sua apparizone anche un esercito di 150.000 soldati traci (di cui un terzo circa cavalieri), al comando di Sitalce,
che attaccò la Macedonia, allora nemica di Atene. Ma Sitalce, dopo essersi spinto fin quasi a Pella, dovette ripiegare per difficoltà logistiche.
46
sempre crescente della guerra. L’assedio di Potidea era costato ad Atene talmente tanto, che Cleone, capo dei
radicali e già nemico di Pericle, fece approvare una imposta straordinaria sul patrimonio per accrescere le
entrate della polis. Del resto, gli Ateniesi erano restii a rendere il phoros ancora più oneroso, poiché temevano
che i loro alleati si ribellassero. Timore più che fondato, dacché nel 428 a. C. Lesbo uscì dalla lega, provocando
un durissimo intervento di Atene che si concluse con la messa a morte di più di 1.000 oligarchi dell’isola
(Cleone avrebbe voluto che si uccidessero tutti i maschi adulti e che donne e bambini venissero ridotti in
schiavitù), il cui territorio, ad eccezione di quello di Metimna che era rimasta fedele ad Atene, fu diviso in lotti
ed assegnato a 3.000 Ateniesi. Gli Spartani non poterono prestare aiuto a Lesbo, e dovettero accontentarsi, con
la flotta comandata dal navarca spartano Alcida, di compiere anche loro incursioni e massacri, non essendo
ancora in grado di sfidare sul mare gli Ateniesi. Così la barbarie cresceva in misura terrificante da una parte e
dall’altra, calpestando ogni tradizione agonistica. Orribile fu la guerra civile a Corcira nella quale democratici e
oligarchici si massacrarono a vicenda. Intervenne anche una flotta peloponnesiaca, comandata Alcida, ma,
dopo avere sconfitto i Corciresi, Alcida si ritirò. Appena in tempo, ché sopraggiunse una potente squadra
navale ateniese a dar manforte ai democratici di Corcira, i quali si vendicarono senza pietà delle violenze e dei
torti subiti, superando abbondantemente qualsiasi “misura”: «Su alcuni addossarono l’accusa di voler abrogare
l’ordinamento democratico, ma molti altri caddero traditi da inimicizie personali e alcuni infine per interesse
sotto i colpi dei debitori, cui avevano anticipato somme di denaro. Imperava la morte con i suoi volti infiniti:
e come di norma accade in circostanze simili, si raggiunse e superò di molto ogni margine d’orrore. Il padre
accoltellava il figlio: dagli altari si svellevano i supplici e lì sul posto si crivellavano di colpi» (Tucidide, III,
81).
I fatti di Corcira provarono che anche i Peloponnesiaci erano incapaci di trovare una valida strategia per
vincere rapidamente la guerra, tanto che si limitavano a cercare di sottrarre ad Atene importanti alleati o di
appoggiare le rivolte di alcuni membri della lega delio-attica. Nel 427 a. C. però i Lacedemoni riuscirono a far
cadere Platea dopo un lungo assedio. La piccola città venne distrutta e 200 difensori vennero barbaramente
uccisi. L’anno seguente vide invece fallire una spedizione nell’Etolia dell’ateniese Demostene. Contro gli
Etoli, gli Ateniesi si trovarono bloccati in un sottobosco dove furono bruciati vivi: «Nell’esercito ateniese si
sperimentò ogni metodo di fuga e di morte. A prezzo di terribili sforzi, i pochi scampati guadagnarono la costa
[…] Furono battuti molti alleati e circa 120 degli opliti ateniesi» (Tucidide, III, 95). Di lì a pochi mesi però gli
Ateniesi, guidati ancora da Demostene, insieme con gli Acarnani, compirono un’altra incursione contro gli
Ambracioti, sempre allo scopo di conquistare le coste del golfo di Corinto e controllare la rotta verso la Sicilia.
Ne seguì una carneficina ancora peggiore di quella precedente. Migliaia di Ambracioti vennero uccisi nei
boschi o in mare, in cui si erano gettati per sfuggire ai loro inseguitori. «Tutto ciò era lontanissimo dalle forme
e dai protocolli della battaglia degli opliti» osserva Hanson125. Di fatto, ancora una volta era stata la fanteria
leggera a svolgere il ruolo di protagonista. La battaglia di Delio combattuta tra Ateniesi e Beoti nel 424 a. C.
fu invece uno dei pochi scontri tra falangi di opliti durante la guerra, anche se oltre ai 7.000 opliti presenti in
ciascuno dei due schieramenti contrapposti, vi erano numerosi armati alla leggera in entrambi gli eserciti.
Anche questa battaglia fu però alquanto diversa da quelle “tradizionali”. L’esercito beota comandato da
Pagonda tentò un attacco di sorpresa, scagliandosi dall’alto di una collina contro quello ateniese. Pagonda
aveva schierato i Tebani alla destra, su una profondità di 25 scudi. L’ala sinistra ateniese venne così travolta,
ma sulla sinistra i Beoti avevano la peggio, tanto che 500 di loro vennero circondati e massacrati dagli opliti
ateniesi, che però, nella confusione della mischia, si uccisero perfino tra di loro (Tucidide, IV, 96).
All’improvviso, quando la sera stava calando, comparve la cavalleria beota che gli Ateniesi scambiarono per
un nuovo esercito nemico. Convinti di aver già vinto, gli Ateniesi furono presi dal panico e si diedero alla fuga.
Oltre 1.000 cittadini ateniesi persero la vita in questa battaglia. Tuttavia, Atene l’anno precedente era riuscita
a mettere “un pugnale alla gola” degli Spartani.
Le navi ateniesi erano state spinte da una tempesta ad approdare a Pilo, nella Messenia126, ma gli Ateniesi
ne approfittarono, riuscendo ad intrappolare nella vicina isoletta di Sfacteria, circa 500 opliti spartani. Dopo
72 giorni d’assedio costrinsero alla resa 292 opliti, di cui ben 120 spartiati, diffondendo il panico nel gruppo
dominante di Sparta che sapeva di trovarsi sulla cima di un vulcano di decine di migliaia di iloti pronti a
ribellarsi al primo segno di cedimento del kosmos. La vittoria ateniese a Sfacteria (una impresa che
125
V. D. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, cit., p. 133
Atene nel 427 a. C. aveva inviato 20 triremi in Sicilia per contrastare l’espansionimso siracusano, stringendo alleanza con Messina. Due anni dopo
decise di rafforzare il proprio contingente nell’isola inviando altri navi. Quando gli Ateniesi seppero che nelle acque di Corcira era presente una flotta
peloponnesiaca, avrebbero voluto dirigersi subito verso l’isola per proteggerla, coma era stato loro ordinato, ma Demostene voleva prima sbarcare a
Pilo. L’improvvisa tempesta fece accettare la proposta di Demostene.
126
47
verosimilmente sarebbe stata impossibile per la polis democratica contadina vittoriosa a Maratona, e che
rifletteva i profondi cambiamenti della polis attica sotto Pericle, a conferma dello stretto rapporto tra modo di
fare la guerra e struttura politica e sociale) ebbe perciò gravissime conseguenze per Sparta, non solo
psicologiche per la resa degli “invincibili” spartiati, ma perché con notevole intuito strategico gli Ateniesi
installarono a Pilo un presidio che comprendeva diversi iloti messeni provenienti da Naupatto. Era ovvio che
un simile focolaio minacciasse di incendiare l’intera Laconia. Invero, se i Beoti erano in grado di far fallire
ogni impresa di Atene nella Grecia centrale, la strategia anfibia ateniese stava dando i suoi frutti. Ora gli
Ateniesi potevano interrompere il traffico commerciale tra la Sicilia e il Peloponneso, che in pratica avevano
circondato insediandosi ad Egina, Pilo, Zacinto e Naupatto. A Sfacteria gli Ateniesi avevano effettivamente
colto il loro maggior successo di tutta la guerra, mettendo Sparta nelle condizioni di dover avviare negoziati
per giungere ad un nuovo trattato di pace. Ma nella primavera del 424 a. C. Atene, oltre ad occupare Citera,
mise a segno anche un altro “buon colpo”, prendendo, con 4.600 opliti e 600 cavalieri, Nisea, l’importante
porto di Megara sul golfo Saronico.
Nel frattempo però un giovane ufficiale spartiata di eccezionale capacità, Brasida, dopo aver contenuto la
“pressione ateniese” verso Megra, era riuscito a portarsi, con un esercito alquanto “atipico”, ossia composto da
700 neodamodi (ossia iloti liberati) e circa 1.000 mercenari (ma l’esrcito di Barsida si sarebbe poi “ingrossato” fino
a contare 8.000 uomini) nella penisola calcidica e in Tracia, al fine di danneggiare i cospicui interessi che la
polis attica aveva nella regione. Né Brasida si limitò ad una azione di carattere militare, ma svolse pure
un’energica azione politica promettendo libertà e autonomia alle città che si staccavano da Atene, pur essendo
pronto a trattare duramente coloro che rimanevano dalla parte degli Ateniesi. Geniale e spregiudicato, egli
aveva individuato il punto debole dell’impero marittimo ateniese, tanto che attaccò e conquistò Anfipoli (della
cui difesa era incaricato proprio il grande storico Tucidide), infliggendo così un durissimo colpo ad Atene
(Tucidide però riuscì a tenere il porto della città, Eiòn). Anfipoli, infatti, dominando la Tracia e gli Stretti, era
di estrema importanza per Atene, sia per i rifornimenti di grano che per ragioni di carattere finanziario, ma
soprattutto per l’importazione di legname con cui costruire navi. D’altra parte, la tregua stipulata con gli
Ateniesi nel 423 a. C. rimase inefficace nella zona in cui operava Brasida, poco ligio agli ordini superiori, e
Atene inviò in Tracia Cleone, il noto demagogo, che al comando un esercito di 1.200 opliti, 300 cavalieri e
numerosi alleati, si trovò ad affrontare un comandante competente ed esperto come Brasida. Compiuta una
ricognizione in forze nella zona di Anfipoli, Cleone, mentre l’esercito retrocedeva, fece compiere una
conversione all’ala destra, quella cioè non coperta dagli scudi degli opliti, esponendosi così ad un attacco di
sorpresa di Brasida. Ne nacque una confusione tra le file degli Ateniesi, che si sbandarono, incapaci di opporre
una valida resistenza all’attacco nemico. Ben 600 Ateniesi vennero uccisi, compreso Cleone, contro solo sette
degli uomini di Brasida, anch’egli però ferito mortalmente nello scontro. Sparta perdeva così un uomo che per
la sua azione di comando valeva un intero esercito.
Scomparsi Cleone e Brasida, la strada per il partito della pace era in discesa e non fu difficile giungere alla
“pace di Nicia” che durò dal 421 al 414 a. C. Eppure nemmeno questi anni furono anni di pace. Atene evacuò
gli iloti messeni da Pilo, mentre Corinto, che non aveva intenzione di interrompere la guerra con Atene, cercò
addirittura di dar vita ad una “terza forza” insieme con Argo. Il tentativo dei Corinzi però fu vano, dacché nel
420 a. C. Alcibiade promosse una alleanza con Argo in funzione antispartana, che portò al più grande scontro
tra opliti di tutta la guerra. I due eserciti si scontrarono presso Mantinea nel Peloponneso: da una parte vi erano
12.000 opliti peloponnesiaci, 5.000 fanti leggeri e 1.000 cavalieri beoti; dall’altra 11/12.000 opliti della
coalizione antispartana, tra cui 1.000 Ateniesi (un numero sorprendentemente piccolo, data la posta in gioco)
schierati davanti alla “crema” dell’esercito spartano. L’ala sinistra dei Peloponnesiaci fu sopraffatta dagli
Argivi e dai Mantineesi, ma gli Spartani, dopo avere sconfitto la sinistra avversaria, si volsero verso la destra
dello schieramento nemico, mantenendosi coesi e compatti grazie al loro superbo addestramento e alla loro
superiore disciplina. Gli Argivi e i Mantineesi, che già pregustavano la vittoria e le cui file erano in grave
disordine, non poterono reggere all’assalto degli opliti spartani e furono messi in fuga. Sul campo di battaglia
caddero 1.100 “confederati” tra cui 200 Ateniesi. La coalizione antispartana si disfece rapidamente, Mantinea
rientrò nella lega peloponnesiaca e Argo fece nuovamente pace con Sparta. Se Alcibiade mirava ad una vittoria
decisiva che mettesse definitivamente in ginocchio Sparta aveva sbagliato i suoi calcoli. Anche dietro alla
brutale aggressione all’isola di Melo, che difendeva il proprio “diritto” di essere neutrale, vi è chi vi vede
Alcibiade. Certo è che questo episodio rivela come il demos ateniese assomigliasse sempre più a quei sofisti
che sostenevano che la ragione è solo quella del più forte. Tucidide lascia intendere chiaramente, nel celebre
dialogo tra Ateniesi e Melii, che il logos ateniese è basato proprio sulla persuasione che ciò che è necessario è
giusto, e non viceversa, e che è necessario che il più potente sottometta il meno potente (si tratta cioè di un
“realismo politico” che lascia “in ombra” la questione cruciale della politica, ossia la funzione stessa del
48
Politico e della “misura” che il Politico deve far valere dentro e fuori la “città” per evitare che si generino
squilibri tali da condurre la polis alla rovina). Inoltre, Tucidide facendo dire agli Ateniesi che era giusta la loro
posizione di predominio perché avevano debellato i Persiani (Tucidide, V, 89), dimostra come il merito di una volta
si fosse mutato in hybris, in “dismisura” e tracotanza, servendo ormai solo come strumento di dominio e per giustificare una
politica fondata sull’arbitrio e sulla sopraffazione127. I Meli però non si sottomisero e gli Ateniesi fecero seguire
alle parole i fatti: i maschi adulti furono passati per le armi, donne e bambini vennero venduti come schiavi.
Del resto, gli Ateniesi erano convinti che Sparta non sarebbe intervenuta. E così fu.
Nello stesso anno (415 a. C.) Atene decise, spinta da Alcibiade, di intervenire in Sicilia a favore di Segesta
contro Selinunte, alleata di Siracusa. E contro questa potente città gli Ateniesi mossero guerra con 130 navi
e 5.100 opliti (ma soltanto con 30 cavalieri), disperdendo così le proprie forze (come Pericle aveva sempre
temuto), anziché concentrarle contro il nemico più importante, ossia contro Sparta. La campagna contro
Siracusa si risolse in una disastro. Alcibiade, richiamato in patria, perché accusato di empietà, andò ad offrire
i suoi servigi a Sparta, mentre gli altri due comandanti della spedizione, Nicia e Lamaco, si dimostrarono
comandanti mediocri, benché Lamaco avesse capito che per aver ragione di una città che contava 250.000
abitanti occorreva agire risolutamente, senza indugiare. La lentezza con cui invece gli Ateniesi agirono fu loro
fatale, tanto più che erano pressoché privi di cavalleria, mentre i Siracusani ne sapevano fare ottimo uso. Inoltre
Sparta (che, dopo aver subito alcuni attacchi lungo le coste del Peloponneso, considerò violata la “pace di
Nicia”) inviò a Siracusa con alcune truppe un abile ufficiale, Gilippo, al fine di infondere coraggio ai
Siracusani, che seppero trarre vantaggio pure dal fatto che Nicia (rimasto l’unico comandante dopo la morte
di Lamaco) non era riuscito a costruire rapidamente un muro per isolare la grande città siciliana. Pertanto,
anche se da Atene arrivarono dei rinforzi al comando di Demostene (73 navi, 5.100 opliti e diversi armati alla
leggera), l’occasione di conquistare Siracusa era perduta. Invero, le difficoltà logistiche a causa della grande
distanza, la scarsa consistenza delle proprie forze nella prima fase della spedizione, nonché l’inadeguata azione
di comando, avevano reso impossibile agli Ateniesi sconfiggere una città potente come Siracusa. Anche il
tentativo di Demostene di attaccare di notte il “contromuro” eretto dai Siracusani, dopo che tutti i tentativi di
abbatterlo con gli arieti non avevano avuto successo, fu fallimentare e finì con la perdita di altri 2.000 Ateniesi.
Ormai tutte le speranze di questi ultimi erano riposte nelle 110 triremi ancora disponibili, ma nello spazio
angusto del porto, le navi ateniesi (tra l’altro in pessime condizioni) non potevano né manovrare né far valere
la loro superiorità numerica. La sconfitta ateniese nella battaglia navale era prevedibile e a Nicia e a Demostene
non rimase che ordinare la ritirata. Ma Nicia perse del tempo prezioso a causa di una eclissi di luna, considerata
un presagio non favorevole. Gli Ateniesi allora, incalzati dalla cavalleria e dalla fanteria nemica, non poterono
evitare di venire completamente circondati. Molti di essi vennero uccisi e i sopravvissuti furono fatti prigionieri
(413 a. C.).
Per Atene si trattava di una immane catastrofe: erano andati perduti circa 45.000 uomini oltre a più di 200
triremi. Intanto, gli schiavi che lavoravano nelle miniere del Laurio trovavano rifugio a Decelea (il che
dimostra che la condizione degli schiavi ateniesi non necessariamente era migliore di quella degli iloti), una
“posizione dominante”, situata 20 chilometri a nord-ovest di Atene, che il re spartano Agide, su consiglio di
Alcibiade, aveva fatto occupare e fortificare, interrompendo le comunicazioni dirette con l’Eubea, di modo
che i rifornimenti diretti ad Atene dovevano essere trasportati solo per mare, doppiando il capo Sounion.
Difficilissima era anche la situazione finanziaria di Atene, aggravata dalla perdita di oltre metà della flotta
a Siracusa. Ma Atene aveva ancora mezzi e risorse per battersi. Fu infatti deciso di sostituire il tributo annuale
degli alleati con un’imposta del 5% su tutte le importazioni e le esportazioni dai porti alleati, e si attinse al
fondo di riserva (1.000 talenti), che pure non si sarebbe dovuto toccare durante la guerra, per ricostruire la
flotta. Non sorprende dunque che la debolezza di Atene facesse rialzare la testa alla fazione oligarchica che
voleva mettere fine alla guerra. Si arrivò così al colpo di Stato del 411 a. C. che insaturò il governo dei
Quattrocento128. Tuttavia, gli equipaggi della flotta ateniese che si trovava a Samo rimasero fedeli al regime
democratico. Anche lo “spregiudicato” Alcibiade prese le distanze dagli oligarchici e fu richiamato dall’esilio
dall’assemblea dei marinai ateniesi “sotto la guida” di Trasibulo. Ma la situazione di Atene era resa ancor più
127
Al riguardo vedi F. Falchi, Hybris talassocratica e giusta misura, cit., e le importanti considerazioni di L. Canfora in Il Dialogo dei Melii e degli
Ateniesi, Marsilio, Venezia, 1991. Il nesso tra diritto e forza, al centro del dialogo, presuppone che solo tra pari vi possa essere un rapporto fondato su
giustizia. D’altro canto, gli Ateniesi che irridono i “deboli” Melii quando questi fanno presente quali possono essere le conseguenze per la stessa Atene
di un’azione ingiusta nei loro confronti, non possono non ricordare la tracotanza dei Proci nell’Odissea. Ma, in generale, è tutta la grecità che si interroga
sul rapporto tra hybris e giustizia, tra “limite” e “il-limite”.
128
In seguito, la diffusione di voci che gli oligarchici stavano preparando uno sbarco degli Spartani al Pireo e l’ostilità di Alcibiade (che pure aveva
dato il suo sostegno agli oligarchici) verso i Qattrocento portarono al governo dei Cinquemila (cittadini cioè di censo oplitico). Sul colpo di Stato del
411 a. C. vedi C. Bearzot, Come si abbatte una democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2013.
49
grave dalla ribellione degli alleati, tra cui Lesbo, Chio, Bisanzio, Cizico e l’Eubea (che passò dalla parte degli
Spartani dopo che una flotta peloponnesiaca sconfsse gli Ateniesi presso Eretria causando tra gli Ateniesi un
panico perfino maggiore di quello diffusosi in città dopo il disastro in Sicilia, dato che il controllo dell’isola
era essenziale per i rifornimenti di Atene). Per di più Sparta avrebbe potuto contare sull’oro persiano per
allestire quante flotte voleva.
Ciononostante, la nuova flotta – autentico pilastro cardine della democrazia ateniese - colse un importante
successo a Cinossema (nel settembre del 410 a. C), una località dell’Ellesponto, ove passava la rotta
commerciale attraverso la quale giungevano ad Atene i vitali rifornimenti di grano dal Mar Nero. Si trattava
quindi di un’arteria strategica essenziale per la polis attica, che la flotta peloponnesiaca aveva naturalmente
interesse a recidere. Si trattò di una vittoria modesta (gli Ateniesi persero 15 navi, mentre la flotta nemica ne
perse 21), ma se la flotta comandata da Trasibulo fosse stata sconfitta, (considerando la difficile situazione in
cui la grande polis attica si trovava) Atene avrebbe forse dovuto rassegnarsi a perdere la guerra. Il demos
ateniese comunque adesso vedeva in Alcibade l’uomo che poteva sconfiggre i Peloponnesiaci. Le aspettative
degli Ateniesi non furono deluse. Due mesi dopo la battaglia di Cinossema la flotta peloponnesiaca fu sconfitta
presso ad Abido (i Peloponnesiaci persero 30 navi, oltre alle 15 che avevano catturato a Cinossema; le altre
navi, per ordine del navarca spartano Mindaro, furono tirate in secca ma fu solo l’arrivo della cavalleria e della
fanteria persiana del satrapo Farnabazo che evitò che l’intera flotta peloponnesiaca venise presa dagli
Ateniesi); poi di nuovo a Cizico (sempre nell’Ellesponto). In quest’ultimo scontro, Alcibiade, lasciò che le
triremi di Mindaro lo inseguissero, ma poi passò al contrattaccò, mentre Trasibulo e Teramene, con le altre
triremi tagliavano la ritirata alla flotta peloponnesiaca. La battaglia si concluse con la distruzione dell’intera
flotta spartana. Questa grande vittoria contro la flotta peloponnesiaca portò alla piena restaurazione del regime
democratico ad Atene e alla totale riabilitazione di Alcibiade, che fece ritorno da trionfatore ad Atene e venne
eletto stratego con poteri straordinari, tanto che Senofonte lo definisce “egemone autokrator” (Elleniche, I, 4).
E Alcibiade, insieme con Trasibulo e Teramene, ottenne notevoli successi a Calcedone, Bisanzio e Taso. Ma
era evidente che Atene non combatteva solo contro Sparta e l’oro persiano, bensì pure contro sé stessa. La lotta
politica si faceva sempre più dura e nessuno pareva in grado di porre un freno alla dissoluzione interna dell’unità della
polis. D’altronde, era chiaro a chiunque che ormai a decidere le sorti della guerra sarebbero state le battaglie
navali, in cui un ruolo fondamentale lo aveva il denaro persiano.
A Mindaro successe il capace e ambizioso Lisandro, anche lui, come Brasida e Gilippo, un “uomo nuovo”
del kosmos spartano. Grazie ai suoi ottimi rapporti con Ciro, figlio del re persiano, Lisandro poté portare il
numero delle sue navi a 90 e aumentare la paga degli equipaggi, di modo che molti vogatori al soldo di
Atene, che non poteva più reclutare rematori solo tra i propri cittadini, passarono dalla parte di Sparta.
Approfittando della momentanea assenza di Alcibiade l’abile navarca spartano inflisse una severa sconfitta
agli Ateniesi presso Notio. Ad Atene i demagoghi colsero l’occasione per accusare Alcibiade (che preferì
andare di nuovo in esilio piuttosto che rischiare un processo). Fu comunque stabilito di armare una nuova flotta
di 110 triremi, su cui si imbarcarono anche parecchi membri dei ceti più abbienti. Intanto Conone si trovava
assediato a Mitilene, avendo perso parecchie navi in uno scontro con la flotta peloponnesiaca. Dopo che a
Samo altre 40 navi si unirono alla flotta ateniese, quest’ultima fece vela verso Lesbo, scontrandosi (406 a. C)
nelle acque delle isole Arginuse con le 120 navi della flotta peloponnesiaca (non comandata più da Lisandro,
ma da Callicratida). Ancora una volta gli Ateniesi colsero uno splendido successo sul mare, perdendo nel
combattimento 25 triremi contro le 70 degli Spartani. Ma le conseguenze della vittoria furono per Atene perfino
peggiori di quelle di una sconfitta. A causa di una tempesta infatti gli Ateniesi avevano perduto altre triremi
ma soprattutto non avevano potuto soccorrere i naufraghi. Il demos, aizzato dai demagoghi, perse
completamente la testa e decise di processare gli strateghi collettivamente anziché singolarmente. Come ricorda
Senofonte (Elleniche, I, 7), ci fu un solo uomo, ossia Socrate, tra i pritani allora in carica, che ebbe il coraggio
di opporsi a tale arbitrio. Tutti gli strateghi vennero condannati a morte. La grande vittoria ateniese e una
ostilità crescente verso Lisandro, considerato troppo ambizioso, indussero comunque Sparta a fare una seria
offerta di pace, ma Atene decise di respingerla, lasciandosi convincere da Cleofonte come già era accaduto
dopo la vittoria di Cizico129. Nell’agosto dell’anno seguente (405 a. C.) , Lisandro, di nuovo al comando della
flotta peloponnesiaca (benché il comandante nominale fosse un altro navarca), riuscì a sorprendere la flotta
ateniese ad Egospotami (situata davanti a Lampsaco nel Chersoneso tracico), mentre le navi erano sulla
spiaggia e gli equipaggi erano in cerca di cibo. Ad Egospotami la grande polis attica perse l’intera flotta, tranne
nove navi, secondo Senofonte (mentre secondo Diodoro Siculo se ne salvarono dieci) con le quali Conone fece
in tempo a fuggire. Con la flotta Atene aveva perso non solo la “battaglia degli Stretti” ma la guerra stessa,
129
Infatti, Sparta anche allora aveva offerto la pace ad Atene. Vedi D. Kagan, op. cit., pp. 417-419 e p. 468.
50
essendo tagliata definitivamente fuori dai rifornimenti marittimi, anche se Samo oppose ancora una strenua
resistenza a Lisandro. Le condizioni di pace imposte ad Atene furono la consegna della flotta, tranne dodici navi,
l’abbattimento delle Lunghe Mura del Pireo, l’alleanza con Sparta e il ritorno ad Atene di tutti i fuoriusciti.
Naturalmente anche il regime democratico venne soppresso dagli Spartani.
Terminava così una guerra assai diversa da quelle combattute in precedenza. Al riguardo è interessante
ricordare quanto sostiene John Keegan, vale a dire che rispetto agli altri popoli (Assiri compresi) «i Greci […]
inventarono una guerra nuova, incentrata sulla funzione della battaglia come atto decisivo […] e volta ad
assicurarsi la vittoria, anche a costo di subire una sconfitta sanguinosa […] L’effetto di questo nuovo spirito
nel modo di fare la guerra fu così rivoluzionario che […] V. Hanson, ha avanzato la tesi interessante, seppur
molto controversa, che i Greci siano stati gli inventori dell’“arte occidentale della guerra”, grazie a cui gli
Europei avrebbero finito per sottomettere ogni regione del mondo in cui portarono le armi»130. Comunque sia,
di fondamentale importanza fu la “decisione per la flotta” compiuta da Temistocle. Decisione comprensibile
solo se “si inquadra” nel contesto storico e culturale della Grecia di allora, ma che mutò radicalmente il modo
di fare la guerra (e non solo) anche se battaglie tra opliti ci furono pure nel secolo seguente. Pirateria, scorrerie
o battaglie per respingere un’invasione dal mare (come quella combattuta dagli Egiziani contro i “popoli del
mare”) non possono essere paragonate alle battaglie navali combattute dai Greci e in particolare alle complesse
vicende che caratterizzarono la talassocrazia ateniese (certo ben diversa da quella minoica). Ed è pacifico pure
che Atene “si aprì” al mare in una forma sconosciuta alle stesse città fenicie. Del resto, queste erano solo delle
“città Stato” commerciali, mentre l’intera vita della polis era “incentrata” sull’agorà, che era non solo luogo
di scambi ma soprattutto il luogo delle riunioni e dell’agone politico. Era sempre lo “spazio politico” quindi
che nella grande polis attica “mediava” il rapporto tra “terra e mare”. Eppure, il dominio del mare condizionava
l’organizzazione politica, sociale e militare di Atene al punto che fu il mare più che la terraferma il teatro ove
si combatterono le battaglie che decisero le sorti di Atene nella guerra del Peloponneso. La ricerca del dominio
del mare, come si è già avuto modo di sottolineare, contribuì pure a cambiare il modo di combattere,
promuovendo un progressivo allontanamento dal “mondo della tradizione”.
D’altronde, la connessione non accidentale tra la talassocrazia ateniese - e quindi tra l’elemento “liquido”
e amorfo su cui non si possono erigere né case, né templi, né mura – e la degenerazione della democrazia in
demagogia, con tutto ciò che ne derivò, non sfuggì a Platone131, la cui filosofia, nata dal travaglio spirituale e
“materiale” della Grecia durante il V secolo a. C., ha come fine appunto di dimostrare l’esistenza di una
struttura profonda e stabile della realtà, tale da poter “misurare” correttamente sia le azioni che i discorsi degli
uomini. Gli è che sia Platone che Aristotele compresero come l’“apertura al mare” delle poleis avesse
moltiplicato la “volontà di potenza” di queste ultime, al punto che i conflitti tra le poleis e all’interno di ogni
singola polis non avevano più alcun limite. Da qui l’ideale di una polis non più dipendente dal mare e
relativamente chiusa ai traffici commerciali, dacché, come temeva lo stesso Aristotele, pur consapevole della
necessità di una flotta, questi ultimi avrebbero potuto permettere all’Economico di crescere a dismisura,
aggredendo come una metastasi l’intera comunità. Riflettendo in un periodo in cui gli scambi e gli impieghi
della moneta erano assai cresciuti132, lo Stagirita definisce crematistica “degenerata” questa nuova attività
economica non più incentrata sui reali bisogni della comunità. Nondimeno, dovettero passare parecchi secoli
e verificarsi condizioni storiche del tutto diverse perché si giungesse alla formazione e allo sviluppo dell’homo
oeconomicus.
130
J. Keegan, op. cit., p. 246. Per una critica della tesi di Hanson vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 43, S. Morillo, Bullets in Motion, in
D. Northrop (a cura di), A Companion to the World History, Wiley-Blackwell, Chichester, 2012, pp. 375-388, J. Lynn, Battle,Westwiew Press, Jackson,
2003. Su questa tesi di Hanson ritorneremo brevemente nell’Epilogo.
131
Vedi M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 1994 e (secondo una prospettiva “politico-culturale” diversa da quella di Cacciari)
C. Mutti, Democrazia e talassocrazia, Effepi, Genova, 2014.
132
Tuttavia, perfino nel IV secolo a. C., quando in effetti il governo di Atene era nelle mani dei ceti più abbienti e si moltiplicarono gli impieghi della
moneta (allora infatti si svilupparono delle “banche private”, mentre nel secolo precedente erano i templi che prestavano denaro), la direzione politica
della vita economica della grande polis attica non venne meno. Precisa Karl Polanyi: «La circolazione monetaria fu sottoposta a una rigorosa
supervisione […] il tempo e il luogo delle contrattazioni furono stabiliti pubblicamente; il commercio del grano rimase completamente sotto controllo
amministrativo; l’attività del cambiavalute […] fu sottoposta a stretta sorveglianza. Le transazioni creditizie in materia di scambi con l’estero dovevano
conformarsi a norme e regolamenti» (K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, in Idem, Economie primitive, arcaiche e moderne,
Einaudi, Torino, 1980, p. 299).
51
CAPITOLO III. IL MARE IN MEZZO ALLE TERRE
La Macedonia e l’ellenismo. Il mondo della polis era cominciato già a tramontare con la sconfitta di Atene,
benché sia Platone che Aristotele (che pure fu il precettore di Alessandro Magno) non se ne accorgessero. Del
resto, anche la prima metà del IV secolo a. C. sarebbe stata caratterizzata dalla guerra tra poleis e all’interno
stesso delle poleis. In effetti, già nel 403 a. C. ad Atene fu instaurata nuovamente la democrazia (benché vi
fossero alcuni cambiamenti rispetto alle istituzioni democratiche del V secolo a. C.) dopo la breve parentesi
del governo dei Trenta Tiranni appoggiato dagli Spartani. Infatti, il capo dei democratici ateniesi, Trasibulo,
muovendo da Tebe con soli 70 uomini, era riuscito a prendere la fortezza di File. Dopo aver occupato il Pireo,
le forze democratiche, ora assai più numerose, si schierarono presso la collina di Munichia, costringendo la
fanteria oplitica degli oligarchici, appoggiata dalla guarnigione spartana, ad avanzare in salita. Le forze
democratiche armate alla leggera ebbero quindi facilmente ragione della fanteria pesante nemica colpendola
dall’alto con aste, giavellotti e pietre. Lo stesso Crizia (capo dei Trenta e parente di Platone), morì nello scontro.
Trasibulo propose allora di concedere la cittadinanza ai meteci e agli schiavi che avevano combattuto per la
democrazia, anche se una proposta così in contrasto con la mentalità dell’epoca non poté essere accolta. Inoltre,
Trasibulo concesse un’amnistia per tutti coloro che avevano commesso dei reati politici sotto i Trenta, ad
eccezione dei Trenta medesimi, di modo che le “ferite” della guerra civile non fossero ancora motivo di
discordia e di lotte intestine. D’altro canto, gli oligarchici si ritirarono ad Eleusi per costituirvi un vero Stato
(che però scomparve già nel 401/400 a. C.)133.
Anche questi eventi dimostrano comunque quanto fosse “fragile” l’egemonia di Sparta. Invero, né Sparta
né Tebe potevano riuscire laddove Atene aveva fallito, non avendo i mezzi e le risorse della grande polis attica.
Per quanto concerne gli Spartani, era naturale che si trovassero in difficoltà non appena conquistato l’impero134.
Come scrive Aristotele: «Essi non sapevano destreggiarsi in tempo di pace, perché la disciplina nella quale
erano meglio addestrati era quella della guerra» (Politica, II, 22). Le ambizioni imperialistiche di Sparta erano
pure in contraddizione con l’esiguo numero degli spartiati, ormai non più di 2.000, e facili da contrastare da
parte delle altre poleis compresa la stessa Atene. Né Sparta aveva la forza per intraprendere con successo la
guerra contro l’impero persiano, pur indebolito dalla contesa tra i due fratelli Artaserse e Ciro (lo scopo di
Sparta era naturalmente quello di giustificare e rafforzare la propria egemonia sull’intera Grecia)135. Per di più,
Sparta si inimicò subito Corinto e Tebe, rifiutandosi non solo di distruggere la grande polis attica, ma di spartire
con gli alleati i frutti della vittoria, e al tempo stesso rafforzando le proprie posizioni nella Grecia centrale e in
Tessaglia136. Sicché, Sparta fu costretta ad interrompere le operazioni contro la Persia, dopo avere conquistato
Sardi (395 a. C.), per combattere contro una coalizione formata da Tebe, Atene, Corinto e Argo, che potevano
contare sull’oro persiano. Anche questo conflitto, noto come la “guerra di Corinto”, avrebbe dunque visto
l’impero persiano svolgere un ruolo di primo piano.
Dopo che Lisandro era morto combattendo contro i Tebani, a Nemea gli Spartani batterono la coalizione
nemica, ma presso Cnido una flotta ateniese e persiana, sotto il comando dell’ateniese Conone, sconfisse
nettamente quella peloponnesiaca. Conone si adoperò quindi per espellere dalle città greche i magistrati
spartani (gli armosti) insediativi da Lisandro, anche se il re spartano Agesilao ebbe la meglio su un esercito
tebano a Coronea. Nel frattempo, Atene era risucita a ricostruire le Lunghe Mura del Pireo, grazie anche ai
fondi persiani, mentre a Corinto scoppiò la guerra civile, che oppose democratici e oligarchici, sostenuti da
Sparta. Con l’aiuto degli Spartani questi ultimi riconquistarono Lecheo, che era il porto di Corinto, mentre i
democratici continuavano a tenere la città di Corinto. E fu a Lecheo che l’esercito di Sparta subì un grave
Com’è noto nel 399 a. C. un tribunale popolare ateniese condannò a morte Socrate (accusato di empietà e di corrompere i giovani con i suoi
insegnamenti). D’altro canto, Socrate era stato il maestro non solo di Platone e Senofonte, ma pure, tra gli altri, di uomini come Crizia (anche se Socrate
non eseguì un ordine del governo dei Trenta, rifiutandosi di recarsi con altri a Salamina per riportarne un tale Leone, che gli oligarchici volevano
“giustiziare”) e Alcibiade (che, come narra Plutarco nella Vita di Alcibiade, venne fatto uccidere dal satrapo persiano Farnabazo su richiesta di Lisandro,
cui lo stesso Crizia aveva consigliato di eliminare Alcibiade, considerato ancora un nemico pericoloso per il seguito che poteva avere ad Atene).
134
Peraltro, anche a Sparta con il passare del tempo si era accentuata la stratificazione sociale ed economica, tanto che si ha perfino notizia della
presenza di ricchissime ereditiere, mentre anche all’interno dello Stato spartano cresceva la circolazione di monete straniere d’oro e d’argento. Si può
considerare indice di tale trasformazione sociale anche la congiura (nel 399 a. C. circa) capeggiata da Cinadone, che apparteneva ai cosiddetti “inferiori”
(verosimilmente spartani impoveriti, i quali, di conseguenza, erano privi dei diritti politici di cui godevano gli Spartiati) e che si proponeva di estendere
la cittadinanza all’interno di Sparta. La congiura venne però scoperta e Cinadone venne “giustiziato”, la classe dirigente spartana non intendendo
modificare il rigido ordinamento politico e sociale del kosmos, nonostante che il numero degli Spartiati continuasse a diminuire.
135
Nella battaglia di Cunassa (401 a.C.) i contingenti asiatici di Artaserse ebbero la meglio sull’esercito di Ciro, ma non sui 10.000 mercenari greci (al
soldo di Ciro), 8.600 dei quali riuscirono a raggiungere il Mar Nero, presso Trapezunte, sotto la guida di ufficiali esperti (tra cui Senofonte, che narrò
questa mirabile impresa nella Anabasi).
136
Vedi R. Seager, The Corinthian War, in The Cambridge Ancient History, vol. VI, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 97).
133
52
rovescio ad opera dell’ateniese Ificrate, che comandava un reparto di fanteria leggera. Aggredita da nugoli di
nemici, una volta persa la coesione, la falange lacedemone venne travolta e annientata137. Ciononostante, Atene
era continuamente molestata da pirati che muovevano da Egina, alleata di Sparta, e una flotta comandata dallo
spartano Antalcide aveva precluso agli Ateniesi il passaggio attraverso l’Ellesponto. Né Argo, che si era unita
con Corinto, era in grado di sfidare Sparta, che oltre a presidiare Lecheo, manteneva pure una guarnigione ad
Orcomeno in Beozia. D’altro canto, neppure Sparta poteva ottenere una schiacciante vittoria contro la
coalizione nemica. Si giunse pertanto, nel 387/6 a. C., alla pace di Antalcida (conosciuta anche come “la pace
del Re”), che sanciva il dominio persiano sulle città greche dell’Asia Minore e riconosceva l’egemonia di
Sparta sulla Grecia continentale.
Fu comunque una battaglia tra opliti combattuta a Leutttra nel 371 a. C. che mise fine all’egemonia di
Sparta e segnò l’ascesa di Tebe come nuova potenza egemone. Decisiva fu però la tattica impiegata dai Tebani.
Lo stratega tebano Epaminonda concentrò le sue truppe migliori, tra cui i 300 uomini del “battaglione sacro”
(formato da 150 coppie di “amanti”), sulla sinistra anziché sulla destra, formando una colonna profonda 50
scudi (e lunga 80), mentre il resto delle truppe era scaglionato più indietro (schieramento noto come “ordine
obliquo”). L’ala destra spartana fu fatta a pezzi allorquando Epaminonda scagliò contro di essa questo “ariete
umano” e venne poi definitivamente annientata dalla cavalleria tebana. Tra i caduti si potevano contare ben
400 spartiati, e con loro era crollato pure il mito dell’invincibilità di Sparta138. Da una tale sconfitta Sparta non
poteva più riprendersi del tutto. Dopo Leuttra Epaminonda compì diverse spedizioni nel Peloponneso, ove si
era costituita la Lega arcadica che godeva del sostegno di Tebe. Durante la prima, fu deciso di costruire la città
di Messene presso il monte Itome, che doveva essere una “spina nel fianco” di Sparta, mentre nella seconda
l’azione di Epaminonda si limitò a sostenere i propri alleati. Tuttavia, gli Arcadi subirono una durissima
sconfitta dagli Spartani, rivelandosi incapaci di sostenere l’urto della falange lacedemone (questo scontro è
noto come la “battaglia senza lacrime” - per gli Spartani, si intende). Con la terza spedizione Epaminonda si
guadagnò l’alleanza dell’Acaia.
Tebe, in questo torno di tempo, oltre a distruggere Orcomeno, sua antica rivale, fu impegnata anche in
Tessaglia, dove il tebano Pelopida, che disponeva pure di un contingente tessalo, presso Cinocefale, riuscì,
grazie anche all’impiego della cavalleria in un ruolo spiccatamente offensivo, a sconfiggere il pericoloso
tiranno di Fere, Alessandro, benché lo stesso Pelopida trovasse la morte in questo scontro. L’anno seguente
(363 a. C.) i Beoti comunque colsero un altro netto successo contro Alessandro di Fere. Degno di nota è anche
il fatto che Epaminonda si adoperò per garantire a Tebe un’egemonia marittima, facendo costruire 100 triremi,
ma senza conseguire alcun successo di rilievo. Come spiega Domenico Musti, non solo Tebe era priva di una
tradizione di pratica marinara e di una “adeguata” disponibilità finanziaria, ma era uno Stato contadino che
non sapeva proporre «altra ideologia che quella dell’autonomia e del particolarismo, cioè l’aspirazione greca
nel suo profilo più comune (il che garantiva il successo delle spinte particolaristiche, ma non il ruolo-guida
della città che le promoveva)»139. Era chiaro pertanto - e lo fu inequivocabilmente dopo che Epaminonda perì
nella battaglia di Mantinea (nella quale i Tebani non riuscirono ad infliggere agli Spartani una sconfitta
decisiva) - che nessuna polis aveva la forza per conquistare un’egemonia duratura sull’intera Ellade, e quindi
se una forza doveva unire la Grecia non poteva che essere una forza straniera che sapesse approfittare delle
continue contese tra le città greche140. Che ciò sia riuscito alla Macedonia di Filippo II pare perfino logico
considerando la personalità eccezionale di questo re e la sua capacità di mettere a frutto gli insegnamenti del
passato.
Invero, il territorio sotto il diretto dominio dei re macedoni era assai ristretto e circondato da piccoli
principati locali, tranne ad est, ove non solo vi erano i Peoni, un popolo di lingua greca, anche se meno
civilizzati dei Macedoni, ma anche le forti “città Stato” della penisola calcidica. In ogni caso ogni l’espansione
in questa direzione era pressoché impossibile per i Macedoni, dato che la zona era sotto il controllo della stessa
Ad Ificrate si deve pure l’adozione di una nuova tattica, basata su soldati professionisti, che avevano un piccolo scudo sulla spalla sinistra,
indossavano una corazza di lino ed erano armati di spade e lunghe lance, che si potevano manovrare con entrambe le mani. E mercenari greci –
provenienti soprattutto dall’Arcadia - adesso combattevano sempre più numerosi anche per i Persiani, venendo così a indebolirsi lo spirito del
tradizionale esercito cittadino. Il fenomeno del mercenariato in questo periodo venne favorito dalla crescita demografica e dalla diffusione del
pauperismo.
138
Su questa battaglia vedi V. D. Hanson, The Battle of Leuktra (371 BC) and the “Revolution” in Greek Battle Tactics, “Classical Antiquity”, vol. 7,
n. 2, 1988, pp. 190-207, che sottolinea il ruolo dei comandanti sia a Leuttra che nella successiva battaglia di Mantinea.
139
D. Musti, op. cit., p. 392.
140
Non è possibile qui, per ragioni di spazio, prendere in esame le intricate vicende della Grecia nel IV secolo a. C. Si rammenti comunque che nel
377 a. C. Atene era riuscita a dar vita alla seconda lega delio-attica, però su basi sostanzialmente “paritarie”, acquisendo un’altra volta il dominio
dell’Egeo. Dopo la battaglia di Leuttra, temendo la potenza di Tebe, si avvicinò a Sparta ma in seguito scoppiò una ribellione di alcune città alleate (tra
cui Chio e Bisanzio) che Atene non ebbe la forza di forza di domare (questa guerra è nota come guerra sociale e durò dal 357 al 355 a. C.).
137
53
Atene. Quando però quest’ultima venne sconfitta da Sparta, per la Macedonia si presentarono nuove possibilità
di espansione. Fu solo Filippo II comunque che riuscì ad unificare il Paese e ad assoggettare le città greche
della penisola calcidica. Il re macedone riuscì a prendere Potidea (in soccorso della quale venne inviato un
esrcito ateniese, che però arrivò troppo tardi) e a distruggere la città di Olinto che era diventata particolarmente
potente all’inizio del IV secolo a. C141. Fattore fondamentale del successo del sovrano macedone, oltre alla
capacità di trasformare dei rozzi montanari macedoni in guerrieri temibli e disciplinati e di legare a sé i membri
dell’aristocrazia macedone, fu certamente l’occupazione delle miniere d’oro del Pangeo (una regione in cui il
re macedone fondò la città di Filippi). Decisiva al riguardo era stata, ancora prima della sconfitta di Potidea,
la conquista di Anfipoli, che aveva inflitto pure un duro colpo ad Atene, dato che il possesso di Anfipoli era
essenziale per la rinascita dell’impero marittimo ateniese. Filippo II ebbe allora abbastanza denaro (i famosi
filippi d’oro) non solo per sottomettere i propri avversari con la corruzione (benché non si debba prestare
troppa fede al suo acerrimo nemico, il grande retore Demostene di Atene, dacché in realtà il sovrano macedone
conosceva a fondo l’arte della diplomazia), ma anche per creare un efficiente esercito alla luce di nuovi principi
tattici (anche se gli storici ancora discutono se alcune innovazioni non fossero state introdotte prima di Filppo
II). La falange ora aveva una profondità di ben 16 scudi, ma il falangita macedone, al contrario dell’oplita, non
portava corazza, aveva un scudo piccolo, «una rotella di sessanta centimetri appena, che [veniva] appesa di
solito al collo e al braccio sinistro per lasciare entrambe le mani libere di reggere la sarissa»142 (una lancia
lunga da 4 a 7 metri). I falangiti erano comunque parte di un “complesso tattico”, i cui elementi costitutivi,
oltre ai pezeteri (ovvero i falangiti), erano la cavalleria degli eteri (i “compagni del re”), equipaggiati con
corazza, spada e lancia da urto, e un corpo d’élite, gli ipaspisti (armati con spada, scudo e lancia), che, oltre a
coprire il fianco scoperto (cioè quello destro) della falange, avevano la funzione di compiere attacchi rapidi e
risolutivi, rappresentando così il necessario “anello di congiunzione” tra la falange e la cavalleria pesante.
Quest’ultima svolgeva un ruolo ben più importante dei quello solitamente svolto della cavalleria greca e, pur
schierandosi ai lati della falange, adottava la tipica formazione a cuneo (embolon) della cavalleria scita, che le
consentiva di cambiare velocemente direzione143. Inoltre, sia Filippo II che suo figlio Alessandro non esitarono
a reclutare, tra i loro alleati o tra i popoli sconfitti, numerosi contingenti di fanteria leggera o di cavalleria (tra
cui gli ottimi cavalieri tessali). E che cosa potesse fare un tale esercito lo si vide allorché affrontò la falange
greca in campo aperto.
A Cheronea la falange greca, composta da Tebani e Ateniesi, si era schierata tra un fiume e delle alture, di
modo da non presentare il fianco scoperto al nemico. Filippo II però seppe sfruttare magistralmente la maggiore
manovrabilità del suo esercito: attaccò con la falange l’ala sinistra dei Greci, ma fece poi eseguire ai suoi
falangiti una manovra di ripiegamento, che indusse gli Ateniesi, a rompere l’ordine delle proprie file per
lanciarsi all’inseguimento di quello che credevano un nemico in rotta. A questo punto Filippo II diede alla
falange l’ordine di contrattaccare, mentre Alessandro con la cavalleria si incuneò nella breccia che si era aperta
tra Ateniesi e Tebani, completando il successo della falange macedone (un migliaio di Ateniesi perirono e circa
2.000 furono presi prigionieri; analoghe furono le perdite dei Tebani, il cui famoso “battaglione sacro” venne
annientato: caddero 254 uomini su 300 e gli altri vennero feriti)144. La vittoria a Cheronea sanzionò il
dominio macedone sulle poleis greche (tranne Sparta, ormai relegata in una posizione di secondo piano) e pose
le premesse per la successiva campagna di Alessandro contro l’impero persiano145, che era stato indebolito non
poco dalle numerose rivolte (tra cui quella della Fenicia e dell’Egitto), dalle lotte dinastiche e dall’eccessivo
decentramento che aveva favorito i satrapi a scapito del “potere centrale”. Ciononostante, la conquista di un
Ancora prima di distruggere Olinto, Filippo II partecipò alla cosiddetta “Terza guerra sacra” (356-346 a. C.), che era scoppiata perché i Focesi si
erano impadroniti del tesoro di Delfi, con il quale poterono formare un forte esercito. Filippo II, chiamato in aiuto dalla città tessala di Larissa contro i
Focesi, riuscì a sconfiggerli, sia pure non senza difficoltà. Tuttavia, dato che Filippo II si era spinto verso la Grecia centrale, Atene (la cui politica allora
era fortemente influenzata da Eubulo, oculato amministratore delle finanze della polis attica e propenso a non usare il denaro pubblico per imprese
militari ma che non poteva tollerare una simile azione da parte dei Macedoni), non esitò ad inviare un esercito alle Termopili per sbarrargli la strada.
Ma il re macedone preferì ritirarsi ed evitare un confronto militare per cui non era ancora pronto. Intanto, però, la sconfitta dei Focesi aveva fruttato a
Filippo II il dominio sull’interaTessaglia e con la fine della “Terza guerra sacra” i Macedoni poterono sostituire i Focesi nel consiglio dell’Anfizonia
che amministrava il tempio di Apollo.
142
G. Brizzi, Il guerriero e il soldato: le linee del mutamento dall’età eroica dell’Ellade alla rivoluzione militare dell’Occidente, in M. Sordi (a cura
di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Vita e Pensiero, Milano, 2002, p. 97.
143
Vedi N. Sekunda, The Macedonian Army, in J. Roisman, I. Worthington (a cura di), A Companion to Ancient Macedonian, Wiley-Blackwell,
Chichester, 2010, p. 451.
144
Vedi J. Warry, Warfare in the Classical World, University of Oklaoma Press, Norman, 2004, pp. 68-69.
141
La sottomissione della Tracia e la “pacificazione” della Grecia (con l’istituzione della Lega di Corinto che riconobbe il sovrano macedone come
suo hegemon) avevano reso possibile a Filippo II pianificare l’attacco all’impero persiano, ma non è escluso che, a differenza di suo figlio Alessandro,
egli mirasse unicamente a “liberare” le città greche dell’Asia Minore.
145
54
impero così vasto non era un’impresa facile, anche perché il re persiano, Dario III, poteva ancora contare sui
numerosi sudditi dell’impero, oltre che su ingenti mezzi e cospicue risorse finanziarie.
Scomparso il padre, caduto sotto i colpi di un pugnale omicida nel 336 a. C., Alessandro eliminò i possibili
rivali e fu acclamato re dall’assemblea dell’esercito. Il nuovo sovrano si mise subito in luce con alcune
strepitose vittorie che resero più sicuri i confini settentrionali dello Stato (regionale) macedone, ma i Greci ne
approfittarono per ribellarsi, convinti che l’esercito macedone non potesse intervenire celermente, impegnato
com’era nel lontano nord. Invece, Alessandro calò come un fulmine dalla regione degli Illiri sulla Beozia,
distruggendo Tebe, che fu presa d’assalto dai pezeteri dopo solo tre giorni. Ad Atene, risparmiata per il suo
illustre passato e la sua grandezza spirituale, non rimase che chinare la testa, mentre Alessandro si accingeva
a varcare il confine tra l’Europa e l’Asia146. Il giovane re macedone passato l’Ellesponto nel 334 a. C., con
160 navi greche, 5.100 cavalieri e 32.000 fanti, di cui probabilmente 12.000 Macedoni147, sconfisse i Persiani
sul Granico148 e ad Isso (ove i due eserciti combatterono a fronti invertiti dato che Alessandro si era mosso
così rapidamente da trovarsi alle spalle del re persiano)149, ma, anziché puntare subito verso l’interno,
saggiamente preferì conquistare prima le regioni della costa siriana, onde poi poter marciare verso oriente
senza preoccuparsi eccessivamente delle proprie retrovie. Le città fenicie non opposero resistenza, tranne Tiro
che non aveva alcuna intenzione di cedere e oppose una fortissima resistenza. L’esercito macedone, oltre ad
avere catapulte, arieti e torri mobili, disponeva di parecchi e capaci muratori e genieri, e poteva avvalersi
dell’opera di topografi, architetti, ingegneri, nonché dell’ingegno di esperti e studiosi di ogni genere150. Eppure,
conquistare Tiro richiese un impegno straordinario e una lotta asperrima. Tiro, infatti, sorgeva su un’isola poco
distante dalla costa e aveva fortificazioni imponenti, tanto che le mura in certi punti erano alte diverse decine
di metri. I Macedoni, benché potessero contare anche su 200 navi fenicie, dovevano bloccare i due porti della
città e respingere i contrattacchi dei Tiri che non si davano per vinti. Solo quando fu aperta una breccia in un
punto debole delle fortificazioni, fu possibile sbarcare un contingente macedone sull’isola e lanciare l’assalto
finale con gli ipaspisti e un reparto della falange. Così Tiro cadde solo dopo circa sette mesi d’assedio e i
vincitori trattarono duramente i difensori della città (che però non avevano avuto pietà dei prigionieri
macedoni), uccidendone 8.000 e vendendone come schiavi 30.000. Presa Tiro e vinta dopo un altro duro
assedio anche Gaza, per Alessandro non fu un problema sottomettere l’Egitto. E con questa conquista si
aprivano al re macedone anche le porte dell’Asia.
Dario III però non aveva perso tempo e aveva messo insieme un potente esercito, che comprendeva oltre
200.000 uomini e un centinaio di carri da guerra, con cui sperava di arrestare l’avanzata dell’esercito macedone
(poco meno di 50.000 uomini). Ad Arbela (o Gaugamela) avvenne la battaglia decisiva nel 331 a. C.
Alessandro aveva, come al solito, schierato la fanteria al centro e la cavalleria ai lati (altrettanto fecero i
Persiani, che avevano collocato i carri da guerra davanti alla fanteria), ma temendo che l’esercito nemico
potesse aggirare quello macedone (assai meno numeroso di quello del re persiano), Alessandro decise di
adottare una nuova tattica, facendo assumere al proprio esercito una formazione “a ventaglio”. Nondimeno,
l’ala destra persiana riuscì a mettere in seria difficoltà la sinistra macedone, mentre al centro i disciplinati
falangiti aprirono rapidamente i propri ranghi, lasciando passare i carri falcati, lanciati al galoppo troppo presto
da Dario III, senza che recassero alcun danno al nemico. Serrate nuovamente le file la falange macedone passò
al contrattacco. Quando l’ala sinistra e il centro persiano si accorsero che Dario III aveva abbandonato il campo
di battaglia, si sbandarono e si diedero alla fuga, ma poiché l’ala destra persiana continuava ad attaccare,
146
Atene si sarebbe ribellata alla Macedonia dopo la morte di Alessandro (guerra lamiaca) ma venne sconfitta e i Macedoni abbatterono la democrazia
ateniese (322 a. C.), anche se in seguito venne ripristinata e conobbe alterne vicende.
147
Vedi P. Connolly, Greece and Rome at War, Greenhill Books, Londra, 1998, p. 70 e D. Musti, op. cit., pp. 455-456. Secondo altre fontil’esercito di
Alessandro comprendeva circa 48.100 fanti, 6.100 cavalieri e 120 navi da guerra (vedi D. L. Gilley, I. Worthington, Alexander the Great, Macedonia
and Asia, in J. Roisman, I. Worthington (a cura di), op. cit., p. 192).
148
Esistono due versioni di questa battaglia, ma è sicuro che la cavalleria macedone, dopo aspra lotta, mise in fuga quella persiana, dopodiché i
Macedoni attaccarono il campo persiano e circondarono i mercenari greci al servizio della Persia. Molti di questi Greci perirono e circa 2.000 furono
presi prigionieri (vedi. R. Lane Fox, Alessandro Magno, Einaudi, Torino, 1981, 120-121). Si rammenti comunque che nell’esercito di Alessandro
svolgeva un ruolo rilevante anche la cavalleria leggera (i cosiddetti “prodromoi”) in compiti di ricognizione e come “forza mobile avanzata”. Alessandro
la impiegò con successo non solo nella battaglia di Granico ma anche ad Isso e a Gaugamela. Sembra però che i prodromoi di Alessandro non fossero
armati con giavellotti ma con la sarissa (vedi G. R. Bugh, Hellenistic Military Devolopments, in Idem (a cura di), The Cambridge Companion to the
Hellenestic World, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, p. 273).
149
Anche ad Isso enormi furono le perdite persiane: furono uccisi o catturati circa 100.000 soldati con 10.000 cavalieri persiani (W. Heckel, The Wars
of Alexander the Great, Osprey, Oxford, 2001, p. 26; dello stesso autore vedi anche The Conquests of Alexander the Great, Cambridge University Press,
Cambridge, 2008).
150
Nel IV secolo a. C. si costruirono macchine d’assedio ingegnose che obbbligarono a cambiare le tattiche difensive. In particolare la più potente
arma da getto in questo periodo era la catapulta a torsione, usata forse per la prima volta per lanciare frecce da Filippo II durante l’assedio di Perinto,
mentre Alessandro dovette usare per la prima volta questo tipo di catapulte per lanciare pietre durante l’assedio di Tiro. Invero, in epoca ellenistica si
idearono diverse nuove armi, tra cui delle balestre a ripetizione, ma non si sa se siano mai state usate.
55
Alessandro attraversò l’intero campo di battaglia alla testa degli eteri, com’era nel suo stile, per portare
soccorso agli uomini di Parmenione. Poco più di 1.000 furono le perdite dei Macedoni contro gli oltre 50.000
caduti tra i Persiani. Ancora una volta (come a Maratona o ad Isso) le perizia tattica e la disciplina permisero
di infliggere perdite terribili ai vinti, di gran lunga superiori a quelle dei vincitori.
Terminata la battaglia, Alessandro si lanciò all’inseguimento del re persiano, arrivando fino a Ecatompilo,
ove i Persiani si arresero al condottiero macedone dopo aver loro stessi messo fine alla vita di Dario III. Eppure,
neanche adesso che era diventato il signore assoluto dell’impero persiano e si era impadronito di immense
ricchezze, la sete di conquista di Alessandro si era spenta. Il re macedone, decise di spingersi ancora verso
oriente, nella Battriana e nella Sogdiana. Sicché, mentre i suoi uomini dovevano anche affrontare i cavalieri
delle steppe, le sue linee di comunicazione si allungavano sempre più, costringendolo a lasciare diverse
guarnigioni a presidiare le retrovie. Alessandro comunque non si diede per vinto, arruolò degli arcieri locali,
superò ogni ostacolo e si diresse più ad est, verso la “favolosa” India. Qui, nei pressi del fiume Idaspe, dovette
combattere contro il forte esercito del re Poro, che oltre a 50.000 uomini (più o meno quanti erano quelli di cui
disponeva Alessandro), schierava addirittura 200 elefanti da guerra. Alessandro, superato il fiume senza che
Poro se ne accorgesse, sferrò una attacco di sorpresa e aggirò l’esercito nemico con la cavalleria, mentre la
falange respingeva gli elefanti, che indietreggiarono portando lo scompiglio nelle file indiane. Vinto anche
Poro, Alessandro, persuaso che l’Indo fosse un ramo superiore del Nilo, volle proseguire, ma arrivati presso il
fiume Ifasi (l’odierno Bias) i Macedoni erano giunti pure all’estremo limite delle proprie forze. I «conquistatori
del mondo coperti degli stracci del bottino barbarico e indiano miseramente rattoppati» (Diodoro, 17, 94, 2) si
rifiutarono di procedere oltre. Alessandro dovette rassegnarsi a tornare indietro, anche se nella terribile marcia
sulle coste della Persia, morirono parecchi dei suoi uomini, rimasti a corto di viveri e di acqua. Giunto a
Babilonia, Alessandro si accinse in primo luogo a mettere ordine nell’amministrazione dell’impero, ma, mentre
già preparava una nuova spedizione in Arabia, si ammalò di febbre malarica. Si spense così nel 323 a C., alla
giovane età di 33 anni, senza aver perso mai una battaglia.
Allorquando aveva attraversato l’Ellesponto Alessandro era perfettamente consapevole che per dominare
uno spazio così grande e popoli così numerosi e diversi come quelli che si accingeva a sottomettere non
erano sufficienti i suoi valorosi ma pochi e rozzi Macedoni, bensì doveva fare affidamento sui Greci, e
soprattutto sulla cultura greca. Già Filippo II si era reso conto di questo, tanto che aveva scelto il greco attico
come lingua della sua corte a Pella. L’ideale panellenico di conseguenza né per Filippo II né per Alessandro
era mera retorica o semplice propaganda. La fondazione di numerose città - che avrebbero contribuito alla
diffusione della lingua greca dal Mediterraneo all’India (la cosiddetta “koinè”, ossia la lingua greca scritta e
parlata, che si sarebbe imposta come la lingua di parecchi “non Greci”) - aveva indubbiamente anche un preciso
significato politico- strategico. Nel corso della sua campagna in Asia però la mente del re macedone aveva
maturato un disegno assai più ampio e ben più ambizioso, pur considerando ancora la cultura greca un
“veicolo” di penetrazione strategica essenziale. Dopo avere sposato Rossane, figlia di un signore della
Sogdiana, egli prese in moglie una figlia di Dario III, Statir, e una figlia di Artaserse, Ochos. Ma impose anche
ai Macedoni di sposare le donne della Battriana che li accompagnavano. Inoltre, con 30.000 uomini di questa
regione formò una nuova falange, addestrata a combattere come i Macedoni. Alessandro pensava così di dar
vita ad un impero che unisse l’Occidente e l’Oriente, e in cui Macedoni, Greci, Persiani e una miriade di altri
popoli potessero convivere. Ma per questo non era certo sufficiente un “collante ideologico” condiviso solo da
una élite e un sistema di relazioni di parentela, che in realtà né i Greci né i Macedoni apprezzavano. Né i suoi
uomini condividevano quella “fusione di orizzonti spirituali” che Alessandro, sempre più simile ad un re
“orientale”, riteneva di dover perseguire ad ogni costo. Gli è che non vi erano le condizioni storiche perché la
“prospettiva imperiale” di Alessandro, per quanto grandiosa possa apparire ai nostri occhi, potesse aver
successo. Perché ciò accadesse, erano necessarie istituzioni politiche e militari che potessero sopravvivere ad
Alessandro, mentre il vero “collante” che teneva unito il suo impero era il suo straordinario carisma e la sua
personalità fuori del comune. Scomparso lui, non poteva non scomparire pure il suo impero151.
Il sistema di Stati ellenistici che si delineò nel corso della lotta tra i diadochi (i successori di Alessandro)
Riguardo alla questione dell’unità culturale dell’area mediterranea in quest’epoca, si deve tener conto che la koiné non agì mai come un fattore
politico unificante, anche se l’età ellenistica si configurava come un’età con una sua precisa fisionomia. Anzi, l’interesse per la condizione del singolo
individuo, la nascita della filologia, la fioritura di una poesia erudita, nonché di una ricca poesia popolare e il notevole sviluppo delle scienze della
natura sono alcuni dei tratti caratteristici di questo periodo, che per molti studiosi riveste un interesse perfino maggiore di quello che suscita l’età greca
“classica”. Ma si deve considerare che l’individualismo o il “cosmopolitismo” tipici di quest’epoca sono ben lontani dalla concezione dell’individuo o
della natura dei moderni. Per l’epicureismo l’individuo deve ricercare un equilibrio interiore “catastematico” (ovvero stabile), in una comunità di amici,
lontano dagli affanni e dalle passioni del mondo, mentre il cosmopolitismo degli stoici è basato su un’idea forte di “cosmo”, inteso cioè come ordine
divino del mondo. Né si deve trascurare che anche nell’epoca ellenistica prevaleva una concezione contemplativa della natura, ben diversa dunque dalla
concezione della natura che contraddistingue la modernità.
151
56
oltre a comprendere diversi piccoli regni, numerose “città Stato” e alcune leghe, vide emergere tre grandi
potenze: la Macedonia, l’impero seleucide e l’Egitto dei Tolomei. E ciascuna di esse cercava naturalmente di
diventare la potenza egemone. Le ambizioni di Antigono Monoftalmo e di suo figlio Demetrio Poliorcete
(chiamato così per il suo lungo e vano assedio di Rodi) furono frustrate da Seleuco (301 a. C.) presso Isso nella
Frigia Maggiore. Demetrio si era spinto fino in Tessaglia con 56.000 soldati e 1.500 cavalieri contro Cassandro
che aveva il dominio della Macedonia. Cassandro, che disponeva di 29.000 uomini e 2.000 cavalieri, anziché
accettare battaglia, strinse un’allenza con Seleuco e Lisimaco (cui era toccata la tracia). Lismaco allora invase
la penisola anatolica (ove fu raggiunto da Seleuco), costringendo Demetrio a ritirarsi dalla Tessaglia per unirsi
al padre in Asia Minore. Ad Isso, anche se le forze dei due eserciti erano quasi uguali, Seleuco arrivò a schierare
ben 400 elefanti (ma secondo Diodoro erano addirittura 480) contro i 75 di Antigono e suo figlio. E in questa
occasione gli elefanti giocarono un ruolo determinante, bloccando la cavalleria di Demetrio, vittoriosa sul lato
destro dello schieramento macedone, mentre al centro la fanteria di Seleuco aveva nettamente la meglio contro
quella di Antigono. Tuttavia, dopo la scomparsa di Cassandro, l’attenzione di Demetrio si rivolse di nuovo alla
Macedonia, ma dovette ritirarsi essendo attaccato (da ovest) da Pirro, re dell’Epiro, e (da est) da Lisimaco, i
quali si spartirono la Macedonia. In seguito Lisimaco riuscì ad impadronirsi dell’intero Paese, ma nel 281 a.
C. venne sconfitto da Seleuco nella battaglia di Corupedio. Seleuco però venne assassinato da Tolomeo
Cerauno, che fu proclamato re della Macedonia. Il suo regno fu comunque di breve durata, perché anch’egli
perse la vita durante l’invasione dei Galli. Della situazione che si creò approfittò Antigono Gonata, figlio di
Demetrio Poliorcete, che debellò un gruppo di Galli in Tracia, anche se dovette poi vedersela contro Pirro, di
ritorno dall’Italia. Pirro con i suoi mercenari di origine celtica riuscì ad infliggere una cocente sconfitta al
sovrano macedone e poi si spinse fin nel Peloponneso. Il suo tentativo di prendere Sparta però fallì e in seguito
trovò la morte in battaglia presso Argo. Antigono Gonata poté allora consolidare il suo regno sulla Grecia e
riorganizzare anche lo Stato macedone, dividendolo in distretti (merides), ciascuno sotto un governatore
(epistates), mentre nell’alta Macedonia fece costruire una serie di strade e di fortificazioni per tenere a bada
gli Illiri152.
D’altro canto, anche i Greci, che mai avevano accettato di essere sottomessi ai Macedoni, dovevano essere
tenuti d’occhio costantemente. Vero che ormai il ruolo di Atene era marginale, ma nel frattempo la lega etolica
e quella achea avevano acquisito importanza153. Alla morte di Demetrio II (figlio di Antigono Gonata), che era
riuscito a sconfiggere gli Etoli impiegando dei mercenari di una tribù dell’Illiria, la situazione del regno
macedone non era certo delle migliori, ma Antigono Dosone riuscì a scacciare dal Paese gli Illiri e a
sconfiggere di nuovo gli Etoli. Poi si alleò con la lega achea che a sua volta doveva guardarsi da Sparta, che
non si era mai rassegnata ad avere un ruolo di secondo piano, sebbene già nel 331 a. C. presso Megalopoli,
40.000 Macedoni comandati da Antipatro, avessero sbaragliato un esercito di circa 22.000 Spartani (Sparta
infatti non aveva accettato di entrare nella Lega di Corinto). La città greca però seppe riprendersi, tanto che,
nel 222 a. C., Cleomene III ritenne che l’esercito spartano fosse pronto per sfidare ancora una volta l’esercito
macedone. Cleomene infatti era riuscito laddove aveva fallito il suo predecessore (Agide IV la cui vedova
aveva sposato Cleomene), ovverosia aveva realizzato una radicale riforma del kosmos portando il numero degli
spartiati a 4.000, grazie alla concessione della piena cittadinanza a numerosi perieci. Ma a Sellasia, nella
Laconia settentrionale, 20.000 Spartani furono nuovamente battuti da un esercito macedone di 29.200 uomini
(i soldati macedoni, secondo Polibio, erano solo 13.300 mentre i restanti 15.900 erano mercenari o alleati), che
pose così definitivamente termine ai “sogni di gloria” di quella che una volta era stata la più forte polis della
Grecia. L’anno seguente Antigono Dosone inflisse una decisiva sconfitta agli Illiri, che avevano invaso la Macedonia
approfittando del fatto che l’esercito macedone era impegnato nel Peloponneso. Queste vittorie sono tanto più
significative considerando che nel corso degli anni la popolazione della Macedonia si era notevolmente ridotta,
perlomeno a giudicare dal numero dei soldati macedoni, anche se il Paese poteva contare su una discreta ricchezza,
derivante dalle miniere, dal commercio di legname (utile soprattutto per costruire navi, che in epoca ellenistica erano
assai grandi) e dall’esportazione di prodotti della terra (in specie vino e grano).
Notevole interesse comunque presenta, per il nostro argomento, anche l’Egitto dei Tolomei. Il fatto che in
questo periodo in Egitto i Greci costituissero gran parte dello strato sociale dominante e lo Stato avesse un
ruolo propulsivo per quanto concerne l’attività economica non è di per sé sorprendente. Quel che invece rileva
152
Vedi W. L. Adams, Alexander’s Successors to 221 BC, in J. Roisman, I. Worthington (a cura di), op. cit., pp. 208-224.
153
Atene nel 268 a. C., istigata da Tolomeo II, si era comunque sollevata contro la Macedonia (dato che a Munichia, nel Pireo, vi era una guranigione
macedone), facendo causa comune con il “partito antimacedone” guidato da Sparta, il cui esercito venne però sconfitto presso Corinto nel 265 a. C.
Antigono Gonata allora, posto l’assedio ad Atene, affrontò e sconfisse la flotta di Tolomeo presso Cos, costringendo di conseguenza Atene ad accettare
delle dure condizioni di resa (questo conflitto è noto come guerra cremonidea, dal nome di Cremonide, capo del “partito democratico” di Atene).
57
è che l’Egitto era una sorta di grande aziendale statale e che la politica dei Tolomei si configurava come una
vera e propria politica mercantilistica. Le importazioni erano scoraggiate, tranne per le merci necessarie alla
manifattura egiziana (i Tolomei non esitarono a occupare alcune regioni della Nubia e Cipro per disporre di
materie prime di cui il Paese era privo), mentre le esportazioni erano favorite in ogni modo, anche mediante la
costruzione di canali e piste carovaniere che collegavano la regione del Nilo a quella sul Mar Rosso, ove
sorgevano diverse stazioni commerciali (queste iniziative, tra l’altro, furono alla base di un notevole sviluppo
del commercio via mare con l’India, in specie nel I secolo a. C.). In particolare, l’Egitto esportava grano in
cambio di argento, legno e altre materie prime154. Lo Stato inoltre aveva il monopolio di parecchi prodotti e i
Tolomei assegnavano grandi appezzamenti di terra ad alti dignitari, mentre ai contadini si dava una determinata
quantità di semente, dato che lo Stato stabiliva quanto grano doveva essere prodotto.155. In tal modo l’intera
vita economica era regolata dallo Stato che attraverso un sistema di dazi e un regime fiscale efficiente ma assai
oneroso poteva contare su entrate cospicue, che naturalmente permettevano ai Tolomei di accrescere la potenza
dello Stato (in realtà quella del re e di un ristretto gruppo dominante). Le condizioni economiche del Paese
consentivano ai Tolomei di disporre non solo di un forte esercito ma anche e soprattutto di una forte flotta per
controllare i traffici nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, grazie anche all’alleanza con Rodi (che non avrebbe
potuto resistere all’assedio di Demetrio Poliorcete senza l’aiuto dei Tolomei), un’isola che si trovava al centro
di una rete commerciale che si estendeva dalla Sicilia fino al Mar Nero, attraverso Bisanzio. L’esercito dei
Tolomei era composto da professionisti/mercenari (una caratteristica del mondo ellenistico), e lo Stato aveva
assegnato degli appezzamenti di terra (kleroi) ad immigrati greci (kleruchoi) in cambio del servizio militare.
Tuttavia, allorché la continua rivalità con i Seleucidi per la vitale regione siro-palestinese portò alla battaglia
di Rafia (217 a. C.), Tolomeo IV, a corto di uomini, dovette schierare una falange di nativi egiziani. Gli elefanti
indiani dell’esercito seleucide sconfissero gli elefanti africani, ma sulla destra e al centro l’esercito di Tolomeo
ebbe nettamente la meglio contro gli avversari, grazie anche all’ottima prova della falange egiziana. Dopo la
guerra (nota come “quarta guerra siriana”) vennero assegnati degli appezzamenti di terra anche alla fanteria
egizana156. Comunque queste truppe, com’era prevedibile, non erano più disposte a chinare la testa senza
ribellarsi alla prepotenza dei funzionari dello Stato egiziano, e provocarono sommosse e rivolte. Secondo
Toynbee, i contadini egiziani ora «scoprirono il modo di eludere le estorsioni del governo con la tattica della
“non- cooperazione non-violenta” rifugiandosi nei recinti dei templi o nel deserto, dove il potere dell’esattore
d’imposte o del sovrintendente non poteva raggiungerli»157. I Seleucidi, che pure avevano visto ridursi la loro
sfera d’azione in Asia Minore ove il regno di Pergamo si era notevolmente rafforzato, seppero allora
approfittare della debolezza dell’Egitto che dovette cedere ad Antioco III la regione siro-palestinese. Le
continue guerre tra gli Stati ellenistici avevano però “aperto la strada” non solo ai Parti, ma ad una nuova e
assai più pericolosa potenza.
La “res publica” romana. Tra i fattori dello straordinario successo di Roma vi fu senza dubbio anche il
particolare carattere dell’“uomo romano”. Le tre funzioni che, secondo Georges Dumezil, contraddistinguono
l’ideologia degli indoeuropei (in ordine gerarchico: quella magico-giuridica o politico-spirituale, quella
militare e quella produttiva) erano a fondamento anche della “tradizione romana”158. Tuttavia, per i Romani,
popolo di giuristi e militari, alieni da divagazioni “pseudometafisiche” e dotati di “spirito pratico” (nel senso
più alto e migliore del termine), la questione della verità era essenzialmente quella della veridicità. Quell’idea
di “giusta misura” che caratterizza la cultura dei Greci, non era per i Romani solo una concezione filosofica (più
o meno “astratta”), bensì una norma d’azione e una regola di vita. In particolare, i Romani erano consapevoli
della funzione “equilibratrice e orientante” della politica, di modo che l’etica pubblica e le virtù civiche erano
i tratti salienti della “res publica”, al punto che i Romani erano ancora più forti e determinati nelle avversità.
Anche la posizione geografica comunque svolse un ruolo importante nell’ascesa di Roma. Situata sulle rive
del Tevere, a poca distanza dal mare, Roma si trovava proprio nel centro della penisola italiana, tra le terre
abitate dagli Etruschi, a nord, e la Magna Grecia, a sud. La mancanza di unità politica tra le diverse città
etrusche permise a Roma di sconfiggerle ad una ad una, mentre i Greci d’occidente non erano esenti dal
principale difetto politico dei Greci della madrepatria, quello cioè di azzuffarsi continuamente tra di loro.
154
Vedi W. L. Adams, Hellenistic Economies, in G. R. Bugh (a cura di), op. cit., p. 82.
155
Vedi C. G. Starr, op. cit., p. 414.
156
Vedi D. J. Thompson, The Ptolemies and Egypt, in A. Erskine (a cura di), A Companion to the Hellenistic World, Blackwell, Oxford etc., 2005, p.
109.
157
A. J. Toynbee, Il mondo ellenico, Einaudi, Torino, 1967, p. 174.
158
Vedi G. Dumézil, L’ideologia tripartita degli indoeuropei, Il Cerchio, Rimini, 2003.
58
Siracusa, in effetti, sotto la signoria di Dionigi e in seguito sotto quella di Agatocle, avrebbe avuto la forza per
costituire un vasto e potente impero al centro del Mediterraneo, ma i Sicelioti erano disposti a riconoscere la
supremazia della grande città siciliana solo se minacciati da un grave pericolo, come lo poteva essere
un’invasione cartaginese, ma appena il pericolo era cessato il desidero di riguadagnare autonomia e
indipendenza politica aveva la meglio su qualunque altra considerazione. Soprattutto fu però la capacità di non
adattarsi passivamente alle circostanze, ma di saperle adattare alle proprie caratteristiche e ai propri scopi (pur
non impiegando “schemi concettuali” rigidi e dogmatici, ma flessibili e “aperti” agli insegnamenti
dell’esperienza), che permise a Roma di imporsi sui popoli circostanti.
Forse nulla più dell’istituto della cittadinanza dimostra come Roma fosse in grado di rispettare le differenze
culturali integrandole in una prospettiva politica “superiore” che tutti (in linea di principio) potevano
condividere. I cittadini dell’ager romanus (il territorio vero e proprio dello Stato romano, che nella prima fase della
storia della repubblica era di circa 25.000 kmq) erano divisi in due categorie: quelli che godevano di pieni
diritti e coloro che godevano solo di diritti civili. Questi ultimi abitavano in municipi, che erano autonomi, o
in prefetture, che erano governate da prefetti inviati da Roma. I territori degli alleati e dei socii erano assai più
estesi. Gli abitanti di questa zona non erano cittadini romani, ma avevano amministrazioni autonome, anche
se dovevano fornire contingenti militari a Roma, che ovviamente si riservava la conduzione della politica
estera. Alle città alleate più fedeli o che si distinguevano sotto l’aspetto militare, Roma accordava il diritto
latino che grosso modo garantiva lo stesso trattamento giuridico riservato ai cittadini romani che godevano
solo di diritti civili. Numerose erano pure le colonie militari romane che, contrariamente a quelle greche, erano
legate indissolubilmente a Roma e i cui abitanti erano a tutti gli effetti cittadini romani di pieno diritto (vi erano
però anche colonie militari latine per le quali, com’è logico, valeva solo il diritto latino). Un tale modo di agire
flessibile ma non affatto debole, che portò Roma ad organizzare le terre conquistate secondo un “sistema di
premi e punizioni” che favoriva gli alleati più fedeli e meritevoli (certo dal punto di vista di Roma), caratterizzò
anche la prima fase della vita politica della repubblica, che pure dovette passare attraverso la difficile
esperienza delle lotte tra patrizi e plebei. Gradatamente ai plebei si aprirono le porte della carriera politica,
tanto che poterono accedere al consolato allorché (all’inizio del IV secolo a. C.) fu stabilito che uno dei due
consoli (che duravano in carica dodici mesi) dovesse essere scelto tra la plebe. E nel 287/6 a. C. alle decisioni
prese nei concilia plebis tributa (cui partecipavano solo i plebei) fu riconosciuto valore di legge. Notevole
importanza acquisirono pure le deliberazioni prese nei comitia populi tributa (cui partecipavano anche i
patrizi). I cittadini romani erano divisi in tribù e ad ogni tribù (nel 241 a. C. divennero 35, di cui ben 31 rurali,
nonostante il numero notevole di cittadini che risiedevano a Roma) era assegnato un solo voto. Tuttavia,
benché i patrizi potessero più facilmente condizionare il voto delle tribù rurali, si ritiene che in specie nell’età
della tarda repubblica queste assemblee (che erano presiedute da un console o da un pretore) rappresentassero
per il gruppo dominante un ostacolo maggiore dei comitia centuriata159.
D’altra parte, è innegabile che in questo periodo il senato, di cui potevano far parte solo i patrizi, accrebbe
la propria autorità e le proprie funzioni (anche i senatus consulta avevano valore di legge) e che i patrizi, grazie
alle maggiori risorse di cui potevano disporre, e ai loro numerosi clientes, riuscivano quasi sempre ad imporre
la propria volontà, di modo che detenevano il reale controllo della repubblica. In ogni caso, l’istituzione dei
tribuni della plebe (che venivano eletti dai concilia plebis tributa e potevano opporsi a qualsiasi decisione di
un magistrato romano) contribuì ad evitare che la lotta tra plebei e patrizi degenerasse in aperta guerra civile.
Tipica della concezione politica dei Romani era pure la magistratura della “dittatura commissaria”. Il
“dittatore” non poteva restare in carica per più di sei mesi ed era eletto in circostanze eccezionali, allorquando
cioè la patria era in grave pericolo (è palese che i Romani cercarono con tale magistratura di porre rimedio alla
mancanza di unità nell’azione di comando, mancanza che derivava dalla presenza di due consoli e che spesso
fu causa di gravi inconvenienti). Anche il cursus honorum, che prevedeva che la carriera politica si dovesse
cominciare dal gradino più basso (cioè dalla questura), per salire poi gradatamente fino al consolato, riflette
assai bene la particolare concezione politica dei Romani.
Dove meglio si espresse però il particolare “genio” di Roma fu, senza ombra di dubbio, l’esercito. L’obbligo
di prestare servizio militare riguardava tutti i cittadini (da 17/18 anni a 46 anni). Nei primi tempi della
repubblica (istituita nel 509 a. C.) particolare rilievo avevano i comizi centuriati, che secondo la tradizione
furono istituiti da Servio Tullio (578-534 a. C.) e in cui tutta la cittadinanza romana era divisa, in base al censo,
in cinque classi. Oltre a queste classi, ve ne erano altre due: una superiore, che comprendeva i più ricchi, detti
equites, dato che erano gli unici a poter permettersi di militare nella cavalleria, e una inferiore, i proletari, ossia
159
Vedi J. A. North, The Constitution of the Roman Republic, in N. Rosenstein, R. Morstein-Marx (a cura di), A Companion to the Roman Republic,
Blackwell, Oxford, etc., 2006, pp. 262-263.
59
i “nullatenenti” che di fatto erano dispensati dal servizio militare. Ogni classe era suddivisa in diverse centurie
(ciascuna delle quali aveva appunto il compito di fornire 100 soldati). La prima classe (cittadini con reddito
superiore a 100.000 assi) comprendeva 80 centurie (40 juniores e 40 seniores ovvero cittadini con più di 46
anni) contro le 95 delle altre classi, benché queste fossero ben più numerose. A ciascuna centuria era assegnato
un solo voto, di modo che si trattava di un ordinamento basato più sul censo che sul numero, ovvero di tipo
timocratico. Di fatto la prima classe con i cavalieri (18 centurie) aveva la maggioranza dei voti (98 centurie su
193). Peraltro, si ritiene che i comizi centuriati siano stati istituiti in concomitanza con l’adozione da parte di
Roma di armi e tattiche degli opliti, che erano ampiamente diffuse non solo nella Magna Grecia ma anche tra
gli Etruschi, di modo che è possibile che lo scopo dei comizi centuriati in origine fosse essenzialmente di
carattere militare160. Invero, dopo un periodo in cui le famiglie patrizie, come quella dei Fabi, verosimilmente
dovevano condurre in battaglia una moltitudine di loro clients, l’esercito romano non doveva essere dissimile,
per tattica ed equipaggiamento, dalla falange greca e si componeva di due legioni che si schieravano in battaglia
a seconda del censo. Ma con il passare del tempo non solo si accrebbe il numero delle legioni (pare che già
alla fine del IV secolo a. C. fossero quattro, due per ogni console, cui spettava il comando dell’esercito,
coadiuvato dai tribuni militum; sicché vi erano due eserciti consolari, ciascuno formato da due legioni e due
alae alleate, più o meno della stessa forza delle legioni, ed erano denominate così poiché si schieravano ai
fianchi delle legioni); ma cambiò pure l’organizzazione dell’esercito, anche sotto la spinta delle guerre che
videro Roma affermarsi sulle popolazioni vicine, ma anche subire una rovinosa sconfitta sul fiume Allia, che
consentì ai Galli (nel 390 o 387 a. C.) di mettere a sacco Roma stessa. Comunque, nel IV secolo a. C. il
precedente sistema di allenze multilaterali venne sostituito da allenze bilaterali che sancivano l’egemonia di
Roma. La sfera di influenza e il territorio di Roma crebbero così dapprima lentamente e poi sempre più
rapidamente aprendo la strada a nuove conquiste. In questo periodo si venne quindi a delineare, sia pur
gradatamente, quella legione manipolare che sarebbe stata l’istituzione militare fondamentale di Roma fino
alla riforma di Mario161. Al tempo delle guerre puniche la legione manipolare era disposta a scacchiera su tre
linee ed era composta da 30 manipoli. I manipoli delle prime due linee comprendevano 120 soldati ciascuno,
mentre quelli della terza ne comprendevano 60 ciascuno.
Lo schieramento a scacchiera era tale che i manipoli della seconda linea coprivano gli intervalli tra quelli
della prima linea, mentre i manipoli della terza linea coprivano gli intervalli tra quelli della seconda. Pertanto,
a seconda delle diverse circostanze, la legione poteva mutare facilmente formazione (ad esempio, la prima e
la seconda linea potevano formare un’unica linea oppure l’intera legione poteva assumere la formazione tipica
della falange). Nella prima linea si trovavano i più giovani e meno esperti (gli hastati), nella seconda i più
maturi ed esperti (i principes) e nell’ultima i veterani (i triari), che intervenivano solo quando la situazione era
particolarmente “critica”. La legione comprendeva anche reparti di fanteria leggera (i velites, reclutati in base
al censo, ossia tra i proletari) e squadroni di cavalleria (invero il “punto debole” della legione, non essendo
nemmeno l’Italia adatta all’allevamento di una numerosa e forte razza equina). La fanteria pesante indossava
un elmo di metallo e un pettorale, ed era armata con il pilum (un giavellotto) - tranne i triari che avevano una
lancia (in seguito sostituita dal giavellotto) -, con il gladio, una spada a doppio filo, e con uno scudo di legno
e di cuoio, che aveva i bordi (superiore e inferiore) di ferro e al centro un umbone. Ciascuna legione, nel
periodo intermedio della repubblica, contava 300 cavalieri e 4.200 fanti. Ai fianchi dell’esercito romano si
schieravano gli alleati, i cavalieri inquadrati in turmae e i fanti in coorti. Vi era inoltre un preciso “sistema di
premi e punizioni”, per ricompensare i soldati valorosi (bracciali, somme di denaro, corone e così via) o per
punire chi si comportava vilmente (la “decimazione” era appunto una terribile punizione collettiva). Noto è
pure che l’esercito romano doveva allestire un accampamento (il castrum) quando sostava e che i legionari, se
non erano impegnati in combattimento, dovevano compiere lunghe marce, eseguire esercizi ginnici o compiere
diversi lavori utili. Il legionario inoltre, pur essendo parte di un “tutto organico”, era addestrato a combattere
anche singolarmente con il giavellotto e il gladio, non dovendo preoccuparsi di coprire il fianco scoperto. La
carica di una falange in campo aperto era certo temibile, ma se veniva aggredita sul fianco, come accadde a
Cinocefale nel 197 a. C., o se doveva combattare su un terreno rotto, come a Pidna nel 168 a. C. era perduta
Finché combatteva con la sarissa il nemico che gli stava davanti, il falangita era relativamente protetto, ma se
doveva difendersi con il suo corto “stocco” (atto a colpire esclusivamente di punta) era quasi inerme rispetto
L’“oplitismo” non incise sulla organizzazione politica degli Etruschi, che rimase oligarchica (per questa ragione si pensa che anche in Grecia
l’“oplitismo” non abbia avuto “dirette” conseguenze politiche, perlomeno nel breve periodo). Invero, l’adozione di armi e tattiche nuove rilevano poco
sotto il profilo politico, se si prescinde dal contesto sociale e culturale, che in Grecia era certo diverso da quello etrusco. Riguardo agli Etruschi comunque
si parla di “falange gentilizia”, considerando il ruolo preminente delle famiglie aristocratiche (vedi B. D’Agostino, Military Organization and Socal
Strucuture in Archaic Etruria, in O. Murray, S. Price (a cura di), The Greek City, Clarendon Press, Oxford, 1990, pp. 59-82).
161
Vedi A. Goldsworthy, The Complete Roman Army, Thames & Hudson, Londra, 2003, pp. 20- 31.
160
60
al legionario. La falange non poteva contromanovrare come la legione, che si muoveva bene anche su un
terreno accidentato, mentre la falange se contromanovrava o doveva battersi con un nemico che l’assaliva ai
fianchi o alle spalle perdeva di coesione. In definitiva, si potrebbe paragonare la legione romana ad una mano
che può afferrare e stringere, colpire “di taglio” o chiudersi “a pugno”. A differenza della falange oplitica o di
quella macedone poteva, di conseguenza, manovrare facilmente, combinando la massa con la mobilità. D’altra
parte, i soldati della repubblica romana erano cittadini “in armi” e “soldati contadini” (incatenati alla terra
come gli opliti greci, ma con una catena, per così dire, assai più lunga ed “elastica”). Gli Stati ellenistici, come
si è già avuto modo di mettere in evidenza, preferivano invece arruolare dei mercenari, sicché, i loro eserciti
potevano essere efficienti, come spesso lo fu quello di Cartagine, ma erano meno fidati, non avevano alcun
obbligo morale verso lo Stato per il quale prestavano servizio e si ammutinavano facilmente, se la paga non
era buona, come accadde dopo la prima guerra punica quando Cartagine rischiò la rovina per l’ammutinamento
del “suo” esercito.
La legione manipolare doveva essere già presente durante le guerre sannitiche (nel IV-III secolo a. C.) che
misero a dura prova Roma, che pure aveva già dovuto battersi contro gli Etruschi (decisive furono la vittoria
contro Veio e poi contro altre città etrusche, tra cui Tarquinia)162. Nella seconda di queste guerre (327-304 a.
C.) l’alleanza tra Sanniti ed Etruschi minacciava di “soffocare” Roma. In questa guerra i Romani subirono
l’umiliante sconfitta delle Forche Caudine163. Tuttavia, i Romani riuscirono a battere prima gli Etruschi nella
Selva Ciminia e poi i Sanniti a Boiano; durante la terza guerra sannitica, invece la coalizione contro Roma si
disfece rapidamente e i Sanniti furono costretti alla resa nel 290 a. C. Un’importante conseguenza di queste
guerre fu la tendenza di Roma a valorizzare la regione costiera rispetto a quella montana, in cui le legioni si
muovevano con difficoltà (una scelta certo sostenuta da quegli ambienti che miravano ad una crescente
influenza di Roma nell’area mediterranea). Fu appunto allora che venne costruita la via Appia che collegava
Roma con Capua. D’altra parte, anche l’incursione in Italia di Pirro, re dell’Epiro, creò a Roma non pochi
problemi. Pirro vinse ad Eraclea, ove impiegò gli elefanti (sconosciuti ai Romani, che si fecero prendere dal
panico) e poi ad Ascoli Sartriano (279 a. C.) ma con tali perdite che un’altra vittoria simile avrebbe lasciato
Pirro senza esercito. Non riuscendo a sollevare gli alleati di Roma come aveva creduto, Pirro decise di recarsi
in Sicilia ad aiutare i Greci, ove dopo la morte di Agatocle la bilancia pendeva nuovamente e pericolosamente
dalla parte Cartaginesi164. Dopo alcuni successi però, non riuscendo a conquistare la fortezza del Lilibeo, fece
ritorno nella penisola italiana. Nel 275 a. C. presso Malevento (ribattezzata dai Romani Benevento, dopo la
vittoria contro Pirro) avvenne lo scontro decisivo con l’esercito di Roma. I soldati romani che, ormai
conoscevano gli elefanti (chiamati “buoi lucani” dalla regione in cui i Romani li avevano visti per la prima
volta), non si fecero prendere dal panico e con frecce infuocate fecero imbizzarrire gli elefanti, che travolsero
e calpestarono gli stessi uomini di Pirro, mentre i legionari, dopo aver creato un certo scompiglio nelle file
nemiche scagliando giavellotti, nel corpo a corpo ebbero la meglio contro i falangiti. Compiuta l’unificazione
della penisola italiana, dopo la sconfitta di Pirro, era chiaro che la direttrice d’espansione di Roma, che pure
era ancora esposta ad una aggressione da parte delle popolazioni barbariche del nord, non poteva che essere
verso la Magna Grecia, venendo di conseguenza ad urtarsi con Cartagine. Ma la lotta tra Roma e Cartagine
non fu solo quella tra due potenze rivali, bensì uno scontro tra due opposte “concezioni del mondo”: “tellurica”
e imperniata sulle virtù civiche del cittadino e del legionario quella di Roma, “talassica” ed espressione di una
162
In particolare, si deve ricordare che secondo Livio la remunerazione del servizio militare fu introdotta da Roma nel 406 a. C. circa, ossia allorché
incominciò l’assedio di Veio, benché la remunerazione regolare dei legionari sia probabilmente cominciata al tempo delle guerre sannitiche (vedi J.
Rich, Warfare and the Army in Early Rome, in E. Erdkamp (a cura di), A Companion to the Roman Army, Blackwell, Oxford etc., 2007, p. 18).
163
. Secondo Kurt Raaflaub (che ritiene la prima guerra sannitica “mostly fictitious”) fu appunto dopo le Forche Caudine che la legione romana adottò
la formazione di tipo manipolare (vedi K. A. Raaflaub, Between Myth and History: Rome’s Rise from Village to to Empire (the Eighty Century to 264),
in N. Rosenstein, R. Morstein-Marx (a cura di), op. cit., p. 142).
164
Alla fine del V secolo a .C. Cartagine aveva attaccato di nuovo i Greci di Sicilia, giungendo a prendere Selinunte, Imera e Agrigento (che cadde
dopo sette mesi d’assedio). Fu il tiranno di Siracusa Dionisio I allora a guidare la lotta contro Cartagine. Dioniso I riuscì a conquistare Motia, la
roccaforte cartaginese nell’isola (in questa occasione Dionisio I impiegò delle catapulte, benché non fossero a torsione), ma in seguito Magone distrusse
la flotta siracusana presso Catania (i Siracusani persero 100 navi e 20.000 uomini) e fu solo per un’epidemia diffusa nelle file dei Cartaginesi che
Siracusa si salvò. Dionisio I, infatti, ne approfittò per distruggere gran parte della flotta nemica e l’esercito cartaginese fu abbandonato a sé stesso.
Cartagine allora fu anche impegnata a domare una ribellione di sudditi africani e di schiavi. Di conseguenza si giunse ad un accordo tra le due città
rivali, anche se la guerra riprese, dopo che Donisio I si era impadronito dell’enorme tesoro di Pirgi, il porto di Cere. I Cartaginesi furono sconfitti a
Cabala, ma si presero la rivincita presso Imera. Dionisio I dovette dunque riconoscere la sovranità cartaginese ad ovest dell’Alico. Allorché Siracusa fu
di nuovo in preda all’anarchia, il corinzio Timoleonte riuscì a sconfiggere Iceta, tiranno di Lentini, che si era impadronito di Siracusa, e vi ristabilì la
democrazia. E nel 341 (o 339) a. C. lo stratega corinzio inflisse pure una severa sconfitta a Cartagine sul fiume Crimiso. In seguito, Agatocle, divenuto
tiranno di Siracusa, riuscì quasi ad unificare la Sicilia. Nel 310 a. C., con 14.000 soldati (perlopiù mercenari) e 60 navi, sbarcò addirittura presso Capo
Bon per muovere guerra a Cartagine nella stessa Africa. Non ottenne però risultati decisivi, anche perché a causa dell’ostilità di Agrigento fu costretto
a tornare in Sicilia. Rientrato nell’isola, sconfisse Agrigento ma dovette chiedere pace a Cartagine, non avendo più fondi per continuare la guerra. Come
scrive Finley, «alla sua morte tutto ciò che aveva edificato perì con lui» (M. I. Finley, Storia della sicilia antica, Laterza, Bari, 1972, p. 139).
61
oligarchia mercantile, basata sul commercio e sui mercenari quella di Cartagine165. Se Roma agli alleati
chiedeva soprattutto soldati, Cartagine invece dai propri sudditi esigeva grano e metalli preziosi per mantenere
il suo esercito e il suo impero (la cui popolazione era di circa tre milioni, poco più di quella delle terre sotto il
dominio di Roma). Perennemente in lotta con le città della Magna Grecia, Cartagine era espressione di un
mondo incompatibile con quello ellenico, di cui invece secondo Toynbee Roma era parte integrante166.
La scintilla che provocò la prima guerra punica fu una richiesta d’aiuto dei Mamertini - dei mercenari
campani che avevano occupato Messina e che dovevano difendersi da Siracusa - a Roma e a Cartagine
contemporaneamente. Roma non poteva permettere che i Cartaginesi venissero in possesso di una base così
vicina alla penisola italiana, ma non poteva “misurarsi” contro Cartagine non disponendo di una flotta propria,
cosicché dovette “improvvisarsi” potenza marittima. Sotto la sferza della necessità venne costruita una flotta
di 120 navi da guerra, ma provviste di una passerella, chiamata “corvo”, che consentiva ai soldati romani, una
volta abbordate le navi nemiche, di combattere nello stesso modo in cui combattevano sulla terraferma (in
seguito al posto di questi “pontoni” si preferì installare sulle navi torri di legno e baliste). Con questa flotta,
comandata da Caio Duilio, Roma colse la sua prima vittoria sul mare a Milazzo (260 a. C.). Dopo aver vinto
la gigantesca battaglia navale presso il Capo Ecnomo167, i Romani sbarcarono in Africa, ma qui vennero battuti
dai Cartaginesi guidati dallo stratega spartano Santippo, che seppe impiegare con abilità la cavalleria numida
e gli elefanti contro la fanteria di Roma. Ma la situazione dei Romani peggiorò in particolare a causa di forti
tempeste che procurarono a Roma danni gravissimi, distruggendo centinaia di navi. I Romani riuscirono
comunque con grande sforzo a costruire una nuova flotta che riportò una grande vittoria contro quella
cartaginese alle isole Egadi, costringendo Cartagine a chiedere la pace. Roma acquisì così il controllo della
Sicilia, della Sardegna e della Corsica, e approfittò della pace con Cartagine per debellare i pirati dell’Illiria
che infestavano l’Adriatico. Sia i Romani che i Cartaginesi sapevano però che non di vera pace si trattava ma
soltanto di una tregua, dacché non vi era posto per entrambe le città nel Mediterraneo. Roma comunque dovette
anche respingere un altro assalto dei Galli che si erano spinti fin nella Maremma toscana. Annientata, nella
battaglia di Talamone, quest’orda di circa 70.000 Galli, Roma insediò una serie di colonie lungo la valle del
Po, perfino nel luogo dove sorgeva la capitale dei Galli (Mediolanum).
Il dominio romano nell’Italia Settentrionale non era però ancora saldo allorché Annibale fece la sua
comparsa in Italia. Il condottiero cartaginese, dopo avere espugnato Sagunto nel 219 a. C. (il casus belli della
seconda guerra punica), aveva deciso, infatti, di muovere guerra a Roma nella stessa Penisola italiana.
Valicando le Alpi sapeva quali rischi correva, ma sperava di sollevare buona parte delle popolazioni dell’Italia
contro Roma, contando appunto sul fatto che il dominio romano pareva instabile. Nell’autunno del 218 a. C.
Annibale giunse con 20.000 fanti e 6.000 cavalieri nella pianura padana, dopo aver lasciato i Pirenei con un
esercito composto da 9.000 cavalieri e circa 50.000 fanti, in gran parte mercenari168. Aveva dunque pagato un
prezzo assai alto per valicare le Alpi. Ma adesso si trovava tra la popolazione dei Galli, e avrebbe potuto
contare su di loro nella lotta contro Roma. La seconda (e decisiva) guerra contro Cartagine, in cui i Romani
avrebbero dovuto aumentare il numero delle legioni prima a 11 (nel 217 a. C.) e in seguito addirittura a più di
20, cominciò così nel peggiore dei modi per Roma. Dopo una scaramuccia presso il Ticino, in cui la cavalleria
cartaginese dimostrò di essere nettamente superiore a quella dei Romani e dei loro alleati, Annibale tese
un’imboscata all’esercito romano presso il fiume Trebbia. Dopo avere distaccato un contingente di truppe al
comando di suo fratello Magone, indusse i Romani, che erano in superiorità numerica (4.000 cavalieri e oltre
165
Lo Stato cartaginese era guidato da due suffeti, eletti annualmente ma che, a differenza dei consoli romani, non avevano poteri militari. Vi erano
anche la corte dei Cento, con poteri giudiziari e di vigilanza sulla sicurezza dello Stato, i cui membri appartenevano all’aristocrazia. Anche i generali
provenivano dalle file dell’aristocrazia, che, benché possedesse delle terre, doveva trarre i suoi maggiori guadagni dall’industria e dal commercio. È
noto pure che era presente un’assemblea popolare, i cui poteri però erano assai limitati. Inoltre vi dovevano essere numerosi funzionari per il disbrigo
degli affari della città. Ma, come scrive Warmington, «in confonto ai Greci e ai Romani, i Cartaginesi erano fondamentalmente apolitici» (B. H.
Warmington, Storia di Cartagine, Einaudi, Torino, 1968, pp. 173-174). Anche se la vita politica di Cartagine non fu scossa da quei tumulti che potevano
portare alla instaurazione della tirannia, «i cittadini cartaginesi erano esenti, tranne in rari casi, dal servizio militare; di conseguenza non ebbero la
possibilità di prendere coscienza del valore della solidarietà e del sostegno reciproco, coscienza che ebbe un’importanza fondamentale nella guerra di
fanteria dell’antichità», nonché nelle vicende che caratterizzarono la vita politica della Grecia e di Roma (ivi, p. 174).
166
Vedi A. J. Toynbee, Il mondo ellenico, cit., pp. 144 e ss.
La flotta romana aveva assunto la forma di un triangolo: davanti le navi erano disposte su due linee ed erano scaglionate l’una dietro l’altra, di modo
da formare un cuneo, mentre un’altra squadra formava la base del triangolo. Il centro cartaginese si ritirò, per indurre le navi romane che erano in testa
alla formazione (ossia i due lati del triangolo) ad inseguirlo, mentre le navi cartaginesi ai lati avrebbero dovuto distruggere la squadra romana che
proteggeva i trasporti (ossia la base del triangolo) Ma una volta respinto il centro cartaginese, i Romani tornarono rapidamente indietro e volsero in fuga
i Cartaginesi. Sul numero delle navi (perlopiù quinqueremi) che parteciparono alla battaglia vi sono però parecchi dubbi. Secondo Polibio, i Romani
potevano disporre complessivamente di 360 navi contro le 350 dei Cartaginesi; nello scontro i Romani persero 24 navi, ma ne affondarono 30 e ne
catturarono 64.
168
Annibale in Spagna aveva radunato, secondo Polibio, un esercito di 12.000 cavalieri e 90.000 fanti (oltre a 37 elefanti secondo Appiano), ma molti
disertarono e altri dovettero essere lasciati di presidio in Spagna (vedi A. Goldsworthy, The Fall of Carthage, Cassell, Londra, 2003, p. 159).
167
62
35.000 soldati contro i 20.000 fanti e i 10.000 cavalieri di Annibale), a muovere all’attacco. Sconfitta la
cavalleria romana, le truppe di Magone insieme con i cavalieri cartaginesi assalirono i legionari alle spalle
accerchiandoli. Solo 10.000 soldati di Roma riuscirono a fuggire. Ma era solo l’inizio di una terribile sequenza
di disastri per Roma. L’anno seguente (217 a. C.) presso il lago Trasimeno, Annibale bloccò un esercito romano
che marciava in colonna. Stretti i legionari fra il lago e le colline, i Cartaginesi, profittando pure della nebbia,
mossero dalle colline vicine contro il fianco sinistro dell’esercito romano che non ebbe nemmeno la possibilità
di schierarsi per affrontare il nemico. Fu una nuova strage: 15.000 furono i caduti romani, incluso il console
Flaminio, mentre altri 15.000 furono presi prigionieri dai Cartaginesi.
Annibale per due volte era riuscito ad accerchiare un esercito romano, senza impegnarsi in una vera e
propria battaglia frontale, attirando i legionari in un’imboscata e massacrandoli. A Roma ormai era evidente
che la situazione era drammatica. Venne quindi eletto dittatore con pieni poteri Quinto Fabio Massimo.
Convinto che Annibale non potesse essere battuto in campo aperto, Fabio adottò quella tattica elusiva che gli
valse il soprannome di Cunctator (ossia “temporeggiatore”). In realtà, Fabio riteneva che fosse possibile
battere Annibale tra le città fortificate della Campania. Con uno stratagemma invece Annibale trasse in inganno
i Romani, che visto avanzare un gran numero di luci in una zona non distante da Cassino, si diressero in questa
direzione, scoprendo sul far del giorno che si trattava solo di mandrie di buoi, alle corna dei quali erano state
legate delle torce. L’esercito cartaginese riuscì così a passare attraverso un altro valico, per raggiungere una
zona in cui poter svernare tranquillamente. Ma lo scontro tra Cartaginesi e Romani non lo si poteva continuare
ad eludere. Si giunse così alla battaglia di Canne (216 a. C.), considerata giustamente una delle più importanti
battaglie che si siano mai combattute, anche per la tattica che venne impiegata da Annibale e che permise al
condottiero cartaginese di distruggere completamente l’esercito romano. Canne infatti fu la classica battaglia
d’annientamento, quella che lo stato maggiore tedesco definiva Vernichtungschlacht, principio cardine non solo
della tattica ma della strategia dell’esercito tedesco nelle due guerre mondiali.
Annibale, come al solito, schierò la propria cavalleria ai lati della fanteria, al centro gli Ispanici e i Galli, ai
fianchi le truppe africane. Ma alle truppe disposte al centro fece assumere uno schieramento che presentava
una forte convessità, con la “punta” rivolta verso i soldati romani. Come Annibale aveva previsto fu qui che si
sviluppò la maggiore pressione dei legionari, tanto che lo schieramento cartaginese da convesso divenne
concavo, a differenza dello schieramento romano che, con l’avanzare del proprio centro, assunse una forma
convessa, rendendo così possibile alle ali cartaginesi di contrattaccare e stringere sempre più i Romani in una
terribile morsa. Quando sopraggiunse la cavalleria cartaginese, rimasta anche questa volta padrona del campo,
l’esercito romano si trovò completamente accerchiato. I legionari erano ancora numerosi e avrebbero potuto
cercare di spezzare l’accerchiamento. Ma la mancanza di un’azione di comando risoluta fu fatale ai Romani,
che si lasciarono prendere dal panico, facendosi massacrare senza opporre una valida resistenza. Al costo di
5.700 perdite, i 50.000 mercenari cartaginesi, di cui 10.000 cavalieri, avevano sconfitto 86.000 romani (80.000
fanti e 6.000 cavalieri). Le perdite romane furono enormi: circa 50.000 morti e oltre 20.000 prigionieri e
dispersi. Solo 15.800 legionari (14.000 fanti e 1.800 cavalieri) riuscirono a mettersi in salvo169.
Adesso il nemico era davvero alla porte, e se gli alleati dei Romani si fossero sollevati contro Roma, per
quest’ultima sarebbe stata la fine. Ma questo non accadde, buona parte di loro rimase saldamente al fianco di
Roma, anche se vi furono alcune importanti defezioni. L’edificio costruito da Romani era ancora solido e
Roma poteva raccogliere il frutto del suo sistema politico e del suo ingegnoso sistema di alleanze. Annibale
non aveva considerato che ben diversa era la condizione degli alleati dei Romani da quella dei sudditi di
Cartagine, né che i vincoli politici e spirituali che tenevano insieme la repubblica romana erano altrettanto
importanti della “pura” forza delle armi. Quella sollevazione in massa su cui Annibale faceva affidamento
quindi non si verificò e Roma poté riprendere la tattica della guerra di logoramento che Fabio aveva già adottato
con discreto successo dopo la battaglia del lago Trasimeno. Non che fossero anni facili per Roma, rimanendo
Annibale in Italia, ma perlomeno non era una situazione disperata. Anche se subito dopo Canne un altro
esercito romano inviato a domare una ribellione dei Galli venne annientato, il potenziale umano su cui poteva
contare Roma era ancora notevole. Si calcola che a Canne andarono perdute sei legioni. E altre due furono
perse nella battaglia contro i Galli, ma altrettante vennero costituite con i resti della battaglia di Canne. Perciò
i Romani in tutto ne persero sei. Roma ricorse allora alla leva in massa, reclutando i giovanissimi
(diciassettenni) e anche schiavi cui fu promessa la libertà. Si formarono così quattro nuove legioni e Roma nel
giro di poco tempo poté disporre di 14 legioni fino a raggiungere il numero di 22 tra il 212 e il 211 a. C. (si
Per un’analisi dettagliata della battaglia di Canne vedi H. Delbrüch, History of the art of War, University of Nebraska Press, Lincoln-Londra, 1990,
vol. I, pp. 315-336, M. Healy, Cannae 216 BC, Osprey, Oxford, 1999, e A. Goldsworthy, The Fall of Carthage, cit., pp. 197-221.
169
63
tenga conto che ogni anno si potevano formare due nuove legioni con il servizio di leva) 170.
Roma fu capace dunque di far fronte sia alla pericolosissima alleanza tra Annibale e il re di Macedonia (il
quale, anziché portare direttamente aiuto ad Annibale, preferì cercare di conquistare l’Illiria; del resto, nel 212
a. C., egli dovette pure difendersi dall’attacco della lega etolica, istigata dai Romani a muovere guerra alla
Macedonia), sia alla ribellione di Siracusa che permise ai Cartaginesi di mettere nuovamente piede in Sicilia,
mentre anche Taranto veniva presa da Annibale, benché i soldati romani continuassero a resistere nella rocca
della città. Ristabilito il domino romano sulla Sicilia con la conquista di Siracusa (l’assedio durò dal 214 al
212 a. C.), dal mare non potevano più arrivare soccorsi ad Annibale, che, indebolito dalle diserzioni e a corto
di rifornimenti, si vide costretto a chiedere dei rinforzi dalla Spagna, ove già si combatteva una dura guerra tra
i Cartaginesi e i Romani comandati da Scipione. Intanto i legionari cinsero d’assedio Capua, che era passata
dalla parte dei Cartaginesi, e Annibale, nel tentativo di liberarla, fece un’improvvisa “puntata” verso Roma,
che destò parecchia preoccupazione ma non ebbe alcuna conseguenza, tanto che i Romani poterono costringere
Capua alla resa. Infine, giunse dalla Spagna un altro esercito cartaginese, comandato da Asdrubale, fratello di
Annibale. Valicate le Alpi, Asdrubale scese lungo la riviera adriatica per ricongiungersi con il fratello che si
trovava nell’Apulia. Per i Romani ovviamente era assolutamente necessario impedire che ciò si verificasse. E
Roma trovò in Livio Salinatore e soprattutto in Claudio Nerone gli uomini di cui aveva estremo bisogno.
Nerone, lasciato un “velo di truppe” a fronteggiare quelle di Annibale, con 6.000 fanti e 1.000 cavalieri compì
una straordinaria marcia, percorrendo circa 500 chilometri in sette giorni, allo scopo di unire le proprie forze
a quelle di Livio. La battaglia si svolse nei pressi del fiume Metauro (207 a. C.) e vide il netto trionfo delle
armi romane. Anche qui, Nerone, profittando della natura del terreno, lasciò un “velo di truppe” sulla destra
dello schieramento romano e concentrò le proprie forze contro l’ala destra nemica travolgendola. L’esercito
cartaginese fu annientato e Asdrubale stesso perì nella battaglia. Un ulteriore tentativo di portar aiuto ad
Annibale venne fatto da un altro suo fratello, Magone, che sbarcò in Liguria. Ma pure questo tentativo si risolse
in un fallimento. Per Roma era quindi venuto il momento di cambiare strategia. Scipione decise, con
l’approvazione del senato romano, di muovere direttamente guerra contro la città e il territorio di Cartagine.
Sbarcato in Africa, dopo alcuni successi, il condottiero romano, che sapeva quanta preoccupazione destasse
ancora la presenza di Annibale in Italia, concluse un accordo con Cartagine che prevedeva che Annibale
abbandonasse la penisola italiana, ove in effetti il condottiero cartaginese mai era stato sconfitto.
Tornato in Africa Annibale, la guerra riprese e a Zama nel 202 a. C. si combatté la battaglia che decise le
sorti di Cartagine. Se Roma rischiava molto, per Cartagine era questione di vita o di morte. Scipione, che in
seguito fu chiamato l’Africano, già in Spagna, dove aveva comandato un esercito composto soprattutto da
volontari, aveva dato prova di essere un ottimo comandante171. Anziché usare la seconda e la terza linea solo
a sostegno della prima, aveva impiegato i manipoli dei principes e dei triari per attaccare i fianchi del nemico
o come riserva. In questo modo i manipoli erano più autonomi e la legione poteva sfruttare al massimo la
propria mobilità. E questa fu appunto la tattica che sovente le legioni impiegarono da allora in poi. Anche a
Zama Scipione mostrò la sua perizia tattica, sapendo adattarsi alla situazione particolare che doveva affrontare,
ma sempre facendo perno sulle caratteristiche della legione. Inoltre, adesso i Romani potevano contare sul
valido apporto dell’eccellente cavalleria numida. Anche se vi sono dubbi sulle cifre esatte riguardo ai due
eserciti, l’esercito di Annibale era più numeroso di quello romano: Scipione contava su oltre 2.400 cavalieri
e circa 23.000 fanti, cui si devono aggiungere 6.000 fanti e 4.000 cavalieri numidi, nonché 600 cavalieri
berberi; Annibale disponeva grosso modo di 45.000 fanti e 4.000 cavalieri, mentre il numero degli elefanti non
era forse di 80 come molti ritengono ma assai minore e si può pure escludere la presenza di soldati macedoni
tra le file cartaginesi172. Scipione non schierò la legione a scacchiera, ma dispose i manipoli in colonne, di
modo che gli elefanti si dirigessero nei “corridoi” tra i vari manipoli, permettendo ai velites di attaccarli. A tale
scopo dispose le tre linee della legione a maggiore distanza l’una dall’altra, mentre schierò la cavalleria numida
all’ala destra e quella italica all’ala sinistra. Anche Annibale schierò il proprio esercito su tre linee: davanti i
Galli e i Liguri e dietro questa linea la fanteria africana, arruolata di recente e su cui faceva assai poco
affidamento. La terza linea era composta invece da veterani. Ai lati vi era la cavalleria. Come Scipione aveva
previsto gli elefanti entrarono nei “corridoi” senza arrecare alcun danno, anzi tornarono indietro portando lo
170
Vedi H. Delbrück, op. cit., pp. 340 e ss. Si stima che in questo periodo Roma potesse disporre di circa 200.000 soldati e 70.000 marinai. Peraltro,
la città di Roma era una piazzaforte tutt’altro che facile da espugnare.
171
Muovendo da Tarraco (l’odierna Tarragona), nel 210 a. C., aveva marciato con l’esercito lungo la costa orientale conquistando Cartagena,
sconfiggendo (presso Brecula) Asdrubale (che, come si ricorderà, riuscì comunque a portare un esercito in Italia) e cacciando infine i Cartaginesi dalla
Spagna con la vittoria nella battaglia di Ilipia (206 a. C.).
172
Vedi A. Goldsworthy, The Fall of Carthage, cit. p. 302.
64
scompiglio tra le file della cavalleria cartaginese che venne attaccata sia dai Numidi che dagli Italici. La
battaglia tra la fanteria però era durissima e dato che la prima linea cartaginese stava per avere la meglio,
Scipione fece intervenire i principes che respinsero i Galli e i Liguri, facendoli arretrare in gran disordine.
Anche la seconda linea cartaginese venne sopraffatta dalla fanteria romana, ma Annibale ordinò ai suoi
veterani di formare un “muro impenetrabile”, per impedire che le truppe africane in fuga scompaginassero le
file dell’ultima linea. Scipione, resosi conto che i legionari già provati dal combattimento dovevano affrontare
la “crema” dell’esercito nemico, ordinò agli hastati di disporsi sui fianchi, mentre con i principes e i triari, che
non erano ancora stati impegnati in combattimento, formò un’unica linea. Lo scontro tra i due eserciti adesso
era diventato simile ad uno scontro tra falangi e durò fino a che non sopraggiunse la cavalleria di Scipione che,
respinta quella cartaginese, poté assalire da tergo l’esercito di Annibale. La grande battaglia era terminata e
Roma aveva definitivamente debellato la sua acerrima rivale. Una volta domata Cartagine, Roma non solo era
diventata padrona del Mediterraneo occidentale ma poteva espandere il suo dominio verso oriente muovendo
da basi sicure, benché la Macedonia fosse ancora un nemico formidabile.
La prima guerra macedonica si era infatti chiusa con la pace di Fenice (205 a. C.), che non penalizzava la
Macedonia, dato che i Romani erano ancora impegnati contro Annibale. Peraltro, l’equilibrio fra le tre potenze
ellenistiche si era pericolosamente alterato a favore dell’impero seleucide e soprattutto della Macedonia, tanto
che, terminata la seconda guerra punica, diverse ambascerie da Pergamo e dalla Grecia furono inviate a Roma
per indurre i Romani ad intervenire contro Filippo V, il sovrano macedone. Roma decise allora di combattere
una guerra preventiva contro la Macedonia, potendo contare sulla lega achea e su quella etolica. Ma battere
Filippo V non fu impresa facile. Il re macedone riuscì infatti a sconfiggere l’esercito di Galba presso il Pindo
e poi a respingere un tentativo di invadere la Macedonia passando attraverso la Tesssaglia. Lo scontro decisivo
avvenne comunque a Cinocefale nel 197 a. C. Filippo V aveva diviso il suo esercito in due formazioni: quella
sulla destra dell’esercito macedone non si impegnò a fondo aspettando l’arrivo dell’altra falange, che era
ancora in marcia, ma quest’ultima, prima che si potesse schierare per dare battaglia, fu aggredita e
scompaginata dalle legioni romane. Successivamente i legionari attaccarono sul fianco l’altra falange
travolgendola. Il sovrano macedone dovette dunque cedere i passi del Pindo e la Tessaglia, ma conservò il suo
regno nonostante le proteste degli Etoli. D’altra parte, la seconda guerra macedonica comportò pure una
sostanziale modifica degli equilibri geopolitici nella Grecia, suscitando di conseguenza le mire egemoniche di
Antioco III di Siria sull’intera regione. I Romani, a capo di una grande coalizione, di cui faceva parte la stessa
Macedonia, batterono però Antioco alle Termopili e a Magnesia. Sicché, Antioco dovette rassegnarsi, con la
pace di Apamea (188 a. C), a perdere la propria flotta da guerra, oltre a dover cedere le terre a nord-ovest del
Tauro. Per di più, anche gli Etoli, che si erano alleati con Antioco, erano stati costretti a capitolare in seguito
alla sconfitta subita nella battaglia delle Termopili. Nondimeno, Roma dovette combattere un’altra guerra
(171-168 a. C.) per domare la Macedonia, che ambiva ancora a svolgere un ruolo di grande potenza. La
battaglia che decise le sorti del conflitto si combatté a Pidna. Questa volta i Romani lasciarono avanzare
l’esercito macedone su un terreno accidentato e quando la falange perse coesione l’attaccarono con veemenza,
cogliendo una vittoria piena e risolutiva. Peraltro, anche il regno dei Tolomei, sempre più debole per la
passività dei contadini egiziani, di fatto era diventato una sorta di protettorato romano, anche se la dinastia dei
Tolomei continuò a regnare fino a quando non giunsero in Egitto le legioni di Giulio Cesare. In pochi decenni,
dunque, Roma aveva acquisito il dominio su tutto il bacino del Mediterraneo, rimanendo l’unica grande
potenza del mondo ellenico173. Per di più, non essendo disposta a tollerare nemmeno la presenza di Cartagine,
ormai ridotta a potenza commerciale regionale, Roma la distrusse nel 146 a. C. In questi stessi anni i Romani
non solo diedero sistemazione ai loro domini sui territori dei Galli e dei Liguri, ma repressero una rivolta dei
Macedoni e una della lega achea, che contava sul fatto che Roma, dacché era impegnata contro Cartagine, non
avrebbe potuto reagire con la necessaria prontezza (l’esercito della lega achea venne sconfitto presso Corinto,
che fu completamente distrutta dai Romani). A coronamento di una serie impressionante di successi, nel 133
a. C. Roma istituì la provincia d’Asia con le terre del regno di Pergamo, donate a Roma da Attalo III.
Tuttavia, il II secolo a. C. non fu solo il secolo in cui le legioni di Roma conquistarono il mondo
173
Una questione particolare è quella dell’imperialismo di Roma. William Harris ha sostenuto con vigore che la politica della repubblica romana si
configurava come un imperialismo aggressivo, teso a conquistare sia “gloria” che bottino, terre e schiavi. Altri autori hanno invece messo l’accento
sulle ragioni del successo di Roma in un contesto in cui la guerra era la norma e che vedeva Roma circondata da potenziali nemici. Vedi comunque
oltre a W. V. Harris, War and Imperialism in Republican Rome 327-70 BC, Clarendon Press, Oxford, 1970, le equilibrate considerazioni di Arthur M.
Eckstein in Rosenstein N., Morstein-Marx R. (a cura di), op. cit., pp. 567-589 e quelle di G. Traina nell’Introduzione al vol. IV, sez. III, dell’opera
collettanea Storia d’Europa e del Mediterraneo, I. Il mondo antico, Salerno Editrice, Roma, 2006-2010. Certo i successi dei Romani dipesero anche dal
manpower, ossia dal “potenziale umano” su cui Roma poteva contare grazie alla sua politica “aperta” nei confronti degli alleati. Una politica ben diversa
da quella che caratterizzò le poleis greche sempre diffidenti nei confronti degli stranieri e tutt’altro che propense a concedere loro la cittadinanza.
65
mediterraneo, ma anche quello in cui avvenne una radicale trasformazione dello stesso mondo romano. E non
ci si riferisce solo al quel noto fenomeno di ellenizzazione del “rustico Lazio”, che giustifica il detto secondo
cui “Graecia capta ferum captorem coepit” e che portò sia a un mutamento degli usi e costumi dei Romani sia
ad una fiorente attività letteraria e artistica. Ma anche e soprattutto al cambiamento della struttura sociale ed
economica di Roma. Già durante la prima guerra macedonica Roma si era dovuta basare su un esercito
composto da volontari, onde evitare di dovere ricorrere di nuovo alla coscrizione subito dopo la fine della
guerra con Cartagine. E, secondo alcuni studiosi, verso la metà del secolo, allorché Roma dovette anche
reprimere varie rivolte in Spagna, il reclutamento era diventato un problema grave 174. Comunque sia,
l’espansione dei traffici commerciali in seguito a queste straordinarie conquiste fu gigantesca e molte città
dell’Italia si ingrandirono e si specializzarono economicamente, mentre si sviluppò una notevole economia
monetaria (il denarius d’argento, pari a dieci assi di bronzo, che era stato introdotto durante la seconda guerra
punica, divenne il normale mezzo di pagamento nell’area mediterranea, e il sesterzio, il cui valore era in origine
di due assi e mezzo, dopo la battaglia del Trasimeno fu portato a quattro assi).
In questo periodo si formò pure una nuova classe sociale, il cosiddetto “ordine equestre”, ossia i cavalieri
che condividevano con gli aristocratici l’interesse per l’agricoltura “capitalistica”, ma erano interessati in modo
particolare ai numerosi appalti statali che le conquiste di Roma inevitabilmente comportavano. Come scrive
Josph Vogt, «il finanziamento delle guerre, la costruzione di edifici in Roma, la costruzione di strade in Italia
e nelle province [vere e proprie arterie geostrategiche e commerciali di importanza fondamentale sotto il profilo
militare ed economico], e molte altre imprese richiedevano somme mai fin allora conosciute. La repubblica
romana diede in appalto con maggiore frequenza la cura dei sui affari finanziari a privati che disponevano di
capitali adeguati»175. Pertanto, mentre, i cavalieri si occupavano dell’economia e della finanza della repubblica
(dazi, imposte e costruzioni pubbliche), i senatori avevano il controllo delle magistrature più importanti, tanto
è vero che si calcola che tra il 234 a. C. e il 134 a. C. i tre quarti dei consoli furono forniti solo da 26 gentes.
Cosicché si vennero a creare non pochi urti e tensioni tra i cavalieri e l’ordine senatorio. La vita politica era
poi condizionata dalla massa di disoccupati affluiti dalle campagne e che erano andati a ingrossare le file della
plebe. Si diffuse quindi il “clientelismo”, ossia la consuetudine da parte di cittadini poveri (clientes) di mettersi
al servizio delle famiglie più potenti, alle quali garantivano il proprio appoggio politico in cambio di denaro o
viveri. D’altra parte, anche le terre del demanio si erano enormemente ampliate, ma erano date in affitto ai
membri del gruppo dominante o assegnate a veterani di guerra in congedo che preferivano impiegare degli
schiavi per coltivare i propri poderi (benché si ritenga che la piccola proprietà terriera continuasse a
caratterizzare la società romana fino al I secolo a. C.)176. Al malcontento popolare che questa politica generava
e che causava l’afflusso nella città di Roma di masse di contadini senza terra si doveva aggiungere anche quello
degli Italici che non essendo cittadini romani si vedevano esclusi dalla distribuzione delle terre. Che fosse
necessaria una radicale riforma era evidente anche a parecchi cittadini romani. Nondimeno, l’opposizione
dell’ordine senatorio era ancora troppo forte e i due tentativi di riforma dei fratelli Gracchi (patrizi che avevano
rinunciato alla nobiltà per poter essere eletti tribuni della plebe) fallirono tragicamente. Tiberio Gracco riteneva
che non dovesse essere permesso di detenere (anche in affitto) più di 1000 iugeri (circa 600 acri) dell’agro
pubblico e che la terra in eccesso dovesse essere distribuita ai cittadini poveri, giacché anch’egli era convinto
che la potenza di Roma si basasse sull’esercito di “contadini proprietari”. Tiberio però venne ucciso, insieme
a 300 dei suoi sostenitori, da un gruppo di senatori armati di bastoni (133 a. C.). Gaio, che condivideva le idee
del fratello, reso esperto dalla tragica fine di Tiberio, capì che doveva avere l’appoggio dei cavalieri perché le
sue proposte potessero avere successo. Cercò di conseguenza di accattivarsi le simpatie dei cavalieri con varie
concessioni tra cui quella che garantiva ai cavalieri di far parte dei tribunali che giudicavano dei reati di
estorsione commessi dai governatori. Ma Gaio comprese pure che era necessario costruire nuove colonie
urbane e concedere la cittadinanza o almeno lo “stato latino” agli Italici. Così però si alienò il favore di gran
parte del popolo oltre a quello del Senato. Non solo quindi non venne rieletto tribuno ma in un tumulto venne
ucciso insieme con 3.000 dei suoi.
Le riforme dei Gracchi comunque ben difficilmente potevano risolvere i gravi problemi che affliggevano
la repubblica romana le cui istituzioni si rivelavano inadeguate per governare un impero. In definitiva, i
Gracchi avevano ancora lo sguardo rivolto verso il passato anziché verso il futuro e sovrastimarono il ruolo
del popolo negli “affari politici”. Questo errore non sarebbe stato ripetuto dai successivi riformatori che si
174
Sulla relazione tra le istituzioni militari e la struttura sociale di Roma in questo periodo vedi P. Erdkamp, Army and Society, in N. Rosenstein, M.
Morstein-Marx (a cura di), op. cit., pp. 278-296.
175
J. Vogt, La repubblica romana, Laterza, Roma-Bari, 1975, p. 258.
176
Vedi L. de Ligt, The Economy: Agrarian Change during the Second Century, in N. Rosenstein, M. Morstein-Marx (a cura di), op. cit., pp. 590-605.
66
resero conto che dovevano disporre della forza piuttosto che affidare la propria causa unicamente al popolo. E
il fragore delle armi sarebbe stata la “musica” che avrebbe contrassegnato la vita politica di Roma nel secolo
seguente, accompagnando «le turbolente riforme con le quali alcune spiccate personalità in cerca di
autoaffermazione [avrebbero cercato di risolvere] i problemi di Roma e del mondo mediterraneo»177. E fu
naturalmente dagli ambienti militari che provennero gli uomini che avrebbero trasformato lo Stato. Con
l’elezione, nel 107 a. C., a console di Mario, si trovò a ricoprire la più alta magistratura della repubblica un
“uomo nuovo”, un “figlio del popolo”, suscitando l’entusiasmo della plebe che vedeva in lui il rappresentante
dei propri interessi. La vita politica di Roma allora infatti era caratterizzata dalla lotta tra due “partiti”, quello
degli ottimati (ossia gli aristocratici) e quello dei popolari di cui appunto Mario fu presto considerato il capo.
E proprio a Mario, che si era messo in luce nella guerra contro Giugurta (che aveva usurpato il trono della
Numidia, creando varie difficoltà a Roma al punto da indurre il senato a dichiarargli guerra), si attribuisce la
riforma dell’esercito romano178. Mario riunì i manipoli (30) della legione in dieci coorti (ciascuna di circa 500
uomini – praticamente i manipoli rimasero come unità tattiche minori, ogni coorte essendo composta da tre
manipoli di hastati, principes e triari, anche se ormai tale distinzione era meramente nominale e tutti i legionari
combattevano con scudi semicilindrici, spade e giavellotti). La legione poteva ancora schierarsi a scacchiera e
assumere diversi “schemi tattici” a seconda dei casi (l’ordine “normale” pare fosse lo “schema” 4-3-3, ma
erano possibili altri “schemi”; durante l’età imperiale, contro i barbari, la legione tornò a combattere come la
falange, e i legionari spesso formavano la “testuggine”, ovvero tenevano gli scudi sopra la testa, tranne i soldati
della prima fila). Dopo la riforma, le legioni avevano come emblema un’aquila d’argento e contavano ciascuna
circa 6.000 uomini (e dopo Mario circa 5.000). Ora al loro fianco si schieravano la cavalleria e reparti ausiliari
alleati (unità di fanteria leggera, arcieri e frombolieri). L’aspetto di gran lunga più importante e più gravido di
conseguenze della riforma di Mario consisté comunque nel rendere la leva indipendente dal censo e aprire le
file della legione ai “proletari” (misura che equivalse pure a sopprimere i reparti dei velites). Con Mario il
“vecchio” esercito di “contadini soldati” scompariva e d’ora in avanti l’esercito romano sarebbe stato composto
da uomini disposti a fare del servizio militare la loro professione e che sarebbero stati più fedeli ai propri
comandanti che a Roma o, se si preferisce, avrebbero identificato la causa di Roma con la sorte dei propri
comandanti, divenendo, con il passare del tempo, arbitri della vita politica di Roma.
Nonostante la repubblica fosse scossa fin dalle fondamenta per l’aggravarsi delle tensioni politiche e sociali,
le istituzioni militari di Roma dunque erano più salde che mai, e Mario poté infliggere due devastanti sconfitte
ai Teutoni e ai Cimbri (rispettivamente ad Aquae Sextiae nel 102 a. C. e ai Campi Raudii nel 101 a.C.) che
negli anni precedenti avevano più volte avuto la meglio contro degli eserciti di Roma (particolarmente grave
era stata la sconfitta subita dai Romani ad Arausio nella valle del Rodano nel 105 a. C., che costò la vita a
decine di migliaia di legionari)179. In seguito, fu pure possibile reprimere con estrema durezza la rivolta degli
Italici, non più disposti a tollerare che non si concedesse loro la cittadinanza romana. Tuttavia, nel 90 a. C.
Roma, temendo che anche Latini ed Etruschi si unissero alla rivolta, decise di concedere la cittadinanza romana
non solo agli alleati che non si erano ribellati ma anche agli insorti che avessero deposto le armi. E alle
comunità a nord del Po venne concesso lo “status latino”. Perciò, anche in questa occasione, al di là dei motivi
contingenti che portarono a tale decisione, i Romani non rinunciarono a quella prassi politica che consisteva
nel ricercare l’unità dei popoli sotto le insegne di Roma, ossia non cancellando la loro identità ma affermando
un principio politico superiore. Una politica che tanta parte aveva avuto nei successi della repubblica e che
non venne mai abbandonata da Roma, al punto che nel 212 d. C., con il famoso Editto di Caracalla, la
cittadinanza romana venne concessa a tutti i liberi dell’impero. Ovviamente, si deve tener presente anche l’altro
lato della medaglia, cioè quello del conquistatore spietato e avido di potere e di terra, e sotto questo aspetto
poco o nulla contava se il conquistatore era patrizio o plebeo. Ma la storia di Roma avrebbe visto i Romani
177
C. G. Starr, op. cit., p. 517.
178
Vedi P. Sabin, H. Van Wees, W. Whitby (a cura di), op. cit., vol. II, pp. 30-35 e A. Goldsworthy, The Complete Roman Army, cit., pp. 43-49.
Al riguardo non si può fare a meno di notare che sostenere come Jon Lendon (in Le ombre dei guerrieri. Strategie e battaglie nell’età antica, Utet,
Torino, 2006) che il vero motore dell’esercito romano era la “competizione nel coraggio militare aggressivo” e che la visione dei Romani come campioni
di disciplina non è che una concezione che si è potuta affermare solo nella prima età moderna, allorché si prestò particolare attenzione all’addestramento
e alla disciplina (vedi M. Bettalli, Guerre tra polemologi, pubblicato sul sito “Academia. edu”) rischia di alterare del tutto la comprensione del “volto
della battaglia antica”. Difatti, se i Romani (ma lo stesso vale per i Greci e i Macedoni) si fossero basati sul “furore guerriero” trascurando tattica e
disciplina, con ogni probabilità sarebbero stati fatti a pezzi dai barbari. Certo la disciplina nell’età antica non era quella dei Prussiani di Federico II, ma
si sa che la disciplina formale è tanto meno necessaria quanto più forti sono il cameratismo e l’autocontrollo (e questo vale, benché sia poco noto, anche
per le migliori unità dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale nonché, in generale, per le unità militari d’élite). Tutti fattori decisivi in uno
scontro a corpo a corpo che doveva segnare per tutta la vita coloro che vi partecipavano, anche se poteva durare solo poche ore. Solo tenendo conto di
questi fattori (nonché dell’azione spesso determinante dei comandanti) la “competizione nel coraggio militare aggressivo” (certo essenziale) acquista il
suo corretto significato (a questo proposito è significativo il discorso di Brasida - in Tucidide, IV, 126 – che oppone la disciplina dei Greci all’eccessiva
baldanza dei barbari, privi di uno schieramento ordinato e che non si vergognano di abbandonare la posizione sotto la pressione nemica).
179
67
non solo sottomettere altri popoli, ma anche combattere tra di loro, “senza esclusione di colpi”, per la conquista
del potere.
La guerra con gli Italici non era ancora conclusa che già si profilava la guerra civile tra Mario e Silla.
Aristocratico, colto e intelligente ma anche feroce e privo di scrupoli, Silla come Mario si era guadagnato la
fama come comandante militare, distinguendosi, in particolare, nella guerra sociale. Venuto a conflitto con
Mario per la conduzione della guerra contro Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, che aveva sollevato contro
Roma buona parte dell’Asia Minore e della Grecia (sollevazione che portò al massacro di circa 80.000 Italici,
odiati in specie dai ceti sociali meno abbienti), Silla non esitò a marciare su Roma per farsi assegnare il
comando dell’esercito. Appena Silla era partito per l’Asia, Mario riuscì a riprendere il potere, ma gli era
difficile avere il controllo della situazione politica, mentre venivano uccisi parecchi partigiani di Silla e
commessi innumerevoli arbitri e violenze. Morto improvvisamente Mario, capo dei popolari divenne Cinna.
Ma il governo dei “mariani” durò poco. Imposta una pace onerosa a Mitridate, dopo aver battuto più volte il
suo esercito in Grecia180, ma che lo riconosceva come alleato dei Romani, e obbligate le città dell’Asia che si
erano ribellate a pagare una enorme indennità, Silla, sbarcò a Brindisi con il “suo” esercito e con un ricco
bottino di guerra, mentre Cinna, che voleva intraprendere una spedizione in Dalmazia, venne ucciso ad Ancona
dai suoi stessi legionari. La guerra civile però non ebbe termine nemmeno con la scomparsa di Cinna. I
populares trovarono un nuovo capo in Mario, figlio del grande generale, e soprattutto poterono contare sul
valido aiuto da parte di Ponzio Telesino, capo degli insorti sanniti. Silla comunque riuscì ad assediare la
guarnigione di Mario il giovane a Preneste e ad impedire che l’esercito di Ponzio Telesino potesse portarle
soccorso. A questo punto, il capo degli insorti sanniti, che rischiva di essere attaccato (da nord) anche da
Pompeo, che aveva sconfitto un altro esercito dei mariani, decise di compiere una manovra audace puntando
direttamente su Roma. Qui, presso Porta Collina (nell’82 a. C.), si combatté la battaglia decisiva. L’ala destra
di Silla (comandata da Licinio Crasso) ebbe ragione dei suoi avversari ma sulla sinistra l’esercito di Silla ebbe
la peggio e ripiegò in disordine. I legionari di Silla trovarono però le porte della città sbarrate e non poterono
abbandonare il campo di battaglia. Silla allora riordinò le file del proprio esercito, che infine, dopo aspri
combattimenti che si protrassero anche dopo il tramonto, guadagnò la vittoria. Debellati definitivamente gli
insorti sanniti e i partigiani di Mario e Cinna, Silla si fece nominare dittatore a vita. Dovendo sistemare decine
di migliaia di soldati che avevano combattuto nel “suo” esercito, Silla non si fece scrupolo di proscrivere
migliaia di membri della parte avversa (e assai numerosi furono i cavalieri che vennero “giustiziati”). Il suo
scopo era però quello di ridare lo scettro al senato (a cui aggiunse 300 Italici e membri provenienti dall’ordine
equestre) e all’aristocrazia, limitando fortemente il ruolo e le funzioni dei cavalieri. Poche comunque delle sue
riforme gli sopravvissero, ché la repubblica era un malato non facile da curare.
Comunque sia, in questi anni le armi di Roma colsero altri successi. In Spagna, nel 71 a. C., Pompeo Magno
(denominato così per le strepitose vittorie contro i mariani in Sicilia e in Africa nell’80-82 a. C.) sconfisse
Sertorio, un ex luogotenente di Mario che si era ribellato a Roma. Successivamente, Pompeo debellò i pirati
della Cilicia che erano diventati quanto mai pericolosi dopo che Roma, non volendo rischiare di dovere
nuovamente combattere altre guerre sul mare, aveva impedito (assai poco saggiamente in verità) che anche i
propri alleati avessero una flotta da guerra (perfino la potente flotta di Rodi fu lasciata andare in sfacelo). Con
la scomparsa dei pirati della Cilicia la flotta romana si limitò a svolgere un compito di polizia marittima. I
sucessi di Pompeo però non erano terminati, tanto che sarebbe riuscito a battere definitivamente Mitridate, che
in precedenza aveva anche stretto alleanza con Sertorio inviandogli 3.000 talenti, ossia 72 milioni di sesterzi,
e una flotta di 40 navi181. Ma conseguenza delle conquiste e delle trasformazioni sociali della repubblica furono
anche le numerose rivolte degli schiavi. Diverse “insurrezioni servili” erano già scoppiate nel II secolo a. C.,
ma la più pericolosa di tutte fu quella del 73 a. C. guidata da Spartaco, un gladiatore di origine tracia. Ai pochi
gladiatori della scuola di Capua si unirono migliaia di schiavi spinti dall’odio verso Roma e dalla disperazione
per le loro miserrime condizioni di vita. Gli insorti (circa 70.000 se non addirittura 120.000) furono alla fine
sconfitti da Crasso (71 a. C.) che fece crocifiggere migliaia di ribelli lungo la via Appia. Un’altra banda di
insorti, scampati alla strage, venne poi sconfitta in Etruria da Pompeo, che si attribuì il merito aver vinto la
“guerra servile”. D’altra parte, si ritiene che sia stato proprio Crasso a chiamare in aiuto Pompeo, non essendo
180
Silla dapprima sottomise gran parte della Grecia (che, ad eccezione di Rodi, era passata dalla parte di Mitridate), poi, espugnata Atene (impresa non
affatto facile per le imponenti fortificazioni del Pireo), inflisse una durissima sconfitta all’esercito pontico (comandato da Archelao) presso Cheronea
(86 a. C.). Silla aveva fatto costruire una palizzata e aveva schierato “a quadrato” le sue legioni, che poterono così respingere l’assalto della cavalleria
nemica. I giavellotti e le frecce dei Romani poi fecero imbizzarrire i cavalli che trainavano i carri, tanto che questi ultimi, ripiegando in disordine,
travolsero le file della falange pontica. A questo punto i legionari contrattaccarono faendo a pezzi l’esercito nemico. In seguito, Silla sconfisse ancora
Archelao presso Orcomeno.
181
Vedi C. F. Konrad, From The Gracchi to the First Civil War (133-70), in N. Rosenstein, R. Morstein-Marx (a cura di), op. cit., p. 185.
68
riuscito a bloccare Spartaco in Aspromonte. Di fatto, fu solo «un rovesciamento improvviso della situazione
dovuto all’arrivo del proconsole di Macedonia [che] permise alle legioni di debellare definitivamente Spartaco,
prima che Pompeo tornasse dalla Spagna»182. Che le capacità militari di Crasso non fossero eccelse fu peraltro
tragicamente (per Roma s’intende) confermato pochi anni dopo, allorché un esercito romano venne totalmente
distrutto dai Parti. Nel 53 a. C., avventuratosi senza la necessaria cautela nella Mesopotamia per sottrarre ai
Parti il territorio ad est dell’Eufrate, l’esercito romano subì una disastrosa sconfitta. Crasso (che guidava
l’esercito romano) fece l’errore di sottovalutare i Parti (forse anche per una facile vittoria di Lucullo contro
questo popolo nel 69 a. C), trascurando il fatto che i Parti erano cavalieri e arcieri più che abili. Gli arcieri parti
a cavallo, supportati da una carovana di cammelli che trasportavano le frecce, furono infatti in grado di colpire
i legionari a distanza, di modo che questi ultimi non poterono validamente difendersi. Dopo aver subito
numerose perdite l’esercito romano fu completamente annientato presso Carre. Alla battaglia presero parte
pure dei cavalieri catafratti, che erano stati già impiegati dai Seleucidi contro i Romani nella battaglia di
Magnesia, ma con poco successo. A Carre invece 1.000 cavalieri catafratti agendo “in combinazione” con
10.000 arcieri a cavallo ebbero ragione di una forza romana composta da 40/42.000 soldati, inclusi 4.000
cavalieri183. Questa sconfitta segnò praticamente il limite dell’espansione romana ad oriente, nonostante che
non fosse l’ultima volta che le aquile di Roma si portarono oltre l’Eufrate. I nemici di Roma adesso però erano
soprattutto i Romani stessi. Le istituzioni repubblicane erano sempre più inadatte a consentire il regolare
svolgimento della vita politica, lo spirito di fazione faceva sì che le magistrature venissero ambite per
sopraffare la parte avversa più che per servire lo Stato e l’esercito di mestiere era un eccezionale veicolo di
“promozione politica” per uomini capaci e ambiziosi. Nondimeno, ci vollero alcuni decenni perché l’agonia
della repubblica terminasse e la “forma politica” dello Stato cambiasse. E in questi anni Roma conobbe ancora
la violenza, le devastazioni e i lutti delle guerre civili.
Difatti, la lotta politica riprese ancora più aspra dopo la morte di Silla e la cosiddetta “età di Cicerone” (un
“piccolo borghese” di Arpino dotato di eccezionale talento) fu contraddistinta da gravissime agitazioni e torbidi
politici di vario genere, tra cui il più noto è quello della congiura di Catilina. Personaggio “controverso”, la cui
vita era macchiata da gravi crimini (almeno secondo Sallustio), Catilina, che si considerava difensore degli
umili e degli sventurati, aveva cercato di farsi eleggere console, promettendo una revisione dei debiti e una nuova
legge agraria, ossia una rivoluzione sociale oltre che politica. Non riuscendo a farsi eleggere console, aveva ordito, con
altri aristocratici, un complotto per impadronirsi del potere. Smascherati da Cicerone (allorché quest’ultimo
era console, nel 63 a. C.), i congiurati non poterono portare a termine il loro piano: gran parte di loro fu
immediatamente condannata a morte (una misura voluta da Cicerone e approvata dal senato, ma illegale poiché
tutti i cittadini romani avevano il diritto di appellarsi al popolo), mentre Catilina venne sconfitto e ucciso in
una battaglia in Etruria, presso Pistoia, ove aveva la sua “base” tra i contadini poveri. Cicerone poteva vantarsi
di aver salvato la repubblica, ma la realtà era ben diversa. Fu infatti con Giulio Cesare, com’è noto, che la crisi
della repubblica raggiunse la sua acme. Personalità “magnetica”, condottiero e uomo politico di genio, Cesare
seppe legare a sé l’esercito come nessun altro prima di lui, trasformandolo in uno “strumento” di cui egli poteva
disporre senza problemi per la realizzazione dei propri disegni politici. Con il cosiddetto “primo triumvirato”
(ossia l’alleanza con Pompeo e Crasso) Cesare si assicurò l’elezione a console per il 59 a. C. e poi ottenne
il comando dell’Italia settentrionale (per cinque anni). Fu in questi anni che Cesare conquistò tutta la Gallia
(occupata da popolazioni celtiche che si erano fuse con i precedenti abitanti della regione), partendo dalla
Gallia Narbonese, che si estendeva da Tolosa fino alle Alpi e che era già provincia romana da molto tempo,
grazie anche all’influenza della città greca di Marsiglia (una città che indubbiamente favorì pure la successiva
romanizzazione dell’intera zona). Eppure, anche se Cesare riuscì a piegare la resistenza dei Celti nel giro di
pochi anni, non si trattò di una conquista facile.
D’altronde, l’attenzione di Cesare era costantemente rivolta verso Roma, tanto è vero che nel 56 a. C.
ritenne opportuno rafforzare l’alleanza con Pompeo e Crasso, con i quali si incontrò a Lucca stabilendo che
questi ultimi sarebbero stati consoli nell’anno seguente e avrebbero poi ottenuto rispettivamente la provincia
della Spagna e quella della Siria, mentre lui, Cesare, avrebbe avuto una proroga di cinque anni del suo comando
in Gallia. Ma rientrato Cesare dalla Britannia dopo che aveva sottomesso (ma a quanto pare solo “sulla carta”)
alcune popolazioni, proprio in Gallia scoppiarono diverse sollevazioni (in specie tra la tribù dei Carnuti e quella
degli Euborni) che portarono all’annientamento di 15 coorti romane, costringendo Cesare ad usare il “pugno
182
P. Grimal (a cura di), La formazione dell'impero romano, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 148.
I cavalieri catafratti, ossia “corazzati”, indossavano una veste con scaglie di metallo e altro materiale che copriva anche il volto, tranne gli occhi, e
impugnavano una lancia con due mani – perfino il cavallo era “corazzato” nello stesso modo e vi è chi ritiene che i Parti facessero già uso del ferro di
cavallo (vedi D. Farrokh, op. cit., pp. 141-143.
183
69
di ferro”. Le rivolte furono domate con il terrore, ma il fuoco covava ancora sotto la cenere e, nel 52 a. C., in
un’assemblea tenuta in un luogo segreto (forse nella foresta dei Carnuti, ad oriente di Parigi) si decise una
nuova insurrezione. I Celti avevano trovato in Vercingetorige un degno rivale di Cesare. La rivolta s’iniziò
con un massacro di cittadini romani a Cenabo, nel paese dei Carnuti. La reazione di Cesare fu rapida e risoluta,
e in breve tempo riconquistò Cenabo, che fu messa a ferro e fuoco. Vercingetorige “replicò” facendo “terra
bruciata” davanti alle legioni romane ma fece l’errore di “risparmiare” la città di Avarico che così cadde nelle
mani dei Romani. Ciononostante, mentre Labieno sottometteva le popolazioni ribelli nella valle della Senna,
Cesare ebbe a patire uno scacco a Gergovia (nel 52 a.C.), ove i legionari, proprio allorquando si accingevano
a scalare le mura della città, furono attaccati di sorpresa da Vercingetorige, perdendo in un batter d’occhio
circa 700 uomini e 46 centurioni. Cesare comunque non si scoraggiò. Manovrando con abilità, lasciò che la
cavalleria nemica inseguisse le truppe romane, facendo credere a Vercingetorige che i legionari si stessero
ritirando. I Celti caddero nella trappola e Cesare, che poteva avvalersi di numerosi e ottimi cavalieri germanici,
inflisse loro tali perdite da indurre Vercingetorige ad asserragliarsi nella città fortificata di Alesia. Sapendo
che un altro forte esercito nemico si stava radunando, Cesare fece costruire una complessa linea di fortificazioni
intorno ad Alesia, per impedire a Vercingetorige di abbandonare la città, e un’altra a protezione dei legionari,
che sarebbero stati contemporaneamente assedianti e assediati. Questa strategia, benché mettesse a dura prova
i suoi uomini, si rivelò essere quella giusta. L’esercito accorso in aiuto di Vercingetorige venne non solo
respinto ma pressoché distrutto dai Romani, e Vercingetorige non poté far altro che arrendersi (nel settembre
del 52 a. C.).
Allorché il valoroso capo dei Celti fu costretto alla resa, il triumvirato era già cessato da un pezzo e Crasso
aveva trovato la morte sul campo di battaglia di Carre (i pochi sopravvissuti del “suo” esercito erano adesso
prigionieri al di là dell’Eufrate). Sulla scena politica di Roma erano rimasti solo due protagonisti, entrambi
pronti a darsi battaglia: Pompeo e Cesare. Il primo rappresentava il mondo del “passato”, mentre Cesare era
“portatore” di istanze nuove che non potevano trovare spazio nelle istituzioni della repubblica.
Indipendentemente dalle ambizioni e dai talenti dei due uomini, passando il Rubicone, Cesare sapeva che
indietro non si poteva tornare. “Alea iacta est”: il dado era tratto. E questo valeva non solo per Cesare, ma in
definitiva per Roma stessa. Anche sul campo di battaglia però Cesare si mostrò superiore a Pompeo, che non
aveva osato sfidare il rivale sul suolo italiano e aveva preferito recarsi nella penisola balcanica. Dopo una breve
campagna contro le forze pompeiane in Spagna e aver espugnato Marsiglia, onde “coprirsi le spalle”, Cesare
si fece eleggere console per il 48 a. C e poi salpò da Brindisi per i Balcani, deciso a porre termine alla contesa
con Pompeo. Fallito il tentativo di conquistare Durazzo, Cesare però si trovò a mal partito, dato che la flotta
di Pompeo, controllando l’Adriatico, impediva che dall’Italia potessero giungere all’esercito del rivale quei
rifornimenti di cui aveva estremo bisogno. La situazione divenne sempre più critica con il passare del tempo
per l’esercito di Cesare, che fu costretto a ritirarsi, inseguito da Pompeo, il quale anziché cercare di trarre
vantaggio dalle gravi difficoltà logistiche in cui si trovava l’esercito del rivale, decise invece di dare subito
battaglia nella pianura di Farsalo (agosto del 48 a. C.). D’altro canto, la situazione pareva non potesse essere
migliore per Pompeo che disponeva di circa 52.000 uomini (45.000 fanti e 7.000 cavalieri) contro i 23.000
soldati di Cesare (22.000 fanti e solo 1.000 cavalieri)184. In pratica, il piano di Pompeo consisteva nel
concentrare la cavalleria sulla sua sinistra, per tentare una manovra di aggiramento. Cesare per parare questa
minaccia, posizionò sul fianco destro del suo schieramento la propria cavalleria, dietro la quale mise otto coorti
(prese dalla terza linea delle sue otto legioni). E, una volta sbaragliata la cavalleria di Labieno, l’esercito di
Cesare contrattaccò su tutto il fronte, travolgendo i “pompeiani”. Al costo di poche centinaia di caduti
contro15.000 morti tra i soldati di Pompeo e altri 24.000 presi prigionieri, Cesare era diventato “padrone” di
Roma.
Ci vollero ancora tre anni di guerra comunque prima che Cesare potesse mettere mano alla sua “riforma
politica”. Dapprima dovette inseguire Pompeo fino in Egitto, ma inorridito dalla crudeltà di Tolomeo XIV, che
gli aveva fatto dono della testa mozzata del suo rivale, affidò il regno a Cleopatra, l’Egitto rimanendo però
sempre sotto la “protezione” di Roma. Espugnata non senza difficoltà Alessandria, rimasta fedele a Tolomeo,
si recò in Asia Minore ove sconfisse il figlio di Mitridate, Farnace (fu in tale circostanza che inviò il famoso
messaggio composto di sole tre parole: “Veni, vidi, vici”). Infine, dopo aver battuto un gruppo di anticesariani
a Tapso e aver costituito la provincia dell’Africa, sconfisse i figli di Pompeo nella battaglia di Munda, in
Spagna. Ma già prima di questa battaglia, Cesare aveva festeggiato a Roma ben quattro trionfi (per le vittorie
nella Gallia e in Egitto, e per quelle contro Pompeo e Farnace). Eletto dittatore a vita, nel 44 a. C., gli era stata
accordata anche l’inviolabilità che spettava alla potestà tribunizia e, oltre a detenere il potere derivante da altre
184
Vedi A. Goldsworthy, Caesar’s Civil Wars, Osprey, Oxford, 2003, p. 32.
70
magistrature, il suo nome veniva preceduto dall’appellativo onorifico di imperator. Forte di questo eccezionale
potere concesse a tutti gli uomini liberi della penisola italiana la cittadinanza e non esitò ad aumentare il numero
dei senatori (facendo posto a Italici e perfino a Galli e Spagnoli). Inoltre, con la fondazione di numerose colonie
mirava a ridurre la distribuzione gratuita di grano, per stimolare la parte più operosa della plebe romana, che
chiedeva solo “pane e giochi”. È incerto se veramente volesse, come Alessandro Magno, essere considerato
un re divinizzato, ma è certo che riteneva che Roma avesse una missione “universalistica” da compiere e che
per questo si dovessero mutare quelle consuetudini e quelle tradizioni che non erano più “adeguate” alla
potenza di Roma. I pugnali dei congiurati che misero fine alla vita di Cesare quindi poterono ritardare la fine
della repubblica, non impedirla.
Con l’alleanza tra Ottaviano (figlio adottivo ed erede di Cesare), Antonio e Lepido (alleanza nota come
“secondo triumvirato”) cominciò un nuovo capitolo della storia delle guerre civili di Roma. I congiurati e i
loro sostenitori (tra cui Cicerone, che venne “giustiziato”) vennero proscritti e l’esercito dei cesaricidi Bruto e
Cassio venne sconfitto nella battaglia Filippi185. Ottaviano adesso però doveva vedersela anche con Sesto
Pompeo (che sebbene sconfitto a Munda da Cesare, era riuscito a fuggire e ad impadronirsi della Sicilia),
mentre Antonio era impegnato in un campagna militare contro i Parti che si erano spinti fino a Gerusalemme.
I Parti vennero debellati dal generale di Antonio, l’italico Ventidio, che ebbe l’onore di celebrare il primo
trionfo su questo popolo, ma Ottavaino si trovò a mal partito contro Sesto, avendo inviato il suo miglore
generale, Agrippa, come governatore in Gallia. Ottaviano allora, si assicurò l’appoggio di Antonio e affidò la
conduzione della guerra contro Sesto ad Agrippa, che colse una decisiva vittoria contro Sesto nella battaglia
navale di Nauloco. E anche Lepido dovette rassegnarsi a rinunciare alle sue ambizioni e “cedere il passo” ad
Ottaviano. Comunque, ancor più rilevante della sconfitta dei cesaricidi e di Sesto, fu lo scontro tra Ottaviano
e Antonio, che sotto un certo aspetto, si configurò come uno scontro tra Occidente (sotto Ottaviano) e Oriente
(sotto Antonio). Le difficoltà che Antonio aveva incontrato nella lotta contro i Parti lo avevano spinto
nuovamente nelle braccia di Cleopatra, dopo che l’aveva lasciata per sposare Ottavia, sorella di Ottaviano. In
tal modo egli fece il gioco di Ottaviano che poté presentarsi come difensore dell’ordine e delle antiche virtù
dei Romani. E con la sconfitta dell’ex luogotenente di Cesare nella battaglia navale di Azio (31 a. C.) venne
messo chiaramente in luce come il “centro” dell’impero romano fosse ancora Roma, sotto ogni punto di vista.
Ottaviano, quel giovane apparentemente innocuo che quasi nessuno aveva preso in considerazione alla morte
di Cesare, era diventato Cesare Augusto, l’uomo che avrebbe gettato le fondamenta di un “sistema imperiale”
che sarebbe durato per alcuni secoli.
L’impero (e gli imperi). Anche se in apparenza le “forme repubblicane” rimasero ancora in vita, con
Augusto (chiamato princeps, ovvero “primo cittadino”) si ebbe il graduale e definitivo trapasso dalla
repubblica all’impero. Infatti, Augusto ridisegnò i lineamenti fondamentali dello Stato romano. Per
appartenere al senato ora occorreva aver prestato servizio militare e avere un censo non inferiore a 1.000.000
di sesterzi (un censo di 400.000 sesterzi era invece necessario per far parte dell’ordine equestre). Avvalendosi
dell’opera di schiavi e liberti Augusto riformò l’amministrazione dello Stato che con il passare del tempo si
trasformò in una enorme “macchina burocratica”. Venne istituito un catasto e furono introdotte due nuove
imposte, una del 5% sull’asse ereditario e una dell’1% sulle vendite. La plebe romana venne governata con la
solita formula “pane e giochi”, mentre vennero istituite diverse magistrature che dipendevano direttamente
dall’imperatore (oltre al prefetto di Roma, prefectus urbis, vi erano il prefetto del pretorio, quello dei vigili e
quello dell’annona che aveva il compito di distribuire gratuitamente il grano a circa 200.000 beneficiari).
Inoltre, Augusto si adoperò per una “restaurazione” dei costumi e una limitazione del lusso dei ceti più abbienti
(invero con scarsi risultati) e promosse i culti religiosi, facendo tra l’altro ricostruire decine di templi. Di
fondamentale importanza e con effetti di “lunga durata” fu anche la ristrutturazione politico-militare
dell’impero. In primo luogo, Augusto distinse le province imperiali da quelle senatorie. Queste ultime erano
governate da proconsoli designati dal senato, mentre i governatori di quelle imperiali erano designati
direttamente dall’imperatore e avevano un regime fiscale locale per provvedere al pagamento delle loro truppe.
Della riscossione delle tasse per le province imperiali e per quelle senatorie vennero incaricati rispettivamente
un procuratore, appartenente all’ordine equestre, e un questore. Si affidava invece ad appaltatori la riscossione
di dazi. Inoltre, già durante la prima fase dell’impero romano vi erano delle differenze significative tra province
185
A Filippi (42 a. C.) avvenne lo scontro fra l’esercito di Bruto e Cassio (due dei conguirati che avevano ucciso Cesare e difensori delle istituzioni
repubblicane) e quello di Ottaviano e Antonio. Bruto riuscì ad espugnare il campo di Ottaviano, ma Antonio conquistò quello di Cassio, che, valutando
male lo svolgimento della battaglia, si uccise. Bruto resisté alcuni giorni, confidando nel fatto che l’esercito nemico aveva diffioltà a rifornirsi, ma,
spinto dai suoi a dare battaglia, venne sconfitto e come Bruto preferì suicidarsi piuttosto che cadere nelle mani dei suoi nemici.
71
occidentali e province orientali, in cui, dato che la lingua più parlata era il greco, i documenti ufficiali erano
redatti in greco e in latino (i Romani cioè non commisero l’errore di non cercare di comprendre la lingua degli
altri, al contrario dei Greci)186. Meno facile, ad esempio, era per chi proveniva dalle province orientali accedere
al senato o al consolato, sebbene si ritenga che le province in questo periodo venissero amministrate meglio
che in età repubblicana.
Sotto Augusto furono anche fondate numerose colonie militari nelle province e l’intero sistema militare
venne riordinato. La flotta ebbe ora due basi, una a Miseno (classis misenatium) e l’altra a Ravenna (classis
ravennatium); in seguito delle flotte più piccole furono stanziate in Egitto (classis alexandrina), in Siria (classis
syriaca, basata probabilmente a Seleucia, alla foce dell’Oronte) e nel Mar Nero (classis pontica). Le flotte
basate in Egitto e in Siria dopo il 44 d. C. dovevano distaccare un’aliquota di navi in Mauritania, nel
Mediterraneo occidentale. Nel 43 d. C. fu creata un’altra flotta (classis britannica) basata a Boulogne e a
Dover. Le diverse squadre navali comprendevano non solo triremi, ma altri tipi di navi. Quella di Miseno, ad
esempio, risulta che comprendesse almeno 88 navi: una nave ammiraglia, una quinquereme, 10 quadriremi,
52 triremi e 15 navi più piccole (liburnae); mentre quella di Ravenna doveva essere circa la metà di quella
basata a Miseno. Ai marinai, dopo un certo numero di anni di sevizio nella flotta, veniva concessa la
cittadinanza. La funzione principale della flotta romana era quella di polizia marittima, dovendo garantire un
regolare traffico commerciale e impedire la pirateria. Vi erano anche delle flottiglie fluviali: quella del Reno
(classis germanica), con base a Colonia, quella del Danubio (classis pannonica), basata vicino a Belgrado, e quella
del basso Danubio (classis moesiaca), basata (probabilmente) nel delta del Danubio.
Ancor più notevole fu il riordinamento dell’esercito. Augusto, profittando di un desiderio di pace
fortemente diffuso in tutto l’impero, smobilitò buona parte dell’esercito in cui erano presenti non poche “teste
calde” e “balordi” d’ogni risma dopo decenni di guerre civili e lotte intestine. Si trattava di un problema di non
facile soluzione, essendo uomini indisciplinati e non abituati alla vita civile. Pertanto, Augusto agì come aveva
fatto in precedenza Pompeo con i pirati, ovvero offrì ai soldati del denaro o la possibilità di condurre una vita
dignitosa coltivando la terra, riuscendo così a congedare circa 300.000 uomini. Le legioni da circa 60 (non
tutte complete, anche perché i Romani preferivano non “mischiare” le reclute con i veterani) furono ridotte a
28 (tolte le tre legioni perse da Varo, ne rimasero 25; successivamente se ne aggiunsero otto e poi ne furono
soppresse quattro; cosicché sotto Vespasiano ve n’erano 29, solo una in più rispetto al tempo di Augusto). Si
calcola che ciascuna legione contasse 6.000 uomini circa, compresi 120 cavalieri (dato che la cavalleria era
tornata ad essere parte organica della legione), oltre alle truppe assegnate al quartier generale e ad una unità di
“artiglieria” con catapulte e balestre. La legione era ancora suddivisa in dieci coorti e la prima coorte aveva
“doppie centurie” (anziché 480 uomini, la prima ne contava 960, ma secondo alcuni studiosi in realtà la prima
coorte contava solo cinque centurie doppie)187. Anche se i comandanti delle legioni (legati) erano sovente scelti
più in base a considerazioni “politiche” che in base al merito e alla capacità, il corpo degli ufficiali era di
prim’ordine ed era ormai formato da professionisti, benché anche dei centurioni potessero provenire dalla classe
equestre. Vi erano sei tribuni militari, un praefectus castrorum (responsabile dell’accampamento), diversi
centurioni (quelli della prima coorte erano di rango più elevato rispetto agli altri centurioni della legione) e
numerosi sottufficiali. I centurioni più giovani erano remunerati con 15.000 sesterzi all’anno, mentre il primo
centurione della legione (primus pilus) riceveva 60.000 sesterzi all’anno, 70 volte il compenso di un semplice
legionario.
Per tutti legionari vi era però la possibilità di fare carriera e il servizo militare quindi rappresentava un
ottimo strumento di mobilità sociale. Il servizio nelle legioni durava vent’anni e occorreva avere determinati
requisiti fisici, giuridici e perfino morali per poter essere arruolati. Anche la disposizione in base a cui i soldati
non era consentito di sposarsi legalmente pare risalire ad Augusto. Ai soldati, a fine carriera, veniva corrisposta
un’indennità prelevata da un “fondo militare” (aerarium militare), istituito al fine di non dover ricorrere agli
espropri per assegnare appezzamenti di terra ai veterani. Il reclutamento in Italia presentava però dei problemi,
anche se la maggior parte dei legionari nel I secolo proveniva ancora dall’Italia (il servizio militare era
obbligatorio, ma dalla riforma di Mario si ricorreva alla leva coatta solo nel caso che il numero di volontari
non fosse sufficiente), giacché gli Italici preferivano arruolarsi nelle coorti pretorie (il numero delle quali variò
sensibilmente nel corso degli anni; scese da 12 a 9, per tornare nuovamente a 12 sotto Caligola) 188. Ai circa
150.000 legionari si aggiungevano le unità degli ausiliari (anch’essi circa 150.000), ovvero unità (di fanteria e
cavalleria) composte da soldati che non erano cittadini romani (il servizio degli ausiliari durava ventisei anni
186
Su questo argomento vedi A. Momigliano, Saggezza straniera, Einaudi, Torino, 1975, pp. 157 e ss.
187
Vedi E. N. Luttwak, La grande strategia dell’impero romano, Rizzoli, Milano, 1997, p. 269.
Vedi P. Sabin, H. Van Wees., W. Whitby (a cura di), op. cit., vol. II, p. 44.
188
72
e al termine del servizio si otteneva la cittadinanza)189. Si ritiene però che l’armamento degli ausiliari fosse
diverso da quello dei legionari. Spatha (una spada lunga) e hasta sostituivano rispettivamente gladium e
pilum190. L’addestramento dei soldati romani comunque era come sempre assai duro e notevoli energie
venivano profuse in attività di ingegneria militare, né mancavano potenti macchine da guerra, che venivano
usate perlopiù (ma non esclusivamente) negli assedi.
L’esercito romano, del resto, era importante anche sotto il profilo economico. Renumerarlo e rifornirlo
doveva influire non poco sulla produzione di beni nonché sulla circolazione di merci e denaro. La popolazione
dell’impero allora assommava a circa 50 milioni di abitanti, ma era pur sempre enorme il costo da sostenere
per mantenere un esercito di circa 300.000 soldati. Solo il vettovagliamento richiedeva un complesso sistema
di strade, linee di comunicazione marittime e fluviali, depositi e magazzini. Compito principale dell’esercito
consisteva nel difendere gli oltre 6.000 chilometri di frontiera. Augusto aveva disarmato le regioni interne alla
scopo di rendere più facile quell’opera di pacificazione di cui è indubbio che vi fosse estremo bisogno. Una
politica cui si attennero pure i suoi successori, ma così l’impero romano era come un enorme “guscio vuoto”.
Le legioni erano posizionate lungo i confini e mancava una riserva strategica mobile. Se scoppiava una guerra
lungo il confine era necessario sguarnire altri settori per inviare delle truppe di rinforzo nei settori minacciati
(gli spostamenti però erano assai lenti; si stima che le truppe potessero percorrere circa 40 chilometri al giorno
– per di più i legionari costruivano l’accampamento al termine di ogni tappa; sul mare invece gli spostamenti
dovevano essere più veloci)191. Non a caso, nel 23 d. C., durante il principato di Tiberio, quattro legioni erano
in Siria e ben otto erano sul Reno192, dato che si trattava di due tra i settori più “sensibili” dell’impero. Il primo,
infatti, che confinava con il regno dei Parti, comprendeva la provincia della Giudea (annessa nel 6 d. C.), che
era una delle regioni più turbolente di tutto l’impero, tanto che vi scoppiarono due gravissime rivolte: una, nel
66 d. C., che portò alla distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d. C., anche se la famosa fortezza di
Masada cadde solo nel 73 d. C.; l’altra, durante il regno di Adriano e nota come rivolta di Bar Kōkĕbā (132135 d. C.) si concluse con l’interdizione imperiale agli Ebrei di vivere a Gerusalemme (la città venne distrutta
e riedificata con il nome di Aelia Capitolina). Anche i Parti costituivano ancora una seria minaccia per i
Romani. Augusto comunque, anche se portò a termine con successo le operazioni per “pacificare” la Spagna,
non intraprese alcuna spedizione contro questo popolo. Ma per Roma il confine con il regno dei Parti fu sempre
un confine “caldo”. In seguito Traiano cercò di conquistare la Partia (113-117 d. C.) e in effetti si impadronì
della sua capitale, Ctesifonte, ma le linee di rifornimento erano così insicure che saggiamente Adriano riportò
il confine sull’Eufrate, pur conservando un sbocco sul Golfo Persico e concedendo l’autonomia al piccolo
Stato di Palmira, di modo da rafforzare il confine (anche mediante una serie di stazioni commerciali) con il
settore sud-occidentale della Partia193.
Al riguardo, si deve ricordare che nel I secolo d. C. oltre a Roma e alla Partia vi erano altre due grandi potenze
in Eurasia: l’impero kushana in India e quello degli Han in Cina. A questo proposito, si deve ricordare che nel I
secolo d. C. oltre a Roma e alla Partia vi erano altre due grandi potenze in Eurasia: l’impero kushana in India e
quello degli Han in Cina. L’impero kushana e quello dei Parti erano i due imperi centrali e permisero che
avvenissero, sia pure indirettamente, degli scambi commerciali tra l’impero cinese e l’impero romano. La linea
di comunicazione principale tra i quattro imperi era la cosiddetta “via della seta”, più breve di quella a
settentrione, che dalle coste del Mar Nero arrivava fino in Cina, attraversando la steppa eurasiatica. La “via della
seta” dalla Cina arrivava nella Sogdiana e da qui si poteva giungere al Mar Nero passando attraverso la Partia;
ma si poteva anche scegliere di attraversare il deserto siriaco, passando da Palmira o dalla città di Petra, per
arrivare sulla costa del Mediterraneo orientale. Inoltre, da Palmira e da Petra si potevano raggiungere
rispettivamente la costa orientale dell’Arabia e lo Yemen. Importante era pure la rotta marittima che collegava
l’Egitto con l’India. La scoperta del ritmo dei monsoni accrebbe notevolmente il traffico commerciale lungo
questa rotta, che pare abbia raggiunto il suo apogeo nel I secolo d. C. Vi è comunque conferma che in tutta
quest’area, fino alla Malesia attraverso il Golfo del Bengala, vi era un intenso traffico grazie a intraprendenti
Forse non ancora al tempo di Augusto, dato che il primo esempio sicuro è dell’età di Tiberio (vedi C. M. Wells, L’impero romano, RCS, Milano,
2004, p. 160).
190
Vedi N. Pollard, The Roman Army, in D. S. Potter (a cura di), A Companion to the Roman Empire, Blackwell, Oxford etc., 2006, p. 215.
189
191
Vedi L. Casson, Shpis and Seamanship in the Ancient World, Princeton, Princeton University Press, 1971.
Tre erano in Spagna, due in Egitto, due nella provincia dell’Africa, due in Mesia, due in Pannonia e due in Dalmazia; in Italia vi erano nove
coorti pretorie e quattro coorti urbane.
193
In seguito Ctesifonte fu incendiata dai Romani due volte: nel 165 d. C. e da Settimo Severo nel 195 d. C., il quale istituì la provincia della
Mesopotamia. Ma non si trattò di conquista durevole. I Parti non potevano essere del tutto sconfitti, finché potevano contare sull’appoggio delle forti
tribù montanare. Quando queste si rivoltarono, il regno dei Parti scomparve e venne sostituito (224 d. C.) dall’impero sassanide, che durò fino alla
conquista araba (637-651 d. C.).
192
73
marinai indiani che si spingevano fino nel Mar Cinese passando dallo Stretto di Malacca. Una tale crescita
degli scambi commerciali, sia via terra che via mare e a distanze così grandi, fu certamente favorita da un periodo
di (relativa) pace e prosperità.
Per quanto concerne l’India, verso il 320 a. C., eliminate le guarnigioni macedoni lasciate da Alessandro
Magno, Chandragupta riuscì con la forza delle armi a fondare la dinastia Maurya e a dar vita ad un impero
situato tra l’Indo e il Gange. Nel 305 a. C. Chandragupta, al comando di un esercito, che secondo le fonti
indiane assommava addirittura a 600.000 uomini e 20.000 cavalieri, fece fallire la spedizione dell’imperatore
Seleuco Nicatore152. Quest’ultimo anziché scontrarsi con un simile esercito, preferì trattare con il re indiano, a cui
cedette diverse satrapie in cambio di 500 elefanti indiani. L’esercito di Chandragupta era basato su soldati di
mestiere (dato che l’impero era impegnato in continui scontri e conflitti) e la cavalleria era addestrata a
combattere come quella macedone. L’impero maruya, che traeva ricchezza da una forte pressione fiscale e dai
proventi derivanti da una fiorente produzione metallurgica (grazie alla presenza di miniere di ferro e rame),
raggiunse il suo massimo splendore nel III secolo a. C. con Ashoka, il quale condusse una serie di vittoriose
campagne militari culminate con la conquista di Kalinga. Sembra però che da allora Ashoka, convertitosi al
buddhismo, non abbia più intrapreso alcuna spedizione militare e si sia adoperato per la diffusione dei principi
etici del buddhismo e per il miglioramento dei rapporti tra l’amministrazione dello Stato e i sudditi dell’impero.
Grande successo Ashoka però non dovette avere come riformatore, se, subito dopo la sua scomparsa, anche
l’impero maruya scomparve. Fu allora (130 a. C. circa) che i Greci della Battriana riuscirono con Menandro a
fondare un regno indipendente nella regione di Kabul e del Punjab. Questo regno nel I secolo a C. venne travolto
da popolazioni indoeuropee che in seguito diedero vita alla dinastia kushana. L’impero kushana, la cui
cronologia è assai incerta, si trovava in una eccellente posizione geostrategica e al centro di vasti traffici
commerciali, di modo che conobbe un periodo di notevole prosperità fino a quando (nel II secolo d. C.) una
grave crisi economica, la pressione dell’impero sassanide e la difficoltà di controllare le popolazioni nomadi
ne segnarono il declino. L’impero kushana infine venne abbattuto dai Gupta, che regnarono su tutto il bacino
del Gange e fino alla foce dell’Indo, prima del crollo del loro impero, avvenuto alla fine del V secolo d. C. Sotto
il profilo politico-militare comunque non vi furono particolari novità rispetto all’impero maurya, gli eserciti
continuando ad essere di dimensioni colossali e a fare uso di numerosi elefanti da guerra. La storia indiana in
questo periodo sembra essere caratterizzata piuttosto dalla comparsa del buddhismo Mahayana (“Grande
Veicolo”). Il buddhismo dall’India si irradiò in tutto l’Estremo Oriente (Cina inclusa), ma nei secoli successivi
scomparve quasi del tutto proprio in India, ove venne, per così dire, “assimilato”e rielaborato secondo la
prospettiva induista.
Più complessa e tormentata appare la storia della Cina che portò alla fondazione dell’impero Han. Il regno
degli Zhou rimase saldo fino a quando non subì una severa sconfitta da parte dei barbari, che causò un
indebolimento del regno e un decentramento che favorì la formazione di diversi Stati dipendenti solo
nominalmente dal potere centrale, ma di fatto autonomi. E i singoli Stati entrarono ben presto in lotta tra di
loro per conquistare la supremazia. Ne seguì un periodo di caos e di guerre, che si suole suddividere in due
fasi: quella cosiddetta delle “Primavere e Autunni”(770-454 a. C.), in cui le grandi coalizioni furono dominate
dagli Stati più forti, e quella denominata degli “Stati combattenti” (dal 500 a. C. circa fino al 221 a. C.) che
vide i principati delle pianure, già in grave difficoltà nella fase precedente, perdere l’indipendenza, mentre si
affermarono sette grandi regni, che erano in uno stato di guerra permanente: Zhao, Han, Wei, Qin, Qi, Yan e Chu.
Ma il sovrano di Qin, Ying Zheng (che assunse il titolo di Shi Huangdi, cioè Primo Imperatore), «tra il 230 e il
221, nel corso di campagne che richiamano alla mente i folgoranti successi napoleonici, [riuscì a conquistare]
tutta la Cina dalle steppe della Mongolia e dalla pianura mancese fino alle regioni montuose a sud dello Yangtze»194. Le continue guerre non impedirono però che la popolazione cinese aumentasse costantemente. Né
mancarono i progressi tecnici e culturali: si diffusero l’aratro trainato dal bufalo, la tecnica di lavorazione del
ferro a fusione, la monetazione metallica e la produzione della seta; le grandi pianure furono messe a coltura,
si ridussero le terre dedicate al pascolo e si affrontarono i grandi problemi posti dalla necessità di irrigare i
terreni e prosciugare gli acquitrini. Straordinarie furono anche le innovazioni nel mondo dello spirito grazie
all’opera di grandi pensatori quali Confucio, Mozi, Mencio, Zhuang Zhou, nonché al sorgere di diverse correnti
filosofiche e di numerose scuole di pensiero, tra cui merita di essere ricordata quella dei legisti, secondo i quali è
indispensabile sostituire «allo spirito rituale ciò che essi considerano un principio oggettivo ed assoluto,
autosufficiente e autogiustificantesi: la legge»195. In questi anni vide la luce anche il celebre scritto di Sun Tzu,
194
J. Gernet, La Cina antica, Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 120.
195
A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino, 2000, vol. I, p. 237. La prima comparsa di leggi scritte in Cina risale alla fine del VI secolo
a. C.
74
L’Arte della guerra, un’opera spesso contrapposta (alquanto superficialmente) all’opera di Clausewitz. In realtà,
nonostante le profonde differenze tra i due autori, sia per Clausewitz che per Sun Tzu essenziale è lo scopo
(politico) della guerra. Ma, il teorico cinese sottolinea in particolare l’importanza dello stratagemma,
dell’inganno, del “mascheramento” e della diplomazia. La guerra (che consiste nell’imporre la propria la
volontà al nemico) non necessariamente quindi la si deve combattere e vincere ricorrendo alla forza (benché
indubbiamente la forza sia necessaria), ma con tutte le “armi” che permettono di conseguire tale obiettivo, di
modo che, sconfiggere il nemico senza combattere, se è possibile, significa conseguire il massimo successo
nell’arte della guerra. Sun Tzu dunque lo si può considerare il teorico per eccellenza dell”“approccio indiretto”
e di quella “strategia non lineare” che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale ha acquisito sempre
maggiore importanza.
In ogni caso, è indubbio che in Cina durante questi secoli sia stata proprio la guerra la causa principale del
mutamento sociale e politico che portò alla nascita dell’impero Han. L’innovazione più importante fu
probabilmente dovuta al fatto che gli eserciti vennero progressivamente a basarsi sui “soldati contadini”. Nella
fase iniziale delle “Primavere e Autunni”, gli eserciti erano composti da un nucleo di carristi e da qualche
decina di migliaia di soldati, male armati e male addestrati, ma con il passare del tempo il numero dei carri
aumentò e gli Stati più potenti ne contavano ciascuno diverse migliaia. In seguito però i carri persero
d’importanza rispetto alla fanteria. Quest’ultima crebbe sempre più di numero e arrivò a contare diversi corpi
specializzati (lancieri, arcieri, balestrieri e così via). Le balestre e le catapulte comparvero verosimilmente nel V
secolo a. C., mentre la cavalleria fece la sua comparsa verso la fine del secolo seguente, anche se non fu mai
particolarmente numerosa. Nel periodo degli Stati combattenti i fanti assommavano a diverse centinaia di
migliaia. Praticamente doveva prestare servizio quasi tutta la popolazione maschile atta all’uso delle armi (il
servizio di leva obbligatorio venne introdotto nel regno di Qin, durante il IV secolo a. C., e da allora fu una
caratteristica delle istituzioni militari cinesi), mentre il numero dei cavalieri doveva essere di 5/10.000.
Organizzazione, demografia, ricchezza, produzione cerealicola, capacità di comando e forza morale si rivelarono anche in
queste guerre fattori di primaria importanza. Notevoli furono anche i progressi nelle tecniche d’assedio e delle
fortificazioni, tanto che fu proprio Shi Huangdi, che nel 213 a. C. era riuscito con un esercito di 100.000
uomini a ricacciare gli Xiongnu verso nord, a costruire la Grande Muraglia (un’opera che venne però ampliata
nel corso dei secoli, in particolare durante la dinastia Ming). La Grande Muraglia delineava il confine tra le
terre irrigue e quelle dedicate al pascolo e aveva la funzione di separare uno “spazio interno” da uno “esterno”,
abitato da popoli nomadi o seminomadi che combattevano cavallo. Una tale linea di confine non poteva però
essere tracciata nettamente dato che vi era una zona intermedia, di “ecologia mista”, che variava con i mutamenti
climatici. Né ebbero successo i tentativi di regolare questa fascia di “ecologia mista” trapiantandovi dei coloni
cinesi, giacché «quando giungeva la siccità i coloni […] tendevano a trasformarsi in nomadi e ad accrescere così
la massa dei popoli a cavallo che a ondate successive si infrangevano contro la Muraglia; inoltre le offensive di
questi popoli vanificavano gli sforzi dei comandanti di frontiera di cinesizzare i semi-nomadi, la cui patria
naturale era la zona intermedia»196.
Dopo la morte di Shi Huangdi scoppiò la rivolta che portò al potere gli Han, una dinastia che durò dal 206
a. C. al 220 d. C., anche se gli storici distinguono la fase degli Han occidentali da quella degli Han orientali,
che regnarono dopo la morte di Wang Mang (22 d. C.), che è noto per aver istituito vari monopoli (sale, ferro,
alcol, coniazione monetaria etc.)197, onde incrementare le entrate dello Stato, ma soprattutto per aver cercato di
realizzare una riforma agraria, anche allo scopo di ristabilire il controllo dello Stato sulla massa dei contadini. Tali
riforme gli alienarono le simpatie della classe dirigente, dacché i funzionari che dovevano attuarle appartenevano
in buona misura a quelle famiglie che le riforme di Wang intendevano colpire. La politica di Wang fallì quindi
«a causa della resistenza di una classe dominante che era ormai molto più potente di quanto non fosse stata
quella degli inizi della dinastia Han»198. Per di più, una delle ricorrenti inondazioni del Fiume Giallo diede
origine ad una serie di rivolte e l’esercito imperiale subì una terribile disfatta contro l’esercito dei “Sopraccigli
rossi” nel 21 d. C. L’anno dopo Wang Mang fu battuto anche dall’esercito del “Bosco verde”, guidato da Liu
Xiu. A questo punto anche la capitale insorse e Wang venne ucciso. Liu Xiang, proclamato imperatore, spostò
allora la capitale da Chang’an a Luoyang, ma anch’egli venne sconfitto dai “Sopraccigli rossi”. Tuttavia, Liu
196
J. Keegan, op. cit., p. 151. Le considerazioni di Keegan si basano su O. Lattimore, La frontiera. Popoli e imperialismi alla frontiera tra Cina e
Russia, Einaudi, Torino, 1972, in specie pp. 49-73.
197
Del resto, anche Wudi (140-87 a. C.), famoso per avere esteso i confini dell’impero a nord e a sud, aveva cercato di imporre un controllo politico
sull’economia e si era adoperato affinché i traffici commerciali avvantaggiassero più lo Stato dei mercanti, i quali prestavano denaro ad usura riducendo
in schiavitù i contadini che non erano in grado di pagare i propri debiti.
198
M. Sabattini, P. Santangelo, op. cit., p. 163.
75
Xiu (discendente da un ramo collaterale degli Han, a differenza di Wang, ragion per cui quest’ultimo sarebbe
passato alla storia come l’“usurpatore”) nel giro di alcuni anni riuscì a riportare l’ordine nel Paese.
Sotto il profilo strettamente politico-militare non vi furono però innovazioni sostanziali rispetto al periodo
precedente (benché i Cinesi dovessero combattere contro i nomadi, che, come sempre, premevano lungo la
frontiera occidentale). La Cina durante gli Han conobbe in effetti un periodo di stabilità e sicurezza. L’apparato
dello Stato, che si era già accresciuto sotto i Qin, si ampliò ulteriormente. Di grande rilievo furono lo sviluppo
economico e il progresso tecnico (vi erano dei setifici, privati e statali, che impiegavano migliaia di operai e
durante il regno di Wudi comparve perfino una seminatrice meccanica; si diffusero anche i mulini a vento e ad
acqua, e all’inizio del II secolo d. C. pure l’uso della carta). I rapporti commerciali con il “mondo esterno”
s’intensificarono e tramite l’impero kushana si stabilirono legami commerciali con l’area mediterranea. Vennero
inoltre realizzate grandi opere al fine di migliorare il sistema di irrigazione. Al riguardo, è opportuno però
ricordare il giudizio di Gernet su quegli studiosi (in particolare Wittfogel) che ritengono che l’irrigazione abbia
dato origine al “dispotismo orientale”. Secondo Gernet anche «se la natura e le conoscenze tecnologiche hanno
favorito in Cina la comparsa di una certa forma di statalismo […] il ruolo fondamentale spetta ai fattori storici.
[Infatti] se la messa in opera di un impianto per la regolazione di corsi d’acqua [durante gli Han in specie
quello del Fiume Giallo] o per l’irrigazione e se il controllo di questi impianti hanno potuto influenzare la
struttura politica degli Stati militari [ossia gli “Stati combattenti”] e della Cina imperialista, non è però meno vero
che storicamente è stata l’esistenza di strutture statuali e di una manodopera numerosa e disciplinata, fornita
dagli eserciti, che ha reso possibile i grandi lavori di irrigazione»199. D’altronde, il potere degli Han dipendeva
da un regime fiscale efficiente e da una burocrazia potente, colta e capace. Si ritiene che pure l’uso di sottoporre
ad esami chi volesse accedere all’amministrazione dello Stato risalga al tempo di Wudi, durante il regno del quale
il confucianesimo divenne il cardine su cui fondare l’unità ideologica e culturale dell’impero (ma il
“confucianesimo di Stato” venne integrato con elementi di diverse dottrine)200.
Pur tuttavia, anche se il controllo di un massa così numerosa di sudditi e l’impiego di enormi eserciti, per
mantenere l’ordine all’interno del Paese e per difendersi dalle incursioni dei barbari, richiedevano non comuni
capacità di organizzazione, le basi dell’impero Han non erano del tutto solide, dato che la questione agraria
non era affatto risolta e il mondo contadino era oppresso da numerose tasse e corvées. Cionondimeno, perfino
dopo che venne soppressa la rivolta contadina del 36 d. C., i burocrati latifondisti non rinunciarono ad accrescere
il proprio potere. Molti contadini liberi cominciarono allora a nascondersi per evitare il servizio militare e le
pesanti corvées, altri cercarono protezione presso grandi proprietari meno esigenti, altri invece emigrarono nelle
regioni meridionali in cerca di terre non ancora messe a coltura. Alla fine del II secolo l’esercito era quindi
composto in gran parte da mercenari, reclutati tra i ceti sociali più poveri e tra le popolazioni “barbare”
insediate ai confini dell’impero201. Inoltre, mentre si diffondeva il brigantaggio e la corte era “dilaniata” da
lotte intestine che rendevano ancora più debole il potere centrale, l’aggravarsi delle condizioni di vita nella
regione compresa tra lo Henan e lo Shandong, devastata da una ulteriore inondazione del Fiume Giallo, favorì lo
scoppio (nel 184 d. C.) della rivolta dei “Turbanti gialli”, una setta di ispirazione taoista, organizzata
militarmente e forte di oltre 350.000 uomini, che proclamava che era imminente una nuova età dell’oro, in cui
sarebbe scomparsa ogni differenza tra ricchi e poveri. Dal caos che ne seguì emerse la figura di un valente
“signore della guerra”, Cao Cao, cui non riuscì però di estendere il controllo a tutto il territorio imperiale (anche
se cercò di rendere ereditaria la professione del soldato, istituendo il sistema delle famiglie militari). Con la
morte di Cao Cao (nel 220 d. C.) terminò dunque la dinastia Han, ma, in un certo senso, cominciò pure un’epoca
in cui si andarono rigenerando, benché lentamente, le condizioni per la riunificazione dell’impero. Peraltro, è
notevole che anche l’impero romano alla fine del III secolo abbia visto tramontare un periodo di sostanziale
stabilità politico-militare.
Invero, il sistema creato da Augusto rimase invariato, sia pure a grandi linee, per quasi duecento anni. Già
Augusto, comunque, si era reso conto del pericolo che rappresentava la frontiera sul Reno. Egli cercò quindi
di portare il confine dell’impero sull’Elba, per eliminare il saliente costituito dalla regione compresa tra il Reno
e l’Elba. Ma dopo la distruzione (nel 9 d. C.) delle tre legioni di Varo nella selva di Teutoburgo, ad opera di
tribù germaniche guidate da Arminio, la frontiera venne stabilmente segnata dai corsi del Reno e del Danubio,
199
J. Gernet, op. cit., pp. 96-97.
200
Vedi M. Sabattini, P. Santangelo, op. cit., p. 142.
Ivi, p. 191. In precedenza l’esercito (comandato da generali appositamente designati in caso di guerra e suddiviso in due armate principali, cui si
aggiungevano i contingenti “regionali”) era composto perlopiù da coscritti, ma il servizio militare poteva essere evitato pagando una certa somma. Vi
erano inoltre delle colonie militari nelle regioni del nord e del nord-ovest amministrate da “soldati contadini”.
201
76
anche se le legioni romane ebbero poi a oltrepassare diverse volte il Reno202. Il sistema difensivo dell’impero
romano è stato studiato anche da Edward Luttwak, in La grande strategia dell’impero romano, le cui tesi hanno
suscitato sì molte polemiche ma pure notevole interesse. In sostanza, secondo Luttwak si possono distinguere
tre sistemi difensivi durante l’impero romano. Il primo, definito “Giulio-Claudio” (o “imperialismo
repubblicano”), era basato su una fascia di “Stati cuscinetto”, costituita da clientes, mentre le truppe romane,
pur se distribuite in una vasta area, garantivano una difesa flessibile, sufficientemente mobile e rapida, i clientes
fungendo da linea di difesa avanzata. (Si deve pure notare che Luttwak, basandosi su uno studio di Thomas
Pekáry, in cui si ipotizza che all’inizio del Principato il costo dell’esercito non oltrepassasse la metà delle
entrate dell’impero, giunga alla conclusione che nell’età augustea «i costi erano determinati dal contingente
necessario, e non viceversa»)203. A questo sistema sarebbe seguito quello antoniano, che durò, con alcune
variazioni, dall’età dei Flavi (dopo il 69 d. C.) fino alla metà del III secolo circa. Il sistema antoniano era
imperniato su una forte difesa locale e rifletteva la crescente “territorializzazione” dell’impero e la diminuzione
d’importanza degli Stati clientes. Infine, sempre a giudizio di Luttwak, sotto Diocleziano, vi fu un vero e
proprio sistema di “difesa in profondità”, «basato su una serie di fortificazioni costruite in posizione non
eccessivamente profonda rispetto ai confini, [sostituì] la difesa “elastica” di Gallieno e della generazione
precedente, che prevedeva l’intervento di appositi eserciti da campo per combattere contro i gruppi di barbari
penetrati anche molto profondamente nel territorio imperiale»204. Quest’ultimo sistema era di fatto una
combinazione (poco soddisfacente, secondo l’analista statunitense) degli altri due.
La tesi di Luttwak, pur essendo difesa da alcuni studiosi, è stata duramente criticata205. In particolare,
secondo Benjamin Isaac, Roma non avrebbe mai smesso di cercare di estendere i propri domini, come prova
la politica aggressiva nei confronti dei Parti, tanto che le fortificazioni in quest’area sono da considerarsi
sempre in funzione di una “proiezione di potenza” oltre i confini206. Del resto, anche se Isaac prende in esame
solo la frontiera orientale, è pur vero che i Romani non avevano né un servizio cartografico, né istituti di studi
strategici come quelli che esistono oggi. Si è fatto notare poi che le decisioni degli imperatori dipendevano da
fattori economici, demografici e diplomatici oltre che da motivazioni militari. E non è mancato chi ha
rimproverato a Luttwak semplificazioni e anacronismi, né chi ha messo in rilievo che solo in alcuni settori
erano presenti le opere difensive cui si riferisce Luttwak. Anche l’affermazione di Luttwak secondo cui Roma
arrestò la sua espansione quando incontrò popoli (come i Germani e i Parti) che non era facile sconfiggere o
“integrare” nell’impero, pare assai discutibile, se si tiene conto della rimarchevole flessibilità dell’esercito
romano. E nozioni come “difesa in profondità” o “difesa elastica” sembrano presupporre un contesto storico e
culturale del tutto diverso da quello che c’era all’epoca dell’impero romano. Si deve comunque tener presente,
come ricorda lo stesso Goldsworthy, che la tesi di Luttwak (come la stessa critica di Isaac) è più “sfumata” ed
“elastica” di quanto di solito si suppone.
Indipendentemente dall’analisi di Luttwak, che solo gli storici possono valutare anche sulla base di nuove
scoperte archeologiche207, è indubbio che con la riorganizzazione militare voluta da Adriano i legionari
vennero reclutati perlopiù nei territori di confine, con l’effetto non solo di indebolire l’unità dello Stato, dato
che adesso i soldati si sentivano legati soprattutto alla regione in cui prestavano servizio, ma di rendere assai
più difficile una difesa mobile (e fu proprio sotto Adriano che la legione tornò ad adottare la tipica formazione
della falange). Difetto solo in parte “corretto” dalla presenza di distaccamenti mobili (vexillationes) che, a seconda
della loro consistenza, erano comandati da centurioni o da legati. Anche i confini dell’impero subirono alcuni
cambiamenti con la spedizione (nel 45 d. C.) in Britannia, coronata da successo, sebbene tre legioni vi
dovessero rimanere di presidio (l’imponente fortificazione costruita dall’imperatore Adriano nel II secolo,
conosciuta appunto come Vallo di Adriano, più che delimitare un confine aveva come scopo quello di
sorvegliare le popolazioni limitrofe); mentre, per quanto concerne i confini orientali, nel 66 d. C. l’Armenia,
stretta tra Romani e Parti, con i quali Augusto aveva concluso accordi diplomatici, diventò un protettorato
202
Varo, che si fidava di Arminio, commise l’errore di inoltrarsi nella foresta, che non conosceva, per raggiungere un accampamento romano sul Reno.
Il terreno, reso ancora più impervio da piogge torrenziali, non permise ai Romani di disporsi in ordine di battaglia, mentre i Germani potevano attaccare
le legioni da ogni lato. Dopo aver bruciato il carriaggio, i Romani ripresero la marcia ma subirono altri gravi perdite. Il terzo giorno di battaglia vide
la fine di Varo e dei suoi uomini. Circa 18.000 legionari persero la vita nella selva di Teutoburgo.
203
Vedi E. N. Luttwak, op. cit., p. 30 e la nota 11 a p. 270 per l’articolo di Pekáry.
204
Ivi, p. 258.
Su questo argomento vedi A. Goldsworthy, War, in P. Sabin, H. van Wees, M. Whitby (a cura di),
op. cit., vol. II, pp. 109 e ss.
206
Vedi B. Isaac, The Limits of Empire, Clarendon Press, Oxford, 1992.
207
Vedi anche M. Rocco, L’esercito romano tardoantico, Libreria Universitaria Edizioni, Padova, 2012, in particolare pp. 81 e ss. e pp. 553-555.
205
77
romano. Si trattava di una regione di «cruciale importanza, per il controllo della frontiera dell’Eufrate, poiché
poteva essere utilizzata per irrompere a meridione in Partia o ad occidente in territorio romano»208 In seguito
vi furono le conquiste di Traiano (che portò il numero delle legioni a 30), ossia quella della Dacia (che garantì
la sicurezza del limes danubiano per 60 anni e il possesso dei giacimenti auriferi dei Carpazi), dell’Armenia
(che divenne provincia romana) e quella (già menzionata) della Mesopotamia. Questa fu la massima estensione
dell’impero romano.
La pax romana in effetti sembrò regnare in questi decenni. Eppure, nonostante che l’impero godesse di
buona salute, anche in quest’epoca non potevano mancare crisi e squilibri che si aggravarono particolarmente
verso la fine del II secolo. Lo sviluppo del commercio (in specie via mare, a causa dell’intenso traffico da
Alessandria verso Roma per il trasporto di grano anche con navi da 1.000 tonnellate) e la crescita dell’attività
manifatturiera si accompagnarono a un forte aumento delle diseguaglianze sociali. Si formarono così due classi
sociali: gli honestiores, che comprendevano i membri dell’ordine senatorio, i cavalieri e i decurioni (membri
dei consigli delle colonie romane e dei municipi), e gli humiliores, cittadini delle classi sociali inferiori, spesso
raggruppati in associazioni di mestiere (collegia). Benché il numero degli schiavi diminuisse (invero anche la
loro condizione migliorò) e la cittadinanza venisse estesa a gran parte dei sudditi dell’impero, la ricchezza
andò concentrandosi nelle mani di pochi, di modo che la domanda di beni era sostenuta, di fatto, solo dai ceti
abbienti, in quanto la gran massa della popolazione disponeva solo del necessario per vivere. Il legame sociale
era indebolito anche dalla perdita di autonomia delle città di provincia (in qualche modo derivante proprio
dalla eccezionale espansione della “macchina amministrativa”) e dalla pressoché totale assenza di quella
coscienza politica che aveva contraddistinto la Roma repubblicana nei suoi tempi migliori. Ed era inevitabile
che l’indifferenza e il disinteresse per gli affari pubblici indebolissero anche il senso di appartenenza e la coscienza civica
dei Romani. Inoltre, mentre si diffondeva il cristianesimo, accanto ai più diversi culti orientali che preparavano
la strada al sincretismo religioso del secolo seguente, la pressione dei barbari sui confini era tutt’altro che
scomparsa.
Nella seconda metà del II secolo il pericolo dei barbari superò di gran lunga il livello di guardia. Già in
precedenza (nel 132 d. C.) Roma aveva dovuto respingere una pericolosa orda di cavalieri catafratti sarmati
che avevano invaso la Cappadocia (una regione dell’Asia Minore che confinava con l’Armenia e il Ponto)209.
Fu sotto Marco Aurelio però che le incursioni dei barbari si moltiplicarono e s’intensificarono. Particolarmente
gravi furono quelle dei Marcomanni che si spinsero fin nell’Italia Settentrionale. Solo l’azione energica di
Marco Aurelio e la saldezza dell’esercito, ancora unito da vincoli spirituali fortissimi, ebbero la meglio sugli
invasori. Tuttavia, con la scelta, non affatto felice, di Marco Aurelio di nominare come successore suo figlio
Commodo, s’interruppe la serie degli imperatori di adozione e si aprì una fase di instabilità e anarchia solo
parzialmente superata da Settimio Severo. Se è una esagerazione ch’egli abbia imbarbarito completamente il
corpo degli ufficiali, non v’è dubbio che la romanizzazione dell’esercito fosse superficiale. Come afferma
Rostovtzeff, «l’aumento degli stipendi militari, e l’aumento di razioni in natura in aggiunta alla paga dei
soldati, i privilegi concessi ai veterani […] il favore dato alla vita associativa nei campi permanenti, e (non
meno importante di tutto il resto) il riconoscimento legale dei matrimoni contratti da soldati [furono]
concessioni gravi, destinate inevitabilmente a distruggere lo spirito militare e a creare nell’impero un’influente
casta militare». Indubbiamente Severo (consapevole che il potere imperale veniva conteso tra numerosi
pretendenti, i quali ovviamente avevano bisogno dell’appoggio dell’esercito per prevalere) ebbe a fondare il
proprio potere sull’esercito, tanto che si racconta (e non v’è motivo di dubitarne) che egli raccomandasse ai
propri figli di preoccuparsi di arricchire i soldati e di non curarsi d’altro.
Le tensioni interne ed esterne che avevano cominciato a far vacillare l’imponente struttura politico-militare
di Roma verso la fine del II secolo, si acuirono notevolmente nel secolo seguente, al punto che l’impero rischiò
di crollare. La crisi demografica, dovuta anche a frequenti epidemie di peste, si sommò ad una crisi sociale ed
economica, oltre che ad una crisi politico-militare. Lo spietato fiscalismo e le continue requisizioni per far
fronte ai molteplici impegni dello Stato divennero intollerabili e scatenarono tumulti e sommosse in diverse
province dell’impero. La produzione di beni diminuì, anche perché l’eccessiva pressione fiscale scoraggiava
ogni spirito d’intrapresa, facendo così diminuire le entrate dello Stato. Critica era specialmente la situazione
dell’Italia, che anche a causa della concorrenza delle province vide impoverirsi le classi medie che in passato
208
C.M. Wells, op. cit., p. 164.
209
Al riguardo ci rimane uno scritto dello storico Arriano (governatore della Cappadocia) che ci informa che i Romani cercavano di colpire con nugoli
di giavellotti e frecce i cavalieri sarmati, di modo da “bloccare” la carica della cavalleria prima che quest’ultima potesse venire a contatto con i legionari
(a tale scopo i Romani rinforzarono la prima linea anche con unità di arcieri). Lo schieramento dei Romani in ogni caso doveva rimanere compatto e i
legionari non dovevano lanciarsi all’inseguimento del nemico. Solo la metà dei cavalieri potevano inseguire i Sarmati se questi ultimi si ritiravano, di
modo che fosse sempre disponibile una riserva di cavalleria. Su questo argomento vedi anche S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op cit., pp. 109-110.
78
erano state il nerbo della potenza di Roma. Per far fronte a queste difficoltà si ricorse addirittura all’espediente
di alterare il contenuto d’argento delle monete. L’antoniano (o doppio denarius), che al tempo di Caracalla era
per il 50% d’argento, divenne una moneta di rame rivestita di un sottile strato d’argento (dal 50% l’argento
passò al 5%). La situazione finanziaria era talmente disastrosa che in alcune zone dell’impero si tornò al
baratto. E carestie, sperequazioni economiche e rincaro dei prezzi rendevano la crisi ancor più drammatica.
D’altra parte, la necessità di reperire fondi per l’esercito lasciava poco margine di manovra agli imperatori,
che in questo secolo si succederono l’uno dopo l’altro ad un ritmo impressionante: dal 235 al 285 nessun
periodo di regno fu di lunga durata, ad eccezione di quello del debole Severo Alessandro (222-235) che ebbe
la fortuna di essere assistito da abili consiglieri come lo storico Cassio Dione e il giurista Ulpiano. La disciplina
militare, tradizionale punto di forza dell’esercito romano, si era così rilassata che le legioni si erano trasformate
in bande armate in lotta tra di loro e non esitavano a taglieggiare la popolazione come rimedio all’inflazione,
mentre cresceva il numero dei barbari presenti nell’esercito (peraltro, la distinzione tra legioni e unità ausiliari
era scomparsa dopo che Caracalla aveva concesso la cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell’impero).
Brigantaggio e pirateria dilagavano ovunque e i Goti poterono addirittura attraversare il mare compiendo
scorrerie in Grecia e in Asia Minore. Perfino l’imperatore Decio (248-251) trovò la morte nel tentativo di
respingere questa ondata di barbari. Né più sicuri erano i confini orientali minacciati dall’impero sassanide. La
spedizione intrapresa dall’imperatore Valeriano per fronteggiare tale minaccia si concluse in un disastro e lo
stesso Valeriano venne fatto prigioniero (con l’inganno) da Sapore I, l’imperatore sassanide. La situazione
venne ristabilita solo da Odenato di Palmira che sconfisse i Sassanidi, ma lo Stato di Palmira era ormai
indipendente ed estese i suoi domini fino in Asia Minore e in Egitto. Anche le frontiere settentrionali causarono
non poche preoccupazioni a Roma. Tra il Reno e il Danubio si insediarono gli Alemanni, che compirono
incursioni anche nell’Italia Settentrionale, e i Franchi avanzarono fino in Gallia e in Spagna. Sicché, quando
scomparve Valeriano, la sorte di Roma pareva segnata.
A Valeriano successe però Gallieno, ch’era di ben altra tempra, e dopo di lui venne la serie degli imperatori
illirici che seppero salvare l’impero romano trasformandolo: Gallieno sconfisse gli Eruli e i Goti; Claudio II
(il primo degli imperatori illirici) batté, presso il Lago di Garda, gli Alemanni e inflisse una pesante sconfitta
ai Goti; Aureliano perse la Dacia, ma prese e distrusse Palmira e fece cingere di mura (lunghe 19 chilometri)
Roma; infine, dopo alcuni effimeri imperatori, salì al trono Diocleziano, che restaurò l’autorità imperiale e
rafforzò le difese ai confini. Sotto Diocleziano Roma cessò di essere la capitale dell’impero e fu abolita la
distinzione tra province imperiali e province senatorie. Per risolvere la crisi economica e sociale, Diocleziano
trasformò i contadini in servi della gleba, vincolandoli alla terra e impose ai lavoratori di far parte di
corporazioni e ai figli dei lavoratori di fare lo stesso mestiere del loro padre. Istituì anche un sistema di
pagamenti in natura (annona) e un calmiere per combattere l’inflazione, ma il risultato fu la diffusione del
mercato nero e un ulteriore aumento dei prezzi. Maggior successo nel campo delle riforme economiche ebbe
invece Costantino facendo coniare una buona moneta d’oro, il solidus, che si mostrò uno strumento efficace,
insieme al ripristino su ampia scala dei pagamenti in denaro anziché in natura, per ridurre l’inflazione e dare
nuovo impulso al commercio e all’attività manifatturiera210. Secondo Santo Mazzarino, «la rivoluzione
economica [di Costantino] spezzò in due la storia dell’impero romano: prima di lui la storia del denarius,
moneta della piccola borghesia ma anche moneta del principato; con lui e dopo di lui la storia del solidus,
moneta degli honestiores cui la afflicta paupertas invano si oppone»211. Dal punto di vista economico (ma certo
non solo sotto questo aspetto), fu pure di capitale importanza la fondazione di Costantinopoli (nel 330), ove
sorgeva l’antica Bisanzio, ossia nel luogo ove si incrociavano i traffici commerciali tra l’Asia e l’Europa.
A Gallieno e soprattutto a Diocleziano e Costantino si deve anche la riorganizzazione dell’esercito romano.
Sotto Gallieno per aumentare la mobilità dell’esercito, venne istituito (o perlomeno rafforzato) un corpo di
cavalleria mobile che potesse fungere da riserva centrale. Vennero formati corpi di cavalieri dalmati e mauri,
un corpo di cavalleria pesante, dotata di lance e spade lunghe (queste in dotazione anche alla fanteria), nonché
un corpo di truppe cammellate (a Gallieno si attribuisce inoltre il rafforzamento del contingente di cavalleria
assegnato alle legioni, che passò da 120 a 726 cavalieri). Anche Diocleziano e Costantino s’impegnarono in
una radicale riforma dell’esercito. Sotto Diocleziano è certo che crebbe sia il numero degli effettivi sia quello
delle legioni (almeno 56), ma la riforma militare di questo imperatore si ritiene sia stata portata a compimento
da Costantino (cui una volta si attribuiva solo il rafforzamento dell’apparato di polizia dell’impero). Nella
prima metà del III secolo quindi l’esercito romano era diviso in due parti: le truppe limitaneae, che dovevano
Il solidus pesava circa 4,5 grammi, ovvero 1/72 della libbra romana; conosciuto come nomisma fu la moneta principale dell’impero bizantino, anche
se, a partire dall’XI secolo, venne svalutato più volte.
211
S. Mazzarino, L’impero romano, Laterza, Roma- Bari, 2008, vol. I, p. 24.
210
79
presidiare i confini dell’impero (queste truppe erano comandate da duces, indipendenti dai governatori), e un
esercito di campagna, che era comandato da magistri militum (Costantino distinse un magister peditum da un
magister equitum, il secondo subordinato al primo) e che fungeva da corpo di manovra. Quest’ultimo
comprendeva vexillationes di cavalleria (che annoverano 500 cavalieri ciascuna) e legioni di fanteria ciascuna
composta da circa 1.000 uomini (anche se al tempo di Diocleziano probabilmente ne contavano più di 1.000).
Queste truppe erano divise in palatinae (truppe di palazzo) e comitatanses (truppe mobili, istituite da
Costantino)212. Nel IV secolo vennero costruite anche numerose fortificazioni in pietra sulla frontiera
settentrionale (ma di scarso valore bellico) e il numero dei barbari nelle file dell’esercito continuò a crescere
(si calcola che all’inizio del IV secolo gli effettivi dell’esercito fossero all’incirca 400.000; secondo lo scrittore
bizantino Giovanni Lidio, dell’età di Giustiniano, durante il regno di Diocleziano vi erano 389.704 soldati e
45.562 uomini nella marina militare)213. Per quel che concerne i limitanei , si ritiene che nel IV-V secolo si
siano trasformati in “soldati contadini” legati alle proprie terre (che coltivavano e difendevano con le proprie
armi), ma non pare che il loro ruolo di “guardie di confine” si sia tradotto «immediatamente in uno scadimento
della loro efficienza bellica, soprattutto se si considera che queste truppe venivano promosse come
pseudocomitatenses negli eserciti mobili» (si può comunque presupporre che queste truppe si siano sempre più
identificate con le popolazioni di confine, a differenza delle truppe comitatenses che erano acquartierate presso
le abitazioni delle città dell’interno)214. Comunque è innegabile che l’impero romano abbia tratto giovamento
da queste riforme e l’esercito rimase efficiente, almeno fino alla terribile sconfitta di Adrianopoli nel 378.
Ai Visigoti (Goti occidentali) era stato concesso di installarsi entro i confini dell’impero, nella regione della
bassa Mesia (odierna Bulgaria), con l’obbligo di provvedere alla difesa della Tracia. A causa della politica dei
funzionari romani però nacquero dissensi che portarono a tumulti e ad uno scontro presso Marcianopoli (377)
in cui i Romani ebbero la peggio. Saccheggi e incendi si moltiplicarono e la rivolta dilagò, al punto che i
Visigoti minacciavano di marciare su Costantinopoli. Di conseguenza, l’imperatore Valente decise di muovere
contro quest’orda di barbari e di dar subito battaglia basandosi su quanto riferitogli dalle pattuglie mandate in
esplorazione (secondo le quali i Goti non erano più 10.000)215. Dimenticando le lezioni apprese dai Romani
nelle numerose guerre contro i barbari, Valente mosse quindi subito all’attacco del campo dei Goti, con le
legioni al centro e la cavalleria ai lati. Ma solo una parte dei Goti si trovava all’interno del campo (che era
circondato da carri per la difesa), dato cheil grosso della loro cavalleria si era allontanato in cerca di foraggio.
Cosicché, quando già infuriava la battaglia tra i Goti a guardia del campo e i Romani, la cavalleria dei barbari
poté assalire all’improvviso quella romana, mettendola in fuga, e lanciarsi contro il fianco sinistro dei legionari.
L’esercito di Valente, circondato, fu fatto a pezzi: solo un terzo dei soldati romani riuscì a sfuggire al massacro,
tutti gli altri (tra cui lo stesso Valente) perirono.
A questa battaglia alcuni storici fanno risalire l’inizio della disgregazione territoriale dell’impero romano e
il tramonto della fanteria come regina delle battaglie. Oggi comunque si ritiene che il mutamento che portò la
cavalleria a svolgere il ruolo principale sui campi di battaglia nei secoli seguenti sia stato lento e graduale216.
Per quanto concerne l’organizzazione dell’impero, si deve ricordare che Diocleziano aveva istituito la
cosiddetta “tetrarchia”, ovvero aveva diviso l’impero in due parti, una occidentale e una orientale (riservando
a sé quest’ultima). A capo di ciascuna di esse vi era un Augusto coadiuvato da chi doveva succedergli
(chiamato Cesare), lo scopo essendo quello di evitare le sanguinose lotte per la successone. Questo sistema
entrò in crisi subito dopo la morte di Diocleziano, ma la divisione dell’impero in una zona occidentale e una
orientale era inevitabile e Costantino sconfitti i suoi rivali (prima Massenzio, poi Licinio), riunì sotto il suo
scettro l’impero e spostò la capitale a Costantinopoli. Dopo una serie di varie e complicate vicende,
all’imperatore Gioviano (che cedette i territori intorno al Tigri e all’Eufrate a Sapore II) succedettero
Valentiniano e Valente, rispettivamente imperatore d’occidente e imperatore d’oriente. Ma in seguito alla
scomparsa di Valente nella battaglia di Adrianopoli salì al trono Teodosio I, il quale oltre a costringere i
Visigoti a un nuovo accordo (mitigando così le conseguenze della disfatta del 378), riuscì nuovamente a
unificare l’impero. Teodosio però fu l’ultimo imperatore di Roma a regnare su tutto l’impero. Infatti,
212
Sulla questione vedi M. Rocco, op. cit., pp. 273 e ss.
213
Vedi P. Sabin, H. van Wees, M. Whitby (a cura di), op. cit., vol.II, p. 284.
Vedi M. Rocco, op. cit., p. 418.
Vedi le considerazioni di H. Delbrüch, op. cit., vol. II, pp. 269-284 e quelle di S. Macdowall, Adrianople AD 378, Osprey, Oxford, 2001, pp.
63-64.
216
L’invenzione e la diffusione della staffa possono aver favorito l’arte di cavalcare presso popoli privi di una forte e numerosa cavalleria, ma il ruolo
della staffa come quello di altre invenzioni tecniche è sovente assai sopravvalutato; in realtà è solo una molteplicità di fattori, compresi quelli di carattere
politico-spirituale, che determina il successo anche di invenzioni assai più importanti di quella della staffa. Sull’argomento vedi, ad esempio, S. Morillo,
J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 103.
214
215
80
scomparso Teodosio nel 395, l’impero si divise definitivamente: al figlio Arcadio toccò l’Oriente, mentre ad
un altro figlio, Onorio, toccò l’Occidente. Ormai il baricentro politico ed economico dell’impero si era spostato
da Roma a Costantinopoli, vera erede della civiltà romana e della cultura ellenistica.
L’agonia dell’impero romano d’occidente era però già cominciata quando Onorio salì al potere. Da tempo
il mondo agricolo conosceva una significativa trasformazione che favoriva il concentrarsi della proprietà
terriera nelle mani di pochi latifondisti che davano in affitto le loro terre a liberi cittadini (i “coloni”), i quali
oltre a pagare l’affitto (in denaro o in natura) avevano l’obbligo di coltivare le terre dei proprietari che non
erano rimaste libere. Il passaggio da una agricoltura fondata sul lavoro servile (passaggio favorito dalla crisi
demografica che, oltre ad acuire la crisi economica, accentuò il declino numerico degli schiavi, di cui si
lamentava l’insufficienza fin dai primi secoli dell’impero) ad un’agricoltura fondata sul lavoro dei “coloni”,
comportò notevoli conseguenze in Occidente, ove le città avevano scarso peso economico (a differenza di
quelle dell’impero d’oriente che erano centri in cui fiorivano l’attività manifatturiera e il commercio).
Acquisirono invece importanza le “ville”, ossia le residenze di campagna dei grandi proprietari, i quali si resero
sempre più indipendenti dal potere centrale, venendo spesso a patti con i signori della guerra barbarici, mentre
molte piccole città erano governate come fortezze da comandanti militari e le province si impoverivano, tanto
che in molte di esse la rarefazione della moneta era tale che si ricorreva frequentemente al baratto. In Africa si
formarono addirittura delle bande armate di contadini, che erano disposti ad accettare di essere governati dai
barbari pur di liberarsi da una “macchina burocratica” oppressiva, corrotta e inefficiente. In Oriente invece
l’amministrazione dello Stato era ancora nelle mani di funzionari capaci, molti dei quali erano ottimi giuristi
che provenivano dalle classi medie.
Le basi dell’impero erano anche minate da una crisi spirituale profonda, resa più grave dal progressivo
indebolimento del legame sociale. Il cristianesimo, dapprima diffuso in gruppi ristretti, con il passare del tempo
aveva fatto breccia tra i sudditi dell’impero. Culti orientali come quelli di Iside, di Mitra e di Cibele pur
contando non pochi adepti non potevano alla lunga competere con una religione di salvezza come il
cristianesimo, che attribuiva un significato del tutto nuovo alla sofferenza e all’emarginazione degli umili e
dei deboli, dando risposte “convincenti” al loro bisogno di “riscatto” materiale e spirituale. Nel rifiuto dei
cristiani di sacrificare agli dei per gli imperatori, i funzionari imperiali vedevano però la conferma della
pericolosità di una scala di valori opposta a quella “tradizionale” e una mancanza di patriottismo che poteva
avere conseguenze nefaste per l’impero, tanto più che le comunità cristiane erano circoli chiusi e segreti. Le
persecuzioni diventarono particolarmente dure nel III secolo, anche se in definitiva il cristianesimo ne uscì
rafforzato; né le molteplici eresie riuscirono ad ostacolare la diffusione della religione cristiana, che, del resto,
andava maturando una complessa interpretazione del “messaggio evangelico”, vuoi per l’influenza della
cultura e della filosofia greca, vuoi per il mutare dei tempi. Nemmeno il neoplatonismo, l’ultima grandiosa
creazione dello spirito greco, poteva rappresentare un’alternativa al cristianesimo, sia per la sua complessità,
sia per il fatto che non spiegava in modo soddisfacente la condizione del singolo individuo. Viceversa, a partire
da Agostino, il cristianesimo seppe rielaborare il platonismo alla luce dei principi cristiani. La conversione al
cristianesimo di Costantino, che accordò ai cristiani la libertà di culto, prova quanto fosse forte la chiesa
all’inizio del IV secolo. E il tentativo dell’imperatore Giuliano di rimettere in auge la religione pagana non
poteva non fallire, giacché ormai il cristianesimo aveva acquisito un significato politico fondamentale. Solo
pochi anni dopo la scomparsa di Giuliano (che perse la vita nel 363 combattendo contro i Persiani), il
cristianesimo, sotto Teodosio, diventò la religione ufficiale dell’impero romano (Editto di Tessalonica del
380). Si crearono allora le condizioni per porre la questione del rapporto tra chiesa e Stato, tra auctoritas e
potestas, ma intanto «l’impero allargava i propri confini dalla terra al cielo: la sua causa non era più soltanto
quella dei civili contro i barbari, era quella dei credenti contro gli infedeli»217.
Oggi pare difficile sostenere che la religione cristiana sia stata la principale causa del crollo dell’impero
romano d’occidente218. Anche la diffusione del cristianesimo fu un sintomo del male che affliggeva l’impero,
benché anche il cristianesimo possa aver contribuito ad indebolirlo, ma perlopiù si ritiene che la debolezza
organica dell’impero dipendesse in primo luogo da fattori sociali ed economici (benché su questo argomento
la discussione sia ancora aperta) aggravati dalle continue invasioni barbariche219. Per far fronte a queste
217
R. S. Lopez, La nascita dell’Europa, Einaudi, Torino, 1966, p. 21
Osserva, tuttavia, Giorgio Ravegnani che il processo che portò alla fine del mondo antico cominciò all’interno dell’impero romano nel IV secolo e
fu favorito soprattutto dal fatto che i cristiani si adoperarono con successo per adattare il mondo romano alla loro concezione della vita che era del tutto
estranea al mondo antico (vedi G. Ravegnani, La vita quotidiana alla fine del mondo antico, Bologna, Il Mulino, 2015). Ciononostante, è innegabile
che la cultura della “civiltà classica” sia potuta diventare parte costitutiva della civiltà europea grazie all’opera “mediazione” svolta dalla chiesa nel
Medioevo.
219
Recentemente P. Heather ha sostenuto che la caduta dell’impero romano d’occidente fu dovuta principalmente alle invasioni barbariche. Secondo
218
81
continue incursioni e scorrerie i Romani cerarono di mettere i barbari gli uni contro gli altri permettendo ad
alcune popolazioni barbariche di installarsi nel territorio dell’impero. Si trattava di una soluzione temporanea
che non poteva risolvere il problema, anzi lo rendeva perfino più difficile in mancanza di una solida struttura
politica e militare. D’altro canto, alcuni dei più validi capi militari dei Romani, in questo periodo, furono di
origine barbarica, come Stilicone ed Ezio. Il primo era un abile generale al servizio del debole e inetto Onorio,
il quale, allorché i Visigoti guidati da Alarico valicarono le Alpi, si rinchiuse in Ravenna (che era circondata
da paludi e poteva essere rifornita dal mare) lasciando a Stilicone il compito di vedersela con gli invasori.
Stilicone non tradì le aspettative e dopo aver sconfitto le orde di Radagaiso costrinse anche Alarico a ripassare
le Alpi In seguito, presso Fiesole, Stilicone sgominò nuovamente l’esercito di Radagaiso, che era formato da
diverse popolazioni barbariche. Ma Onorio fu talmente sciocco da mettere a morte il suo miglior generale,
preparando così la strada ad un’altra invasione da parte delle orde di Alarico, che giunsero fino a Roma,
mettendola a sacco (nel 410). Ormai pareva che più nessuno potesse fermare i barbari, che con le loro
formazioni di cavalleria schierate a cuneo travolgevano qualsiasi ostacolo si trovassero di fronte. Se i Franchi
avevano già cominciato a infiltrarsi nella Gallia centro-settentrionale verso la fine del IV secolo, anche altre
tribù germaniche, prima del sacco di Roma, avevano passato il Reno, arrivando fino in Spagna, ove furono
parzialmente sconfitte dai Visigoti alleati dei Romani. Gli Svevi comunque riuscirono a stabilirsi in Spagna,
mentre i Vandali guidati da Genserico si spinsero oltre lo stretto di Gibilterra e conquistarono parte dell’Africa
settentrionale, dalle cui coste potevano controllare il Mediterraneo occidentale, tanto che nel 445 con la loro
“flotta pirata” risalirono il Tevere e saccheggiarono Roma.Verso la metà del V secolo i Romani dovettero
affrontare un pericolo ancora maggiore, allorché gli Unni fecero la loro comparsa in Europa (ed era stato
proprio a causa dell’avanzata verso occidente di questo popolo della steppa che altre tribù di barbari avevano
fatto irruzione attraverso il Danubio e il Reno nei territori dell’impero romano).
Invero, tutta l’Eurasia venne sconvolta in questo periodo dalle migrazioni dei popoli della steppa, benché
non sia chiaro il rapporto tra gli Unni e i nomadi della steppa eurasiatica Xiongnu che all’inizio del IV secolo
sommersero l’effimero impero dei Jin occidentali, occupando Luoyang nel 311 e Chang’an nel 316. Certo è
che i Jin avevano commesso lo stesso errore dei Romani, ossia avevano affidato la difesa delle frontiere a
gruppi di barbari. E se l’invasione degli Xiongnu ne preparò un’altra che nel V secolo portò tutta la Cina del
nord sotto il dominio di popolazioni straniere220, all’altra estremità della steppa gli Eftaliti (cioè gli “Unni
bianchi) si insediarono in alcune province dell’impero sassanide, cui inflissero un durissima sconfitta nel 484
costringendo i Sassanidi a pagare un pesante tributo, finché l’imperatore Cosroe I, grazie anche all’alleanza
con un altro popolo della steppa (i Turchi) mise fine al regno degli “Unni bianchi”. Una parte degli Eftaliti
però alla fine del V secolo si diresse fino in India abbattendo l’impero dei Gupta, i quali (esattamente come i
Jin in Cina) furono costretti ad abbandonare la parte settentrionale del Paese. L’India da allora fu divisa in
diversi Stati, ma il subcontinente indiano, come quello cinese, fu in parte salvato dalle sue stesse dimensioni,
che permisero a chi fuggiva verso sud di trovare un rifugio sicuro.
Fenomeni di così vasta portata comunque non li si comprende se non si tiene pure conto della geografia.
La zona che si estende tra l’Artico e la Cina e confina a sud con le vette dell’Himalaya e ad ovest con i Carpazi,
contrariamente a quanto generalmente si pensa, non è affatto un’immensa distesa di terra che si presenti in
modo uniforme, sia per il clima che per la vegetazione . Infatti, la steppa, secondo i geografi, è il “mare d’erba”,
lungo circa 4.500 chilometri e largo in media 750 km., compreso tra la taiga (una foresta pressoché
impenetrabile, con un clima estremamente rigido, abitata da alcuni popoli di cacciatori e pescatori, e che a
nord confina con la tundra, virtualmente disabitata e gelata) e la zona (semi)desertica che si estende dalla Cina
all’Iran. Ma la steppa vera e propria è costituita da un una pianura erbosa che non è adatta all’agricoltura se
non viene irrigata, benché sia adatta all’allevamento di bestiame, pecore e capre, in quanto le valli dell’Altai
forniscono un pascolo di ottima qualità . Si spiega quindi anche l’eccellente abilità dei cavalieri che si
muovevano rapidamente da un punto all’altro della steppa, anche per i mutamenti del clima che facevano sì
che a stagioni buone ne potessero seguire altre assai meno buone. Del resto, la presenza di ricchi e fiorenti
Heather i “limiti interni” dell’impero (di carattere militare, economico e politico), pur essendo rilevanti, non sarebbero stati di per sé tali da causare il
crollo dell’impero. Senza le invasioni barbariche - che causarano pure danni ingenti, riducendo di conseguenza il gettito fiscale, così importante per
mantenere efficiente l’esercito - non si può dunque affermare, a giudizio di Heather, che l’impero sarebbe crollato comunque (vedi P. Heather, La
caduta dell’impero romano, Garzanti, Milano, 2008).
220
Il crollo dei Jin occidentali fu seguito da un periodo confuso, caratterizzato da frammentazione e instabilità politica, che vide comunque affermarsi
la dinastia dei Jin orientali, con capitale Nanchino. Il potere rimase sempre nelle mani dei grandi proprietari anche perché gli eserciti erano formati
perlopiù da loro dipendenti. Ma le armate dei Jin erano certo efficienti se nel 383 travolsero l’esercito dei Qin Anteriori (le fonti cinesi sostengono che
fosse composto addirittura da 600.000 fanti e 270.000 cavalieri), bloccando la loro avanzata verso sud. Pochi anni dopo questa battaglia, nel nord del
Paese, i Tuoba fondarono lo Stato dei Wei settentrionali, mentre nel 420 il generale Liu Yu mise fine alla dinastia dei Jin orientali. Sicché, la Cina rimase
ancora divisa tra Nord e Sud, finché non venne fondata la dinastia Sui.
82
regni ai margini della steppa, nei quali era possibile procurarsi beni di ogni tipo facendo razzie, ossia senza
che i nomadi fossero costretti ad abbandonare i propri costumi trasformandosi in popoli sedentari, non poteva
non costituire una continua tentazione per i popoli a cavallo, inclusi ovviamente gli Unni, abilissimi cavalieri
(si stima che per ogni cavaliere fossero disponibili 10 cavalli) e ottimi arcieri. Benché impiegassero pure il
“lazo” per imbrigliare i nemici, la loro arma preferita era un arco composito che usavano mentre cavalcavano.
Incerto è il loro numero, ma si è calcolato che i cavalieri unni non fossero più di 15.000 e che gli altri
combattessero a piedi, in quanto la pianura ungherese, che era diventata la loro base, non poteva con ogni
probabilità nutrire più di 150.000 cavalli221. L’impero romano d’oriente era riuscito a tenere a bada questi
nuovi nemici pagando loro un tributo, ma il loro nuovo re, Attila, aveva aumentato la somma al punto che
Costantinopoli si rifiutò di pagargli il tributo, inducendo così gli Unni ad attaccare l’impero d’occidente, che
pareva loro un nemico più facile da sconfiggere. Superato il Reno, nel 451, Attila si trovò ad affrontare Enzo
che con l’aiuto dei Visigoti (i quali, insediatisi nella Gallia sudoccidentale, avevano tutto l’interesse ad aiutare
i Romani) fermò gli invasori in una durissima battaglia presso i Campi Catalaunici (sulle rive della Marna).
Attila non si diede per vinto e l’anno seguente invase l’Italia diffondendo il terrore nella pianura padana. La
peste e la carestia, sia pure unite ad un ingente tributo, fecero tuttavia rifluire l’orda barbarica fino all’orlo
occidentale del Mar Nero. Ma la situazione dell’impero era ormai irrimediabilmente compromessa, tanto più
che anche una spedizione navale nel Mediterraneo occidentale (nel 468) contro i Vandali da parte di
Costantinopoli fallì miseramente. Si può sostenere dunque che l’impero romano d’occidente era spirato da un
pezzo allorché, nel 476, un generale dell’esercito romano, il barbaro Odoacre, depose l’imperatore Romolo
Augustolo. In seguito le milizie barbariche avrebbero proclamato Odoacre rex gentium, ma l’unico impero
romano ormai era quello d’oriente.
221
Vedi J. Keegan, op. cit., p-191 e S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 112.
83
CAPITOLO IV. L’ETÀ DI MEZZO
Bisanzio e il mondo mediterraneo. Secondo lo storico Roberto Lopez, se l’Egitto fu un dono del Nilo, Roma fu
un dono del Mediterraneo222. Un giudizio che sembra valere per tutto il mondo ellenico (compresa Roma),
dacché già con la civiltà greca il Mediterraneo era diventato il “perno geostrategico” dell’Eurasia (anche se si
deve sempre tenere presente la particolare importanza del subcontinente cinese, da considerarsi, in un certo
senso, come il subcontinente indiano, un “mondo a sé” nel continente eurasiatico) e tale sarebbe rimasto fino
all’inizio dell’età moderna. In questa prospettiva, mentre nell’Europa andavano disfacendosi le strutture
politiche e sociali dell’impero romano occidentale, e i barbari si comportavano ancora come bande armate in
territorio straniero, l’ostinazione con cui l’impero bizantino cercò di riconquistare la parte occidentale
dell’impero pare assai più comprensibile, poiché appunto anche l’impero bizantino, come in definitiva quello
romano, era pur sempre un impero mediterraneo.
Costantinopoli, pur trovandosi in una posizione geografica invidiabile, non solo era esposta alle incursioni
dei barbari provenienti dal nord e dalla steppa eurasiatica, ma doveva subire la pressione del potente impero
sassanide, con il quale era in continua lotta. Ciononostante, Giustiniano, che grazie alla saggia politica di
Anastasio disponeva di un forte esercito e poteva contare sulle buone condizioni delle finanze dello Stato, ritenne
fosse venuto il momento di riconquistare, almeno in parte, le terre occidentali dell’impero, dopo una serie di
battaglie contro l’impero sassanide che si erano rivelate inconcludenti. Il generale cui Giustiniano diede
l’incarico di riconquistare sia i territori dell’Africa occupati dai Vandali che la penisola italiana era Belisario,
un valente ed esperto comandante che nel 530 aveva battuto i Persiani a Dara (un’importante città-fortezza
costruita da Anastasio all’inizio del VI secolo lungo il confine con l’impero sassanide). Invero, anche Belisario
era stato a sua volta sconfitto dai Sassanidi a Callinicum (531) sulle rive dell’Eufrate, sebbene i Persiani non solo
non fossero riusciti a conseguire il loro obiettivo strategico, consistente nella conquista di Antiochia, ma
avessero avuto perdite così gravi che, salito al trono Cosroe I, accettarono di firmare, in cambio comunque di un
cospicuo tributo, un trattato di pace con i Bizantini, denominato “Pace senza fine” (532)223. Belisario, dopo la
sconfitta a Callinicum, si era però nuovamente guadagnato il favore dell’imperatore, sedando con il terrore la
rivolta popolare di Nika, scoppiata nell’ippodromo di Costantinopoli e che vide le fazioni rivali degli azzurri e
dei verdi unirsi contro l’imperatore224. Dapprima Belisario sbarcò in Africa, ove vinse i Vandali in battaglia e
conquistò Cartagine. Dopodiché, con un esercito di soli 7.500 uomini, in seguito rinforzato con l’invio di circa
14.000 soldati225, sbarcò in Italia (che adesso, sconfitto Odoacre da Teodorico, era dominata dagli Ostrogoti,
ossia dai “Goti orientali”). Dal 535 al 540 Belisario dovette combattere contro questi barbari che si
dimostrarono nemici formidabili. Superando mille difficoltà, il generale bizantino riuscì nella non facile
impresa di difendere Roma, e infine, con le armi e con l’intrigo, prese Ravenna, in cui si era rifugiato il re
ostrogoto Vitige.
Nondimeno, la penisola italiana era lungi dall’essere totalmente sottomessa dai Bizantini e gli Ostrogoti
guidati da Totila riconquistarono in poco tempo molte delle posizioni perdute, costringendo Giustiniano a
mandare un’altra volta in Italia Belisario. Passato poi il comando dell’esercito bizantino a Narsete, si giunse alla
battaglia di Tagina, in Umbria, in cui gli Ostrogoti subirono una totale disfatta. Nella battaglia perse la vita
anche il coraggioso Totila, che, di fronte alla diserzione del clero e dell’aristocrazia, aveva reagito liberando gli
schiavi e distribuendo le terre dei latifondisti e del clero ai contadini poveri che le lavoravano, affinché
combattessero sotto le sue insegne. Le ultime forze degli Ostrogoti vennero sgominate nel 553 presso il
Vesuvio, benché sacche di resistenza isolate permanessero fino al 563. Intanto le forze bizantine colsero un
altro successo in Spagna contro i Visigoti e ricacciarono al di là delle Alpi i Franchi che si erano spinti
nell’Italia settentrionale, approfittando del caos che regnava nella Penisola. La conseguenze della guerra furono
tragiche per l’Italia: la popolazione decimata dalle carestie e dalle pestilenze, campagne devastate, città
spopolate. Ma nessun serio provvedimento venne preso per risollevare le sorti dell’economia della Penisola,
mentre tasse e balzelli tornarono ad opprimere la popolazione. Uno dei primi atti di Giustiniano, dopo la vittoria
bizantina, fu quello di abrogare le riforme di Totila e condannare la memoria del re ostrogoto (559). Di fatto i
Bizantini trattarono l’Italia come un Paese vinto, tranne Ravenna che era la capitale dell’Esarcato. Anche la
scelta del greco come lingua ufficiale della corte bizantina contribuì ad allontanare Costantinopoli da Roma,
222
Vedi R. S. Lopez, op. cit., p. 12.
223
Vedi J. B. Bury, History of the Later Roman Empire, Dover Publications, New York, 1958, vol. II, p. 88.
224
Vedi W Treadgold, A History of the Byzantine State and Society, Stanford University Press, 1997, pp. 181-182.
225
Vedi W Treadgold, Byzantium and Its Army, 284-1081, Stanford University Press, 1995, p. 61
84
sebbene gli imperatori bizantini continuassero a definirsi imperatori dei Romani (al tempo di Eraclio, nel VII
secolo, lo stesso titolo imperator Romanorum, venne tradotto in greco: basileus Romaion).
D’altronde, Giustiniano, con un esercito che combatteva in occidente e con quello in oriente rimasto a corto
di uomini, si trovò ben presto in difficoltà con i Persiani, i quali nel 540 poterono mettere a sacco Antiochia.
Giustiniano dovette pure mercanteggiare con i barbari che avevano invaso i terrori dell’impero (l’Illirico, la
Macedonia e la Tracia). Inoltre, anche le campagne militari in occidente si erano rivelate assai costose. Le casse
dello Stato adesso erano vuote, cosicché Giustiniano dovette accrescere la pressione fiscale per far aumentare
le entrate dell’impero. E pochi anni dopo la vittoria dei Bizantini contro gli Ostrogoti, nel 568, l’Italia fu invasa
dai Longobardi e la Penisola venne di nuovo messa a ferro e a fuoco; tra la fine del VI secolo e i primi decenni
del VII i Visigoti ripresero l’Andalusia; e a partire dal 670 gli Arabi cominciarono a penetrare nell’Africa
settentrionale. Tuttavia, come sostiene Lopez, «non era stata impresa da poco riafferrare l’Africa dopo un
secolo e mezzo, e per quel che guarda l’Italia, le province che sfuggirono alla prima ondata longobarda furono
difese palmo a palmo. Ravenna fu abbandonata soltanto nel 751, Siracusa nell’876, Bari nel 1071, e nessuno può
dire in qual momento Venezia si separò da Bisanzio»226. Grandi erano state pure le opere pubbliche realizzate
sotto Giustiniano (chiese, tra cui Santa Sofia, palazzi, acquedotti) e non si può nemmeno dimenticare la
redazione del Corpus iuris civilis, la compilazione cioè del diritto romano, considerata di somma importanza
per la scienza giuridica. Costantinopoli divenne anche il centro mondiale dei commerci, e i Bizantini estesero
i loro traffici in Europa e in Asia, fino a importare dalla Cina delle uova di baco da seta, dando così origine
all’industria serica in Europa. D’altro canto, se l’impero bizantino non fosse stato solido, come avrebbe potuto
evitare di essere travolto dagli Arabi nel VII secolo?
Eppure, si deve riconoscere che, anche se gli Arabi non presero Costantinopoli, ancora oggi la rapidità della
loro espansione continua ad apparire un’impresa grandiosa «Nel 638 [ossia solo otto anni dopo che Maometto
aveva preso la Mecca] gli Arabi avevano inghiottito l’intera Persia e strappato a Bisanzio la Palestina e la Siria.
Nel 642 prendevano l’Egitto; assai prima del 732 si erano impadroniti dell’Asia centrale sino al Tetto del
Mondo, dell’Africa settentrionale fino ai confini con i Tropici, della penisola iberica fino alle gole e ai passi dei
Pirenei. E le loro avanguardie avevano perfino superato o stavano per superare questi confini in una serie di
offensive contro i Cinesi, gli Indù, i Bizantini e i Franchi, che potremmo definire, nel loro insieme, la prima
“guerra emisferica”, se non “mondiale” conosciuta dalla terra»227. Ancora una volta il fattore decisivo fu di natura
politico-spirituale non essendoci né superiorità tecnologica né maggiore disponibilità di risorse finanziarie alla base del
successo degli Arabi. Determinanti furono l’“entusiasmo religioso” dei musulmani, che portò a interpretare la
guerra contro gli “infedeli” come una guerra “santa” (jihād, il cui significato fondamentale è però di carattere
spirituale, non militare, ovvero si tratta della “guerra interiore” che si deve vincere per non rimanere prigionieri
del proprio ego), e, come sempre, la sete di conquista e di vittoria. Ma è indubbio che pure la debolezza degli
avversari sia stata un moltiplicatore del “coefficiente” di penetrazione strategica degli Arabi.
Fu quindi il conflitto tra Arabi, Persiani e Bizantini a caratterizzare l’Eurasia centro-occidentale in questo
periodo. All’inizio del VII secolo era scoppiata un’altra guerra tra Bisanzio e l’impero sassanide, che durò fino
al 628 e vide Bisanzio non solo subire diversi rovesci ma dover difendersi anche dagli Slavi e dagli Avari, che
giunsero perfino a minacciare Costantinopoli. L’imperatore Eraclio però seppe condurre una mirabile
controffensiva e, oltre a respingere questo attacco, sopraffece i Persiani presso Ninive, imponendo loro delle
durissime condizioni di pace. I Persiani uscirono così indeboliti dal conflitto che non poterono resistere
all’assalto degli Arabi, i quali in breve tempo conquistarono Seleucia e Ctesifonte, sommergendo l’impero
sassanide. Ma adesso anche l’impero bizantino correva un pericolo mortale. Per tenere a bada le tribù slave,
che peraltro non erano politicamente unite, erano sufficienti le difese dell’impero, come le lunghe mura di
Costantinopoli costruite da Teodosio nel V secolo (queste mura erano state danneggiate da un terremoto
proprio quando gli Unni minacciavano di marciare su Costantinopoli, ma nel giro di due mesi vennero
ricostruite e fu aggiunta pure una cerchia esterna; nell’insieme si trattava di un vero e proprio sistema difensivo).
Più aggressivi degli Slavi si rivelarono invece i Bulgari che si insediarono tra il basso Danubio e il Mar Nero.
Quando però cominciò la lotta tra Bizantini e Bulgari per il controllo delle “sklavine” (le comunità slave
dell’interno), l’impero bizantino era già in lotta da tempo anche con gli Arabi. Subito dopo aver vibrato un colpo
letale all’impero sassanide, l’esercito arabo, infatti, si scontrò con un esercito bizantino, di gran lunga più
numeroso (secondo alcuni storici contava quasi 50.000 uomini) presso il fiume Yarmuk, un affluente del
Giordano, riportando una completa vittoria (633). Gli Arabi di conseguenza dilagarono nella regione siropalestinese e in Africa settentrionale, ove conquistarono Alessandria (che pure aveva solide difese ed era
226
R. S. Lopez, op. cit., pp. 43-44.
227
Ivi, p. 83.
85
protetta da un forte esercito), e perfino sul mare, nel 655, riuscirono a battere i Bizantini. Per fortuna di
Bisanzio, tra gli Arabi scoppiò una contesa che non cessò fino all’elezione del nuovo califfo nel 661. La tregua
tra Arabi e Bizantini. diede a questi ultimi la possibilità di riorganizzarsi in vista di un nuovo attacco contro
Costantinopoli, che puntualmente si verificò appena fu eletto il nuovo califfo. Mentre l’esercito bizantino
presidiava la linea del Tauro, la flotta di Bisanzio si preparava a dar battaglia per difendere la capitale. Le navi
più importanti della marina bizantina erano i dromoni, di cui vi erano diversi tipi. Il dromone “classico”, che
dominò il Mediterraneo fino all’avvento delle galee veneziane, era lungo 40 (o più) metri, era a remi e a vela,
e aveva un equipaggio di 100 rematori nonché un piccolo reparto di fanti marina per l’abbordaggio di navi
nemiche228. Alcuni tipi di dromone vennero impiegati pure dagli Arabi, ma le navi di Bisanzio erano, in generale,
in migliori condizioni e i marinai bizantini erano più esperti e più capaci di quelli arabi, sempre che potessero
manovrare senza incorrere nell’errore di ammassare troppe navi in uno spazio ristretto, com’era accaduto nel
655. L’atout della marina bizantina adesso era una miscela incendiaria, il fuoco greco, la cui invenzione si
attribuisce a Callinico. Questa miscela veniva “sparata” contro le navi nemiche da un apposito congegno,
cosicché i marinai bizantini si trovarono a disporre di un’arma simile ad un potente lanciafiamme.
L’attacco arabo questa volta venne quindi respinto, ma la situazione rimase incerta fino al secondo assedio
di Costantinopoli, all’inizio dell’VIII secolo. In tale occasione gli Arabi mossero all’assalto della capitale
bizantina (le cui mura erano state rinforzate dall’imperatore Leone l’Isaurico che saggiamente aveva stretto
pure un’alleanza con i Bulgari), con forze decisamente maggiori di quelle con cui avevano assediato
Costantinopoli nel secolo precedente. Nell’estate del 717 i soldati comandati dal generale Maslamah
attraversarono l’Ellesponto muovendo verso Costantinopoli e in settembre giunse anche la flotta
dell’ammiraglio Solimano, che poteva contare su 1.800 navi da guerra e imbarcazioni di vario genere229.
Costantinopoli era circondata da tre lati dal mare, cosicché era ovvio che la guerra sia sarebbe decisa sul mare.
Mentre l’esercito di Leone teneva a bada quello musulmano, che pure aveva costruito un muro per impedire ai
Bulgari di portare soccorso a Costantinopoli, la flotta bizantina inflisse dure perdite alla flotta araba. Allorché
una squadra navale musulmana cercò di raggiungere il Bosforo, allo scopo di tagliare le comunicazioni tra la
città assediata e il Mar Nero, Leone lanciò le sue navi all’attacco della retroguardia nemica e grazie al fuoco
greco la navi bizantine riuscirono a incendiare o affondare 20 navi della flotta di Solimano. I Bizantini,
costringendo la flotta araba ad evitare una battaglia navale, avevano messo fine praticamente all’assedio di
Costantinopoli dalla parte del mare. Per di più, l’esercito musulmano non poteva rifornirsi via terra per l’ostilità
dei Bulgari, né poteva procacciarsi del cibo nell’entroterra per l’opposizione dei Bizantini, mentre
Costantinopoli poteva essere rifornita via mare. Con il sopraggiungere dell’inverno, in quell’anno
particolarmente rigoroso, numerosi uomini, cammelli e cavalli dell’esercito di Maslamah morirono e le scorte
di viveri diminuirono ulteriormente. Vennero quindi inviate in soccorso degli assedianti numerose navi (400
dall’Egitto e 260 da altri Paesi dell’Africa) con armi e cibo, ma gran parte degli equipaggi composti in
maggioranza da cristiani si unì agli assediati. Nel frattempo un’armata inviata in aiuto a Maslamah cadde in
un’imboscata tesale dai Bizantini presso Nicomedia e venne pressoché distrutta. Sicché, mentre carestie ed
epidemie continuavano a mietere vittime tra le file dell’esercito musulmano, la situazione dei Bizantini era
talmente migliorata che Leone poté inviare un contingente di truppe a reprimere una rivolta in Sicilia (anche se
la maggior parte dei territori conquistati in questi anni dai Longobardi non poterono essere ripresi). Ormai la
situazione si era capovolta, tanto che, mentre gli assedianti pativano la fame, gli assediati avevano viveri in
abbondanza. Attaccati perfino dai Bulgari, nell’estate del 718 i musulmani dovettero ritirarsi, subendo altre
gravi perdite (anche per una tempesta che affondò numerose navi) e furono costretti a cedere ai Bizantini
l’Armenia occidentale. Nel 745 Bisanzio sconfisse di nuovo la flotta musulmana nelle acque di Cipro e la
frontiera tra cristiani e musulmani, in questa zona del Mediterraneo, fu (relativamente) stabile per alcuni secoli.
Se gli Arabi riuscirono comunque a conservare i tre quarti del territorio che avevano già strappato a
Bisanzio, è vero pure che la diserzione dei marinai cristiani, egiziani e africani, durante l’assedio di
Costantinopoli nel 717 consente di comprendere meglio i complessi rapporti tra cristiani e musulmani. La
conquista araba dell’Africa settentrionale era stata infatti facilitata dal malcontento per la forte pressione fiscale
dell’amministrazione bizantina (assai più pesante di quella degli Arabi, almeno nella prima fase della loro
espansione; il che portò al paradosso che ai non musulmani conveniva convertirsi all’Islam, mentre ai
musulmani non conveniva che questo verificasse), nonché dalla divisione della comunità cristiana tra calcedoni
e monofisiti (ossia coloro che negavano la doppia natura, umana e divina, di Cristo, com’era stato stabilito nel
228
Vedi W. L. Rodgers, Naval warfare, 14th to 16th Centuries, Annapolis, United States Naval Institute, 1996, p. 63.
229
Vedi W Treadgold, A History of the Byzantine State and Society, cit., p. 346-348. Questa cifra, come quella di 120.000 soldati nel complesso messi
in campo dagli Arabi, pare esagerata, ma è indicativa della superiorità numerica delle forze musulmane rispetto a quelle bizantine.
86
concilio di Calcedonia del 454, e che erano presenti soprattutto in Africa settentrionale e in Siria). Molti tra i
cristiani monofisiti, sovente perseguitati dall’impero bizantino, avevano preferito sottomettersi ai musulmani.
La perdita di questa zona dell’Africa però non solo rafforzò la chiesa ortodossa rendendola più coesa, ma permise
all’impero bizantino di erigersi a difensore della cristianità contro l’Islam, “attirando” così non pochi cristiani
delle regioni conquistate dagli Arabi. Ma le questioni religiose turbarono ancora profondamente la vita
dell’impero, con la proibizione, proprio da parte di Leone l’Isaurico, del culto delle immagini sacre, che anzi
dovevano addirittura essere distrutte (la cosiddetta “iconoclastia”, da eikòn = immagine e klàzein = spezzare).
Leone mirava a ridurre il crescente potere dei monasteri sul popolo, ma ne nacque una lotta durissima, anche
con la chiesa cattolica, che portò alla ribellione delle province bizantine in Italia. Della situazione seppe
approfittare il longobardo Liutprando che nel 728 occupò la Pentapoli e il territorio di Sutri nel Lazio (che donò
alla chiesa cattolica). Il suo successore, Astolfo, scacciò i Bizantini dall’Esarcato e occupò il ducato di Spoleto. In
Oriente invece l’iconoclastia perdurò fino al IX secolo. Solo nell’843 venne ristabilito il culto delle immagini
sacre, che è a fondamento di quella teologia dell’icona che è una delle caratteristiche essenziali del
cristianesimo ortodosso. Del resto, si deve tener presente che la chiesa ortodossa, nella sostanza, era subordinata
all’imperatore bizantino (come lo sarebbe stata la chiesa ortodossa russa rispetto agli zar), sulla base di una
relazione tra Stato e chiesa che vedeva il primo estendere la propria influenza sulla seconda. In tal modo,
l’imperatore esercitava la funzione politico-spirituale, detenendo sia l’auctoritas che la potestas (egli veniva
quindi a svolgere la funzione di katechon, ossia di colui che impedisce di prevalere alle forze che tendono a
dissolvere i legami comunitari e a corrompere la stessa “natura” umana). La questione della divinizzazione
della persona dell’imperatore, già presente nell’impero romano, assunse a Bisanzio perciò un significato tutto
particolare. Anche se il potere dell’imperatore era meno saldo di quanto si possa pensare (la metà degli
imperatori fu privata del trono con la forza, anche a causa della non ereditarietà della monarchia), fu proprio
sotto gli imperatori iconoclasti, nell’VIII secolo, che il potere assoluto dell’imperatore venne definitivamente
riconosciuto. Si è perciò sostenuto che la tradizione «monarchica ellenistica e quella romana confluiscono a
Bisanzio nella figura giuridica dell’“uomo regale” - il basilikos aner che accentra in sé il potere autocratico – e si
esplica nella dottrina della basileia di diritto divino in lui incarnata, ed esaltata dalla presenza del
cristianesimo»230. Non vi erano dunque le condizioni per un contrasto tra la chiesa ortodossa e l’impero
bizantino come quello che si verificò tra la chiesa cattolica e il sacro romano impero (la cosiddetta “lotta per le
investiture”), anche se ovviamente la questione dell’iconoclastia era assai pericolosa per la stabilità dello Stato
bizantino, tanto più gli Arabi non erano gli unici nemici di Bisanzio. Gli è che la sicurezza dell’impero bizantino
dipendeva dal fatto che si trovava nel punto in cui si incrociavano tre direttrici geostrategiche: la “via delle
steppe” (a nord-est), la “via del deserto” (a sud-est) e la “via del mare”, che Braudel definisce la via delle “pianure
liquide” e che conduceva direttamente al cuore dell’impero, cioè a Costantinopoli231. Dalla prima passarono le
popolazioni germaniche e slave, i Bulgari, i Peceneghi, i Russi e le tribù turche. Dalla seconda proveniva la
minaccia persiana, ma da qui passarono pure gli Avari, gli Arabi e gli Ottomani. Dalla “via del mare” non
provennero solo gli Arabi e poi i crociati, ma da questa direttrice fu sferrato anche l’attacco che mise fine
all’impero di Costantinopoli. I Bizantini quindi dovettero sempre combattere su più fronti, cercando di
conservare quei territori che assicuravano al loro impero un vitale spazio strategico.
Né si deve dimenticare che il conflitto tra Bizantini e musulmani non era certo terminato con la sconfitta
araba del 745, anche se la minaccia araba era diventata meno grave a causa delle discordie nella comunità
musulmana, tanto che il centro dell’impero musulmano passò da Damasco a Baghdad, allorquando, dopo una
guerra civile durata tre anni, in una battaglia combattuta (nel 750) presso il fiume Zab, vicino a Gaugamela, gli
Abbasidi sconfissero gli Omayyadi232. Il cambiamento di dinastia portò - a partire dalla metà del IX secolo, prima
in Nord Africa e a Baghdad, e di qui in gran parte del mondo musulmano – alla formazione di corpi militari
composti da schiavi, come i famosi Mamelucchi in Egitto233; peraltro, sulla dinastia degli Abbasidi ebbero una
certa influenza i Persiani, i quali nei secoli seguenti, tramite l’adesione allo sciismo, poterono far valere la
propria “identità culturale” rispetto a quella tipicamente araba. In ogni caso, i Bizantini dovettero combattere
ancora diverse guerre contro gli Arabi, i quali, sebbene nell’863 subissero una dura sconfitta sulle rive
dell’Eufrate, sul mare inflissero ai Bizantini una sconfitta dopo l’altra: nel 902 cadde Taormina, l’ultima
230
S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino, 2002, p. 80.
231
Ivi, pp. 43-44.
In questa battaglia i cavalieri abbasidi, smontati da cavallo, eressero un “muro di lance” dietro il quale trovarono riparo gli arcieri. Gli Abbasidi,
oltre a cavalleria leggera e fanteria, avevano una cavalleria armata con mazze, spade e asce (vedi J. Black, War: a Short History, Continuum, Londra,
2009, p. 38).
233
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 147.
232
87
piazzaforte dell’impero in Sicilia, e due anni dopo Leone di Tripoli saccheggiava Tessalonica, ripartendo con
numerosi prigionieri e un ricchissimo bottino. I Bizantini inoltre dovevano “guardarsi le spalle” dai Bulgari
(contro i quali Bisanzio chiamò in aiuto gli Ungari, che, respinti dai Bulgari con l’aiuto dei Peceneghi,
dilagarono nella pianura ungherese e penetrarono in Aquitania, spingendosi fin nei pressi di Roma) e dai Russi,
una flottiglia dei quali, nell’860, giunse fino a Costantinopoli, nel tentativo (fallito) di conquistare la capitale
bizantina con un “colpo di mano”. Costretti a rimanere sulla difensiva, i Bizantini seppero però districarsi tra
pericoli e insidie d’ogni genere sia con le armi che con la diplomazia, e perfino con “ben mirati” matrimoni
dinastici (particolarmente importante fu l’unione in matrimonio tra la principessa Anna, sorella di Basilio
II, e Vladimiro di Kiev, la cui conversione al cristianesimo aprì le porte di tutta la Russia alla chiesa ortodossa).
Comunque, all’inizio del X secolo, la maggiore minaccia per Costantinopoli proveniva dai Bulgari, che pure,
dopo la rovinosa sconfitta subita dagli Arabi nell’863, si erano convertiti al cristianesimo. Guidati dallo zar
Simeone, infatti, i Bulgari occuparono la Macedonia e l’Albania, e si spinsero sotto le mura di Costantinopoli.
Ma Simeone poteva fare poco contro la flotta bizantina, né riuscì a convincere i musulmani a dargli manforte
contro Bisanzio, i quali anzi nel 924 subirono una cocente disfatta in una battaglia navale presso Lemno da
parte della flotta imperiale comandata dall’ammiraglio Romano Lecapeno, che ristabilì così il dominio bizantino
sull’Egeo.
Bisanzio poté passare quindi all’offensiva: nella seconda metà del X secolo Niceforo II Foca conquistò
Creta, Cipro e la città d’Antiochia, e lo stesso emiro di Aleppo divenne vassallo di Bisanzio. Giovanni Zimisce
attaccò l’esercito del principe russo Svjatoslav (che dopo avere sconfitto i Cazari, aveva deposto lo zar bulgaro
e si era proclamato signore dei Bulgari)234, costringendolo ad abbandonare i Balcani e la Crimea. In seguito,
Basilio II, domata una rivolta in Asia Minore, rivolse invece la sua attenzione all’impero bulgaro. La vittoria
bizantina fu totale: nel 1014 Basilio annientò l’esercito bulgaro, presso lo Struma e per 150 anni gli Slavi dei
Balcani furono assoggettati a Bisanzio. Basilio II, si guadagnò il soprannome di “bulgaroctono” (“uccisore di
Bulgari”), per la ferocia con cui condusse questa guerra, tanto che fece accecare i prigionieri bulgari (14.000 o
15.000, ma verosimilmente, nonostante la concordanza delle fonti, la cifra è esagerata), tranne alcuni, orbati di
un solo un occhio, di modo che potessero riportare i compagni più sfortunati dal loro zar. Negli ultimi anni della
sua vita, il grande anche se spietato imperatore bizantino, oltre ad annettere all’impero l’Armenia, ed estendere
così verso nord-ovest i confini di Bisanzio, preparava una spedizione contro gli Arabi che avevano conquistato la
Sicilia. Ma la scomparsa dell’imperatore, avvenuta il 15 dicembre 1025, rese impossibile portare a termine tale
impresa. Con Basilio II la potenza dell’impero bizantino aveva raggiunto il suo apogeo, giacché egli lasciava «un
impero che dalle montagne dell’Armenia si estendeva fino all’Adriatico e dall’Eufrate fino al Danubio. Un
grande impero slavo era stato ad esso incorporato e un altro, ancor più grande [quello russo, grazie al
matrimonio tra Vladimiro e Anna], era posto sotto la sua influenza spirituale»235. Eppure, fu dopo la morte di
Basilio II che cominciò il (progressivo) declino dell’impero, indebolito da una grave crisi politica e sociale.
Fino al X secolo la struttura sociale bizantina dimostrò di essere sufficientemente solida e l’apparato
militare imperiale aveva consentito a Bisanzio di riprendersi sempre dai rovesci subiti. Ma già prima di Basilio II
si era iniziato un processo di trasformazione sociale e delle istituzioni militari che avrebbe influito non poco
sulle vicende politiche dell’impero negli anni seguenti. Le istituzioni militari di Bisanzio, in effetti, nel corso
dei secoli cambiarono più volte. Al tempo di Giustiniano l’esercito era già notevolmente diverso da quello del
IV/V secolo. Legioni, coorti e alae erano di fatto scomparse e l’unità tattica fondamentale era il numerus che
comprendeva 200/400 uomini. I soldati erano divisi in varie categorie, oltre alla guardia di “palazzo”, c’erano i
comitatenses (benché questo nome fosse poco usato), reclutati soprattutto nella Tracia, nell’Illirico e nell’Isauria
(una regione nel sud dell’Anatolia) chiamati anche stratioti, ossia “soldati regolari”; i limitanei, a cui era
affidata la difesa dei confini; i foedarati, che erano truppe di cavalleria reclutate originariamente tra i barbari236;
vi erano poi i bucellarii, «soldati privati dei generali e il loro nome deriva dal bucellatum la galletta distribuita alle
truppe in servizio attivo»237 (Belisario, comandante particolarmente ricco, ne aveva 7.000 al suo servizio) e
contingenti “alleati” (Unni, Eruli e altri). Alla morte di Giustiniano, l’esercito bizantino aera composto di
diverse armate mobili: due armate erano a Costantinopoli (ciascuna di esse costituiva un “esercito praesentalis”),
Lo Stato cazaro sorgeva nel Basso Volga, all’incrocio di importanti rotte commerciali, e aveva fama di avere istituito un esercito permanente
pagato (vedi N. V. Riasanovsky, op. cit., pp. 18-19). I suoi sovrani si erano convertiti al giudaismo, ma nel Paese, assai ricco, convivevano “pagani”,
ebrei, cristiani e musulmani. Dopo la sconfitta patita ad opera di Svjatoslav lo Stato cazaro non si riprese più, anche se sopravvisse ancora mezzo
secolo.
235
G. Ostrogorski, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino, 1993, p. 271.
234
236
Vedi J. B. Bury, op. cit., vol. II, pp. 76-77.
237
G. Ravegnani, Soldati e guerre a Bisanzio: il secolo di Giustiniano, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 43.
88
una in Armenia, una in Asia Minore, una in Tracia, una nell’Illirico, una in Itala, una in Africa, un distaccamento
in Spagna, più vari comandi e presìdi lungo la frontiera. Queste armate mobili comprendevano circa 20.000
uomini ciascuna (15.000 quelle in Armenia, Tracia e in Africa)238. Secondo le stime di Treadgold, l’esercito
bizantino nel complesso (inclusa la flotta) comprendeva 379.300 uomini su una popolazione di 19,5 milioni,
uguale a quella del 518 ma minore rispetto a quella del 540 (26 milioni)239. Sul numero però dei soldati che
Bisanzio poteva realmente “mettere in campo” non vi è accordo tra gli studiosi, che in generale ritengono
fossero assai meno di quanti secondo Treadgold erano disponibili (“sulla carta”), anche perché alcuni, come
ad esempio John Haldon, non si fidano delle statistiche dell’epoca240. Non v’è dubbio comunque che l’esercito
bizantino fosse capace di effettuare anche complesse operazioni anfibie. È noto difatti che Belisario sbarcò in
Africa con 10.000 fanti, 5.000 cavalieri, di cui 2.000 dell’esercito privato di Belisario e 1.000 arcieri a cavallo (600
Unni e 400 Eruli). L’intero esercito fu trasportato in Africa da 500 navi scortate da 92 dromoni241. E l’esercito
bizantino era anche capace di portare a termine con successo difficili guerre d’assedio, come prova la conquista
di Palermo (535) o quella di Ravenna (539). Del resto, è certo che al tempo di Giustiniano la cavalleria fosse
l’arma favorita dai Bizantini, benché si impiegassero i cavalieri anche come fanteria montata. Vi erano lancieri e
arcieri a cavallo: i primi «erano equipaggiati con lancia lunga, il contus, di cui si servivano come arma da urto, e
di arco tenuto sul dorso a bandoliera, mentre gli arcieri a cavallo avevano ugualmente a tracolla il
giavellotto»242. La lancia invece era tanto lunga da poter essere piantata a terra dai cavalieri, i quali potevano,
una volta smontati da cavallo, formare una falange243. «Il cavaliere portava cotta di maglia, o anche corazza
lamellare e a piastra, elmetto, gambali fino al ginocchio, faretra con frecce a destra e spada con relativo cinturone
a sinistra e, a quanto pare, anche il cavallo era almeno in parte corazzato»244. Gli arcieri a cavallo erano
considerati i più importanti, ma anche nella fanteria vi erano reparti di arcieri. L’esercito bizantino, oltre a
seguire precise disposizioni per la marcia e per schierarsi in battaglia, si distingueva per gli ottimi servizi logistici
che si rivelarono essere una delle “carte vincenti” rispetto agli Arabi, la cui cavalleria era rapida, eccellente per
incursioni e scorrerie, abilissima nella tattica “mordi e fuggi”. Ma, almeno inizialmente, gli Arabi disponevano
di unità di fanteria mediocri (fatta eccezione per gli arcieri abissini) e difettavano di organizzazione.
Caratteristica peculiare dei Bizantini invece fu quella di dedicarsi allo studio delle questioni militari con
passione e senza pregiudizi. Opere come lo Strategikon del VI secolo (attribuito a Maurizio), il Taktikon di Leone
VI (IX/X secolo) e i Praecepta militaria (un trattato dell’XI secolo attribuito a Niceforo II Foca) testimoniano
l’altissimo livello raggiunto dai Bizantini in questo campo di studi. I Bizantini erano anche propensi a
valorizzare ogni sorta di stratagemma, senza cercare (scioccamente) di sconfiggere un nemico più forte in campo
aperto. Nei loro trattati di tattica gli autori bizantini «raccomandano costantemente di evitare gli scontri in campo
aperto, piuttosto di sorvegliare il nemico, di logorarlo, in particolare facendo perno sulle guarnigioni delle
fortezze»245.
Ma fu nel VII secolo che avvenne una riforma radicale dell’esercito bizantino. In passato si era convinti che
tale riforma fosse stata opera di Eraclio. Treadgold sostiene invece che venne fatta sotto Costanzo II (le prime
fonti che nominano i temi sono posteriori al 662)246, altri autori ritengono che si sia trattato di un cambiamento
graduale. Fatto sta che (grosso modo) dal VII/VIII al X/XI secolo l’esercito bizantino fu basato essenzialmente
su questi temi. Nella sostanza (dacché sull’intera questione i pareri degli storici sono assai discordi), si trattava
di una riorganizzazione dell’esercito su base territoriale, ovvero sulla base di distretti militari (i temi appunto,
che poi divennero anche distretti amministrativi) comandati da uno stratego e che dovevano fornire un certo
numero di stratiotai, cioè di soldati (perlopiù di cavalleria, ma si reclutavano pure contadini armati alla leggera
per mansioni difensive) iscritti in apposite liste. «Il soldato, mobilitabile a partire da 18 anni, serviva per
ventiquattro anni. Possedeva le proprie armi e almeno un cavallo, perché in origine le truppe sono composte
quasi esclusivamente da cavalieri (kaballarika). Doveva presentarsi all’appello (adnoumion) munito d’una scorta
di vettovaglie per qualche settimana»247. Ai soldati vennero anche assegnate delle terre dallo Stato di modo che la
238
239
240
Vedi W.H. Treadgold, A History of the Byzantine State and Society, cit, p. 245.
Vedi W.H. Treadgold, Byzantium and Its army, 284-1081, cit., p.162.
Vedi W. H. Treadgold, Byzantium and Its Army, 284-1081, cit., pp. 5 e ss. Di John Haldon vedi Warfare, State and Society in the Byzantine World
565-1204, UCL, Londra, 1999.
241
Vedi J. Bury, op. cit., vol. II, p. 127 (Bury ritiene che i 1.000 arcieri a cavallo non fossero compresi nei 5.000 cavalieri, ivi, p. 127).
242
G. Ravegnani, op. cit., p. 66.
243
G. Ravegnani, Soldati di Bisanzio in Età Giustinianea, Jouvence, Roma, 1988, p. 49.
244
G. Ravegnani, Soldati e guerre a Bisanzio: il secolo di Giustiniano, cit., p. 66
245
J. C. Cheynet, L’esercito e la marina in Idem (a cura di), Il Mondo Bizantino II. L’impero bizantino (641-1204), Einaudi, Torino, 2008, p. 189.
246
Vedi W. Treadgold, Byzantium and Its army, 284-1081, cit., pp. 24 e ss.
247
J. C. Cheynet, op. cit., p. 169.
89
milizia territoriale doveva configurarsi come un esercito di “soldati contadini” (ma anche questo non è ben
chiaro, dacché secondo Cheynet nessun documento prima del X secolo connette il servizio militare all’esistenza
di terre stratiotiche)248. Si sa comunque che le famiglie che non potevano inviare un combattente all’esercito,
dovevano trovare un sostituto o pagare una certa somma come compensazione. Vi erano pure distretti marittimi
ove si reclutavano marinai per la flotta. Particolare importanza avevano le “clisure”, che erano zone di frontiera o
passi di montagna presidiati da guarnigioni militari. Com’è logico «la residenza prolungata dei soldati in uno
stesso tema e il reclutamento regionale rafforzarono lo spirito di corpo delle unità, costituendo un innegabile
vantaggio nei confronti degli Arabi»249.
Accanto a queste truppe, che erano perlopiù “a mezza stagione”, ma che potevano rappresentare un problema
per il potere centrale essendo più fedeli al loro comandante che al proprio imperatore, si venne a creare, sotto
Costantino V, un esercito permanente composto da volontari e direttamente dipendente dal potere centrale. Era
composto da reparti denominati tagmata, originariamente formati solo da cavalieri ma a cui si aggiunsero dei
fanti a partire dal X secolo. In questo periodo, si costituirono anche dei nuclei di soldati permanenti nei singoli
temi e, in relazione alla strategia non più difensiva dell’impero, acquisì maggiore importanza il ruolo della
fanteria, pur rimanendo sempre la cavalleria l’arma principale (tanto che al tempo di Niceforo II Foca venne
istituito anche un reparto di cavalieri catafratti, che non doveva però superare di molto i 500 uomini)250. Si
formarono così delle unità di fanteria “mista”, composte ciascuna di 1.000 uomini (400 lancieri, 300 arcieri e
300 fanti leggeri)251. Assai incerto però è anche il numero degli effettivi dei tagmata: Treadgold ritiene possibile
che i primi quattro tagmata comprendessero complessivamente 12.000 o addirittura 24.000 uomini, cifra respinta
da Haldon per ragioni di carattere finanziario252. D’altronde, vari studi confermano che anche per motivi
logistici non era facile mettere in campo eserciti numerosi. Nel X secolo di regola l’imperatore in una
campagna militare era accompagnato da un esercito non superiore a 15/25.000 uomini 253. A partire da
quest’epoca però il numero e il ruolo dei mercenari aumentò considerevolmente, mentre l’esercito basato sui
temi perse progressivamente d’importanza, ad eccezione del nucleo di soldati permanenti dei temi inclusi nei
tagmata. Di mercenari, invero, Bisanzio ne aveva sempre impiegati. Ora però si diffuse il sistema di pagare una
tassa per evitare il servizio militare (essendo troppo costoso l’equipaggiamento del cavaliere), la cosiddetta
“fiscalizzazione della strateia”, perché in ogni caso lo Stato potesse usare questa entrata retribuire gli uomini
dell’esercito permanente.
Ciò dipendeva pure dalla rarefazione della piccola e media proprietà terriera a vantaggio dei grandi
latifondisti, peraltro favorita dal terribile inverno del 927/28. Il pessimo raccolto causò infatti una terribile
carestia, oltre ad una epidemia, e i ricchi proprietari ne approfittarono per acquistare le terre dei contadini
impoveriti, già tartassati da un sistema fiscale eccessivamente oneroso, tanto che gli imperatori (come Basilio
II) che cercarono di porre un freno alla cupidigia dei latifondisti, i quali di regola erano anche funzionari dello
Stato, trovarono un ostacolo negli stessi piccoli proprietari proprio a causa dell’eccessivo peso fiscale, cosicché
«i contadini economicamente rovinati rinunciavano alla loro dolorosa libertà e si ponevano sotto il patrocinio
di un potente signore che prometteva loro un alleggerimento dei loro duri obblighi e oneri»254. Le numerose
rivolte del X/XI secolo contro gli imperatori (Basilio II ne represse due)255 trovano una spiegazione anche in
questa trasformazione sociale, che portò alla dissoluzione dell’esercito basato sui temi, che, pur garantendo
una solida difesa come dimostra il successo dell’impero nel far fronte a numerosi e “agguerriti” nemici, era
ben poco adatto alla nuova strategia offensiva di Bisanzio del X/XI secolo. Al riguardo, osserva Lopez: «Strana
cosa questa mania di grandezza in un’età nella quale soltanto forze locali [erano] in grado di controllare la
situazione. Anche nel modo islamico lo sfacelo del califfato di Baghdad non valse a scoraggiare gli Stati
successori dal perseguire ambizioni sproporzionate alle loro forze. Il più vigoroso di questi Stati, il califfato
fatimida dell’Africa occidentale, volle rivendicare l’intero retaggio dell’Islam, trasferì il proprio centro
d’azione in Egitto, e perse la sua coesione e il suo slancio»256. D’altra parte, lo stesso Lopez riconosce che
248
249
Ivi, p.183.
Ivi, p. 170.
250
Vedi J. Haldon, op. cit., p. 220.
251
Ivi, p. 218.
252
Vedi J. C. Cheynet, op. cit., p. 179.
Secondo Treadgold (Byzantium and Its army, 284-1081, cit., p. 162) l’impero, nel 959, contava nove milioni di abitanti e disponeva di un esercito
permanente di 29.200 uomini e di altri 150.200 soldati- mobilitabili, almeno “sulla carta”.
254
G. Ostrogorski, op. cit., p. 242.
255
La seconda rivolta fu repressa nel 989 grazie all’intervento di un contingente di 6.000 Russi. La družina variago-russa rimase al servizio dell’impero
e venne rafforzata frequentemente da nuovi reclutamenti (ivi, p. 264).
256
R. S. Lopez, op. cit., p. 131.
253
90
«nessuno Stato dell’alto medioevo e forse nessuno Stato dell’antichità ebbe una politica economica tanto
coerente e cosciente dei propri fini, come l’impero bizantino […] Per riempire il tesoro senza aumentare troppo
le imposte già pericolosamente pesanti, Bisanzio tentò alla rinfusa quasi tutti i mezzi che avrebbero più tardi
usato […] gli esperti dell’età del mercantilismo: dalle misure intese ad accrescere la produzione agricola e
industriale fino all’esportazione di metalli preziosi, materiali strategici e viveri i prima necessità»257. Ma non si deve
nemmeno dimenticare che se l’impero era un“crogiolo di popoli” e Costantinopoli nell’Alto Medioevo era la
città più ricca e sfarzosa del mondo cristiano, e centro di traffici e commerci di ogni genere, l’economia di
Bisanzio era pur sempre basata sull’agricoltura. Peraltro, è indubbio che gli intrighi di palazzo, le lotte tra il potere
centrale e i poteri “periferici”, la rivalità tra aristocrazia civile e quella militare, la forte pressione fiscale, nonché
le spese eccessive per lo sfarzo della corte, contribuirono a indebolire l’impero proprio allorché doveva
affrontare la minaccia dei Turchi selgiuchidi e ad occidente si profilava quella dei Normanni.
Nel 1071 a Manzikert i Turchi sconfissero l’esercito bizantino, prendendo prigioniero lo stesso imperatore.
Romano IV mosse contro i Turchi con un esercito di oltre 40.000 uomini, composto in buona misura da
mercenari. Anche se alcune sue truppe lo abbandonarono al momento dell'attacco, l’imperatore, puntando
contro il centro dello schieramento nemico, che aveva la forma di una mezzaluna, non ebbe difficoltà ad
avanzare (giacché i Turchi, come al solito, evitarono lo scontro frontale), ma perse il contatto con le ali del suo
esercito e quindi decise di tornare indietro prima che calasse la sera. Proprio allora però scattò il contrattacco
turco, mentre Andronico, cui l’imperatore aveva affidato il comando della retroguardia, diffondeva la voce che
l'imperatore era stato ucciso, inducendo così un gran numero di soldati bizantini a disertare. Romano IV con i
suoi uomini, che pur stavano retrocedendo in buon ordine, rimase allora isolato e venne catturato dai Turchi.
La sconfitta a Manzikert dipese quindi non solo dalla difficoltà di coordinare un esercito numeroso, ma anche
dal tradimento di Andronico e dalla scarsa affidabilità delle truppe dell’impero. Eppure le perdite dei Bizantini
non erano state disastrose, ma la sconfitta si mutò in una catastrofe per gli eventi successivi: l’imperatore venne
liberato ma il colpo di Stato che ne seguì (Romano IV venne accecato e poi ucciso) rimise in discussione gli
accordi presi con i Turchi, che invasero l’Asia Minore, senza però che vi fosse più una milizia territoriale in
grado di respingerli. La situazione di Bisanzio rimase grave finché non salì al trono Alessio Comneno, che,
dovendo pure contrastare i Normanni (i quali, dopo avere conquistato Bari nello stesso anno in cui si svolse la
battaglia di Manzikert, erano sbarcati a Durazzo) si decise a chiedere aiuto a Venezia. La repubblica marinara
italiana intervenne con la sua flotta di galee (navi agili e veloci, che in combattimento manovravano assai bene
con i soli remi), non tollerando di perdere il controllo l’Adriatico e consapevole dei vantaggi che poteva ottenere
aiutando Bisanzio. La guerra con i Normanni comunque finì anche per i torbidi che seguirono alla morte del re
normanno, ma Venezia ottenne parecchio da Bisanzio, gettando le basi per la sua potenza in oriente. Contro i
Peceneghi, Alessio invece ricorse alla vecchia e sperimentata politica di Bisanzio, ossia mise contro questi
barbari degli altri barbari, i Cumani, che insieme ai soldati bizantini, nel 1091, massacrarono i Peceneghi, in
una battaglia ai piedi del Monte Levunion. Con Alessio, che aveva confiscato perfino i beni della chiesa per
formare dei nuovi reggimenti, acquisì carattere militare l’istituzione della pronoia, che permise a Bisanzio di
affiancare un esercito di cittadini dell’impero alle truppe mercenarie. Nella sostanza, si trattava di un feudo,
cioè di una concessione di terre in cambio della quale si era tenuti a prestare servizio militare (come cavalieri),
accompagnati da una truppa più o meno numerosa a seconda della grandezza del feudo. Benché quest’ultimo
fosse di proprietà dello Stato, il signore del feudo, finché era tale, era pure padrone dei contadini che vi
risiedevano. Ma non si deve confondere questo sistema con quello dei temi, giacché «gli antichi stratioti erano
una milizia contadina, i pronoiari […] provengono dalle file dall’aristocrazia feudale, soprattutto dalla piccola
nobiltà»258. Questo sistema accelerò il processo di “feudalizzazione” già in atto. Decadenza dell’esercito e
difficoltà finanziarie erano però destinati ad aggravarsi (già sotto Alessio erano in circolazione monete di lega
inferiore ai vecchi nomisma d’oro). Se con il passare del tempo le forze feudali diventarono le basi su cui si
reggevano le sorti dell’impero, i soprusi degli esattori e le tasse aumentarono. In definitiva, nonostante il discreto
successo della politica dei Comneni, questo significava che Bisanzio non aveva più la forza militare ed economica
di un tempo.
D’altro canto, Alessio si era rivolto al papa perché lo aiutasse nella lotta contro i Turchi. La chiesa cattolica
era impegnata nella lotta per le investiture, ma nel 1095 il papa, convocò un concilio e lanciò un appello
all’Europa perché si corresse in aiuto di Bisanzio. La risposta fu eccezionale e non vi è dubbio che il motivo
principale allora fosse di carattere religioso. Si organizzò così la prima crociata che vide i Latini penetrare entro
lo “spazio vitale” di Bisanzio. I crociati presero Nicea, sconfissero i Selgiuchidi a Dorileo, entrarono in Antiochia
257
Ivi, p. 82.
258
G. Ostrogorski, op. cit., p. 339.
91
e nel 1099 conquistarono Gerusalemme (massacrandone gli abitanti). Dalle conquiste dei crociati sorsero altri
Stati latini: la contea di Tripoli, quella di Edessa e il principato d’Antiochia. Malgrado il potenziale pericolo che
rappresentavano per l’impero bizantino, i crociati, respingendo i Turchi selgiuchidi sull’altopiano microasiatico,
diedero la possibilità ai Bizantini di riprendere città e territori dell’Asia Minore. I rapporti con i Normanni però
continuarono ad essere difficili e sotto Manuele sfociarono in guerra aperta, anche se l’imperatore di Bisanzio
si rese conto che non doveva correre il rischio che i Latini facessero causa comune contro Bisanzio, mentre
doveva pure fare attenzione ai Balcani, una regione di estrema importanza per l’impero bizantino. Venne firmato
così un trattato di pace con Guglielmo di Sicilia nel 1158. Ma le relazioni con i Latini non migliorarono. Nel 1171
Manuele fece addirittura arrestare i Veneziani residenti nell’impero. Venezia, che godeva di numerosi privilegi
a spese dei Genovesi e dei Pisani, era divenuta troppo potente e quasi soffocava Bisanzio con la sua presenza
nel cuore dell’impero. La repubblica marinara italiana reagì inviando la propria flotta da guerra, che operò
nell’Egeo, benché non conseguisse risultati decisivi. Ma la situazione di Bisanzio era ormai “fuori controllo”:
Ungheresi e Serbi invasero l’impero e un pronipote di Manuele instaurò un governo tirannico a Cipro. Anche i
Normanni attaccarono Bisanzio: presa Durazzo, si presentarono con la flotta davanti a Tessalonica (1185).
Dopo un breve assedio la città venne conquistata e i vincitori si abbandonarono a violenze inaudite. Il terrore
si diffuse nella capitale, dove la folla inferocita fece a pezzi l’ultimo imperatore dei Comneni. Intanto i crociati
venivano duramente sconfitti ad Hattin dal Saladino che riuscì a riprendere Gerusalemme. (La battaglia di Hattin
ricorda quella combattuta a Carre nel 53 a. C.: Guido di Lusignano trascurò la difesa dei castelli in mano ai crociati
e si avventurò con 1.200 cavalieri circa, 4.000 “sergenti”259, e 15/18.000 fanti in una zona arida nei pressi del
lago di Tiberiade, in Galilea, ove lo attendeva il Saladino con 12.000 eccellenti cavalieri e alcune decine di
migliaia di altri soldati di vario valore, per un totale di circa 45.000 uomini260. I crociati che soffrivano pure la
sete cominciarono ad essere bersagliati dagli arcieri saraceni, che potevano contare su decine di cammelli
carichi di frecce. Gli uomini di Lusignano tentarono di reagire con alcune cariche di cavalleria, ma non
conclusero alcunché. Senza più coesione e senza acqua, i crociati vennero facilmente annientati).
Preoccupazione destò anche la terza crociata, bandita contro Saladino dacché il Barbarossa, che aveva scelto
di recarsi in Palestina via terra, strinse un patto con Serbi e Bulgari. Ma la terza crociata dopo la conquista di
Acri fallì (i cristiani non riuscendo a riconquistare Gerusalemme), e i Bizantini cercarono di rimettere ordine nei
Balcani. Con i Serbi ebbero successo, ma la campagna contro i Bulgari del 1190 fu un fiasco totale. Il peggio
però doveva venire con la quarta crociata che fu bandita contro il Saladino. I crociati, radunatisi a Venezia, dato
che non trovavano i fondi necessari per il loro trasporto, accettarono le condizioni di Venezia, che propose una
“diversione” per sottomettere Zara, sulla costa dalmata. Presa Zara, Venezia volle fare una seconda
“diversione” per rimettere sul trono di Bisanzio Isacco II e suo figlio Alessio IV (nel 1195 Isacco II era stato
privato del trono e fatto accecare da suo fratello Alessio III dopo la sconfitta contro i Bulgari). Ovviamente
questo era solo un pretesto. Anche se Alessio IV promise di ricompensare i crociati se fossero riusciti a cacciare
Alessio III, in realtà lo scopo era ben diverso. Come scrive George Ostrogorsky, «fintanto che a Costantinopoli
regnava un imperatore bizantino, Venezia non poteva mai essere sicura delle sue posizioni di monopolio.
L’unica soluzione appariva l’abbattimento dell’impero bizantino. E a questo scopo l’occasione migliore era offerta
dalla partecipazione alla crociata, che si trattava di trasformare in una campagna di conquista contro Bisanzio.
I Bizantini si erano lasciati privare da Venezia della loro egemonia sul mare. Ora avrebbero perso anche
l’impero»261. Nell’estate del 1203, Costantinopoli, dopo una strenua resistenza delle truppe bizantine, in specie
della guardia variaga, venne conquistata dai crociati, che posto sul trono Isacco II e nominato “co-imperatore”
suo figlio, si accamparono sotto le mura della città, esigendo che Alessio IV li ricompensasse come aveva
promesso. Ma le casse dello Stato erano vuote, giacché Alessio III era fuggito con tutto il tesoro. In questa
situazione, scoppiò una rivolta contro l’imperatore, ritenuto responsabile di aver portato i crociati nel cuore
dell’impero, nel corso della quale Alessio IV perse la vita. Ora i crociati si accordarono con i Veneziani sulla
spartizione dell’impero e sulla nascita di un impero latino d’oriente. Mossero quindi di nuovo all’attacco e il 13
aprile del 1204 Costantinopoli fu presa un’altra volta dai crociati che, ubriachi di violenza, commisero ogni
sorta di scelleratezza e di infamia: «Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli. I tesori
più preziosi del più grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti tra i conquistatori e in parte
barbaramente distrutti»262. La “ferita” era orrenda, ma non mortale. Nel piccolo impero di Nicea i Bizantini
I “sergenti” (servientes) «erano dei semplici aiutanti di campo o accoliti o scudieri, pur combattenti essi stessi» (F. Cardini, I templari, Giunti,
Firenze, 2011, p. 8).
260
Vedi H. Nicholson, D. Nicolle, God’s Warriors, Osprey, Oxford, 2006, pp. 58-59.
259
261
G. Ostrogorski, op. cit., p. 372.
262
Ivi, pp. 374-375.
92
resistettero ai Latini, che avevano i loro “guai” con i Bulgari. Poi riconquistarono Adrianopoli e Tessalonica.
E nel 1261 Michele Paleologo riprese perfino Costantinopoli263. Grazie anche all’aiuto (non disinteressato) di
Genova, i Bizantini erano riusciti a restaurare l’impero sebbene questo fosse solo una pallida ombra di quello
che era stato nella seconda metà del I millennio. Tanto più preoccupante adesso era la debolezza di Bisanzio,
in quanto il nemico di Bisanzio era il più temibile che potesse esserci, ossia i Turchi ottomani.
Con la vittoria dei Selgiuchidi contro Bisanzio nell’XI secolo la strada verso occidente era aperta anche se
poi venne, per un certo periodo, richiusa dai crociati. Nel XIII secolo i Selgiuchidi furono travolti dai Mongoli,
ma, quando questi ultimi si allontanarono, la spinta ottomana verso l’area danubiana e quella mediterranea
riprese. Si ritiene che gli Ottomani abbiano avuto origine da un gruppo di ghazi (“combattenti per la fede”), che
seppero trarre vantaggio dal vuoto di potere creatosi a seguito della decadenza del sultanato selgiuchide e dar
vita ad un efficiente sistema politico- amministrativo, attirando altri gruppi di ghazi, essi stessi alla ricerca di
nuove terre. All’inizio del Trecento avevano ià il controllo dei Dardanelli, ma nel 1356 avvenne il gran balzo:
conquistata rapidamente la penisola di Gallipoli, presero Adrianopoli e la Tracia, circondando Costantinopoli. I
Serbi, che cercarono di opporsi all’avanzata turca, vennero annientati nella battaglia di Kosovo nel 1389. Poi
venne la volta dei Bulgari nel 1393 e dei crociati, il cui esercito venne distrutto a Nicopoli nel 1396. Ma, quando
potevano puntare su Costantinopoli, la cavalleria del leggendario Tamerlano inflisse agli Ottomani una
durissima sconfitta nella battaglia di Angora (1402), impedendo così ai Turchi di sferrare l’assalto finale contro
Costantinopoli. L’attacco contro la capitale dell’impero bizantino fu però solo rimandato
Le straordinarie conquiste degli Ottomani nel XIV secolo furono possibili per l’efficienza
dell’organizzazione militare turca, che fu opera essenzialmente di Orkhan, il conquistatore di Nicea (13301331 circa), e di Murad I (1359-1389) il conquistatore dei Balcani. Il nerbo dell’esercito ottomano era
costituito, oltre che dalla cavalleria, dai giannizzeri (yeni çeri, ovvero “nuove truppe”), uno speciale corpo di
fanteria, famoso per il suo valore. Si trattava di “soldati schiavi”, sottratti alla loro famiglie (in specie nei Balcani)
quando erano ancora fanciulli. Venivano educati come musulmani e in modo tale da cancellare in loro ogni
ricordo della famiglia, degli affetti e dei luoghi in cui erano vissuti prima di essere rapiti. Erano la guardia del
corpo del sultano (che era anche il comandante supremo dell’esercito) e dipendevano direttamente da lui.
Affiliati ad un ordine di dervisci, la loro professione era la guerra e la loro casa era la caserma. Ma si deve tener
conto che solo a partire dalla seconda metà del XV il loro ruolo acquisì grande importanza. Prima dell’uso
delle armi da fuoco, la loro arma principale era un tipo di arco composito corto, in seguito usarono l’archibugio,
nonché altre tipi di armi. Eccellenti erano anche i cavalieri ottomani (gli spahi), che usavano l’arco, la lancia, e
una spada corta, ma erano privi di armatura. Tra il XV e il XVI secolo gli effettivi dell’esercito turco
assommavano a qualche centinaio di migliaia di uomini a mobilitazione completa, compreso un contingente di
soldati di professione.
Contro l’esercito degli Ottomani dunque potevano far ben poco i Bizantini nel XV secolo. Scomparso il
pericolo mongolo, i Turchi ripresero l’offensiva. Aiuti all’Europa occidentale furono chiesti da Bisanzio, ma
da tempo il solco tra Greci e Latini era diventato troppo profondo. Lo scisma di Fozio (avvenuto nel 1054 per
l’inserimento del Filioque nel Credo, ma che naturalmente era un effetto, non la causa, delle differenze culturali
tra Greci e Latini) non facilitava certo i rapporti tra Bisanzio e la chiesa cattolica o l’Europa occidentale. Un
esercito cristiano venne comunque costituito per opporsi alle continue incursioni degli Ottomani in Ungheria,
ma venne distrutto a Varna nel 1444. Ormai l’impero bizantino era ridotto alla città di Costantinopoli e ai suoi
sobborghi, allorché Maometto II decise di “farla finita” con Bisanzio. Dalla fine del XIV secolo i Turchi usavano
l’artiglieria (furono impiegati anche nella battaglia di Kosovo). La tecnica dell’artiglieria, infatti, si era
rapidamente diffusa anche nel mondo musulmano, anche se si trattava di cannoni che si potevano impiegare con
efficacia solo per battere in breccia fortificazioni nemiche. Ma il parco d’assedio turco era formidabile per quel
tempo. I Turchi poterono quindi aver ragione del sistema difensivo di Costantinopoli considerato inespugnabile.
Il 29 maggio 1453 le sterminate schiere ottomane superarono l’ultima resistenza dei Bizantini e occuparono la
capitale. Aveva così termine l’impero romano d’oriente, che era stato per secoli l’autentico baluardo della
cristianità, arrestando al “centro dell’Eurasia” l’avanzata degli Arabi, dato che l’eco della battaglia di Poitiers
263
Furono comunque proclamate altre crociate dopo la quarta. Nella quinta i crociati presero Damietta ma furono sconfitti allorché tentarono di
conquistare il Cairo (1221). E nel 1244 i musulmani si impadronirono definitivamente di Gerusalamme. Nella sesta, bandita perché si ebbe notizia di
massacri di cristiani in Terrasanta, i crociati sbarcarono in Egitto e conquistarono un’altra volta Damietta, ma la loro avanguradia si fece intrappolare
nella città di Mansura. I crociati allora dovettero ritirarsi, ma decimati dalla dissenteria e dal tifo, furono infine completamente sopraffatti, e lo stesso re
di Francia, Luigi IX, venne fatto prigioniero (1250). Liberato dopo il pagamento di un sostanzioso riscatto, Luigi IX ci riprovò sbarcando presso
Cartagine (1270), ma qui trovò la morte insieme con numerosi crociati a causa di una pestilenza. Gli ultimi avamposti cristiani in Terrasanta vennero
poi conquistati dai Turchi nella seconda metà dell XIII secolo. Altri tentativi per “liberare” la Terrasanta furono compiuti in seguito, ma conseguirono
solo qualche effimero successo.
93
(732) fu ben maggiore della sua reale importanza militare. Gli Arabi, a Poitiers, erano giunti all’estremo limite
del loro “raggio d’azione” in Occidente. Si tratta di una conclusione che si impone se si prende in esame la
battaglia di Talas (combattuta nel 751), in cui gli Arabi, rafforzati da contingenti turchi, massacrarono il miglior
generale dell’impero Tang e presero migliaia di prigionieri. Gli Arabi fermarono l’espansione cinese, ma non si
spinsero oltre, giacché «all’estremità orientale del loro impero, come a quella occidentale, il loro impero era
esaurito»264. E a queste due estremità dell’Eurasia si deve rivolgere la nostra attenzione, dopo aver preso in
considerazione le vicende che contrassegnarono solo una parte del continente eurasiatico nel corso di oltre un
millennio storia.
L’Asia. Furono i Sui a riunificare la Cina, nel 589, grazie alla sottomissione della Cina meridionale, anche
se questa dinastia ebbe vita assai breve. La forte pressione fiscale causò un malcontento generale tanto da portare
ad una rivolta che non fu possibile domare. Dopo alcuni anni di anarchia, l’ordine e l’unità dell’impero furono
restaurati dai Tang che ressero le sorti della Cina fino al 907. Una delle ragioni del successo dei Sui dipese dalla
riforma del sistema militare, basato su una milizia territoriale e suddiviso in dodici distretti a capo di ciascuno
dei quali fu posto un generale. La cavalleria era reclutata tra le tribù dei popoli della steppa ma tenuta ai confini
dell’impero. La politica di questa dinastia nei confronti dei popoli e dei Paesi vicini ebbe però alterna fortuna:
un’invasione del Vietnam fallì a causa di un’epidemia che si diffuse tra le file dell’esercito cinese, anche se il
Vietnam rimase tributario della Cina265. Più grave fu il fallimento della spedizione intrapresa contro la Corea:
la tattica “temporeggiatrice” dei Coreani fu causa di parecchie difficoltà per gli invasori. Cosicché
quest’impresa, anziché rafforzare l’impero cinese, contribuì a destabilizzare la dinastia Sui. Ciò malgrado, ai Sui
si deve la costruzione di numerosi canali (tra cui particolarmente importante fu quello che doveva servire per
rifornire le truppe in Corea), che erano essenziali per collegare il nord del Paese con il sud, dato che in Cina i
grandi fiumi scorrono solo da ovest verso est. Per rendersi conto dello sforzo richiesto per la costruzione di tali
opere e per la spedizione contro la Corea, basta ricordare che solo per quest’ultima impresa si ritiene siano stati
mobilitati oltre un milione di combattenti266. Il fondatore della dinastia Tang, Li Yuan, quando scoppiò la rivolta
contro i Sui comandava invece un esercito di 30.000 uomini soltanto, ma fu capace di assicurarsi l’appoggio
di numerosi cavalieri turchi e conquistare così la capitale Chang’an. Il secondo imperatore dei Tang
(conosciuto come T’ai Tsung o Li Shmin) sottomise i Turchi orientali (630) e poi quelli occidentali, restaurando
l’impero nell’Asia centrale e riprendendo il controllo della “via della seta”. Anche l’esercito Tang era composto
di “soldati contadini”, gli imperatori non fidandosi di grandi eserciti composti da soldati di mestiere. Il sistema
militare sotto i Tang (conosciuto come fu-ping) era basato su delle comunità contadine, che avevano l’obbligo
di fornire un certo numero di soldati e provvedere al loro armamento e al loro sostentamento. Gruppi di
famiglie dovevano inoltre fornire muli, cavalli o altri animali. In tutto vi erano 623 comunità con 800-1.200
soldati ciascuna, per un totale di circa 600.000 uomini.
Si trattava di un sistema che in teoria prevedeva l’assegnazione di terre ad ogni famiglia contadina e che
favoriva l’eguaglianza, ma ovviamente era un ideale che non venne mai realizzato. Inoltre, vi era pure un
esercito di professionisti che formava la “guardia palatina”, la quale, poiché originariamente stazionava a nord
della capitale, era conosciuta come l’armata settentrionale. Gli effettivi di questo corpo d’élite, che
comprendeva pure un nucleo di cavalleria, alla fine del VII secolo, ossia all’apice della sua potenza, non dovevano
essere più di 60.000.Già sotto i Sui venne ripristinato anche il sistema di reclutare i funzionari statali mediante
esami sui classici confuciani. Naturalmente, questi funzionari, come le grandi famiglie aristocratiche e gli
stessi potenti ordini religiosi, approfittarono della loro posizione per far fallire la riforma agraria e impossessarsi
di grandi estensioni di terra, rendendo così assai meno efficienti le istituzioni militari, imperniate com’erano
sulla milizia contadina. Ciononostante, sotto il profilo culturale, l’epoca dei Tang fu una delle più splendide
nella lunga storia della Cina. E fu anche un’epoca di notevole sviluppo economico e di intensi scambi
commerciali con il Tibet, l’India e soprattutto con il Giappone e la Corea, Paesi che subirono fortemente
l’influsso della cultura cinese. Già prima dei Tang il buddhismo era penetrato nella penisola coreana, ma fu l’aiuto
264
R. S. Lopez, op. cit., p. 86.
Il Vietnam si sarebbe reso indipendente dalla Cina nel 938. Nemmeno 40 anni dopo cominciò la “lunga marcia” dei Vietnamiti verso sud e il Vietnam
riuscì ad annettere le tre province più settentrionali del regno indocinese di Champa; dopo avere resistito (nella seconda metà del XIII secolo) anche
agli attacchi dei Mongoli, il Vietnam continuò, sia pure assai lentamente, ad espandersi nelle regioni meridionali fino a colonizzare (a spese della
Cambogia) il delta del Mekong.
266
Secondo la “Storia della dinastia Sui” furono impiegati esattamente 1.133.800 soldati, mentre i numero degli addetti ai servizi doveva essere il
doppio (vedi P. Buckley, The Cambridge Illustrated History of China, Cambridge University Press, 1996, p 109). In questo periodo il numero delle
famiglie “registrate” era di circa nove milioni (ivi, p. 111) e la popolazione sarebbe stata composta da 49.019.956 individui di entrambi i sessi. Tutti
questi dati però non sono affatto certi (vedi D. Graff, Medieval Chinese Warfare, Routledge, Londra-New York, 2002, p. 148.
265
94
dell’impero cinese al regno di Silla, che alla fine del VII secolo unificò la Corea, a creare le condizioni per la
nascita di uno Stato coreano indipendente e dotato di una propria identità radicata nel buddhismo. Il regime
coreano si ispirò tanto fedelmente al modello Tang, che per molti secoli quest’ultimo rimase vivo, anche dopo
che era scomparso in Cina. Dalla Corea la cultura cinese passò facilmente in Giappone, al punto che sia Nara
che (poi) Kyoto non erano che la riproduzione in miniatura della capitale cinese Chang’an. Pure in Giappone il
buddhismo si rivelò di fondamentale importanza nel promuovere una cultura originale. Di fatto buddhismo,
confucianesimo e taoismo poterono convivere senza problemi durante la dinastia Tang, finché nel IX secolo vi fu
una reazione da parte dei confuciani e dei taoisti che vedevano nei monasteri buddhisti una delle cause della
debolezza finanziaria dell’impero e un “elemento” estraneo alla cultura cinese. Tra l’841 e l’845 250.000 suore
e monaci buddhisti furono ridotti allo stato laicale e 4.600 monasteri furono distrutti o confiscati insieme a vaste
proprietà e numerosi schiavi267. Questo terribile colpo venne inflitto al buddhismo proprio quando l’Islam
guadagnava terreno in Asia e il buddhismo stava per scomparire in India. In Cina il buddhismo invece non
scomparve, ma anche se continuò a fiorire come buddhismo chan (conosciuto nella sua “variante” giapponese
come buddhismo zen), la maggior parte delle scuole buddhiste non sopravvisse a tale persecuzione, che fu a un
tempo un confitto religioso e un conflitto politico. Questo nuovo corso della politica dei Tang non salvò comunque
l’impero dal declino. Se la sconfitta a Talas aveva segnato il limite dell’espansione dei Tang verso occidente, il
mutamento degli equilibri interni, lo sfaldamento del sistema militare e l’indebolimento del potere centrale a
vantaggio delle province, uniti all’aumento della pressione su confini dell’impero da parte delle popolazioni
barbariche, non potevano che portare al crollo anche di questa dinastia.
Il periodo che va dai Tang ai Song, che durò circa 50 anni, è conosciuto pure come il periodo delle “cinque
dinastie” che regnarono successivamente nel nord fino al 960268, ovvero fino a quando una nuova dinastia, quella
dei Song, andò al potere. Anche se i Song dovettero rinunciare a restaurare l’impero nella sua integrità, furono
in grado di garantire al resto della Cina un periodo di (relativa) pace e benessere. Caratteristica della prima fase
di questa nuova dinastia fu la riduzione dell’influenza dei militari sugli affari dello Stato, congedando generali,
ampliando i poteri dei funzionari civili, scelti sempre con il metodo degli esami sui classici confuciani, e creando
una struttura fortemente centralizzata, di modo da allentare il più possibile i vincoli tra gli ufficiali e i soldati. Il
corpo degli ufficiali (che non avevano un comando definito e stabile) divenne così assai scadente, mentre, com’è
ovvio, la carriera civile diventò molto più ambita di quella militare (tra l’altro tutte le promozioni dovevano essere
approvate dal potere centrale). A questi difetti si cercò di rimediare con l’aumento del numero degli effettivi
dell’esercito che da 900.000 (nel 1020) nel giro di alcuni decenni passarono ad oltre 1.200.000. Durante la
dinastia Song si diffuse anche l’uso bellico della polvere da sparo, che era impiegata fin dal VI secolo per i
fuochi d’artificio, benché sembri che l’impiego di proietti incendiari non avesse particolari conseguenze sotto
il profilo tattico269. Comunque è indubbio che nell’esercito dei Song non solo la preparazione degli ufficiali,
ma anche l’addestramento e la disciplina dei soldati lasciavano molto a desiderare, fatta eccezione per la “guardia
palatina”. Enorme era però l’abbondanza di armi ed equipaggiamenti, la produzione dei quali stimolò
un’industria già in forte crescita: milioni di archi, frecce, scudi, spade, lanciafiamme, proiettili incendiari,
cinturoni, uniformi, corazze e altri generi di equipaggiamento venivano prodotti per l’esercito. Una produzione
di materiali e armi così vasta richiedeva anche un eccezionale sforzo finanziario, tanto è vero che si calcola che
nel 1070 l’80% delle entrate dello Stato fosse assorbito dalle spese per l’esercito270. Ciò malgrado, i Song per
mettere fine alla guerra contro lo Stato di Xi Xia, formato da una popolazione stanziatasi nella Cina nordoccidentale, dovettero pagare un tributo. In definitiva l’esercito cinese era elefantiaco, costoso e di scarsa
efficienza.
Pertanto, sotto l’imperatore Shenzong (1068-1085) un funzionario statale, Wang Anshi, venne nominato primo
ministro con l’incarico di porre rimedio a questa incresciosa situazione. L’opera riformatrice di Wang prevedeva
la riorganizzazione del sistema fiscale, di quello militare e perfino del metodo di selezione dei funzionari statali.
Wang basò l’imposta fondiaria sulla produttività, stabilì che lo Stato concedesse prestiti ai contadini a un basso
tasso d’interesse, sostituì le prestazioni di lavoro obbligatorie con il versamento di “contributi” in denaro e
ripristinò la milizia contadina, secondo un sistema simile a quello vigente nell’epoca dei Tang. Wang prima di
267
Vedi P. Buckley, op. cit., p. 124 e A. Cheng, op. cit., p. 437. Anche in Giappone il clero buddhista si era sempre più intromesso negli affari nello
Stato, ma il problema venne risolto indirettamente: l’imperatore e la sua corte abbandonarono Nara e si trasferirono ad Heian (l’odierna Kyoto), al
di fuori dell’influenza dei monasteri buddhisti (vedi J. W. Hall, L’impero giapponese, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 68-69). I monasteri comunque per
diversi secoli rimasero dei centri di potere importanti, tanto da disporre di veri eserciti.
268
Peraltro, fu in questi anni che venne pubblicata a stampa un’edizione dei classici confuciani, anche se la stampa di libri con il sistema a cliché era
stata inventata sotto i Tang.
269
Vedi D. Graff, op. cit., p 246.
270
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 172.
95
tutto congedò centinaia di migliaia di soldati, affinché formassero delle nuove comunità agricole. Vennero
istituite inoltre circa 130 guarnigioni permanenti, di 3.000 uomini ciascuna, con il compito di presidiare le
frontiere; a questi presìdi furono anche assegnati uomini che facevano parte della “guardia palatina”, i quali
erano addestrati decisamente meglio degli altri soldati. La milizia contadina aveva invece il compito di
difendere il territorio dell’impero ed era organizzata sulla base di gruppi di dieci famiglie ciascuno. In cambio di
una riduzione delle tasse, questi gruppi dovevano occuparsi del sostentamento degli uomini che facevano parte
della milizia. Questo sistema (conosciuto come bao-jia) era parte integrante della riforma complessiva di Wang,
alla quale però si oppose strenuamente la potente burocrazia dello Stato dei Song che fece il possibile per farla
fallire, come in effetti avvenne. E poco dopo l’allontanamento di Wang dal suo incarico anche il sistema bao-jia
venne abbandonato.
Eppure anche sotto i Song il Paese conobbe un ciclo economico espansivo che si accompagnò ad un forte
aumento della popolazione (che verso il 1100 non doveva essere inferiore a 100 milioni), mentre il traffico
commerciale lungo le coste della Cina meridionale si estese alle zone marittime dei Paesi limitrofi fino
all’India. E la crescita economica stimolò pure la domanda di denaro tanto che il governo dei Song nel 1120
introdusse l’uso della cartamoneta271. Ma tutto questo non poteva rimediare alla debolezza politico-militare
dell’impero, accentuata, oltre che dal fallimento del sistema bao-jia, dalla mancanza di un forte corpo di
cavalleria. Cosicché, quando i Nüzhen, un popolo proveniente dalla Manciuria settentrionale, attaccarono
l’impero cinese, dopo aver travolto il regno Qidan, riuscirono a sopraffare i Song, che trovarono riparo solo nelle
regioni meridionali, ma non tanto per la resistenza opposta dal loro esercito, quanto per la presenza di diversi
ostacoli naturali che impedirono alla cavalleria nemica di continuare ad avanzare. Gli invasori perciò, con il
trattato di pace del 1142, si accontentarono della parte settentrionale della Cina, ma, sebbene anche i Nüzhen,
come i Qidan, assimilassero gli usi e i costumi cinesi piuttosto rapidamente, continuarono a comportarsi da
conquistatori non concedendo ai Cinesi sottomessi i diritti politici. Adesso però sull’intera Cina incombeva il
pericolo di un’invasione da parte dei Mongoli. Questi ultimi erano una popolazione nomade dell’Asia centrale
che non conosceva la scrittura, né vita agricola o urbana. I Mongoli si spostavano continuamente, passando
l’intera vita a cavallo o nelle tende. Arcieri e cavalieri mirabili erano divisi in numerosi clan, pressoché sempre in
lotta tra di loro. L’unificazione di questo popolo fu quindi un’impresa straordinaria, opera di uno dei più grandi
condottieri della storia, Temujin. Sulla data di nascita di Temujin non v’è certezza (1155 o 1162) ma si sa che nel
1206, dopo numerose lotte, egli riuscì a unificare i clan mongoli, venendo nominato capo supremo (k’hagan), e
da allora fu chiamato Gengis Khan (che forse significa “re universale”). Animati, anche per evidenti motivi di
carattere economico, da uno spirito di conquista così forte che ha indotto alcuni storici a parlare di
“messianismo politico”, i Mongoli rivolsero la loro attenzione dapprima verso la Cina settentrionale.
La Grande Muraglia venne superata in più punti secondo la tattica preferita dai Mongoli. Le colonne
mongole, infatti, si muovevano separatamente, avendo ampia libertà d’azione, ma con un obiettivo strategico ben
definito. Gengis Khan, tramite corrieri, rimaneva sempre in contatto con i suoi subordinati e mandava avanti
degli esploratori per conoscere esattamente il territorio in cui le sue forze dovevano passare o combattere. In
pratica, i cavalieri mongoli marciavano divisi ma colpivano uniti. La vera forza dei Mongoli consisteva perciò
nella loro capacità di muoversi rapidamente, ma sempre in modo coordinato. Vi sono testimonianze secondo
le quali un esercito comandato da Gengis Khan fu capace di percorrere 130 miglia in due giorni senza fare una
sosta, e un corriere mongolo a cavallo riuscì a percorrere 600 miglia in nove giorni272. Non era nemmeno
infrequente che durante un rapido spostamento i cavalieri mongoli mangiassero e dormissero in sella. Portavano
con sé un sacco con il foraggio per i cavalli e si nutrivano di latte (rappreso e in polvere) e di carne affumicata, e
durante le soste bevevano il kumis (una bevanda ottenuta dalla fermentazione del latte di giumenta). L’esercito
era diviso in diverse unità secondo il sistema decimale. L’unità più grande era il tümän che comprendeva 10.000
uomini. Alcuni cavalieri erano equipaggiati più pesantemente di altri, e gli uomini della guardia del khan e quelli
della prima linea avevano uno scudo. Il loro armamento principale era l’arco e usavano due tipi di frecce, uno
per colpire da lontano e un altro per colpire i nemici da distanze minori. L’armamento di un cavaliere durante
una campagna di solito consisteva di due archi, una trentina di frecce di ciascun tipo, una spada corta e una
piccola lancia. Indossavano giacche di cuoio e avevano differenti tipi di armatura, tra cui una pesante con
placche di cuoio laccato. Erano soliti portarsi dietro tutto quello di cui avevano bisogno per combattere e
spostarsi velocemente (corde, lacci, asce, aghi, lime, pelli e così via). E con le conquiste il loro equipaggiamento
migliorò notevolmente. La tattica dei Mongoli, del resto, non era particolarmente sofisticata, benché
impiegassero vari stratagemmi per ingannare i nemici. In battaglia, dopo aver scagliato nugoli di frecce, si
271
Vedi P. Buckley, op. cit., pp. 141-142.
272
Vedi H. Kennedy, Mongols, Huns & Vikings, Cassell, Londra, 2002, pp. 111-114.
96
lanciavano contro lo schieramento avversario con decisione. Un’altra caratteristica dei Mongoli era la
prontezza con cui sapevano assimilare delle nuove tattiche e il modo di combattere di altri popoli. Comunque
non fu facile sconfiggere i Jin273, il cui esercito era assai più numeroso di quello dei Mongoli, che per
sottomettere l’intera Cina non impiegarono più di 200.000 uomini, molti dei quali erano Cinesi e Coreani (in
effetti, i Mongoli raramente furono più numerosi dei loro avversari, anche se arruolarono nel loro esercito
parecchi stranieri). La capitale dei Jin in particolare si rivelò un “osso duro” per questi cavalieri della steppa, data
la loro inesperienza nella guerra d’assedio. I Mongoli però reclutarono diversi ingegneri cinesi e si dotarono di
un parco d’assedio di tutto rispetto (catapulte, baliste, scale, macchine per lanciare proietti incendiari oltre le
mura etc.), cosicché nel 1215 furono in grado di prendere anche Pechino (che venne data alle fiamme e bruciò
per più di un mese), anche se i Jin spostarono la capitale a Kaifeng e resisterono fino al 1234. Nel frattempo
l’attenzione di Gengis Khan si era rivolta ad ovest. Nell’estate del 1219 Temujin radunò l’“Orda” (questo il
nome dell’esercito mongolo) e si lanciò all’assalto dell’impero musulmano della Corasmia. I Mongoli compresi i
loro alleati, soprattutto tribù turche, erano 200.000 o più probabilmente solo 100.000 (si calcola che ognuno di
loro disponesse di tre cavalli), divisi in tre colonne.
Il mondo islamico allora era in pieno rigoglio, sicuro di sé e potente. L’esercito che Gengis Khan si
apprestava ad affrontare non era meno numeroso di quello mongolo, ma era sparpagliato lungo i confini di un
territorio assai vasto e aveva il compito di difendere non poche città e numerosi villaggi274. Viceversa i Mongoli
non avevano da difendere né città né centri logistici. Potevano colpire dove e quando volevano, come “corsari”
che percorressero liberamente l’immenso “mare d’erba” eurasiatico. Nel 1219 presero Bukhara, nell’anno
seguente Samarcanda, nel 1221 Merv. Le città che si arrendevano subito venivano risparmiate, le altre venivano
distrutte e gli abitanti venivano uccisi senza pietà. Di fatto, nulla poté fermare la “corsa” dei cavalieri mongoli
che travolsero ogni ostacolo e annientarono ogni resistenza. Nondimeno, Jalāl al-Dīn, il nuovo sultano della
Corasmia, si ritirò tra le montagne dell’Afghanistan, ove riuscì a respingere le orde mongole. Ma l’arrivo di
un’altra colonna mongola lo costrinse ad abbandonare le posizioni che aveva saputo difendere con tenacia e il
suo esercito venne distrutto sulle rive dell’Indo. Gengis Kahn, lasciati alcuni uomini di sua fiducia a governare
i territori conquistati e un distaccamento di 25.000 uomini al comando di due suoi luogotenenti, Gebe e Subutay,
perché compissero una ricognizione in forze verso il Mar Caspio, fece ritorno in Mongolia con un enorme
bottino. Gebe e Subutay attraversarono l’Iran, passarono nel Caucaso, sconfissero un esercito russo-cumano
sul fiume Kalka (1223) e irruppero nella pianura dell’Ucraina distruggendo tutto quello che incontravano, per poi
tornare anch’essi in patria. Ma la Russia si era salvata solo momentaneamente.Quando Gengis Khan morì, nel
1227, l’impero mongolo si estendeva dal Mar Caspio fino all’Oceano Pacifico. Per amministrare uno spazio
così grande Gengis Khan si basava su funzionari scelti tra la sua guardia del corpo, che egli valutava
attentamente affidando loro diversi incarichi. Le “frecce”, ovvero i corrieri, avevano il compito di collegare il
“centro mobile” (il posto in cui si trovava Gengis Khan) con la “periferia” e avevano perciò precedenza assoluta
per quanto concerne il cambio di cavalli e i rifornimenti. Dopo la scomparsa di Gengis Khan, l’impero venne
diviso in quattro parti, ciascuna governata da un discendente del creatore della potenza mongola, ma non per
questo l’“Orda” si arrestò. Nel 1227 Ogodai conquistò la Corea e nel 1234 distrusse quel che restava
dell’impero dei Jin. Nel 1235 Karakorum divenne la capitale del suo regno mentre l’“Orda” si preparava ad
un’altra invasione dell’Europa.
Il comando venne affidato a Batu, nipote di Ogodai, ma il comando effettivo era nelle mani di Subutay, un
generale estremamente abile. Complessivamente erano 150.000 uomini, inclusi gli addetti ai servizi e gli
“artiglieri” cinesi e musulmani,ma le truppe combattenti (provenienti da tutt’e quattro le parti in cui era stato
diviso l’impero mongolo) non dovevano essere più di 60.000275. I Mongoli sferrarono il loro assalto nel 1237
favoriti dalle rivalità tra i principati russi. Nel 1238 venne presa Mosca (allora una piccola città) e poi
Vladimir. (I cavalieri mongoli aggirarono l’esercito russo, e percorsero 100 miglia senza mai fermarsi fino a
Vladimir che cadde in pochi giorni; poi circondarono e distrussero anche l’esercito russo). Due anni dopo cadde
pure Kiev. La repubblica di Novgorod invece resisté all’attacco di Batu, anche se il suo territorio venne
saccheggiato. L’esercito mongolo adesso si divise in due colonne: una (forse non più di 25.000 uomini) puntò
verso la Polonia, l’altra (circa 40.000 uomini) verso l’Ungheria. Anche i Polacchi, come i Russi, erano divisi tra di
loro, ma cercarono di far fronte comune contro il pericolo imminente. Enrico II di Slesia riuscì a radunare un
esercito di 40.000 uomini, ma i Mongoli tesero loro un’imboscata (con la solita tattica che consisteva nel fingere
L’impero Jin (quello fondato dai Nüzhen) verso il 1200 contava 50 milioni di sudditi, ma sia per i privilegi che godevano i conquistatori sia per il
fenomeno di espropriazione delle terre appartenenti ai Cinesi era stato indebolito da numerose rivolte.
274
Ivi, p. 132.
273
275
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 248.
97
una fuga per attirare il nemico in una zona, scelta con cura, in cui lo aspettava il resto della cavalleria mongola) e
li sconfissero presso Liegnitz (1241). Stessa sorte toccò agli 80.000 uomini messi in campo dagli Ungheresi.
Fu una fortuna per gli Europei, che proprio allora Ogodai morisse e ai Mongoli venisse ordinato di tornare in
Russia276.
Tuttavia, le campagne di conquista dei Mongoli non cessarono neppure dopo la morte di Ogodai. Un
esercito mongolo guidato da Hulagu (fratello del successore di Ogodai, Mongka, e governatore della Persia)
prese la fortezza di Alamut, roccaforte dei cosiddetti “Assassini” (una setta musulmana derivata
dall’ismailismo), occupò Baghdad, la capitale del califfato degli Abbasidi, e nel 1260 un’avanguardia di circa
12.000 uomini si spinse verso l’Egitto, ma venne battuta dai Mamelucchi (che erano circa 20.000). A lungo si
è ritenuto che in questa occasione siano stati i Mongoli a cadere in un’imboscata; oggi si ritiene invece che i
Mamelucchi abbiano saputo sfruttare al meglio la propria conoscenza del terreno e che decisiva sia stata la
defezione dei Turchi alleati dei Mongoli; inoltre, i Mamelucchi disponevano di cavalli più resistenti di quelli
Mongoli e assai più adatti per il tipo di combattimento che dovevano sostenere. Un fattore essenziale fu anche
la proverbiale disciplina dei Mamelucchi che “tennero duro” allorché i Mongoli attaccarono, per poi caricare a
loro volta travolgendo le file nemiche e trasformando la sconfitta dei Mongoli in una vera e propria rotta277.
Che la vittoria ad Ain Jalut abbia salvato il mondo musulmano è indubbiamente un’esagerazione, e lo è pure
l’affermazione che questa battaglia fece crollare il mito dell’invincibilità dei Mongoli. Secondo Stephen Turnbull
i Mongoli erano stati battuti anche perché avevano incontrato dei nemici che combattevano alla loro maniera278.
Certo è che passarono ventun anni prima che i Mongoli apparissero di nuovo in questa regione e anche questa
volta vennero sconfitti.
Anche ad est i Mongoli andarono incontro ad un fallimento allorché cercarono di conquistare il Giappone,
che già presentava quelle caratteristiche che ormai sono celebri in tutto il mondo279. A Kyoto la corte conduceva
una vita raffinata, influenzata dalla cultura cinese, ma nelle province era emerso un Giappone feudale in cui i
diversi clan erano raggruppati intorno al clan dei Minamoto e a quello dei Tara, che aspiravano a conquistare
l’egemonia su tutto il Giappone. La guerra tra i Minamoto e i Tara (nota come “guerra Gempei”) fu
caratterizzata da numerosi scontri e duelli tra samurai, e impegnò l’aristocrazia militare giapponese per diversi
anni, finché, nel 1185, in una battaglia navale nello Stretto di Shimonoseki i Tara subirono una sconfitta decisiva.
Il capo dei Minamoto, Yoritomo, poté allora formare un governo militare (bakufu) e assunse il titolo di shogun
(“generalissimo”). Allo shogun, anziché all’imperatore, spettava il compito di dirigere il Paese. Più che una
diarchia quindi si trattava di un regime particolare, conosciuto appunto come shogunato, che relegava l’imperatore
ad un ruolo puramente simbolico. Per evidenziare il significato del nuovo corso politico Yoritomo stabilì la sede
del governo a Kamakura anziché a Kyoto. Fu in questi anni di continua lotta tra clan rivali (che in provincia
proseguì anche dopo la vittoria dei Minamoto), che si venne a formare una classe sociale di guerrieri di
professione, i samurai, legati al signore da cui dipendevano da vincoli di lealtà pressoché assoluta, benché
dovessero rispettare un codice d’onore, il bushido (la “via del guerriero”), che li distingueva nettamente dalle altre
classi sociali. (Ma non necessariamente i bushi erano samurai, termine che designa solo i guerrieri “al servizio”
di qualche clan). L’arco e la spada (nota come katana, a un solo taglio, con lama leggermente curva, in acciaio
temprato e che richiedeva un’abilità artigianale non comune per essere fabbricata) erano le loro armi principali.
In questi secoli gli scontri tra guerrieri si riducevano spesso a una serie di duelli individuali, e gli eserciti rivali
contavano ciascuno alcune centinaia o (più raramente) alcune migliaia di uomini. Era questo, a grandi linee, il
sistema politico-militare giapponese all’epoca dell’attacco dei Mongoli. Il primo tentativo di sottomettere il
Giappone fu fatto nel 1274. La forza di spedizione mongola mosse dalla Corea e occupò le isole di Tsushima e
di Iki, poi sbarcò nella parte settentrionale di Kyushu. I Giapponesi, come al solito, prima dello scontro si misero
276
I Russi furono quindi sottomessi dai Mongoli, ai quali dovevano pagare un pesante tributo. Nel 1326 il metropolita ortodosso però fissò la sua sede
a Mosca che divenne così il centro politico e spirituale della Russia. E fu appunto il principe di Mosca, Dmitrij Donskoj, che inflisse una netta sconfitta
ai Mongoli nel 1380 nella battaglia di Kulikovo. Ma la lotta dei Russi contro i Mongoli durò ancora un secolo, mentre già Dmitrij Donskoj dovette
subire l’umiliazione di pagare un tributo a un luogotenente di Tamerlano, che diede alle fiamme la stessa Mosca, benché a sua volta venisse sconfitto
da Tamerlano. Fu solo nel 1476 che Mosca, sotto Ivan III, smise definitivamente di pagare il tributo all’Orda d’Oro.
277
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., pp. 252-253.
278
Vedi S. Turnbull, Genghis Khan and the Mongol Conquests,1190-1400, Osprey, Oxford, 2003, p. 60.
279
Il Giappone nel IV secolo d. C. aveva conquistato una testa di ponte in Corea. Nel 532, Silla invase Paekche, che nel 553 chiese aiuto ai Giapponesi.
Questi ultimi si trovarono in difficoltà, tanto che nel 562 furono cacciati dalla Corea, anche se adesso disponevano di un corpo di arcieri a cavallo
(intorno al 400 un contingente di fanteria giapponese era stato sconfitto dalla cavalleria del regno coreano di Koguryo; i Giapponesi però impararono
la lezione e compresero l’importanza della cavalleria - vedi J. T. Kuehn, A Military History of Japan, Abc-Clio, Santa Barbara (California), 2014, pp.
8-9). Nel secolo successivo, allorché i tre regni coreani erano di nuovo in guerra tra di loro, il Giappone intervenne contro Silla. Il regno coreano però
era appoggiato dalla Cina, che nel 663 riuscì a distruggere una flotta giapponese al largo della costa coreana, frustrando così le mire espansionistiche
del Giappone sulla Corea.
98
a compiere le loro cerimonie tradizionali, ma i Mongoli, ai quali di questi riti nulla importava, mossero subito
all’attacco e misero in fuga i difensori. Mentre un altro esercito giapponese si stava radunando, una tempesta
distrusse gran parte della flotta degli invasori, che di conseguenza furono costretti a ritirarsi con quel che
rimaneva della propria flotta. Nel 1281 venne fatto un altro tentativo da parte dei Mongoli, con una forza di
spedizione maggiore (forse 50.000 uomini). Questa volta però i difensori erano meglio preparati. La battaglia
sulle spiagge di Kyushu fu dura, ma la cavalleria mongola non aveva spazio per manovrare e i Giapponesi
compirono anche un’ardita incursione contro la flotta nemica, che ancora una volta subì danni gravissimi per
un’improvvisa tempesta (i Giapponesi denominarono il vento che per due volte li aveva aiutati a respingere gli
invasori kamikaze ossia “vento divino”). Il Giappone dunque era salvo.
Diversa fu la sorte della Cina meridionale ove regnava ancora la dinastia dei Song. La Cina meridionale era
sempre stata protetta da una barriera naturale formidabile, a causa di numerosi fiumi, acquitrini e canali che
praticamente rendevano impossibile alla cavalleria degli invasori di spingersi più a sud. Qubilai però costruì una
forte flottiglia fluviale (le navi erano armate di catapulte per aver ragione di quelle nemiche) e nel 1268 pose
l’assedio alla città di Xiangyang, sul fiume Han, che controllava la valle dello Yangtze ed era di conseguenza una
posizione d’importanza strategica. L’assedio durò quattro anni. Qubilai fece venire ingegneri anche dall’Asia
occidentale per costruire dei trabucchi, che erano delle potenti macchine d’assedio in grado di lanciare proietti
del peso di un quintale circa. Alla fine del 1272 delle truppe d’élite mongole si lanciarono all’assalto verso il
ponte attraverso il quale i Song potevano ancora rifornire la città. Gli attaccanti subirono perdite terribili, ma
riuscirono nell’impresa mentre le mura della città venivano bombardate senza posa dalle macchine d’assedio. I
difensori resistettero strenuamente ancora per qualche mese, ma nel marzo del 1273, vista l’impossibilità di
ricevere soccorsi, il comandante della città si arrese. A questo punto divenne possibile per i Mongoli conquistare
l’intera Cina. Del resto, Qubilai ancor prima di diventare Kahn (1260-1294) aveva governato una prefettura
della Cina che si trovava sotto il dominio mongolo, acquistando una certa conoscenza dei costumi e della
mentalità cinesi. Nel 1264 decise di trasferire la capitale dalla città di Karakorum a Pechino e nel 1271 adottò
un nome cinese per la propria dinastia, ossia Ÿuan. Ma i Mongoli non “legarono” con i Cinesi. Lo stesso Marco
Polo che rimase nella Cina di Qubilai vent’anni (1275-1295) fu testimone di una forte e permanente tensione
tra Cinesi e Mongoli che si comportarono sempre da conquistatori. Vi era una complessa gerarchia etnica che
vedeva i Mongoli in cima alla scala e i Cinesi della Cina meridionale (definiti sprezzantemente “meridionali”)
occupare il posto più basso. E fu proprio nella Cina meridionale che la resistenza contro gli occupanti divenne
via via più forte: una serie di disastri naturali e la peste bubbonica acuirono la debolezza del regime mongolo,
che si era già evidenziata subito dopo la morte di Qubilai e a partire dal 1330 scoppiarono diverse rivolte in
specie nel sud del Paese. Verso la metà del XIV secolo la Cina era nuovamente in piena anarchia e i signori
della guerra combattevano l’uno contro l’altro. E fu un signore della guerra “meridionale”, figlio di contadini,
che, dopo essersi impadronito di Nanchino, Canton e Pechino, si proclamò imperatore (1368) fondando la
dinastia Ming (ossia “luce”), che sarebbe durata fino quasi alla metà del XVII secolo. Un secolo in cui l’Europa
era già diventata, in un certo senso, il Vecchio Continente.
L’Europa. Nei secoli successivi alla caduta dell’impero romano d’occidente ovviamente non mancarono
rapine, assedi o battaglie, ma fu soprattutto l’emergere della chiesa cattolica come grande potenza che
caratterizzò l’Europa barbarica. Se i monasteri benedettini erano gli unici centri d’energia spirituale e morale,
l’opera riformatrice di Gregorio Magno, da tali centri trasse ispirazione e forza: spezzettò il latifondo
ecclesiastico, frutto di cospicui lasciti di molti devoti, e pose sotto il proprio controllo i vescovi, di modo che
non solo rafforzò la disciplina e l’ordine ecclesiastici, ma fece assumere alla chiesa le funzioni tipiche
dell’impero fin quasi a sostituirlo del tutto, essendo sempre minore l’autorità di Bisanzio sulla Penisola. Ma la
chiesa ora assumeva pure un ruolo di grande potenza sul piano internazionale sia nella lotta tra Longobardi e
Bizantini sia in quella tra Longobardi e Franchi. La ricerca di un equilibrio che fosse vantaggioso per la chiesa
stessa non era facile, ma la chiesa poté sfruttare l’opportunità offerta dalla questione della dinastia dei
Merovingi, i cosiddetti “re fannulloni”. Riconoscendo il diritto di Pipino il Breve (figlio del maggiordomo
Carlo Martello vincitore degli Arabi a Poitiers) a rivendicare il trono, la chiesa conseguì diversi obiettivi: si
assicurò l’appoggio di un alleato potente contro i Longobardi che, avendo occupato l’Esarcato e il ducato di
Spoleto, erano considerati come una diretta minaccia alla stessa chiesa; poté far valere la pretesa di esercitare
la propria autorità su Roma e sull’Italia (il falso storico noto come Donazione di Costantino, secondo cui
l’imperatorre romano aveva deciso di concedere alla chiesa il dominio sull’Italia, venne appunto fabbricato tra
la metà e la fine dell’VIII secolo); poté contare sul sostegno dei Franchi per quell’opera di evangelizzazione
dell’Europa che non era stata ancora completata. Né si deve trascurare la contrapposizione tra mondo cristiano
e mondo musulmano che conferiva alla chiesa cattolica una funzione di guida spirituale e politica al tempo
99
stesso, tanto più che se Bisanzio fungeva da baluardo della cristianità e gli Arabi erano stati fermati a Poitiers, non
per questo non v’era più nulla da temere da parte dei musulmani (oltre alla conquista della Sicilia e all’effimero
emirato di Bari nel IX secolo, i Saraceni compivano numerose scorrerie anche nel Mediterraneo centrooccidentale). Ma è con la disfatta che Carlo Magno inflisse ai Longobardi nel 773 (Pavia ove si era rifugiato
l’ultimo re di longobardi, Desiderio, cadde l’anno dopo) che la chiesa si vide riconoscere pienamente il ruolo di
“potenza temporale”, entrando in possesso del Ducato romano, di Perugia, della Pentapoli e dell’Esarcato; e
allorché il papa Leone III incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero, nel Natale dell’800,
vennero poste le premesse perché la chiesa tentasse di far valere la propria autorità su tutto il mondo cristiano.
Quali che fossero le reali intenzioni del papa, l’incoronazione di Carlo Magno rifletteva pure un mutamento
della “carta geopolitica” d’Europa. Dalle “nebbie della preistoria” andava allora emergendo la regione compresa
tra il Mare del Nord e il Baltico, nella quale vi erano le terre tra le più fertili dell’Europa occidentale, mentre
sotto i Carolingi il “centro di gravità” europeo si spostava ad Aquisgrana. La frontiera dell’Europa a sud adesso
invece passava attraverso il Mediterraneo, sicché, a giudizio dello storico belga Henry Pirenne l’inizio del
Medioevo andrebbe spostato dal V all’VIII secolo (questa tesi presente in diverse opere di Pirenne si trova
esposta anche nel volume postumo Mahomet et Charlemagne del 1937). Tesi non priva d’interesse, ma considerata
dagli storici eccessiva. Certamente la “rottura” rispetto al passato è innegabile come dimostra la storia della
Spagna medievale contrassegnata dalla lotta per la Reconquista, ma il solco non fu maggiore di quello scavato
dalle guerre tra popoli che condividevano la stessa religione. D’altronde, come sostiene Lopez, «i musulmani
trovarono alleati scoperti o occulti in diversi luoghi dell’Europa cattolica; essi stessi misero di formare un fronte
comune non appena il califfato cominciò a frantumarsi, nel 750. […] Anche sul terreno religioso vi furono
meno conflitti fa musulmani e cristiani, che fra “ortodossi” ed “eretici” all’interno di ognuna delle due
religioni»280. Neppure vennero mai meno gli scambi culturali o quelli commerciali, benché sia stato soprattutto
nei secoli seguenti che i “contatti” e gli scambi tra mondo islamico e mondo cristiano diventarono più intensi e
fecondi. In realtà, l’influsso del mondo islamico sull’Europa fu enorme nel campo della filosofia, della scienza,
e della medicina. E al mondo islamico si devono progressi nelle tecniche della lavorazione del vetro, del cuoio,
del legno, nonché l’introduzione in commercio del cotone e di nuove piante, come l’arancio. Del resto, anche
per la presenza dell’impero bizantino e poi delle repubbliche marinare, il Mediterraneo rimase per molti secoli
ancora lo spazio geopolitico, nonché geoeconomico e geoculturale, più importante dell’Europa. Questo non
significa che con le conquiste arabe non si sviluppassero dei traffici commerciali, dalla Spagna all’Indo, dai
quali era escluso il mondo cristiano. La stessa crisi demografica (aggravata dalla peste el 742-743) e gli angusti
limiti di un’economia basata pressoché solo sull’agricoltura favorirono un “isolamento” dell’estremità
occidentale dell’Eurasia. In questo contesto acquisì particolare rilievo la concezione di una respublica
christiana e si sviluppò l’opera e l’azione politica di Carlo Magno. Quando Carlo Magno scomparve nel’814 il suo
impero si estendeva dalla Spagna settentrionale alla Germana occidentale e comprendeva la terra di Francia,
la Svizzera e gran parte dell’Italia. Durante il suo regno, Carlo Magno fu costantemente impegnato in
campagne militari, contro i Longobardi, i Bizantini dell’Italia meridionale, gli Arabi, gli Avari, i Sassoni e altri
popoli. A parte la sconfitta subita a Roncisvalle dalla retroguardia del suo esercito, mentre tornava in patria
dopo una spedizione contro gli Arabi, numerose furono le sue vittorie. Contro i Sassoni, che erano restii a
sottomettersi alla sua autorità e a convertirsi al cristianesimo, Carlo Magno agì spietatamente, finché il loro capo
Vitichindo si arrese e si fece battezzare. L’esercito con cui l’imperatore ottenne questi successi era diverso da
quello dell’età dei Merovingi. Prima di Carlo Magno i Franchi erano soliti usare i cavalli per spostarsi
rapidamente, ma combattevano a piedi, e la loro arma caratteristica era la francisca, un’ascia da guerra che
si poteva usare nei combattimenti corpo a corpo o come arma da lancio. Al tempo di Carlo Magno la
cavalleria era indubbiamente ancora la regina delle battaglie, ma si trattava di una cavalleria pesante in grado di
effettuare delle cariche micidiali contro lo schieramento nemico. Questi cavalieri avevano una spada lunga, uno
scudo ovale di grande dimensioni e indossavano una corazza di cuoio e metallo. Vi erano anche, oltre alla
cavalleria leggera, dei milites di leva, che venivano mobilitati all’inizio di ogni campagna militare (di solito a
maggio). La “scara” era invece la guardia dell’imperatore. Il numero degli effettivi degli eserciti dell’epoca
carolingia non è affatto certo. Le stime oscillano tra 5.000 e 30.000 cavalieri ben armati ed equipaggiati
(escludendo gli attendenti)281. Considerando l’elevato costo dell’armatura non si è lontani dal vero ipotizzando
che gli eserciti degli imperatori carolingi non superassero complessivamente i 15.000 uomini. Si sa comunque
che i vassalli dovevano fornire all’imperatore uomini e mezzi per le sue campagne militari.
Con i Carolingi infatti si venne a formare quel sistema che si è soliti designare come “feudalesimo” (benché
280
R. S. Lopez, op. cit., p. 90.
281
Vedi N. Hooper, M. Bennett, The Cambridge Illustrated Atlas of Warfare. The Middle Ages, Cambridge University Press, Cambridge, 1996, p. 13.
100
oggi alcuni storici preferiscano non usare più questo termine perché lo ritengono “generico” e fuorviante); un
sistema articolato secondo una struttura piramidale che vedeva al vertice l’imperatore e i grandi vassalli
(marchesi, conti e vescovi), che affidavano parte dei loro fondi ai valvassori, i quali a loro volta affidavano
parte di questi fondi signorili ai valvassini. Vi erano poi cavalieri (senza feudo), membri del clero,
professionisti, artigiani e contadini. I mercanti pur godendo di vari privilegi si trovavano ancora in una
posizione subordinata. La vera “base” dell’economia e del potere era la terra, coltivata da contadini, che avevano
vari obblighi, tra cui quello di lavorare pure la terra del “signore” (il “fondo dominicale”)282. Si trattava quindi
di una economia curtense, giacché si consumava quel che produceva il feudo (curtis), ovvero un’economia
basata su pochi scambi, spesso in natura. Difficilissimo dunque tenere insieme un impero così strutturato e
così esteso. Per frenare le inevitabili tendenze disgregatrici, Carlo si avvaleva di ispettori, i missi dominici, che
dovevano garantire l’unità dell’impero, controllando le varie contee e marche (terre di confine in cui Carlo
aveva fatto edificare diverse fortificazioni). Ma l’impero carolingio era pur sempre una compagine statale diversa
da quella di uno Stato moderno. La concezione dello Stato come proprietà privata e dominio del sovrano, che
era stata la caratteristica del periodo dei Merovingi, non era scomparsa e non facilitava il compito di tenere unito
l’impero. Nemmeno il particolare rapporto tra impero e chiesa che si era formato con Carlo poteva durare a
lungo. Contro i due poteri agivano delle “forze particolaristiche”, che miravano a scardinare un ordine
costituito a loro spese. Perciò lo sviluppo dell’impero rimase largamente legato a Carlo e alla sua gigantesca
figura. A Carlo si devono anche notevolissime iniziative culturali tra cui la creazione della famosa Scuola
Palatina, sotto la direzione del monaco Alcuino, e la promozione dell’uso del latino come lingua dotta (anche
se le lingue parlate dai popoli europei andavano differenziandosi e acquisivano importanza, al punto che agli
inizi del IX secolo il clero franco venne autorizzato a predicare in lingua volgare). Quando il successore di Carlo
morì, l’impero si divise in tre regni, da cui sarebbero nati tre grandi Paesi europei, ossia Francia, Germania e
Italia. In ogni caso, era ovvio che il sistema feudale favorisse la frammentazione politica a scapito del potere
centrale: con il capitolare di Qiuerzy dell’877 venne riconosciuta l’ereditarietà dei feudi maggiori, mentre nel
1077 fu riconosciuta perfino quella dei feudi minori. Ma in questo torno di tempo erano già all’opera quelle
forze e quelle tendenze che avrebbero trasformato la società del Medioevo europeo. Prima però di prendere in
esame tale mutamento si deve ricordare un altro fenomeno, ovvero le ultime invasioni barbariche verificatesi
proprio mentre l’Europa si avviava ad essere completamente cristianizzata.
Mentre i Saraceni continuavano a compiere delle scorrerie lungo le coste tirreniche e della Francia
meridionale, i popoli dell’Europa occidentale dovevano difatti pure difendersi dagli Ungari (o Magiari) e
soprattutto dagli Scandinavi. I primi, che erano già stati respinti dalla Germania e dall’Italia settentrionale, si
allearono con il duca ribelle Corrado di Lorena, allorché l’imperatore Ottone I dovette domare una ribellione
dei duchi, e ne approfittarono per compiere una incursione in Francia. Ma quando gli Ungari invasero la
Baviera (955) l’imperatore decise di muovere subito contro di loro sacrificando il numero per la rapidità. A
Lechfeld avvenne un memorabile scontro tra i cavalieri magiari, armati con un corto e potente arco composito,
e i circa 4.000 uomini d’arme di Ottone I. Una parte degli Ungari riuscì ad aggirare l’esercito di Ottone I, che
marciava in colonna, e attaccò le salmerie difese dai Boemi, che vennero facilmente sopraffatti. Ciononostante,
Ottone I seppe reagire prontamente, mandando in soccorso dei Boemi i Franchi, comandati proprio da Corrado
(che morì nel corso della battaglia) e che ristabilirono la situazione. Dopodiché la cavalleria pesante di Ottone I
caricò gli Ungari che furono travolti e sterminati mentre si davano alla fuga283. Dopo questa battaglia, gli
Ungari, che avevano seminato il terrore in Europa, si insediarono stabilmente nella pianura ungherese,
abbandonando la loro tradizione di razziatori (in seguito il loro re, Stefano il Santo, si convertì al cristianesimo).
A questa vittoria Ottone I ne aggiunse altre contro gli Slavi e istituì delle nuove marche alla frontiera,
promuovendo la diffusione del cristianesimo anche tra questi popoli.
Diverse e di maggiore portata furono invece le invasioni degli Scandinavi: ad est percorsero le vie fluviali fino
al Mar Nero, ad ovest percorsero il Mare del Nord, addentrandosi nel cuore della Francia, e l’Atlantico, da cui
si incunearono nell’area mediterranea. Gli Scandinavi, ovunque giungessero, saccheggiavano e distruggevano.
Ma non erano solo razziatori, tanto che si insediarono stabilmente in Normandia (da cui mossero alla conquista
dell’Inghilterra) e nel Mediterraneo, togliendo la Sicilia agli Arabi e l’Italia meridionale ai Bizantini284. Le
282
Ad esempio, «a Saint-Germain-des-Près gli agricoltori “liberi”dovevano lavorare per il signore cinque settimane ogni anno, i servi della gleba tre
giorni ogni settimana» (H. Fichtenau, L’Età di Carlo Magno, RCS; Milano, 2004 , p. 196). Vi era comunque una certa “mobilità sociale”,dato che servi
e contadini “liberi” potevano diventare fattori, guardiacccia, capomastri, etc. (ivi, p. 198).
283
Vedi N. Hooper, M. Bennett , op. cit., p. 32.
Assai controversa è la cosiddetta “teoria normanna”, secondo cui gli Scandinavi diedero origine allo Stato di Kiev. In ogni caso, oggi si ritiene che
l’incidenza della cultura scandinava su quella russa sia stata minima. Sull’argomento vedi N. V. Riasanovsky, op. cit., pp. 25-32.
284
101
eccezionali conquiste dei Normanni (conosciuti pure come Vichinghi, altro termine con cui si designano i popoli
scandinavi nell’Alto Medioevo) furono rese possibili dal fatto che erano non solo temibili combattenti ma abili
navigatori, capaci di costruire eccellenti imbarcazioni. Le navi vichinghe conosciute come drakkar, non erano
tutte uguali e nel corso del tempo divennero più grandi e potenti. Il drakkar di Gokstadt (conservato ad Oslo)
si può comunque considerare una tipica nave vichinga: interamente di quercia, contava 32 rematori, era lunga
24 metri e larga cinque, senza ponte e con la chiglia fatta in un unico pezzo, come la poppa e la prua. La flotta
era la “base mobile” dei Normanni che sfruttavano i corsi dei fiumi per compiere le loro razzie nell’entroterra,
e se il fiume non era navigabile, una volta ormeggiate le navi, le proteggevano con una palizzata. L’armatura dei
Normanni era simile a quella dei Franchi, sebbene i Normanni avessero un’ascia assai più pesante della
francisca. Peraltro, le loro incursioni erano favorite dall’assenza di un potere centrale, in grado di mobilitare
rapidamente un forte esercito, giacché gli Scandinavi non potevano certo essere fermati da truppe contadine
raccogliticce, male armate e ancor peggio addestrate. Solo le cariche della cavalleria pesante potevano infliggere
agli “incursori” normanni sconfitte decisive.
Per difendersi dai Normanni si costruirono comunque nuove opere difensive e si fortificarono le abbazie.
All’inizio, la fortificazione tipica era un mastio (o torrione), costruito su un terreno sopraelevato e circondato da
un fossato, ma, anche grazie alla diffusione dell’impiego della pietra nelle tecniche di costruzione (sempre più
perfezionate), le fortificazioni divennero via via più grandi e complesse. Nacque così l’età dei castelli
medievali, pressoché imprendibili, tenendo conto della scarsa efficacia delle tecniche d’assedio dell’epoca,
benché negli assedi si facesse ricorso a diverse macchine belliche, e ovviamente alle mine che erano
particolarmente temute. Ma costringere gli assediati ad arrendersi per fame o con l’inganno era pur sempre il
metodo più efficace a disposizione degli assedianti. Terminate le grandi invasioni barbariche, cominciava
quindi una nuova epoca, non contrassegnata però solo dalle grandi abbazie e dai castelli. Il periodo compreso tra
l’XI e il XIV secolo circa è anche quello dell’etica della cavalleria, dell’amore cortese, della “milizia spirituale”,
dello sviluppo del commercio e del progresso della tecnica, della rinascita del pensiero filosofico, delle prime
università, delle cattedrali romaniche e gotiche, delle fiere e dei mercati. La ripresa demografica favorì una
“rivoluzione commerciale”, ovvero un ciclo economico espansivo che durò fino al Trecento. Accanto ai nobili,
ai chierici e ai produttori (contadini e artigiani) comparve un altro protagonista: il mercante. La società
medievale “si arricchì” quindi di una nuova funzione economica, cioè quella che consisteva nello scambio di
merci e nel prestare denaro: l’usura. E dagli “usurai banchieri” sarebbero nate poi le banche285. Condannata e
disprezzata, ma non abolita, questa nuova funzione avrebbe vieppiù condizionato la vita dell’Europa, promosso
i commerci e stimolato l’economia, ma avrebbe pure trasformato il denaro in uno “strumento” capace di generare
nuovi squilibri e nuove forme di dominio.
“Rivoluzione commerciale” dunque, come sostengono gli storici, ovvero un mutamento che comportò, oltre alla
nuova condizione sociale del mercante, la fine del ciclo “chiuso” dell’economia curtense e una crescita della
popolazione cittadina (pur non verificandosi uno spopolamento delle campagne), nonché un notevole progresso in
campo tecnico. Per fare qualche esempio, in Inghilterra tra il 1086 e il 1346 la popolazione passò da 1.100.000 a
3.700.000 abitanti, mentre tra la metà dell’XI e la fine del XII secolo la popolazione di città come Milano e Firenze
raddoppiò. Il mulino ad acqua, invenzione dell’epoca ellenistica che non aveva destato interesse vuoi per ragioni
culturali (prevalenza di una visone “contemplativa” della natura) che sociali (presenza di lavoro servile), si diffuse
rapidamente, tanto che in Inghilterra nel 1086 si contavano circa 5.000 mulini, quasi tutti ad acqua. Importanti furono
le innovazioni tecniche nell’industria soprattutto in quella tessile, che vide un forte sviluppo dell’industria della seta
e di quella cotoniera (anche il cotone come la seta fu importato dall’Oriente), oltre a quello del settore laniero, che
aveva i suoi centri nelle città industriali delle Fiandre e in Italia (in specie a Firenze, che nel Trecento produceva
80.000 pezze di stoffa all’anno e dava lavoro a 30.000 dei suoi 100.000 abitanti) . Rilevanti furono pure i progressi
nella metallurgia e nella molitura, e fondamentali innovazioni si ebbero nella produzione del vetro e di orologi, oltre
che nella fabbricazione della carta e nell’arte della stampa, tanto che mediante la stampa a matrici o blocchi di legno
verso la fine dal XIII secolo era possibile stampare intere pagine.
Questo successo promosse la ricerca di un metodo che consentisse di utilizzare più volte i caratteri intagliati.
Il ricorso a “caratteri mobili” fu tentato varie volte, finché Gutenberg sperimentò con pieno successo questa
tecnica a Magonza nella metà del XV secolo. Nel settore agricolo si verificarono mutamenti non meno degni di
nota, tra cui la bonifica di nuove terre, la sostituzione in diverse zone dell’aratro di legno con quello di ferro e
la cosiddetta “rotazione triennale”. Il campo cioè ora veniva diviso in tre parti: una parte si lasciva riposare
(maggese), un’altra si coltivava per il raccolto invernale e la terza per quello estivo (l’anno seguente il maggese
veniva coltivato per il raccolto invernale, quella che era stata coltivata per il raccolto invernale veniva messa a
285
Vedi, J. Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari, 1987.
102
coltura per quello estivo e quella che era stata coltivata per il raccolto estivo veniva lasciata riposare). Rispetto
all’avvicendamento biennale (metà della terra lasciata riposare) il vantaggio è evidente, dato che la produzione
saliva dalla metà ai due terzi di quella teoricamente possibile e si realizzava pure un progresso qualitativo
usando due parti per colture diverse286. Com’è ovvio, l’espansione dell’impresa agricola stimolò la domanda di
prodotti industriali (beni strumentali, utensili, aratri, generi di consumo, etc.) alimentando di conseguenza la
crescita economica. Miglioramenti significativi vi furono anche nei trasporti terrestri (ponti, canali, nuove
strade, collari e ferri per i cavalli) e in quelli marittimi (bussola, astrolabio, carte nautiche più precise e l’uso del
timone a poppa, al posto dei remi di governo, che consentiva di stringere meglio il vento e di costruire grandi
navi mercantili, cosicché le galee cessarono di venire usate a scopi mercantili)287. Il forte incremento del
commercio comportò la formazione di organizzazioni per la difesa di interessi comuni (denominate gilde,
corporazioni, arti, anse, etc.), la nascita di tecniche bancarie e di diverse associazioni commerciali. Sicché, dalle
Fiandre all’Inghilterra, dal Baltico al Mediterraneo era tutto un fiorire di traffici e scambi.
Questi mutamenti si accompagnarono naturalmente a nuovi fenomeni politici e a lotte e guerre di vario
genere. Protagonisti non solo l’impero e la chiesa, ma anche nuove realtà politiche come i comuni e le
repubbliche marinare, perennemente in lotta tra di loro per il controllo delle vie marittime e di nuovi mercati.
Stroncato lo sviluppo di Amalfi dai Normanni, che non concedevano nessuna autonomia alle forze cittadine, le
due repubbliche marinare che dominavano il Tirreno erano Pisa e Genova Quest’ultima, dopo la conquista di
Costantinopoli da parte dei crociati aveva concluso un trattato con i Bizantini di Nicea assicurandosi (una volta
restaurato l’impero bizantino) posizioni vantaggiose nell’Egeo e nel Mar Nero, e adesso non poteva più
tollerare la concorrenza di Pisa nel Mar Terreno. Si pervenne così, il 6 agosto 1284, alla battaglia decisiva della
Meloria tra le 93 galee della flotta genovese e le 72 di quella pisana288, comandata dal veneziano Alberto
Morosini (comandante in seconda era invece il conte Ugolino della Gherardesca, “immortalato” da Dante nella
Divina Commedia). I Pisani, convinti che la flotta genovese fosse numericamente inferiore, mossero contro le
galee nemiche in linea di fila e con una formazione a mezzaluna, tipica per quel tempo. Uguale era lo
schieramento delle 63 navi genovesi sotto il comando di Oberto Doria, che però contava pure sulle 30 galee
dell’ammiraglio Benedetto Zaccaria, nascoste alla vista dei Pisani. Caduti in trappola, i Pisani si batterono
valorosamente, ma subirono una tremenda disfatta, perdendo 40/50 navi e circa 10.000 uomini tra morti, feriti
e prigionieri289..In un sol giorno la potenza di Pisa scomparve. Eliminata Pisa, la lotta per la supremazia navale
nel Mediterraneo, allo scopo di assicurasi la maggiore fetta dei traffici continuò tra Genova e Venezia. La “guerra
commerciale” tra le due repubbliche marinare italiane durò un secolo. La repubblica di San Marco aveva acquisito
saldamente il controllo dell’Adriatico (ove già nel 1086 i Veneziani avevano spazzato via la flotta normanna, in
una battaglia combattuta nelle acque di Durazzo) e anche dopo che Genova aveva esteso la sua influenza nel
Mediterraneo orientale, i Veneziani conservarono il possesso delle isole Ionie, dell’Eubea e di Creta. Inoltre, le
colonie veneziane continuavano i loro traffici dal Mar d’Azov alla Cilicia, dall’Asia centrale (arrivando fino
in Cina) all’Egitto dei Mamelucchi290. Ma Genova era un avversario forte e ostinato, tanto che Venezia subì
anche gravi sconfitte, come nella battaglia di Curzola (un’isola della Dalmazia), nel 1298, in cui l’ammiraglio
genovese Lampa Doria distrusse una flotta veneziana, prendendo oltre 7.000 prigionieri e causando la morte di
altrettanti marinai della repubblica di San Marco. E Genova con l’aiuto di Padova e dell’Ungheria, alla fine del
XIV secolo, fu perfino sul punto di mettere in ginocchio la sua rivale nella guerra di Chioggia (1378-1381).
Ma infine la flotta veneziana riuscì a rovesciare le sorti di quella che pareva essere una guerra perduta per la
Serenissima e gli assedianti (i Genovesi) divennero gli assediati. Dopo che una flotta genovese non fu in grado
di rompere l’assedio, i Veneziani sferrarono l’attacco finale con pieno successo contro le forze genovesi assediate
e poi costrinsero alla fuga i rinforzi giunti da Genova. Questa guerra fece di Venezia la principale potenza
marittima del Mediterraneo (e pose le basi per il futuro scontro tra la Serenissima e l’impero ottomano).
Ciononostante, i Veneziani si resero conto della vulnerabilità della propria città, priva com’era di un adeguato
retroterra. Cominciarono quindi a costruire un forte Stato di terraferma per assicurarsi il controllo delle vie
fluviali e dei valichi alpini e dare così maggiore “respiro” al proprio impero marittimo. Una politica che portò
Venezia a scontrarsi ripetutamente con Milano nel XV secolo. Ma forse ancor più importanti delle guerre tra le
286
Vedi J. Le Goff., Il Basso Medioevo, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 43.
287
Vedi S. B. Clough, R. T. Rapp, op. cit., p. 91. Da ricordare anche le tavole amalfitane, in cui venne fissato un codice commerciale e marittimo.
288
Il numero delle galee include anche le più piccole galeotte.
Vedi R. G. Grant, Battle at Sea, DK Publishing, Londra, etc., 2008, p. 66.
290
Tre itinerari collegavano le colonie italiane del Levante con la Cina: il primo (il più sicuro e che si percorreva in circa nove mesi) partiva dalla
Crimea e arrivava in Cina passando per la Russia meridionale e il Turkestan; il secondo partiva da Trebisonda e attraversava la Persia e l’Afghanistan;
il terzo partiva da Cipro o dalla Cilicia, arrivava in Mesopotamia e da qui, per mare, costeggiava l’India e l’Indonesia (per giungere in Cina pare ci si
impiegasse un po’ meno di due anni).
289
103
repubbliche marinare o tra le città italiane furono i conflitti in cui fu coinvolta la chiesa.
Infatti, in questi secoli la chiesa combatté praticamente su tutti i fronti: contro la corruzione, dovuta pure
alla presenza di “vescovi conti” più interessati alla lotta politica che non ad occuparsi del proprio “gregge”,
contro gli eretici e contro quei movimenti che volevano riformare la chiesa dalle fondamenta, contro l’Islam e
contro l’impero. Il desiderio sincero di un rinnovamento profondo della vita della chiesa che si originava innanzi
tutto dalla questione della “mondanizzazione” della chiesa, portò alla nascita di vari movimenti riformatori,
tra cui quello cluniacense (chiamato così dal monastero di Cluny, in Borgogna e che verso il 1100 annoverava
circa 1.450 conventi che facevano capo ad unico superiore che era sottoposto solo al papa), quello posteriore
dei cistercensi (fondato da San Roberto nel 1098 e che prendeva il nome dall’abbazia di Cîteaux, in Borgogna;
nemmeno mezzo secolo dopo l’ordine contava circa 350 abbazie) e quello dei patari, che presentava aspetti
ereticali e (significativamente) assai forte in città come Firenze e soprattutto Milano destinate ad essere
protagoniste della “rivoluzione commerciale”. Ma la questione del potere temporale della chiesa non venne
mai meno, neppure dopo il concordato di Worms, nel 1122, con cui si metteva fine alla lotta per le investiture,
riconoscendo che la consacrazione dei vescovi era di pertinenza della chiesa, mentre l’investitura feudale era di
pertinenza dell’imperatore (anche se in Germania l’investitura feudale precedeva la consacrazione religiosa,
mentre in Italia avveniva il contrario; in pratica, si trattava di un compromesso). D’altra parte, era difficile
differenziare il potere spirituale da quello temporale tenendo conto sia dello straordinario prestigio della chiesa
in un’Europa che si configurava come una respublica christiana, sia del conflitto tra il mondo cristiano e quello
musulmano, che non poteva non riservare alla chiesa un ruolo di guida non meramente spirituale come
dimostrano le stesse crociate, che portarono all’istituzione di ordini religiosi cavallereschi, tra cui quello dei
templari, degli ospitalieri o dei cavalieri teutonici (che furono poi protagonisti della colonizzazione dell’Europa
orientale)291 e in cui l’impulso spirituale inevitabilmente cedette ben presto il passo a ben altri “appetiti”. Ma in
effetti la respublica christiana era solo apparentemente un unico “grande spazio geopolitico”: troppe le
differenze, le rivalità, le discordie; troppi gli “appetiti”, gli interessi, i conflitti. Pertanto, mentre si combatteva,
gli scambi, commerciali e culturali, con l’Islam erano “la norma” e le “fratture” all’interno della respublica
christiana erano invece sempre più nette. Ma era lo stesso messaggio spirituale cristiano che era suscettibile di
diverse interpretazioni, le quali giustificavano la critica o addirittura la condanna della “mondanizzazione”
della chiesa e aprivano la strada a movimenti eretici, alcuni dei quali, tra l’altro, si facevano interpreti del
malcontento per le condizioni di vita dei ceti sociali subalterni. A questa sfida, la chiesa (che distinguendo tra
clero secolare e clero regolare, poteva avvalersi di una “strategia di compromesso” soddisfacendo esigenze
diverse) reagì in vario modo, riconoscendo sia pure con difficoltà e diffidenza, il movimento dei frati minori
(i francescani, che dopo il riconoscimento dell’ordine, con la bolla di papa Onorio III nel 1223, si divisero tra
conventuali e spirituali, questi ultimi considerati vicini a posizioni eretiche) e i domenicani, ma perseguitando
coloro che riteneva eretici (per colpire i quali venne creato alla fine del XII secolo il tribunale dell’Inquisizione, che
poteva infliggere la pena di morte mediante “abbruciamento”), al punto da bandire una crociata contro i catari
(detti pure Albigesi, perché assai numerosi nella città di Alby in Provenza). I grandi feudatari del nord poterono
così mettere a sacco una regione tra le più belle d’Europa, in cui fioriva la magnifica civiltà d’oc, la furia
distruttrice e la cupidigia dei “crociati” non risparmiando né cose né persone.
Ma la chiesa era costantemente impegnata pure contro l’impero. E in questa lotta erano coinvolti i comuni
italiani, schierandosi con l’uno o l’altro dei contendenti per questioni che con la religione cristiana avevano
poco a che fare. In gioco vi erano le autonomie e gli interessi delle singole città. Il conflitto tra guelfi (che
sostenevano le ragioni della chiesa) e i ghibellini (che sostenevano le ragioni dell’impero) esasperò lo spirito di
fazione. E il particolarismo e quelle lotte intestine avrebbero creato le condizioni perché l’Italia diventasse
campo di battaglia per eserciti stranieri e perdesse del tutto la propria indipendenza. Il conflitto tra guelfi e
ghibellini trovava la sua ragione d’essere quindi nell’opposizione di alcune città all’impero e nella lotta tra
fazioni all’interno d’ogni città, ciascuna ricercando appoggio nell’impero o nella chiesa per prevalere su quella
avversaria. In questo senso, si deve comprendere l’opposizione della Lega lombarda all’imperatore Barbarossa,
che voleva restaurare l’autorità imperiale a scapito dell’autonomia conquistata dai comuni, sostenuti dalla
chiesa che mirava ancora a sottoporre l’imperatore al proprio potere. Era la concezione di un potere “universale” (unum versus alia, ossia cattolico, ché appunto “cattolico” deriva da una parola greca che significa
“universale”) del papato, che la chiesa difendeva, in particolare con Innocenzo III. La concezione teocratica di
Insediatisi nelle terre di un ducato polacco, assorbirono (nel 1237) l’ordine dei Portaspada e soggiogarono Prussia, Lettonia, Estonia. Le città da
loro fondate si unirono a quelle della Lega anseatica. I Russi si sottrassero al dominio tedesco, ma Novgorod concesse ai mercanti anseatici diversi
privilegi. Di fatto «da Bergen, Londra e Bruges a Novgorod, Reval e Riga il “Mediterraneo del Nord” era ormai sottoposto all’egemonia commerciale
tedesca» (R. S. Lopez, op. cit., p. 327).
291
104
questo papa però non poteva non entrare in conflitto con quella dell’imperatore Federico II di Svevia, difensore
di una concezione imperiale, imperniata su un’idea di impero come “uni-totalità” in sé differenziata292. Federico
II, più di ogni altro imperatore medievale, mostrò di essere consapevole della funzione fondamentale
dell’impero, ovvero dell’esigenza di far valere una prospettiva spirituale unitaria, tanto è vero che alla sua corte
vi erano dotti di tutt’e tre le grandi religioni del Libro. Inoltre, l’imperatore svevo concesse ai Saraceni di vivere
in Italia in maniera conforme ai propri usi e costumi, e trattò le comunità ebraiche con eguale rispetto per la
loro tradizione, a patto che nessuna di queste “singole parti” fosse di nocumento per lo Stato. Ma né il disegno
di Federico II né quello di Innocenzo III potevano realizzarsi nel contesto storico europeo, in cui molteplici
forze e nuove realtà politiche si andavano affermando.
Per quanto concerne i comuni, è da notare che il “capitale mobile” (mercanti e banchieri), una volta preso
il sopravvento rispetto agli aristocratici e ai feudatari minori (i milites secundi, artefici della prima fase del
cosiddetto comune aristocratico), fu propenso ad affidare il governo del comune ad un podestà straniero, per
mettere fine alle lotte intestine. Ma in realtà i conflitti continuarono sia all’interno delle singole città (poiché
il “popolo grasso”, riunito nelle Arti maggiori, non era disposto a condividere il potere con i ceti medi né
tantomeno con quelli popolari), sia tra i diversi comuni. Esempio paradigmatico è quello del comune di Firenze,
ove la lotta tra ghibellini e guelfi vide i primi (cacciati in precedenza, dalla fazione guelfa) vincere a Montaperti
(nel 1260) con l’aiuto di Siena e di Manfredi (figlio naturale di Federico II contro cui il papa chiamò Carlo
d’Angiò fratello del re di Francia in cambio del regno di Sicilia, del quale i papi ormai avevano l’effettivo
controllo). In seguito però la sorte volse di nuovo a favore della parte guelfa, grazie soprattutto alla sconfitta di
Manfredi a Benevento, nel 1266, anche se un nipote di Federico II, Corradino di Svevia, tentò di difendere
ancora la causa degli Svevi, ma venne sconfitto da Carlo d’Angiò a Tagliacozzo. Nemmeno la sconfitta degli
Hohenstaufen segnò comunque l’inizio di un periodo di pace in Italia. Difatti, allo scopo di dominare le vie del
traffico commerciale, Firenze lottò prima contro Siena, che controllava l’importantissima via francigena (che
dalla Francia conduceva a Roma) e che venne battuta a Colle val d’Elsa nel 1269; poi contro Arezzo, sconfitta
a Campaldino nel 1289. E Firenze sottomise pure Pistoia e Pisa. All’interno della grande e potente città toscana
però non cessarono le lotte tra le fazioni, che anzi divennero (se possibile) perfino più aspre. I guelfi, pur
sconfitti i ghibellini, si divisero a loro volta in due partiti: quello dei “neri”, ossia il partito della ricca borghesia,
fautore di una politica estera aggressiva per evidenti ragioni di carattere economico, e quello dei “bianchi”, ossia il partito
dei ceti medi e della piccola nobiltà (di cui faceva parte anche Dante), che invece era favorevole a una politica
più moderata ed equilibrata. Invero, con il prevalere del cosiddetto “pacifico” borghese si acuì lo spirito di
fazione e si inasprirono le tensioni sociali, mentre si generarono nuove lotte e nuovi squilibri. Lotte quindi che
talvolta videro protagonisti anche i ceti popolari, composti da lavoratori salariati che erano esclusi totalmente
dalla gestione degli affari pubblici. Sempre a Firenze, nella seconda metà del Trecento, si verificò infatti il
cosiddetto “tumulto dei ciompi”, salariati del settore laniero, i quali miravano a limitare i privilegi del “popolo
grasso” e a migliorare le condizioni di vita dei ceti sociali più deboli, abolendo pure i debiti che avevano con gli
industriali e i mercanti. Ma il “popolo grasso”, sfruttando i timori dei ceti medi, riuscì ad isolare i ribelli e a
soffocare senza difficoltà la rivolta (nel 1382), cogliendo l’occasione per instaurare un governo oligarchico.
D’altra parte, le condizioni di vita dei ceti popolari erano rese ancor più dure dal fatto che all’inizio del
Trecento la crescita economica subì un gravissimo arresto ancor prima che la peste nera si diffondesse in
Europa (1348). La crescita demografica trovò un limite insuperabile nella disponibilità di risorse alimentari.
Una serie di carestie decimò la popolazione facendo lievitare i prezzi dei cereali e le entrate fiscali diminuirono.
Già nel 1290 vi fu il fallimento dei banchieri fiorentini Cerchi e Frescobaldi, cui fece seguito (nel 1348) quello dei Peruzzi
e dei Bardi, che avevano finanziato la guerra dell’Inghilterra contro la Francia, dato che Edoardo III non fu in grado di
ripagare i propri debiti dopo la tregua di Esplechin (1340). La crisi demografica (acuita dalla peste) e quella
economica non solo portarono alla riduzione della produzione e all’aumento della disoccupazione, ma
causarono pure numerose rivolte contadine (come la jacquerie del 1358, in Francia, o quelle nel Kent e nel
Sussex) che vennero represse nel sangue (e che non potevano avere successo, mancando ai contadini una vera guida
politica per prevalere contro un potere forte e organizzato). Terminava così un ciclo economico in cui c’erano state
«una rivoluzione agricola (rotazione ternaria), una rivoluzione commerciale (le società permanenti, le
cambiali, le assicurazioni marittime, e innovazioni contabili) e una rivoluzione industriale (l’energia idraulica
nella metallurgia, nella lavorazione della lana, nella fabbricazione della carta). Per trovare un altro periodo di
così drastici mutamenti [si deve] arrivare all’Inghilterra del tardo Settecento quando [ebbe] inizio una nuova
292
Su Federico II di Svevia e la sua “idea” di impero vedi A. De Stefano, L’idea imperiale di Federico II, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma,
1978.
105
(ma analoga) serie di rivoluzioni»293. Ma oltre ai conflitti sociali, anche le guerre nel “senso stretto” del termine,
caratterizzarono l’ultima fase dell’“età di mezzo” europea.
Benché l’importanza della cavalleria non tramontasse con la crisi del “feudalesimo”, con l’istituzione dei
comuni apparvero solide milizie cittadine, che venivano mobiliate perlopiù per poche settimane permettendo
ai cittadini di tornare rapidamente alle proprie attività (anche per questo si è diffusa l’idea del “pacifico e
laborioso borghese”). Le guerre nel Medioevo videro così la fanteria tornare a svolgere un ruolo di primo piano
anche se la cavalleria pesante rimase per parecchio tempo l’arma principale, in particolare come arma
offensiva. In più occasioni comunque la fanteria si mostrò (se disciplinata e ben “inquadrata”) capace di
resistere ad un assalto della cavalleria pesante. Se a Poitiers, si era dimostrato che la fanteria pesante poteva
sconfiggere la cavalleria leggera294, nella battaglia di Hastings, nel 1066, non fu facile per la cavalleria pesante
normanna avere la meglio contro la fanteria inglese295. E a Legnano nel 1172 la fanteria milanese, schierata a
difesa del “carroccio”, resisté validamente all’attacco della cavalleria del Barbarossa, dando modo alla
cavalleria milanese di riordinare le proprie file e sconfiggere l’esercito dell’imperatore. Anche nella battaglia di
Bouvines (combattuta il 27 luglio 1214)296 la fanteria non fece la parte della “Cenerentola. Motivo del conflitto
tra il re di Francia, Filippo II Augusto, e l’alleanza tra il re inglese Giovanni Senzaterra, l’imperatore Ottone IV
e il conte di Fiandra era l’occupazione delle terre della corona inglese in Francia da parte di Filippo II Augusto,
un’azione “legittimata” dalla scomunica di Giovanni da parte di Innocenzo III (si badi che la scomunica allora
era uno dei “poteri” maggiori di cui disponesse il papato, dacché liberava dal vincolo del giuramento chi aveva
giurato fedeltà al re scomunicato). I Francesi, che si avvalevano anche di milizie reclutate nella Francia
settentrionale, riuscirono a prevalere nonostante l’inferiorità numerica, anche grazie allo scarso coordinamento
dell’azione dei vari reparti dell’esercito nemico; ma l’episodio più notevole si ebbe allorché i Francesi già
vincitori dovettero fronteggiare la resistenza di Rinaldo di Boulogne. Non volendosi dare per vinto Rinaldo
schierò una doppia fila di 700 picchieri fiamminghi, riuniti e stretti in cerchio, lasciando un varco da cui poteva
effettuare delle cariche di cavalleria. Solo dopo aver circondato con numerose truppe di fanteria (che
includevano probabilmente degli arcieri) l’“anello” formato dagli uomini di Rinaldo, i Francesi ebbero la
meglio sui picchieri fiamminghi, che combatterono (pur essendo dei mercenari) fin all’ultimo uomo.
L’esito della battaglia di Bouvines rafforzò in Francia l’alleanza tra la monarchia e il movimento comunale,
allo scopo di limitare il potere dei vassalli e favorire l’unità nazionale. Pertanto, la monarchia francese poté
svolgere una politica di centralizzazione, proprio quando in Inghilterra si limitava il potere della corona con
l’introduzione della Magna Charta (1215). In effetti, si andavano allora già delineando quelle forze che
avrebbero dato vita nei secoli successivi ad alcuni Stati nazionali, mentre la crisi dei comuni avrebbe portato alle
signorie e quindi agli Stati regionali italiani del XV secolo; secolo in cui si assisté non solo al declino dell’impero
ma al tramonto della concezione teocratica della chiesa (travagliata pure, dopo la “cattività avignonese”, dal
Grande Scisma d’Occidente, cui si pose termine con l’elezione di papa Martino V, nel 1417)297. Ma non è
nemmeno irrilevante il fatto che la battaglia d Bouvines sia stata combattuta di domenica, dacché a partire
293
S. B. Clough, R. T. Rapp, op. cit., p. 130.
Gli Arabi erano soliti fingere una ritirata per poi lanciare un deciso contrattacco, ma a Poitiers l’esercito franco non abbandonò le sue posizioni e
la cavalleria leggera arabo-berbera non fece breccia nel muro formato dalla fanteria e da nuclei di cavalleria pesante.
295
I Danesi avevano occupato l’Inghilterra nel 1013, in seguito la persero ma poi venne riconquistata da Canuto il Grande (che riuscì ad estendere il
suo dominio su tutto il Mare del Nord e buona parte del Baltico). L’impero danese comunque si sfasciò dopo la morte di Canuto (1035) e l’Inghilterra
si liberò definitivamente dal dominio danese. Peraltro, quando i Normanni invasero la Gran Bretagna, il re Aroldo II aveva appena dovuto respingere
un’incursione dei Norvegesi. In tutto Aroldo II poteva contare su 6/7.000 fanti per respingere anche l’invasione normanna (com’è noto la fonte principale
per la conoscenza di questa invasione è il famoso arazzo di Bayeux). L’esercito sassone era composto dal fyrd (la milizia popolare) e dagli housecarls
(dei mercenari al servizio del re). Guglielmo di Normandia invece disponeva di 2/3.000 cavalieri e 4.000 uomini tra arcieri e fanti armati con spade e
picche, che, al contrario degli uomini del fyrd, indossavano cotte di maglia. L’esercito sassone si schierò su un’altura con gli housecarls al centro e il
fyrd ai lati, su una profondità di 10/12 file. L’esercito di Guglielmo (di cui facevano parte non solo Normanni, ma pure Franchi e Bretoni) mosse
all’attacco scagliando nugoli di frecce e si “allargò” per cercare di aggirare lo schieramento sassone. Ma l’asperità del terreno rese questa manovra lenta
e difficile di modo che l’ala destra di Aroldo II contrattaccò, mettendo in fuga la fanteria e la cavalleria bretone. Nondimeno, Guglielmo con molta
lucidità e freddezza, seppe riordinare le file del suo esercito, facendolo arretrare e inducendo così i Sassoni a lanciarsi all’inseguimento di quello che
ritenevano un “esercito in fuga”. Una volta che i Sassoni ruppero le proprie file, non fu difficile per la cavalleria di Guglielmo caricare e travolgere la
fanteria sassone. La battaglia di Hastings, in cui perì lo stesso Aroldo II, finì quindi con la netta vittoria dei Normanni. Una vittoria decisiva che cambiò
il corso della storia dell‘Inghilterra.
296
Vedi G. Duby, La domenica di Bouvines, Einaudi, Torino, 2010.
294
297
Le aspirazioni teocratiche del papato si erano dimostrate velleitarie già nel XV secolo, con la lotta tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello (il re di
Francia che distrusse l’ordine dei templari), il quale portava avanti la politica accentratrice della monarchia francese a scapito sia della nobiltà che del
clero. Lotta che si concluse con l’intervento dei Francesi in Italia, che ad Anagni (1303) fecero addirittura prigioniero il papa. Sempre in questo periodo
vide la luce la celebre tesi di Marsilio da Padova secondo cui il potere dell’imperatore non poteva essere soggetto al papa, semplice vescovo di Roma
per Marsilio. E con Wycliffe (1330-1384), che attaccò la chiesa e tradusse in inglese la Bibbia, e Giovanni Hus (1369-1415), che si batté per l’autonomia
politica religiosa della Boemia, condannando la corruzione della chiesa romana, si anticiparono posizioni e critiche che nel XVI secolo sarebbero state
quelle della Riforma.
106
dall’XI secolo si era fatta strada l’idea che non si dovesse combattere in certi periodi dell’anno, tra cui la
domenica. In un sinodo di pace tenuto a Verdun sur le Doubs (nel 1020 o 1021) i cavalieri si erano impegnati a
non combattere tra l’inizio della Quaresima e la fine delle feste di Pasqua. Si trattava della cosiddetta “tregua di
Dio”, ovvero di un principio «che, ripreso in numerosi concili di diocesi francesi negli anni seguenti [si sarebbe
esteso] all’Avvento e a quattro giorni della settimana su sette (oltre a numerosi altri periodi in qualche modo
“sacri”), e che per tramite francese [si sarebbe esteso] anche in Italia»298. Degno di nota è soprattutto che in
questo periodo si fosse arrivati ad elaborare la nozione di “guerra giusta” (jus ad bellum, da differenziare da quel
che era lecito fare in guerra, ossia lo jus in bello). Che cosa si dovesse intendere per “guerra giusta” lo espresse
bene Tommaso d’Aquino sostenendo che «una guerra aveva bisogno per essere detta giusta di venir dichiarata
da un potere legittimo che ne assumesse la responsabilità»299. Il tentativo di “mettere in forma” la guerra da parte
della chiesa non può essere sottovalutato, indipendentemente da ogni altra considerazione sulla “politica” della
chiesa cattolica, che tra l’altro cercò pure di vietare l’uso della balestra (nei conflitti tra cristiani, s’intende), ma
senza successo.
Importata dal Levante da Pisani e Genovesi (che divennero i balestrieri più noti e ricercati in Europa), la
balestra nel XIII secolo si era già diffusa comportando diverse innovazioni. Era un’arma abbastanza facile da
usare, precisa fino a 100 metri circa, anche se piuttosto pesante e con un celerità di tiro inferiore a quella dell’arco.
Alla sua introduzione si deve sia la graduale sostituzione della tradizionale armatura di cuoio e maglia di ferro
indossata dal cavaliere con un’armatura pesante a piastre, sia l’adozione di una protezione del cavallo. La
minaccia dei dardi rendeva necessario che il cavaliere disponesse di più cavalcature e da questa esigenza
nacque la “lancia”, una formazione costituita in origine da un cavaliere, uno scudiero (armato più alla leggera)
e un paggio. L’importanza del ruolo dei balestrieri venne dimostrata anche nella battaglia di Campaldino.
L’esercito guelfo contava 1.600 cavalieri e 10.000 fanti circa (e dei 1.000 cavalieri forniti da Firenze quasi la
metà erano mercenari, che già allora cominciavano ad essere impiegati dai vari Stati). L’esercito ghibellino era
meno numeroso: 8.000 fanti e circa 800 cavalieri. La fanteria guelfa contava diversi balestrieri oltre a soldati
armati di lancia e soldati che portavano grandi scudi (che venivano posati a terra per proteggere gli altri soldati).
Quando la cavalleria ghibellina travolse l’avanguardia guelfa, il grosso dell’esercito ghibellino si venne a
trovare sotto il tiro incrociato dei balestrieri guelfi che erano schierati ai fianchi della propria cavalleria. Ne
derivò un enorme confusione tra le file dei ghibellini, e la riserva guelfa ne approfittò per aggirarli. Quasi la metà
dei ghibellini perirono o vennero fatti prigionieri300. Ma ancor più della balestra fu l’arco lungo, usato soprattutto
dagli Inglesi, a contrassegnare il nuovo ruolo della fanteria. L’arco inglese era lungo circa due metri, e
occorreva parecchia forza e un lungo addestramento per poterlo impiegare. Il tiro era celere e preciso oltre 200
metri. Numerosi contadini inglesi erano soliti addestrarsi al tiro dell’arco, che era una sorta di “sport
nazionale”, diventando così un corpo di fanteria scelta a disposizione della corona inglese. Nelle guerre
combattute contro Gallesi e Scozzesi, gli Inglesi seppero sfruttare al meglio la combinazione di fanteria e uomini
d’arme. Ad Orewin Bridge, nel 1282, gli arcieri inglesi scompaginarono le file gallesi e poi i cavalieri lanciarono
la loro carica. Questa tattica venne impiegata con successo anche contro gli Scozzesi a Falkirk nel 1298.
Sconfitti dagli Scozzesi a Bannockburn (nel 1314) per non aver saputo coordinare fanteria e cavalleria, gli
Inglesi a Dupplin Moor (nel 1332) fecero combattere i cavalieri appiedati. Una volta che gli arcieri ebbero
portato lo scompiglio nelle colonne nemiche, il “muro” formato dagli uomini d’arme inglesi avanzò contro gli
Scozzesi travolgendoli. Queste innovazioni erano anche frutto di un mutamento sociale tanto più rilevante se si
pensa che a Bouvines il primo attacco francese fu condotto da 300 sergenti a cavallo, che poterono facilmente
arrivare a ridosso dei cavalieri fiamminghi dato che questi ultimi ritennero di non dovere “sporcarsi le mani”
contro combattenti di lignaggio inferiore al proprio301. D’altra parte, la fanteria svolgeva pure una funzione
insostituibile nelle guerre d’assedio, benché proprio tra il XIII e XIV secolo si costruissero delle fortificazioni
tra le più formidabili mai edificate, e perfino molte chiese e case erano fortificate. Si trattava di posizioni
difensive che difficilmente potevano essere conquistate, finché non fosse apparsa una potente artiglieria.
Fu nella guerra dei cent’anni comunque che le innovazioni e le soluzioni tattiche adottate nel XIII secolo
furono sviluppate con pieno successo. La guerra tra Inglesi e Francesi si originò praticamente dal tentativo
298
G. Ciappelli, Carnevale e Quaresima, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1997, p. 41.
F. Cardini, M. Montesano, La lunga storia dell’Inquisizione, Città Nuova Editrice, Roma, 2007, p. 29. Si trattava sempre di una nozione tipicamente
teologico-morale, tanto che, sebbene i principi laici potessero dichiarare una “guerra giusta”, si riteneva che il passagium generale in Terrasanta (cioè
una crociata) potesse essere autorizzato solo dal papa (ibidem).
300
M. Mallett, Signori e mercenari. La guerra in Italia nel Rinascimento, Il Mulino, Bologna, 1983, pp. 29-31.
299
Su questo episodio vedi G. Duby, op. cit. Sugli aspetti culturali e sociali connessi al modo di fare la guerra nel Medioevo vedi F. Cardini, Quell’antica
festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione, Il Mulino, Bologna, 2013 (l’opera di Cardini prende in esame un arco di
tempo che va dall’Alto Medioevo alle soglie del mondo contemporaneo).
301
107
della Francia di porre sotto il proprio controllo la regione della Fiandra, il che era fortemente contrario agli
interessi degli Inglesi che esportavano in Fiandra la lana grezza perché venisse lavorata nelle manifatture locali.
La prima fase della guerra fu disastrosa per i Francesi che vennero sconfitti sul mare e nelle due battaglie di Crécy
(1346) e Poitiers (1356), tanto che nel 1360 furono costretti a firmare una pace umiliante. A Courtrai, nel 1302,
i picchieri fiamminghi avevano già inflitto una severa sconfitta agli uomini d’arme francesi. Ma la lezione non
venne compresa e si diede la colpa al terreno fangoso. Le coraggiose quanto vane cariche della cavalleria francese
contro la massa compatta degli arcieri a Crécy dimostrarono senza ombra di dubbio che la fanteria appoggiata
dalla cavalleria poteva avere la meglio sul pesante esercito feudale. Pur tuttavia, la guerra riprese nel 1366 con
Carlo V, e la flotta francese (ricostituita da Carlo, che portò il numero delle navi da guerra della flotta di Rouen
da 10 a 56) ottenne numerosi successi lungo le coste meridionali dell’Inghilterra, riuscendo perfino a risalire
l’estuario del Tamigi302. I Francesi dovevano però anche contrastare le operazioni dell’esercito inglese note come
chevauchees, che erano dei veri propri raids che miravano a devastare un’intera regione, anche per procacciarsi dei
viveri. Il limite di questi raids consisteva nel fatto che gli Inglesi non potevano difendere i territori occupati,
mentre l’esercito francese, che non era obbligato ad accettare battaglia, si limitava a seguire gli Inglesi “come
un’ombra”, secondo la tattica impiegata da Quinto Fabio Massimo contro Annibale, onde rendere più difficile
e la meno “redditizia” possibile l’incursione nemica. Nel 1373 gli Inglesi intrapresero comunque un ambizioso
raid da Calais a Bordeaux (1.600 chilometri), ma si risolse in un fiasco totale. In questa seconda fase della guerra,
gli Inglesi persero i territori conquistati in precedenza, rimanendo in possesso solo di Calais, Cherbourg e
Bordeaux.
A questi successi francesi seguì un lungo periodo di tregua, anche perché la pressione fiscale della corona
inglese, per far fronte alle spese della guerra contro la Francia, era aumentata fino a diventare intollerabile.
Durante la tregua, gli Inglesi, dopo aver deposto il re Riccardo II, che voleva limitare il potere del parlamento, e
averlo sostituito con Enrico IV, si diedero a perseguitare il movimento dei lollardi (che avevano conferito
all’insegnamento del loro maestro, Wycliffe, un accentuato carattere di protesta sociale e antigerarchico). La
Francia invece era allora travagliata da lotte interne che divisero la nobiltà in due campi opposti, quello degli
Armagnacchi e quello dei Borgognoni. Si crearono così le condizioni perché gli Inglesi riprendessero la guerra
alleandosi con i Borgognoni. Debole e divisa, la Francia fu battuta ad Azincourt nel 1415, una battaglia in cui
ancora una volta il numero come a Crécy non fu decisivo. Contro gli Inglesi (6.000 soldati, di cui circa 900
uomini d’arme al centro dello schieramento mentre gli arcieri erano schierati ai lati) avanzarono 8.000 uomini
d’arme francesi appiedati, ma procedendo a fatica su un terreno fangoso ebbero ben poco impeto allorché si
lanciarono contro gli Inglesi, che li poterono colpire con una pioggia di frecce. Né ebbe maggior successo la
seconda linea francese (3/6.000 uomini)303. La Francia però, quando pareva essere definitivamente soggiogata
dagli Inglesi, trovò la forza per reagire. Simbolo della resistenza francese all’invasore divenne Giovanna d’Arco.
Convinta che la sua missione fosse quella di liberare Orléans, fu messa da Carlo VII alla testa dell’esercito
francese. Benché Giovanna non avesse incarichi di comando, la sua presenza ebbe l’effetto di galvanizzare i
combattenti francesi che nel maggio del 1429 liberarono Orléans e il mese seguente sconfissero gli Inglesi a
Patay. Catturata dai Borgognoni, Giovanna venne ceduta agli Inglesi che, dopo averla processata, solo allo scopo
di infangarne la reputazione, e averla dichiarata colpevole di eresia, la “abbruciarono” nella piazza del mercato di
Rouen, il 30 maggio 1431. Il processo e la condanna a morte di Giovanna ebbero, com’è ovvio, l’effetto opposto
a quello sperato dagli Inglesi, rafforzando la volontà dei Francesi di andare sino in fondo, convinti di “potercela
e dovercela fare” contro gli Inglesi.
Decisivo per la vittoria francese fu l’impiego dell’artiglieria. La formula della polvere da sparo in Europa
venne rivelata, sia pure in cifra e anagramma, da Ruggero Bacone nel libro De secretis operibus artis et naturae et de
nullitate magiae pubblicato nel 1260. Solo nella prima metà del XIV secolo però si ha notizia di uso di armi da
fuoco in combattimento (ad esempio nella battaglia di Crécy). Non erano ancora in grado di influire sul corso
di una battaglia, né erano utili nella guerra d’assedio, ma nel XV secolo la situazione cambiò e i pezzi
d’artiglieria ebbero un ruolo di primo piano sia in Francia che in Boemia, nella guerra combattuta dagli hussiti.
Questi ultimi si rifacevano alla predicazione di Hus, un riformatore religioso influenzato da Wycliffe che
convertì alle sue tesi migliaia di contadini e piccoli artigiani, i quali, dopo la condanna a morte di Hus,
suscitarono una rivolta di carattere nazionale e religioso (rivendicavano la comunione sotto entrambe le specie il
pane e il vino, per cui vennero denominati utraquisti, dal latino sub utraque specie). Sotto il comando di Žižka,
gli hussiti sconfissero più volte i “realisti” e nel 1420 inflissero una memorabile sconfitta all’imperatore
Sigismondo, arrivando a controllare gran parte della Boemia. Žižka pur rimasto cieco guidò ancora l’esercito
302
Vedi N. Hooper, M. Bennett, op. cit., p. 123.
303
Ivi, p. 130.
108
hussita, fino alla sua morte avvenuta nel 1424 Scomparso Žižka, dopo che aveva guidato con successo i taboriti
(più estremisti) contro gli utraquisti, la lotta degli hussiti proseguì finché nel 1436 videro confermati gli accordi
del 1433 che permettevano la comunione sotto entrambe le specie. Gli straordinari successi di Žižka furono
ottenuti anche grazie all’impiego di pezzi d’artiglieria montati su carri, che venivano disposti in circolo, mentre la
fanteria degli hussiti era composta da balestrieri e i pochi cavalieri di Žižka avevano solo compiti di
ricognizione. Anche i Francesi seppero avvalersi magistralmente dell’artiglieria, trovando in Jean Bureau un
artigliere che dimostrò grande talento nel dirigere numerose operazioni d’assedio contro gli Inglesi. Nella
battaglia di Castillon il tiro incrociato di centinaia di pezzi d’artiglieria sbaragliò l’esercito inglese e
l’Inghilterra fu costretta ad abbandonare tutte le piazzeforti in terra di Francia (tranne Calais, che gli Inglesi
conservarono fino al 1558).
L’esercito francese che combatté nell’ultima fase della guerra dei cent’anni era tuttavia assai diverso da
quello del secolo precedente. Sotto Carlo VII, nel 1445, si formò un vero esercito permanente formato di
compagnie di veterani, ciascuna di 600 uomini, per un totale di 1.800 uomini d’arme, 3.600 arcieri a cavallo e
1.800 coutiliers (dei sergenti che erano chiamati così per i loro lunghi coltelli). Venne pure organizzata una milizia
di 8.000 “arcieri franchi”. Nel 1449, allorché la guerra riprese dopo una breve pausa, Carlo VII disponeva di una
potente artiglieria, di un forte “nucleo militare” permanente e di una “finanza adeguata” alle necessità. Del resto,
gli eserciti nel XV secolo si basavano soprattutto su militari di professione, in particolare mercenari che
avrebbero dominato i campi di battaglia europei nei secoli seguenti. Già alla fine del XIII secolo, il re inglese
Edoardo I aveva cambiato metodo di reclutamento, imponendo ai suoi vassalli di addestrare un certo numero di
uomini che venivano pagati dopo che avevano prestato servizio. Il contratto veniva stipulato dal re e un ufficiale,
e riguardava i diversi aspetti del servizio militare. Nella prima fase della guerra dei cent’anni, pertanto,
nell’esercito inglese non vi era pressoché più traccia di elementi feudali e vi erano diverse bande di mercenari
tutti reclutati mediante contratto.
Particolare rilievo ebbero le compagnie mercenarie in Italia con il declino delle milizie comunali. Le prime
compagnie di ventura erano composte soprattutto da mercenari stranieri. Famose erano quelle di Giovanni di
Montreal (detto Fra Moriale), di Guarnieri di Urslingen e di John Hackwood (detto l’Acuto). Compagnie di
ventura composte in prevalenza o completamente da Italiani si ebbero solamente alla fine del secolo XIV, in cui
acquisì maggiore importanza la figura del condottiero (da “condotta”, termine con il quale si designava il
complesso delle trattative per l’assoldamento della compagnia). Tra i condottieri italiani, che crearono eserciti
disciplinati e ben organizzati, si misero in luce Muzio Attendolo Sforza e Braccio di Montone (detto
Fortebraccio), ai quali si deve l’adozione di due diverse tattiche, ossia rispettivamente quella “sforzesca”, basata
sulla manovra, e quella “braccesca”, che consisteva nel logorare il nemico facendolo attaccare (“a rotazione”)
da diverse squadre di cavalieri. Le compagnie italiane, benché più stabili di quelle straniere, persero
d’importanza con l’introduzione dei nuovi ordinamenti militari degli Stati regionali italiani, i cui eserciti non
sfiguravano se paragonati a quelli stranieri, né per addestramento e organizzazione né per numero di effettivi:
«All’inizio del [XV] secolo si diceva che Giangaleazzo Visconti tenesse sotto le armi 20.000 cavalieri e 20.000
fanti e la cosa non è impossibile, dato che Milano allora si trovò a combattere su due fronti […] Per tutto il
quinto decennio del Quattrocento e fino al 1454 l’esercito di Milano e quello di Venezia continuarono a contare
su una forza globale di circa 20.000 uomini [...] Nel 1456 l’ambasciatore di Milano in Francia fece presente a
Carlo VII che Milano in tempo di pace teneva sotto le armi 12.000 cavalieri, una forza molto maggiore delle
compagnies d’ordonnance che il regno di Francia aveva in servizio permanente»304. L’elemento fondamentale degli
eserciti italiani era ancora la “lancia” basata su tre uomini, anche se dopo il 1450 si ebbero “lance” composte
da quattro e anche da cinque o sei uomini, ma non si sa se erano simili alla “lance” francesi o borgognone in cui
i cavalieri erano circondati da arcieri e balestrieri. Nella seconda metà del XV secolo gli eserciti italiani
comprendevano, oltre alle compagnie dei condottieri che fornivano la cavalleria pesante, delle “lanze spezzate”
(almeno all’inizio dovevano trattarsi di singoli cavalieri che si erano staccati dalle compagnie e dalle “lance” di
cui facevano parte per mettersi al servizio di uno Stato), delle squadre di “provisionati” (militari, perlopiù di
fanteria, assunti con contratti a lungo temine), oltre a distaccamenti di cavalleria leggera, guastatori, soldati della
milizia e schioppettieri. Per quanto concerne la cavalleria leggera (i cui compiti principali come al solito, erano la
perlustrazione, l’inseguimento dei nemici e la raccolta di provviste) si devono ricordare i balestrieri a cavallo
(che con ogni probabilità dovevano, secondo il costume del tempo, combattere appiedati) e gli stradioti albanesi.
Introdotti in Italia da Venezia (che li aveva impiegati contro i Turchi nella guerra del 1463-79), gli stradioti
montavano cavalli agili, usavano l’arco o il giavellotto, indossavano un’armatura leggera e portavano uno scudo.
«È evidente», come scrive Mallett, «che un esercito il quale potesse contare su unità organizzate di tali soldati
304
M. E. Mallett, op. cit., pp. 122-123.
109
acquisiva in battaglia manovrabilità e flessibilità maggiori»305. Particolare importanza nel Quattrocento in Italia
ebbe anche l’ingegneria militare, mentre la fanteria era composta da nuclei esperti e specializzati, e suddivisa
in tre categorie: lance di fanteria, armati di pavese e balestrieri. Questi ultimi cominciarono a ridursi di numero
a vantaggio degli schioppettieri (nel 1482 il contingente milanese contava 1.250 schioppettieri, 352 archibugieri
e 233 balestrieri). Anche se le armi da fuoco della fanteria non erano ancora in grado di rovesciare le sorti di
una battaglia, gli schioppetti si mostravano efficaci in combattimento e durante gli assedi, come dimostra il
fatto che il loro numero nella seconda metà del Quattrocento era in continua crescita306.
Pertanto, anche le fanterie italiane ebbero un maggior peso nel XV secolo, benché non affatto paragonabile
a quello della fanteria svizzera, cui si deve la trasformazione del ruolo della fanteria, da difensivo (com’era ancora
quello dei balestrieri o degli arcieri inglesi) in offensivo. Nel XIV i montanari svizzeri si erano imposti contro gli
Austriaci in numerose battaglie. A Sempach, nel 1389, gli Austriaci cercarono allora di sconfiggere gli Svizzeri
facendo combattere i loro uomini d’arme appiedati, senza comprendere che le ragioni delle vittorie degli
Svizzeri dipendevano dall’armamento e dalla tattica che la fanteria svizzera impiegava. Gli Austriaci andarono
così incontro ad un altro disastro. L’eccellenza dei fanti svizzeri si confermò nelle battaglie di Grandson e Morat
(1476), in cui i picchieri svizzeri al servizio del re di Francia sconfissero le truppe di Carlo il Temerario di
Borgogna. All’inizio gli Svizzeri usavano l’alabarda che poi sostituirono con una lunga picca (di circa sei metri)
che aveva una punta d’acciaio assai efficace anche contro la cavalleria. In battaglia le formazioni svizzere erano
ordinate in un échelon di tre colonne, ciascuna leggermente più indietro dell’altra. Di solito una colonna
agganciava il nemico, mentre le altre due erano di rinforzo; talvolta solo una si univa all’attacco, mentre l’altra
proteggeva “le spalle”. L’armatura leggera conferiva ai fanti svizzeri una notevole mobilità e quando marcivano
il primo quadrato era l’avanguardia, il secondo, al centro, era quello che di solito iniziava l’attacco e il terzo
aveva funzioni di retroguardia. Quando combattevano, ciascun quadrato si schierava “ad istrice”, con le lunghe
picche che si proiettavano in avanti, mentre ai fianchi operavano i balestrieri (poi i colubrinieri e i
moschettieri). Sul modello dei picchieri svizzeri si formarono i lanzichenecchi tedeschi e gli uni e gli altri
divennero i mercenari più ricercati di tutta l’Europa. Eppure, non è esatto affermare che nel XV secolo i
picchieri svizzeri non siano mai stati sconfitti. Benché temibili non erano invincibili. Fu proprio un
condottiero italiano, il Carmagnola, a sconfiggere 4.000 Svizzeri che nel 1422 avevano varcato il passo del San
Gottardo muovendo verso Bellinzona e Domodossola. Il Carmagnola, alla testa di un esercito milanese forte
di 5.000 fanti e 3.000 cavalieri, riuscì a circondare, presso Arbedo, i picchieri svizzeri, che si disposero nella
loro tradizionale formazione “ad istrice”, ma gli armigeri del Carmagnola, scesi da cavallo, si lanciarono contro
il quadrato nemico, facendolo a pezzi. Anche a causa di tale disfatta, negli anni seguenti gli Svizzeri, nella
penisola italiana, fecero solo poche apparizioni degne di nota: nel 1478 riuscirono a sconfiggere un esercito
milanese, ma la sconfitta venne vendicata dai Milanesi nel 1487 e nello stesso anno, presso Calliano, un esercito
veneziano tenne testa ad un esercito composto da Svizzeri e lanzichenecchi. In queste occasioni «gli Italiani
avevano incontrato dimostrandosene in certa misura superiori, quei soldati che allora erano considerati i padroni
dei campi di battaglia europei»307.
In effetti, si deve osservare che non si può parlare di crisi militare italiana nel XV secolo308. Né ci si può fidare
dei giudizi di Machiavelli, sotto questo aspetto assai più “propagandista” che storico rigoroso. Ad esempio,
nella battaglia di Anghiari (1440) perirono complessivamente circa 900 uomini, mentre secondo Machiavelli
«non vi morì altro che un uomo, il quale, non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto
espirò» (Istorie fiorentine, V, 33); in quella di Molinella (1467) morirono quasi 600 combattenti, ma per
Machiavelli «non vi morì alcuno». Anche l’idea che fosse necessaria una “milizia patria” per poter difendere
l’indipendenza di uno Stato era anacronistica, dato che i maggiori Stati europei impiegavano numerosi
mercenari. Non solo però Machiavelli intuì una verità di fondo, ma la presenza di una molteplicità di Stati
regionali italiani senza che nessuno di essi avesse la forza di imporsi sugli altri era effettivamente segno di una
grave debolezza che un esercito straniero poteva sfruttare facilmente, come in effetti fece Carlo VIII, allorché
305
Ivi, p. 157.
306
Si deve ricordare pure che nella seconda metà del XV secolo gli Stati italiani spesero somme enormi nelle opere di fortificazione (realizzate da
architetti e ingegneri famosi, tra cui Leonardo da Vinci) e si diffuse l’impiego di pezzi d’artiglieria (molte città italiane erano difese da cannoni e solo a
Castel Sant’Angelo, a Roma, ve n’erano 16 nel 1470, tra cui un pezzo di quattro tonnellate e mezzo). Inoltre, una certa importanza ebbero le flotte
fluviali come quella di Milano e quella di Venezia, che nel 1404 aveva 150 imbarcazioni che operavano nel Polesine. Venezia non fu però fortunata
nella guerra fluviale. Nel 1431, infatti, venne annientata dai Milanesi una potente flotta fluviale veneziana che operava lungo il Po. In seguito operò
un’altra flotta veneziana nel Lago di Garda, ma anch’essa venne battuta da un capitano d’origine genovese, Biagio di Assereto (ivi, pp. 179- 180).
307
Ivi, p. 238.
308
Non è nemmeno irrilevante che Carlo il Temerario abbia cercato di assicurarsi i servizi di un famoso condottiero italiano, Bartolomeo Colleoni, che
per ben due volte aveva sconfitto i Francesi: a Bosco Marengo nel 1447 (scontro in cui i Francesi, che avevano invaso il ducato di Milano mentre i
Veneziani lo attaccavano da est, lasciarono sul campo circa 1.500 caduti) e a Romagnano Sesia nel 1447 (ivi, p. 237).
110
nel 1494 varcò le Alpi per rivendicare i diritti angioini sul regno di Napoli. Indecisione dei politici, inettitudine
dei civili e rivalità d’ogni genere permisero all’esercito francese (circa 30.000 combattenti, tra fanteria e
cavalleria articolata in “lance” di sei uomini ciascuna) di sottomettere l’Italia senza difficoltà. Anche le
fortificazioni della Penisola si mostrarono inadeguate di fronte all’artiglieria francese, che comprendeva
cannoni più potenti di quelli di cui disponevano gli Italiani. Eppure agli Italiani si offrì l’occasione di cogliere
una vittoria decisiva contro i Francesi. Il timore che la penisola italiana diventasse una provincia francese fece sì
che il papa Alessandro VI promuovesse la Lega Santa (che comprendeva l’Austria, la Spagna, il ducato di
Milano e Venezia), al fine di contrastare la politica di Carlo VIII, il quale si affrettò a ritornare in Francia, onde
evitare di rimanere intrappolato in Italia. Tuttavia, il capitano generale di Venezia e comandante delle truppe
alleate, Francesco Gonzaga, anziché lasciar passare il re francese o bloccare i valichi appenninici, decise di
attaccare le truppe francesi mentre scendevano lungo la valle del fiume Taro, presso Fornovo. Carlo VIII
disponeva in tutto non più di 10.000 soldati: 3.000 Svizzeri, 600 arcieri, 900 “lance” di cavalleria pesante e 1.000
artiglieri. Un esercito numericamente inferiore rispetto a quello del Gonzaga, composto solo da Italiani, tranne
gli stradioti albanesi. In tutto circa 25.000 uomini, tra cui 2.200 “lance” (di cinque uomini ciascuna), 2.000
cavalieri leggeri (perlopiù stradioti) e 8.000 fanti di mestiere. Ancora però in marcia la milizia e soprattutto la
maggior parte dell’artiglieria pesante di Venezia. Il piano italiano prevedeva di bloccare l’avanguardia francese,
mentre gli stradioti dovevano aggirarla e attaccare sul fianco il centro e la retroguardia francese. L’improvviso
ingrossamento del fiume per la pioggia abbondante rese però assai difficile eseguire questo piano. L’attacco
contro l’avanguardia nemica, condotto da forze troppo deboli, non ebbe successo, anche se riuscì a fermare la
marcia dei Francesi, mentre gli stradioti dopo aver molestato sul fianco le truppe di Carlo VIII, si diedero a
saccheggiare le salmerie francesi. Per di più, a causa dell’ingrossamento del fiume, le truppe italiane dovettero
attaccare più a monte del previsto, di modo che, anziché allargare la breccia tra il centro e l’avanguardia
dell’esercito francese, si scontrarono con il grosso delle forze del re francese, senza ricevere aiuto dalle truppe di
riserva, che non si mossero aspettando un ordine del Gonzaga, il quale, invece di dirigere la battaglia, si era
messo alla testa delle proprie truppe rimanendo ferito, senza potere più dare alcun ordine. Cosicché, con il
sopraggiungere del buio, l’esercito francese riuscì a riprendere la propria marcia. Gli Italiani erano rimasti
padroni del campo di battaglia, ma avevano subito più di 2.000 perdite senza nulla concludere309. La vittoria
strategica dei Francesi era indiscutibile.
Dopo la battaglia di Fornovo, l’Italia divenne teatro dello scontro tra Francesi e Spagnoli che miravano a
conquistare l’egemonia sulla Penisola. Mentre Machiavelli si arrovellava il cervello cercando di trovare il
metodo per sconfiggere i picchieri svizzeri, a Cerignola nel 1503 il capitano generale spagnolo Consalvo da
Cordova mostrò qual era la giusta soluzione del problema che assillava il pensatore fiorentino. Consalvo fece
schierare dietro un fossato la sua fanteria: al centro i lanzichenecchi, sulle ali i balestrieri e gli archibugieri.
Sui fianchi operava la cavalleria leggera, mentre quella pesante, al comando di Prospero Colonna, era in
posizione di riserva. Il fossato arrestò i cavalieri francesi e i picchieri svizzeri, che si trovarono all’improvviso
sotto il fuoco incrociato degli archibugieri. Quando la cavalleria di Consalvo passò al contrattacco, il quadrato
svizzero, ormai del tutto scompaginato, venne completamente distrutto. Nelle battaglie seguenti, nonostante le
vittorie francesi a Ravenna nel 1512, dovuta principalmente all’artiglieria, e a Marignano nel 1515, in cui
ancora una volta l’artiglieria si mostrò determinante (peraltro, in questa occasione i Francesi conseguirono la
vittoria proprio contro gli Svizzeri, che nel 1513 a Novara avevano fatto a pezzi la cavalleria francese), si
confermò la superiorità degli Spagnoli, vincitori sia alla Bicocca nel 1522 (in cui gli Svizzeri furono prima
falcidiati dagli archibugieri, posti dal Colonna sopra un viottolo incassato tra un muro di cinta e i campi, e poi
sterminati dai picchieri spagnoli), che nella battaglia Pavia tre anni dopo, in cui venne preso prigioniero lo
stesso re francese. Nel 1559 con il trattato di Cateau-Cambrésis la guerra finiva con la vittoria della Spagna, e
Milano e Napoli diventavano domini spagnoli. In precedenza, anche Venezia, che si era opposta al dominio
francese sulla penisola italiana, era stata gravemente sconfitta nella battaglia dell’Agnadello (1509). L’esercito
veneziano venne colto in “crisi di movimento” di modo che la retroguardia al comando di Bartolomeo
d’Alviano venne circondata dai Francesi; i fanti veneziani si batterono bravamente, ma furono massacrati, non
essendo aiutati né dalla milizia bresciana, che presa dal panico se la diede a gambe, né dal resto dell’esercito
veneziano, troppo lontano per intervenire. D’altra parte, né lo Stato pontificio né Firenze dal punto di vista
militare contavano ormai granché. La città toscana, nel 1530, poté fare ben poco contro gli imperiali, che tre
anni prima avevano messo a sacco perfino Roma, e. ci vollero secoli perché si potesse parlare nuovamente di
storia miliare italiana310. L’equilibrio politico creato con la pace di Lodi nel 1454 era così precario e instabile
309
Ivi, pp. 246-251
310
Sulla crisi militare italiana vedi P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Einaudi, Torino, 1952.
111
che scomparve con la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492. Nondimeno, nello stesso anno, esattamente il 12
ottobre, fu un capitano italiano, Cristoforo Colombo, che dopo 69 giorni di navigazione, al comando di tre
caravelle spagnole, gettò l’ancora davanti ad un’isola sconosciuta, che denominò San Salvador. Era l’alba di un
“nuovo mondo”.
112
CAPITOLO V. UN NUOVO MONDO
La “rivoluzione spaziale” e la “rivoluzione militare”. Si deve a Carl Schmitt l’aver compreso l’importanza
della rivoluzione spaziale avvenuta con le scoperte geografiche che contrassegnano l’inizio dell’età moderna.
Scrive Schmitt: «Ogni volta che sotto la spinta di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie,
entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari, mutano anche gli
spazi dell’esistenza storica. Allora sorgono nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politica, nuove
scienze, nuovi ordini, un nuova vita di popoli nuovi e rinati. L’ampliamento può essere così profondo e
sorprendente che cambiano non solamente la dimensione e le misure non solo l’orizzonte esterno degli uomini,
ma muta anche il concetto stesso di spazio. Allora si può parlare di rivoluzione spaziale. Ma anche ad ogni
mutamento storico è, perlopiù, connesso un cambiamento dell’immagine di spazio. È questo il nucleo vero e
proprio del complessivo cambiamento politico, economico e culturale che allora si compie»311. La rivoluzione
spaziale dei secoli XVI e XVII, a giudizio di Schmitt, non è quindi paragonabile a nessun’altra312. Perciò
Schmitt si spinge fino ad asserire che «ciò che è stato definito come superiorità razionale dell’europeo, come
spirito europeo e “razionalismo occidentale”, si fece allora largo [e] distrusse le forme medioevali della
comunità umana, edificò nuovi Stati, flotte ed eserciti, inventò nuove macchine, sottomise i popoli non europei
e li pose di fronte al dilemma o di accettare la civilizzazione europea o divenire semplice popolo coloniale»313.
Certo non fu una “rottura” che avvenne nel giro di brevissimo tempo, ma si trattò di un mutamento che ebbe
ripercussioni anche per quanto concerne il continente europeo, facendosi sempre più forte e aspra la
contrapposizione tra Landmächte e Seemächte, ossia tra potenze “telluriche” e potenze marittime. Una lotta che
Schmitt presenta appunto come scontro fra terra e mare. Ovviamente, si deve pur sempre tener conto di
numerosi “distinguo” e delle “diverse” alleanze e rivalità sia tra le potenze marittime (basti pensare alle guerre
anglo-olandesi) sia (soprattutto) tra le potenze “telluriche”, sempre in lotta tra di loro, nessuna di queste avendo
la forza di conquistare l’egemonia sull’intero continente europeo.
Naturalmente, anche il significato della “rivoluzione spaziale” lo si deve comprendere tenendo conto che
questo periodo vede l’ascesa della borghesia. In particolare, secondo Giovanni Arrighi, che si basa soprattutto
sugli studi del grande storico francese Fernand Braudel, la storia dell’economia occidentale dal XV secolo in
poi si è caratterizzata per l’alleanza tra una “classe capitalistica” e uno Stato egemone, ossia (in successione,
dopo l’alleanza tra i banchieri genovesi e la Spagna) l’Olanda, l’Inghilterra e, a partire dalla (e grazie alla)
seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti314. Tuttavia, anche se Arrighi evidenzia come le diverse transizioni
egemoniche siano state tutte contrassegnate da lunghi periodi di caos sistemico, si deve osservare che queste
fasi storiche del capitalismo sono state soprattutto contraddistinte da guerre e conflitti d’ogni genere. A tale
proposito è di estrema importanza che a giudizio di Braudel il capitalismo si configuri come una sorta di
“contromercato”. Per lo storico francese, infatti, il sistema capitalistico si compone di tre livelli, ovvero «il
piano terreno della non-economia, una sorta di humus in cui il mercato affonda le radici, ma senza afferrarla
nella sua massa. Questo piano terreno rimane enorme. Al di sopra, la zona per eccellenza dell'economia di
mercato moltiplica i suoi collegamenti orizzontalmente fra i diversi mercati: un certo automatismo vi collega
solitamente offerta, domanda e prezzi. Finalmente, accanto o meglio al di sopra di questa falda, la zona del
contromercato è il regno dell'arrangiarsi e del diritto del più forte. Qui si colloca per eccellenza il campo del
capitalismo; ieri come oggi, prima come dopo la rivoluzione industriale»315. Si tratta di una definizione che
non solo spiega il motivo per cui Braudel abbia ritenuto necessario “retrodatare” di alcuni secoli la storia del
capitalismo, ma che implicitamente (e al di là delle conseguenze che tale definizione può avere per la storia
311
C. Schmitt, Terra e mare, Giuffrè, Milano, 1986, p. 56.
312
Si rammenti che, grazie alla mediazione del papa Alessandro IV, si giunse, nel 1494, al trattato di Tordesillas, mediante il quale venne stabilita una
linea di demarcazione (raya) che coincideva con il 46°meridiano ovest e che divideva la sfera d’influenza spagnola da quella portoghese (ai Portoghesi
spettava tutto quello scoperto ad est della raya, agli Spagnoli tutto quello scoperto ad ovest della raya). Secondo Schmitt, questa spartizione (che tra
l’altro trascurava l’emisfero orientale) presupponeva ancora l’ordinamento spaziale medievale, la concezione cioè di uno spazio contraddistinto
dall’appartenenza all’ordinamento religioso e giuridico della respublica christiana. Al contrario le amity lines - la cui origine si fa risalire ad una
clausola segreta del trattato franco- spagnolo di Cateau Cambrésis e che delimitavano due zone, una al di qua e l’altra al di là delle amity lines (la
seconda, secondo Schmitt, anomica e teatro di una conflitto giuridicamente illimitato) – presupponevano le guerre di religione e il tramonto della
respublica christiana fondata sull’autorità della chiesa cattolica. Le amity lines persero importanza a partire dalla pace di Utrecht (all’inizio del XVIII
secolo), in quanto l’Inghilterra, diventata la potenza marittima europea più forte, aveva adesso interesse a porre fine alla guerra da corsa.
313
Ivi, p. 68.
314
Vedi G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 2014.
F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, vol II, I giochi dello scambio, Einaudi, Torino, 1981, p. 217. Logico allora che il “pacifico
e laborioso borghese” fosse anche e soprattutto il capitalista cinico e rapace, pronto a scatenare una guerra pur di arricchirsi e di conquistare il potere.
315
113
economica) avvalora la tesi secondo cui la supremazia dell'Economico ha un significato prettamente
(geo)politico, in quanto l’Economico, con il predominio di una classe capitalistica, non solo è in funzione della
“lotta” per conquistare (o mantenere e rafforzare) l’egemonia - a livello sociale, culturale e (geo)politico - ma
tende a diventare il “terreno principale” su cui si combatte tale lotta. È dunque alla luce di queste considerazioni
che si dovrebbe valutare anche la questione della cosiddetta “rivoluzione militare”, che ha fatto e continua a
far versare fiumi d’inchiostro, in specie nel mondo di lingua inglese316.
L’ipotesi di una “rivoluzione militare” venne sostenuta nella metà degli anni Cinquanta del secolo scorso da
uno studioso della Svezia del Seicento, Michael Roberts, ed è stata in seguito sviluppata e modificata da
Geoffrey Parker317. Nel Cinquecento, a giudizio di Roberts, la tattica si basava su grandi formazioni di fanteria e
di cavalieri che armati di pistola scaricavano le loro armi contro i nemici e poi tornavano in coda al proprio
reparto, per caricare di nuovo le pistole e ritornare all’attacco (tattica conosciuta come “caracollo”). Gustavo
Adolfo, nella guerra dei trent’anni, migliorò questa tattica accentuando la manovra e la flessibilità dei vari reparti:
aumentò notevolmente il numero dei moschettieri rispetto a quello dei picchieri, costituì compagnie e
battaglioni; più battaglioni formavano un reggimento e una brigata era costituita da due a quattro reggimenti.
La tattica del re svedese si basava su una formazione composta da tre/cinque file di tiratori che sviluppavano
una discreta potenza di fuoco sparando “a rotazione”. Essenziali erano, come nell’esercito di Maurizio,
l’addestramento e la disciplina. Di conseguenza, secondo Roberts, «la rivoluzione tattica sul campo ebbe pesanti
effetti sull’incremento degli effettivi, sulle necessità logistiche e organizzative (approvvigionamenti, magazzini
militari, ospedali, coordinamento fra i reparti, standardizzazione delle armi e delle uniformi, gerarchie, scuole
militari), sulla strategia politica (uno strumento bellico efficace permetteva una politica aggressiva) e in
definitiva sul processo di State building. Le esigenze della guerra ovviamente richiedevano un crescente sforzo
finanziario che si traduceva in un aumento della domanda fiscale che, a sua volta, implicava una più efficiente
organizzazione amministrativa»318. Parker però, basandosi sulle tattiche dell’esercito spagnolo nelle Fiandre,
modifica la tesi di Roberts e sposta l’inizio della rivoluzione militare alla fine del XV secolo. Per Parker
determinante fu il ruolo delle armi da fuoco, in specie dell’artiglieria, che portò a radicali cambiamenti nell’arte
delle fortificazioni, dovendosi adesso costruire delle mura basse e soprattutto spesse, perché potessero resistere
al tiro dell’artiglieria nemica e fornire un buon supporto ai propri pezzi (si tratta della cosiddetta “trace
italienne”) e alla creazione di un grosso ed efficiente apparato logistico. L’altra grande innovazione fu quella
relativa alla guerra sul mare. La galea, mossa da vele e remi, che dominava il Mediterraneo, non era adatta alla
navigazione negli oceani. Ma nel XV secolo, a partire dalla cocca, si sviluppò la caravella, con fiancate alte,
adatte a resistere alle onde oceaniche, mentre la navigazione si poteva avvantaggiare del miglioramento della
velatura che permetteva di navigare controvento. E dalla caravella si sviluppò il potente galeone armato di
cannoni. I nuovi tipi di nave armate con numerosi pezzi d’artiglieria divennero decisivi nelle battaglie navali,
anche se nel Mediterraneo le galee continuarono ad essere usate, dato che erano più agili e facilmente
manovrabili in acque basse. È pacifico però che potevano trasportare meno pezzi d’artiglieria ed erano più
vulnerabili al tiro nemico. Quando si incominciò a mettere i cannoni nel mezzo della nave, venne anche risolto
il problema del rinculo dei pezzi d’artiglieria e la tecnica basata sull’abbordaggio e il lancio di frecce e proiettili,
impiegando balestrieri, catapulte e varie altre macchine, divenne del tutto obsoleta. Parker considera quindi
fondamentali le innovazioni tecnologiche, prendendo in esame un arco di tempo di circa tre secoli, che va dalla
seconda metà del Quattrocento al Settecento.
Il modello della “rivoluzione militare” è stato messo però in discussione da molti studiosi. Ad alcuni è apparso
persino opinabile definire rivoluzionario un processo che si svolse nell’arco di circa tre secoli, ma si tratta di
una obiezione debole, dato che è evidente che il termine “rivoluzione” si riferisce agli effetti di lunga durata del
processo storico preso in esame319. Più seria è l’obiezione che le armi da fuoco per diverso tempo non furono
nettamente superiori all’arco lungo che in Inghilterra rimase in uso per tutto il XVI secolo. Le armi da fuoco
erano però più efficaci nel penetrare la corazze, benché sembri che anche balestre ed archi fossero assai efficaci.
316
Su tale dibattito, che richiederebbe un intero volume per essere analizzato a fondo, ci limitiamo ad evidenziare gli aspetti essenziali. Vedi però la
pregevole sintesi di L. Pezzolo, “La rivoluzione militare”: una prospettiva italiana, 1400-1700, Working Papers, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2005.
317
Lo scritto di Roberts si trova in C. J. Rogers (a cura di), The Military Revolution Debate, Westview Press, Boulder, 1995, pp. 13-36. L’opera
fondamentale di Geoffrey Parker è The Military Revolution, Cambridge University Press, Cambridge, 1988; vedi inoltre sempre di G. Parker, The
“Military Revolution, 1560-1660’”– a Myth?, in C.J. Rogers, cit., pp. 37-54, e The Army of Flanders and the Spanish Road, 1567-1659, Cambridge
University Press Cambridge, 1972.
318
L. Pezzolo, op. cit., p. 3.
319
Riferendosi, anche criticamente, alle tesi di Roberts e Parker si suole distinguere la rivoluzione militare in due periodi. Vedi, ad esempio, J. Black,
European Warfare, 1660-1815, Routledge, Londra-New York, 2002 e Idem, The Military Revolution II: Eighteenth Century Warfare, in C. Townshend
(a cura di), The Oxford History of Modern War, Oxford University Press, 2000, pp. 40-54
114
Non v’è dubbio comunque che nel Cinquecento le armi da fuoco se impiegate con sagacia tattica avessero un
ruolo decisivo in battaglia. D’altra parte, anche per quanto riguarda la complessità e le dimensioni degli eserciti
non mancano elementi di continuità con il Medioevo. La “lancia”, ad esempio, era un’unità tattica complessa
e richiedeva un grado di coordinamento notevole, anche se minore rispetto a quello necessario per un reparto
composto di picchieri e moschettieri (come testimoniato dalla comparsa di manuali militari e scuole di
“formazione militare”). Inoltre, è noto che nel novembre del 1294 Edoardo I aveva ai suoi ordini nel Galles più
di 31.000 fanti e a Falkirk ne aveva 25.700 (in Francia il numero dei fanti era minore, i Francesi contando di più
sui cavalieri che sul numero dei soldati). Ciononostante, si deve considerare che, raramente e per periodi di
tempo limitato, gli eserciti medievali contavano più di 10/15.000 fanti. La norma era reclutare alcune migliaia di
uomini non decine di migliaia come accadeva nei secoli XVI e XVII, sebbene in questo periodo molte truppe
fossero in realtà destinate a controllare i territori che dovevano fornire servizi o denaro per gli eserciti, di modo
che spesso il numero dei combattenti era assai inferiore a quello degli uomini “in teoria” disponibili. D’altra
parte, secondo Jeremy Black, solo nel 1700 cominciarono ad apparire eserciti permanenti di grosse
dimensioni320. Black sottolinea anche il ruolo dei mutamenti politici nei singoli Stati, che avrebbero permesso di
contare su un ampio consenso tale da facilitare una maggiore richiesta di risorse per la spesa militare321. Inoltre,
sempre riguardo alla questione del numero dei soldati, perfino le considerazioni di Parker sulla “trace italienne”
sono state messe in discussione. Si è sostenuto che il miglioramento delle fortificazioni e delle tecniche
ossidionali tendeva a ridurre il rapporto tra assedianti e assediati, e si è pure dimostrato che in Francia,
nonostante vi fossero mura bastionate, tra il XVI e il XVII secolo non aumentò il numero degli assedianti322.
Sembra piuttosto che l’aumento delle dimensioni degli eserciti dipendesse da un più elevato tasso di perdite.
Queste critiche non vogliono negare la fecondità delle tesi di Roberts e Parker, non fosse altro che per il
forte impulso che hanno dato all’approfondimento della storia militare (e non solo militare) di questo periodo,
mostrando quanto possa essere preziosa l’analisi delle problematiche connesse agli “affari militari” in generale.
Del resto, è innegabile che, pur essendo presenti diversi elementi di continuità con i secoli precedenti, si
verificarono profondi mutamenti in campo militare, in particolare per quanto concerne la guerra sul mare323. Le
navi europee armate di cannoni adesso potevano spazzar via senza particolari problemi altri tipi di
imbarcazione, come i sampan. Nel 1502 Vasco de Gama annientò una grande flotta musulmana con l’artiglieria
delle sue caracche e caravelle. E da allora, le navi costituirono uno dei fattori decisivi della supremazia
occidentale,benché anche l’evoluzione della nave a vela oceanica sia stata lenta e discontinua. Indiscutibile però
è il fatto che la contesa per il commercio d’oltreoceano e la corsa agli armamenti che ne derivò contribuirono
a un forte sviluppo tecnologico ed economico. Una migliore cartografia, nuovi strumenti (telescopio,
barometro, quadrante e compasso a sospensione cardanica), ma anche i progressi nelle tecniche di lavorazione
del metallo e in campo scientifico, l’accesso alle ricchissime zone di pesca al largo di Terranova, la caccia alla
balena (da cui si ricavava un olio utilissimo non solo per l’illuminazione), nonché l’importazione di tabacco,
riso, zucchero, mais e soprattutto della patata (che, potendo essere facilmente coltivata in quasi ogni genere di
terreno, si rivelò essere una risorsa estremamente preziosa in caso di carestia) trasformarono, nell’arco di due
secoli, la civiltà europea. Questo è indubbio. Ma appunto per questo i mutamenti che si verificarono in campo
militare (indipendentemente dalla questione se sia corretto o meno parlare di “rivoluzione militare”) non
possono essere separati dal contesto storico e culturale, e soprattutto si deve evitare di commettere l’errore di
anticipare di qualche secolo mutamenti che si verificarono solo dopo la rivoluzione industriale
Non ci si deve, infatti, lasciare trarre in inganno dagli strabilianti successi dei conquistadores. Vero che Cortés
disponeva solo di circa 500 soldati, 14 piccoli cannoni e 16 cavalli quando marciò su Tenochtitlán, ma, per
sottomettere gli Aztechi, Cortés (che con ogni probabilità venne ritenuto dall’imperatore Montezuma II il dio
Quetzacoatl) dovette assicurarsi la collaborazione di centinaia di migliaia di nativi (i Tlaxcalani), nemici
320
Vedi J. Black, A Military Revolution? A 1660-1792 Perspective, in C. J. Rogers, op. cit., pp. 95-114 e P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi
potenze, Garzanti, Milano, 1989, p. 159. Black mette l’accento sul periodo 1660-1720 in cui si diffusero la tattica delle formazioni navali in linea e la
baionetta innestata su moschetti a pietra focaia.
321
Al posto del noto ciclo “estrazione-coercizione” proposto da Tilly (vedi C. Tilly, L’oro e la spada. Capitale, guerra e potere nella formazione degli
stati europei, 990-1990, Ponte alle Grazie, Firenze 1991), si preferisce quindi parlare di un ciclo “estrazione-collaborazione”. Significativo è che,
sebbene l’Olanda e l’Inghilterra non fossero affatto Stati deboli, la tassazione di questi due Paesi fosse maggiore che in Francia (vedi I. A. A.
Thompson, “Money, Money, and Yet More Money!”. Finance, the Fiscal State, and the Military Revolution: Spain 1500-1650, in C. A. Rogers, op.
cit., p. 289). Peraltro, dopo la guerra dei trent’anni fu posto sotto il controllo dello Stato l’intero apparato militare, tanto che il sistema logistico inglese,
che si sarebbe diffuso rapidamente in Europa, assicurò, nella campagna d’Irlanda del 1649-1650, i rifornimenti per i 16.000 uomini di Cromwell (vedi
L. Pezzolo, op. cit., p. 11).
322
Vedi A. Lynn, The Trace Italienne and the Growth of Armies: the French Case, in C. A. Rogers (a cura di), op. cit., pp. 169-199.
323
A differenza però di quanto molti credono, la cavalleria svolse un ruolo essenziale fino agli anni Sessanta del XIX secolo, compiendo incursioni in
territorio nemico o impedendo alla cavalleria nemica di fare lo stesso, e abili comandanti seppero impiegarla con profitto in combinazione con la
fanteria. Fu fondamentale in diverse battaglie decisive (a Rocroi e a Blenheim ad esempio) e secondo alcuni studiosi anche nella guerra civile inglese
(vedi J. Black, War: a Short History, cit., p. 69).
115
irriducibili degli Aztechi. Né si deve trascurare che Cortés venne favorito pure da un’epidemia di vaiolo che
decimò le file degli Aztechi. D’altro canto, si deve considerare che la conquista di Tenochtitlán nel 1521 fu, in
pratica, un’operazione anfibia, in cui gli Spagnoli si poterono avvalere di 13 brigantini. Anche Pizarro, del resto,
fu favorito dalle lotte interne che laceravano l’impero degli Incas. In definitiva, cannoni, archibugi, spade
d’acciaio, brigantini e cavalli furono essenziali, ma non meno essenziali per le vittorie degli Spagnoli furono le
divisioni, le discordie e i conflitti che caratterizzavano gli imperi degli Aztechi e degli Incas allorché furono aggrediti
dai conquistadores. Né si deve trascurare che altri popoli non europei reagirono diversamente dagli Aztechi e
dagli Incas324 I Portoghesi, nel Cinquecento, riuscirono a stabilirsi in Brasile, in Angola, in Mozambico e
nell’Africa occidentale, ma non sempre ebbero la meglio contro popolazioni non europee. In Angola, per il
loro successo fu determinante l’appoggio del re del Congo. I loro cannoni erano scarsamente efficaci contro i
terrapieni africani e le piccole ma agili e veloci navi dei nativi, non erano un facile bersaglio per i cannoni delle
navi europee. Di fatto, i Portoghesi quando vollero trasformare il Marocco in un proprio “Stato cliente”
subirono una disastrosa disfatta nella battaglia di Alcazaquivir (1578). D’altronde, le armi da fuoco si diffusero
rapidamente anche tra gli eserciti non europei, che ovviamente le usarono non solo contro gli Europei. Nella
battaglia di Panipat (1526), Baber, un discendente di Gengis Khan e di Tamerlano, impiegò archibugieri e pezzi
d’artiglieria contro la cavalleria dell’ultimo sultano di Delhi, Ibrahim Shah Lodi, i cui eserciti non avevano
armi da fuoco325. L’anno seguente, a Khanua, sconfisse l’esercito della coalizione dei rajput, che agli 8.000
uomini di Baber poteva opporre 80.000 cavalieri e 500 elefanti da guerra. Nel 1567 l’imperatore moghul Akbar
(nipote di Baber) guidò le sue truppe in una “guerra santa” contro Chitor (o Chittaurgarh), capitale della regione
di Mewar. Dopo che il primo suo attacco fallì, Akbar impiegò pezzi d’artiglieria e genieri per aprire numerose
brecce nelle fortificazioni di Chitor, attraverso le quali, il 22 febbraio 1568, il suo esercito riuscì a fare irruzione
nella città assediata e a conquistarla, dopo violentissimi combattimenti corpo a corpo, in cui perirono quasi tutti i
5.000 difensori. Anche la cavalleria dei Persiani venne falcidiata dall’artiglieria ottomana a Cialdiran nel 1514,
ma i Persiani impararono la lezione e nel 1528 l’artiglieria dei Safavidi (fornita ai Persiani dai Portoghesi) giocò
un ruolo fondamentale nello sconfiggere un esercito uzbeco, privo di armi da fuoco326. (Anche in Africa il
sultano di Adal sconfisse, grazie a un corpo di moschettieri fornitogli dagli Ottomani, un esercito abissino assai
più numeroso nella battaglia di Shimbra Kure nel 1529; l’Abissinia alla fine riuscì a prevalere sui musulmani,
grazie all’aiuto ricevuto dai Portoghesi, ma poi venne in parte travolta dai pagani Galla).
Il Cinquecento, difatti, fu anche il secolo dello scontro tra Ottomani e Portoghesi. L’espansione degli
Ottomani in Iraq e in Egitto (1517) allargò la loro sfera d’influenza verso il Golfo Persico e il Mar Rosso327. Da
Bassora (catturata nel 1546) e da Suez, esercitarono una fortissima pressione sui Portoghesi, arrivando ad
assediare Hormuz, che però riuscì a resistere, finché la flotta ottomana venne sconfitta. L’attività della marina
ottomana nell’Oceano indiano diminuì sensibilmente da allora e i Portoghesi compirono anche un raid a Suez,
sebbene non fossero più in grado controllare il Mar Rosso. Anche in Asia i Portoghesi incontrarono la forte
ostilità da parte del sultanato di Aceh (dell’isola di Sumatara), che in più occasioni attaccò le posizioni portoghesi
in Malesia. In queste acque basse, le navi portoghesi erano vulnerabili, ma in acque più profonde avevano poco
da temere dalle imbarcazioni degli indigeni. Anche la marina dell’impero moghul era insignificante, di modo
che Goa poté essere difesa benché attaccata da terra. Si deve notare comunque che l’impero portoghese era più
vulnerabile di quello spagnolo, la sua struttura militare dipendendo assai di più dalla madrepatria. Un altro
fattore di debolezza dei Portoghesi era la scarsa popolazione del Portogallo, un milione circa di abitanti. I
“mercanti olandesi” riuscirono perciò a distruggere parte dell’impero portoghese con relativa facilità nel XVII
secolo, conquistando le principali basi portoghesi nelle Molucche (1605), nella Malacca (1641), a Ceylon (163858) e sulla costa di Malabar (1663), una regione situata lungo la costa sud- occidentale della penisola indiana.
Per quel che riguarda la Spagna, si deve osservare che in un primo momento gli Spagnoli conseguirono vari
Per le vicende militari dell’impero portoghese e di quello spagnolo prezioso e utile è J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas. Warfare. Renaissance
to Revolution, 1492-1792, Cambridge University Press, Cambridge, 1996.
325
La conquista islamica dell’India s’iniziò nel X secolo per compiersi appunto nel secolo seguente. Durante questo periodo si succederono le avanzate
turco-islamiche. La tattica dei Turchi era quella nota, ossia circondavano i nemici con nugoli di cavalieri e poi simulavano una fuga disordinata per
attirare l’esercito nemico in una zona favorevole ad un attacco della propria cavalleria e per coglierlo in “crisi di movimento”. Famosa è la scorreria
compiuta da Tamerlano, alla fine del XIV secolo, che devastò l’Indostan e saccheggiò Dehli, ma per fare poi ritorno a Samarcanda. Fu quindi Akbar a
fondare l’impero timuride, conosciuto come l’impero dei Gran Moghul, estendendo il suo dominio su tutta l’India settentrionale e centrale.
326
Non tutte le battaglie in questo periodo furono però decise dalle armi da fuoco. Ad esempio,per domare una ribellione nel Gujarat, Akbar inviò
3.000 soldati, trasportati a dorso di cammello, che in 11 giorni percorsero 800 chilometri e sconfissero 15.000 ribelli in uno scontro di cavalleria. Nel
1581 l’esercito di Akbar schierava 80.000 cavalieri, 300 elefanti da guerra e solo 28 cannoni. Del resto, ancora al tempo dell’ammutinamento dei
sepoys (nel XIX secolo) archi e frecce nelle mani di abili arcieri si rivelarono spesso non meno efficaci dei fucili.
327
L’Egitto dei Mamelucchi, che si erano rifiutati di adottare le armi da fuoco, non poteva far fronte agli Ottomani e venne ridotto a provincia turca. Il
regime turco in Egitto era però corrotto e reso debole dalle frequenti ribellioni dei Mamelucchi. Sulle ragioni che spinsero i Mamelucchi a non adottare
le armi da fuoco si sofferma Keegan, per mostrare lo stretto rapporto che intercorre tra modelli culturali e il modo di fare la guerra (vedi J. Keegan, op.
cit., pp. 37-45).
324
116
successi anche in Africa settentrionale, ma con l’ascesa al trono di Carlo V la maggior parte delle risorse delle
Spagna vennero impiegate nella guerra contro la Francia e i musulmani riguadagnarono l’iniziativa. Khair elDin, detto Barbarossa, che si era insediato ad Algeri e che si era dichiarato vassallo della Porta. Venne nominato
quindi grande ammiraglio della flotta ottomana e scacciò i “mori” filo-spagnoli da Tunisi, senza risparmiare le
coste dell’Italia meridionale. Carlo V guidò allora una crociata contro il Barbarossa, conquistando La Goletta
e Tunisi, ma il suo attacco contro Algeri fallì, e la costa orientale della Spagna venne saccheggiata più volte,
mentre la Francia non esitò ad allearsi con il Barbarossa contro la Spagna, lasciandogli saccheggiare Nizza nel
1543. Il suo successore, Dragut, catturò Tripoli nel 1551 trasformandola in una “base corsara”. Ma il
Mediterraneo occidentale era in buona parte oltre la “proiezione di potenza” degli Ottomani (che patirono anche
due severe sconfitte, a Malta e a Lepanto), come prova il fatto che quando gli Spagnoli domarono una rivolta
dei moriscos nella zona montagnosa di Granada (1568-71) non vi fu alcun intervento di rilievo da parte dei
Turchi.
Le vicende dell’impero ottomano mostrano comunque che, sebbene gli Europei avessero acquisito
saldamente il dominio degli oceani, non avevano ancora il controllo di ogni “mare interno”. Proprio nel
Cinquecento, d’altro canto, il sistema militare ottomano incentrato sui giannizzeri raggiunse il suo apogeo.
Questi schiavi coscritti (perlopiù serbi, croati e albanesi) in origine venivano impiegati solo come soldati, ma a
partire da Maometto II vennero impiegati anche nell’amministrazione dello Stato. Nel XVI secolo il numero dei
giannizzeri, che durante i periodi di pace risiedevano per metà nella capitale e per metà nelle province, continuò
ad aumentare: da 8/10.000 passò a 13.357 nel 1560, e alla fine del secolo i giannizzeri erano più di 35.000328.
La loro unità tattica fondamentale era la orta, anche se il loro comandante (denominato agha) non
necessariamente era un giannizzero. Il grosso dell’esercito ottomano era però ancora composto dalla cavalleria
di cui gli spahi costituivano un corpo scelto. Agli spahi venivano assegnati i proventi di un feudo (questo
sistema era conosciuto come timar) in cambio del quale si doveva prestare servizio militare e provvedere al
proprio equipaggiamento. Con il passare del tempo gli spahi si interessarono sempre più alle loro proprietà e
sempre meno ai loro doveri di soldati, tanto che verso la fine del XVI secolo lo Stato ottomano faceva
particolare affidamento sia per la fanteria che per la cavalleria sulle milizie provinciali, nonché sui ghazis
(uomini delle tribù ai confini dell’impero, in seguito chiamati akinji, che venivano impiegati in compiti
d’esplorazione, per prendere prigionieri, occupare ponti e così via, e che ambivano a diventare parte
dell’esercito permanente, onde ricevere in premio quel timar, il cui vero scopo era quello di permettere ai soldati
di professione di occuparsi solo del mestiere delle armi)329.
Oltre che nel “quadrante occidentale” del Mediterraneo, l’impero ottomano era impegnato (a maggior
ragione) in quello orientale e in diverse zone di confine. Anche se Selim I non aveva sfruttato la vittoria contro
i Safavidi a Cialdiran, gli Ottomani tolsero ai Persiani l’Iraq e si spinsero fino al Golfo Persico. E con la conquista
dell’Egitto si garantirono un eccellente “granaio” e un porto di primaria importanza (cioè Alessandria). Nel
1517 Cipro fu costretta a pagare dei tributi e nel 1522 venne conquistata Rodi. Con l’ascesa al trono di
Solimano II il Magnifico la pressione maggiore venne esercitata lungo la valle del Danubio. Belgrado venne
occupata nel 1521 e nel 1526 a Mohacs la cavalleria ungherese venne decimata dal fuoco dei Turchi. Nel 1529 i
Turchi posero l’assedio a Vienna, ma la struttura logistica degli Ottomani non era in grado di supportare una
campagna militare a così grande distanza. Vienna non cadde, ma la pressione dei Turchi continuò ad esercitarsi
sui confini dei domini degli Asburgo. Nel 1532 gli Ottomani invasero l’Austria meridionale e la parte
settentrionale e occidentale dell’Ungheria, ma con poco successo. Tuttavia, nel 1533 gran parte dell’Ungheria
cadde sotto il dominio turco e nel 1543 gli Ottomani presero Gran, sul Danubio. Nel 1547 fu quindi firmata
una pace con l’Austria che riconosceva le conquiste turche. Nel 1552 gli Ottomani ripresero però l’offensiva
conquistando Temesvár (Timişoara), ma le difficoltà logistiche ancora una volta mostrarono quali erano i limiti
dell’espansione ottomana. Non a caso dovettero passare molti decenni prima che Vienna venisse ancora
assediata dai Turchi (nel 1683). Questa volta i Turchi, già duramente sconfitti nel 1664 da Raimondo
Montecuccoli a San Gottardo, in Ungheria, furono sbaragliati da un esercito polacco-tedesco e gli imperiali,
alleati con i Polacchi e i Veneziani, proseguirono nella loro offensiva riconquistando Buda e spingendosi in
profondità nella penisola balcanica. Infine, Eugenio di Savoia colse una vittoria decisiva a Zenta nel 1697. La
guerra con i Turchi (che ora dovevano fronteggiare anche i Russi) comunque continuò fino alla pace di Belgrado
(1739) con la quale i Turchi riguadagnarono parecchi dei territori perduti in precedenza. Non meno dura fu la
lotta sul mare e contro Venezia. Benché sconfitti a Lepanto nel 1571 dalla flotta della Lega Santa (che oltre allo
Stato Pontifico, comprendeva Venezia, Genova e la Spagna) al comando di don Giovanni d’Austria330, i Turchi
328
Vedi M. Uyar, E. J. Erickson, A Military History of the Ottomans, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara, 2009, p. 38.
329
Vedi S. Turnbull, The Ottoman Empire, 1326 1699, Osprey, Oxford, 2003, pp. 18-19
330
Anche se la vittoria della flotta della Lega Santa fu netta, si è esagerata alquanto l’importanza di Lepanto che certo non fu uno scontro di civiltà né
117
ricostruirono rapidamente una flotta e Tunisi, presa da don Giovanni d’Austria nel 1573, fu riconquistata solo
un anno dopo. Nei secoli XVI e XVII costante fu anche l’impegno contro Venezia, che, persa Cipro e rimasta
“tagliata fuori” dai grandi traffici oceanici, non poté che rassegnarsi ad un lento declino: Creta fu persa nel
1669 e con il trattato di Belgrado Venezia rinunciò definitivamente anche alla Morea331.
L’impero ottomano presentava comunque non pochi lati deboli. I giannizzeri erano un corpo militare
compatto (simbolo di coesione erano le marmitte in cui veniva cotto il loro cibo) e motivato, ma a partire dalla
fine del XVI secolo la loro efficienza cominciò a diminuire e divennero elemento di grave perturbazione, in
specie dopo che ottennero il diritto di successione ereditaria. Furono pertanto promotori di varie rivolte. Nel
1808 un tentativo di sopprimere il corpo dei giannizzeri fallì e il sultano venne ucciso, ma nel 1826 Mahmud II
riuscì ad abolire questo corpo d’élite e i giannizzeri vennero massacrati. D’altra parte, la struttura dell’esercito
ottomano era più adatta a difendere le estese frontiere dell’impero che non ad intraprendere grandi guerre di
conquista. Nonostante I progressi compiuti in campo scientifico e tecnico, le risorse economiche erano appena
sufficienti per far fronte ai numerosi impegni dell’impero ottomano. Per di più, il contrasto con la Persia sciita
rese meno sicura la retrovia orientale e richiese la ricerca di nuove entrate, facendo lievitare la pressione fiscale
e aumentando così il potere e l’arbitrio degli esattori. Le finanze dell’impero erano sane durante il regno di
Solimano II, ma dopo la sua morte (nel 1566) regnarono diversi sultani incompetenti e tasse ed espropri colpirono
mercati e imprenditori (perlopiù stranieri), senza che vi fosse un miglioramento del sistema fiscale, cosicché
«tasse sempre più alte danneggiarono il commercio e spopolarono le città. Forse i più colpiti tra tutti furono i
contadini, le cui terre e scorte erano oggetto di preda da parte dei soldati. Quando la situazione si deteriorò
anche i pubblici ufficiali si diedero al saccheggio, estorcendo denaro e confiscando beni»332. Questi difetti
sembrano però assai più gravi se si prescinde dal contesto storico e culturale. Maometto II aveva organizzato
le diverse comunità musulmane in millet, ciascuno guidato da un dignitario che era responsabile del
comportamento dei suoi correligionari. Questa tolleranza portava molti non musulmani ad essere collaboratori
fedeli del sultano ed era un potente fattore di coesione sociale. E già al tempo di Solimano II la burocrazia
ottomana era in grado amministrare uno Stato di 14 milioni di abitanti, mentre nello stesso periodo la Spagna
ne contava soltanto cinque. Indubbiamente la cultura degli Ottomani non favoriva la modernizzazione, ma il
fine dell’impero ottomano non era certamente quello di dominare il mondo333. D’altra parte, se è vero che un
impero tende ad espandersi finché non incontra una forte resistenza, è pur vero che tende a preservare determinati
equilibri, talvolta anche a costo di privilegiare una politica di “ripiegamento su sé stesso”, come lo stesso Paul
Kennedy pare riconoscere, sia pure implicitamente, allorché tratta dell’impero cinese dei Ming334.
L’Oriente. Invero, benché non sia molto noto, nel 1420 la marina cinese possedeva 1.350 navi da guerra, oltre
a numerosissime imbarcazioni private che erano adibite a traffici commerciali con la Corea, il Giappone, i Paesi
del sud-est asiatico e quelli dell’Africa orientale. Commerci da cui lo Stato dei Ming ricavava notevoli entrate
fiscali. Nella prima metà del XV secolo la marina cinese condusse varie spedizioni, in India e in Africa, a volte
con centinaia di navi (alcune lunghe oltre 120 metri e di oltre 1.500 tonnellate). Si ritiene che allora le navi cinesi
fossero le migliori del mondo e i Cinesi avrebbero potuto doppiare il Capo di Buona Speranza e perfino
precedere Cristoforo Colombo nella scoperta delle Americhe. Ma nulla di questo accadde. Nel 1433 ci fu
l’ultima spedizione navale. Un editto imperiale proibì la costruzione di navi d’alto mare e la flotta cinese marcì
nei porti. La pressione dei Mongoli sulle frontiere cinesi rappresentava un serio problema, ma non tale da
segnò il trionfo dell’Occidente sull’Occidente. Del resto, la battaglia di Lepanto si inserì nel contesto della guerra di Cipro (1570-73) che vide i Turchi
sconfiggere i Veneziani. La perdita di centinaia di navi e di decine di migliaia di uomini (tra cui molti equipaggi esperti) fu senza dubbio grave per
l’impero ottomano, ma Lepanto fu solo un evento, sia pure importante, di una complessa fase storica in cui l’impero ottomano, la Spagna e Venezia si
contendevano l’egemonia del Mediterraneo. Sul “mito” di Lepanto, vedi A. Barbero, Lepanto, Laterza, Roma-Bari, 2012.
331
Il conflitto dei Turchi con Venezia merita una breve nota. La guerra di Candia durò dal 1645 al 1669 e fu estremamente costosa per Venezia, che
cominciava a risentire non poco dell’apertura delle rotte atlantiche. Fu una guerra che si combatté anche sul mare, benché si ricordi soprattutto per un
lunghissimo assedio alla capitale cretese, cui mise fine, dopo strenua e valorosa resistenza, Francesco Morosini che consegnò Candia ai Turchi nel 1669.
In seguito, alleata con la Polonia e gli imperiali, Venezia attaccò gli Ottomani in Dalmazia e sfruttò una rivolta nella Morea, occupando Navarino,
Kalamata e Nauplia. E nel 1687 i Veneziani mossero verso nord prendendo Patrasso, Lepanto e Atene (in questa occasione il Partenone venne colpito
da una bomba di mortaio, che causò una terribile esplosione, dato che i Turchi avevano adibito il tempio greco a deposito di munizioni). I Veneziani
fallirono però a Creta (1692), mentre si impadronirono di Chio (1694), anche se un’insurrezione li costrinse poi ad abbandonare l’isola. Con la Pace di
Carlowitz (1699) a Venezia fu riconosciuta sia la conquista della Morea che quella di alcune terre dalmate. La guerra con i Turchi riprese però all’inizio
del Settecento. Gli Ottomani occuparono la Morea, incontrando poca resistenza e respingendo un tentativo di Venezia di riprenderla, e attaccarono pure
l’isola di Corfù, ma senza successo, mentre Venezia si impadronì di Prevesa, il principale porto dell’Epiro. Con il Trattato di Passarowitz del 1718
furono riconosciute le conquiste di entrambi contendenti.
332
P. Kennedy, op. cit., p. 46.
333
Gli Ottomani non si comportarono neppure come i Mamelucchi che si rifiutarono di adoperare le armi da fuoco. Tuttavia, nemmeno dopo Lepanto
costruirono nuove navi adatte alla navigazione oceanica (anche se i pirati barbareschi non rinunciarono a costruire delle fregate).
334
Ivi, pp. 37-42.
118
giustificare una simile rinuncia. I mercanti cinesi erano altrettanto intraprendenti di quelli europei, ma
dipendevano da uno Stato i cui funzionari consideravano il commercio come qualcosa che non si confaceva alla
propria dignità (forse anche perché ne intuivano i pericoli). La Cina inoltre era pressoché autosufficiente dal
punto di vista economico e non aveva necessità di finanziare spedizioni oltremare come facevano i governanti
europei. Non era perciò questione di scelta tra una marina forte e un esercito forte per mancanza di risorse, ma
la decisione consapevole di difendere un certo “stile di vita” e un certo ordine sociale. Che tale decisione non
garantisse ai Cinesi di fare fronte alle sfide future è innegabile, ma è con il “senno del poi” che lo si afferma.
D’altronde, i Ming, per quanto non fossero particolarmente “aggressivi”, crearono durante i primi decenni del
loro regno un nuovo sistema militare. Le famiglie cinesi vennero divise (in base a un modello sociale conosciuto
come weisuo) in tre classi sociali ereditarie: quella dei contadini, quella degli artigiani e quella dei militari335. Ciascun
capofamiglia della classe dei militari doveva fornire un soldato. I coscritti erano assegnati ad unità denominate
wei, che contavano circa 5.600 uomini. In caso di guerra i soldati erano posti sotto il comando del ministero della
Guerra e di ufficiali che non appartenevano alle unità wei. Per sostenere questa struttura i Ming si basavano su
un particolare modello economico, denominato tuntian, che consisteva nell’assegnare alle famiglie della classe
dei militari delle terre devastate dai Mongoli, di modo che fossero messe nuovamente a coltura e fornissero
cibo anche agli ufficiali o agli abitanti di quelle aree che erano ancora depresse. Il modello tuntian all’iniziò
funzionò bene, e vi facevano parte il 70-80% delle famiglie che rientravano nella classe dei militari. Ma la
maggior parte dell’esercito era concentrata nella zona settentrionale del Paese, in cui le terre erano meno
produttive e si dovette ben presto ricorrere ad altre risorse per mantenere in vita il nuovo sistema militare.
Comunque durante il regno di Yongle (1403-1424), che spostò la capitale da Nanchino a Pechino e fece
costruire la “città proibita”, non furono intraprese solo spedizioni marittime, ma anche alcune “campagne
preventive” contro i Mongoli. Dopo questa “politica energica” di Yongle, che nel 1404 aveva anche inviato una
spedizione per sottomettere la regione settentrionale e centrale del Vietnam, il sistema militare cinese si deteriorò
al punto che si mostrò totalmente inefficiente quando i Cinesi si scontrarono con i Mongoli nel 1449, i quali,
nella battaglia di Tumubao, giunsero a distruggere un intero esercito dei Ming, che da allora preferirono
adottare una “difesa passiva” contro i nomadi. Ciononostante, la Cina era un Paese ancora straordinariamente
forte. Durante la dinastia Ming l’economia e la società cinese continuarono a svilupparsi e la popolazione salì
a 150/200 milioni336. Il sistema quasi feudale dei Ming garantiva un discreto livello di benessere, benché il
gruppo dominante fosse assai ristretto e poche famiglie ricoprissero i posti migliori dell’apparato burocratico. I
funzionari venivano scelti sempre sulla base degli esami di testi letterari, ma una parte dei posti era riservata a
coloro che provenivano dalle province. Nel XVI secolo c’erano mediamente oltre 100.000 studenti. Il 10% che
passava gli esami di “primo livello” godeva di vari privilegi anche se non passava gli esami ulteriori che
consentivano di accedere ai posti più prestigiosi nella capitale (i cosiddetti “jinshi”, che assommavano a 2/4.000,
grosso modo uno ogni 10.000 maschi adulti). Il sistema di inviare coloni per coltivare nuove terre però generò
tensioni con la popolazione indigena. Una grave rivolta scoppiò tra il 1464 e il 1466. Per domarla venne inviato
un esercito di 30.000 uomini (tra cui 1.000 cavalieri mongoli), ai quali si aggiunsero 160.000 uomini della
milizia territoriale. Il capo della rivolta e 800 ribelli furono catturati e portati a Pechino per essere “giustiziati”,
mentre l’esercito rimase a “pacificare” l’intera zona. Una prova più ardua fu però quella che la Cina dovette
affrontare allorché, alla fine del XVI secolo, la Corea venne aggredita dal Giappone.
La storia del Giappone in questo periodo è caratterizzata da lunghe e numerose lotte, che nel XIV secolo
portarono ad un tentativo di restaurazione del potere imperiale, che ebbe successo solo grazie all’appoggio del
potente clan degli Ashikaga, i quali, una volta abbattuto lo shogunato, allontanarono l’imperatore Go-Daygo
(che riparò in un regione montuosa a sud di Kyoto), per metterne un altro al suo posto e ripristinare lo shogunato
a proprio vantaggio. Sotto gli Ashikaga i legami del Giappone con la Cina dei Ming si rafforzarono, al punto
che il Giappone divenne “vassallo nominale” della Cina. I Ming cercarono comunque di imporre restrizioni al
commercio con i Giapponesi, ma senza riuscirvi, tanto che il Giappone conobbe un periodo di crescita
economica e di intensi traffic commerciali (fu in questi anni che i mercanti si organizzarono in corporazioni,
gli za), oltre ad un rimarchevole sviluppo nel campo delle arti. L’età degli Ashikaga fu infatti caratterizzata dal
raffinato senso estetico della aristocrazia (basti pensare al “rito del tè” e a tutto quello che ad esso era connesso),
dallo stile di vita marziale dei samurai e dalla profondità e ricchezza spirituale del buddhismo zen. Durante lo
shogunato degli Ashikaga i governatori militari (shugo) si resero praticamente indipendenti dal potere centrale,
mentre persero potere le vecchie famiglie che prima avevano il controllo del Paese. A causa di questo nuovo
335
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., pp. 264-265.
Vedi P. Buckley, op. cit., p. 195. Con la fine della dominazione mongola e l’ascesa dei Ming la popolazione era diminuita (nel 1384 era scesa a 60
milioni), ma poi aveva ripreso ad aumentare.
336
119
frazionamento politico già nella seconda metà del XV secolo scoppiò una guerra civile (combattuta nelle strade
di Kyoto e nota come “guerra di Onin”), che segnò la fine del potere dello shogunato degli Ashikaga a vantaggio
dei daimyō, che erano dei veri signori feudali, alcuni dei quali erano ex governatori militari, ma altri erano dei
samurai che provenivano da ranghi inferiori. Com’è facile immaginare, con il “crollo” del potere centrale si
iniziò una serie interminabile e assai “complicata” di conflitti tra clan rivali, in continua lotta tra di loro per la
conquista della supremazia sull’intero Paese. Non a caso i Giapponesi, prendendo spunto dalla storia dell’antica
Cina, denominano questo periodo Sengoku Jidai, ovvero “l’età degli Stati combattenti” per le continue lotte tra
feudatari, tra cui è famoso il conflitto tra il clan di Shingen e quello di Kinshin, che portò alle cinque battaglie
di Kawanakajima (1553-1564). Fu un’epoca in cui mutò anche il modo di fare la guerra. I signori feudali, che
dovevano pure proteggere i loro castelli, avrebbero reclutato eserciti di decine di migliaia di uomini e la maggior
parte dei bushi avrebbero prestato servizio come capitani di soldati reclutati dai vari clan che erano chiamati
ashigaru, che erano perlopiù dei contadini con armamento leggero (benché potessero pure essere samurai di
bassa condizione sociale, ma in ogni caso non potevano essere bushi). Gli ashigaru erano dei fanti, ma pure i
bushi non necessariamente erano dei cavalieri.
I mutamenti tuttavia non riguardarono solo i soldati. Fino al 1543 i Giapponesi avevano usato armi da fuoco
cinesi, ma dal 1543 in poi cominciarono ad usare dei moschetti costruiti tenendo conto di esemplari portoghesi.
Pur tuttavia, nella battaglia di Uedahara (1548) l’esercito armato con moschetti si era attardato a compiere i
rituali tradizionali, perdendo l’opportunità di usarli, dato che i nemici attaccarono prima che i moschetti
potessero venire impiegati. I Giapponesi non ripeterono questo errore. Le battaglie vennero rapidamente
“deritualizzate” e «Oda Nobunaga […] insegnò ai suoi moschettieri a sparare le raffiche in file che arrivavano a
mille uomini, e nella battaglia decisiva di Nagashino nel 1575 spazzò via il nemico con un diluvio di fuoco»337.
Tra il 1576 e il 1579 Nobunaga fece costruire il castello di Azuchi, in grado di resistere ai colpi delle armi da
fuoco, aprendo così un nuovo capitolo nella storia militare giapponese, che vide grandi eserciti permanenti
concentrarsi in centri fortificati. Nobunaga, che nel 1571 non aveva nemmeno esitato a distruggere 3.000 edifici
religiosi e a far passare per le armi migliaia di monaci per annientare il potere dei monasteri, pose quindi le
basi per l’unificazione del Paese, ma venne assassinato da un suo vassallo nel 1582. Il suo posto venne preso da
Toyotomi Hideyoshi, deciso ad unificare il Giappone con il potere delle armi. Con un esercito di 300.000
uomini Hideyoshi nel 1587 conquistò l’isola di Kyushu, costringendo il clan degli Shimazu a sottomettersi alla
sua autorità. Nel 1590 cadde anche la fortezza di Odawara e nel 1591 Hydeyoshi condusse vittoriosamente una
campagna militare nel nord-est del Paese. Già però nel 1588 Hideyoshi aveva lanciato la cosiddetta “caccia alla
spada”, ordinando a tutti i non samurai di consegnare le armi al governo. Ordinò anche ai bushi di non risiedere
nelle campagne e ai contadini di non occuparsi di commercio. La separazione tra la classe dei guerrieri e quella
dei contadini, già delineatasi con Nobunaga, divenne allora assai più netta, favorita pure da un nuovo regime di
proprietà terriera, che era basato su una sistematica revisione catastale.
Conseguita l’unificazione del Giappone, Hideyoshi rivolse la sua attenzione alla Corea, che invase
nell’aprile del 1591, con l’intenzione di puntare addirittura su Pechino. I Giapponesi si spinsero rapidamente
nella penisola coreana raggiungendo Seul, ma si trovarono ben presto in difficoltà, vuoi per le azioni di guerriglia
condotte da Coreani, vuoi per l’intervento di un esercito cinese a sostegno dei Coreani. Ma i “guai” più gravi
per i Giapponesi vennero dal mare, ove l’abilissimo ammiraglio coreano Yi-sun, nel mese di luglio distrusse la
principale flotta giapponese nella baia di Hansan. Il successo dei Coreani dipese anche dall’impiego di un nuovo
tipo di navi, le cosiddette “navi tartaruga”. Si trattava di imbarcazioni a remi, sufficientemente agili, con il
ponte provvisto di una copertura di ferro (o forse solo irta di punte di ferro), onde contrastare un eventuale
abbordaggio, e con la prua rinforzata. Inoltre, vi erano delle feritoie per i cannoni e per potere scagliare delle
frecce. Dopo questa sconfitta i Giapponesi, decisero di intavolare negoziati con i Coreani e si ritirarono nella
penisola di Pusan, ma successivamente ripresero l’offensiva. L’esercito coreano insieme con quello cinese oppose
ancora una forte resistenza e la flotta giapponese subì un’altra disastrosa sconfitta nel luglio del 1597.
Perciò, una volta scomparso Hideyoshi (nel 1598), i Giapponesi dovettero abbandonare la penisola coreana
e magra consolazione fu per loro l’occupazione dell’isola di Okinawa. In Giappone la lotta per succedere ad
Hideyoshi fu vinta da Ieyasu Tokugawa, che nel 1600 sbaragliò i suoi nemici a Sekigahara. Ma l’egemonia dei
Tokugawa non era sicura, giacché nel Giappone occidentale la casa Toyotomi era ancora forte. Ceduta la carica
di shogun a suo figlio, Ieyasu mosse con un esercito di circa 180.000 uomini contro Osaka, roccaforte dei suo
nemici. Si trattò di una campagna militare più difficile del previsto, ma infine Ieyasu, nel 1615, riuscì a vincere
la tenace resistenza dei difensori. Lo shogunato dei Tokugawa sarebbe durato fino al 1867. La sede del governo
venne spostata ad Edo (l’odierna Tokyo), i daimyö furono sottoposti ad un severo controllo e il loro potere fu
337
J. Keegan, op. cit., p. 48.
120
ridotto a vantaggio del governo. Con i Tokugawa il Giappone si chiuse quasi completamente al mondo esterno.
Questa decisione venne probabilmente presa anche per il timore che suscitò la conquista delle Filippine da parte
della Spagna; una conquista resa ancor più preoccupante dall’unione tra Spagna e Portogallo nel 1580 (unione
che fornì agli Olandesi il pretesto per attaccare l’impero portoghese). Comunque, già nel 1587 Hideyoshi aveva
ordinato di espellere i cristiani, anche se fin dall’arrivo del missionario Francesco Saverio, nel 1547, c’erano
state numerose conversioni nell’isola di Kyushu. Nel 1614 il cristianesimo venne messo al bando e dopo la
partecipazione dei cristiani ad una vasta insurrezione nella penisola di Shimabara, nel 1637-38, non solo il
cristianesimo non fu più tollerato, ma ai Giapponesi venne vietato di recarsi all’estero e i mercanti portoghesi
vennero espulsi dal Paese. Solo ai mercanti olandesi fu permesso di restare, benché fossero confinati in
un’isoletta artificiale nella baia di Nagasaki. (Del resto, gli Olandesi erano riusciti ad insediarsi stabilmente in
Indonesia, ove nel 1619 fondarono Batavia facendo valere tutta la “potenza” di 160 vascelli, armati dai 30 ai 60
cannoni ciascuno, di 15.000 marinai e di 12.000 soldati. Ai Portoghesi poterono quindi sottrarre l’Insulindia,
tranne una parte di Timor, e poi anche la penisola della Malacca, altro punto strategico per il controllo del mercato
delle spezie).
La Cina invece nel XVI secolo concesse ai Portoghesi il porto di Macao e i gesuiti al seguito di Matteo Ricci
furono accolti bene. I Ming allora erano più preoccupati per le incursioni dei Giapponesi e per la minaccia dei
Mongoli, che non per l’arrivo degli Europei. Il governo della Cina nell’ultima fase del regno dei Ming era nelle
mani di 70.000 eunuchi, di cui 10.000 erano nella capitale338. La cattiva amministrazione della cosa pubblica e
gli arbìtri che ciò comportava, uniti ad una eccessiva e iniqua pressione fiscale, furono la causa di diverse rivolte.
Questi disordini fecero il gioco dei Manciù, una popolazione che dalla Siberia si era infiltrata in Manciuria nel
secolo precedente. Con l’aiuto di alcuni Cinesi, Nurhaci riuscì ad unificare le varie tribù mancesi e ad acquisire
il controllo delle terre a nord della Grande Muraglia (a Nurhaci si deve infatti l’istituzione delle cosiddette
“bandiere” che avevano funzioni politiche, economiche e militari, e che sconvolsero il sistema tribale
rafforzando il potere centrale; inizialmente erano 4, poi divennero 8, cui si aggiunsero 8 “bandiere” mongole
e poi altre 8 cinesi)339. I Manciù, con un forte esercito di arcieri a cavallo, sconfissero un’armata cinese e nel
1621 conquistarono Shenyang. I Cinesi riuscirono a respingere un altro attacco, ma non poterono impedire che
i Manciù assoggettassero la Corea e la Mongolia interna. Inoltre, dato che l’artiglieria cinese aveva frustrato
diverse loro azioni offensive, i Manciù si procurarono dei cannoni e formarono diverse unità d’artiglieria.
L’occupazione di Pechino da parte di Li Zicheng (capo di una rivolta e nuovo “signore della guerra”) provocò
l’intervento dei Manciù (d’accordo con il generale cinese Wu Sangui), la cui cavalleria distrusse l’esercito di Li,
che venne infine ucciso nell’ottobre del 1645. La resistenza contro i Manciù continuò però nel sud del Paese. I
Manciù, benché riuscissero ad occupare gran parte delle regioni meridionali, compresa Canton (1650),
dovettero vedersela con Zheng Chenggong, conosciuto in Occidente come Koxinga, il quale, arricchitosi con
la pirateria, poté equipaggiare una potente flotta e allestire un esercito di oltre 100.000 uomini, inclusi artiglieri,
moschettieri e un corpo di arcieri che alla prova dei fatti si rivelò più prezioso dei moschettieri. Per breve tempo
poté riconquistare buona parte dei territori della Cina meridionale perduti dai Ming, ma nel 1656 venne fermato
dai Manciù a Nanchino, i quali conquistarono anche lo Yunnan340. Privato delle sue basi principali sulla
terraferma, Koxinga, con 300 giunche e 29.000 soldati, attaccò Taiwan, che era in gran parte sotto il controllo
degli Olandesi. Dopo nove mesi d’assedio, in cui impiegò 28 cannoni, Koxinga prese Forte Zelanda. Inutili
furono i tentativi di portare aiuto alla guarnigione del forte da Batavia. Ma dopo la scomparsa di Koxinga nel
1662, il destino di Taiwan era segnato. Nel 1683 i Manciù, dopo aver distrutto la flotta del successore di
Koxinga, costrinsero Taiwan ad arrendersi.
Con la caduta di Taiwan cessò anche la ribellione dei “Tre Feudatari”, cominciata nel 1673 nelle province
sud-occidentali e che era stata sostenuta da Taiwan. La dinastia Manciù intraprese allora una politica di
espansione. Nel 1690 avvenne il primo scontro con gli Zungari, guidati da un abile capo, Galdan; ma l’artiglieria
cinese non bastò per aver ragione di questo popolo, cosicché i Cinesi, anche a causa di gravi difficoltà logistiche,
dovettero firmare una tregua con Galdan; nel 1696 comunque l’imperatore Kangxi ritentò l’impresa
attraversando il deserto del Gobi e, sfruttando la rivalità tra Galdan e suo nipote, ottenne un successo decisivo316.
Nel 1718 la Cina invase il Tibet, che in seguito divenne un protettorato cinese, pur se i Cinesi riconoscevano
formalmente l’autorità del Dalai-lama; nel 1756-57 armate cinesi dilagarono nella Zungaria e poi
assoggettarono la Kashgaria, d’ora in poi denominata Sinkiang. Da qui la Cina estese il suo controllo sulle strade
carovaniere che collegavano il Turkestan con l’Occidente. Ma i Cinesi cercarono di estendere il proprio
338
Vedi P. Buckley, op. cit., p. 194.
Vedi J. M. Sabattini, P. Santangelo, op. cit., p. 506.
340
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., pp. 40-41.
339
121
controllo anche verso l’Asia sud-orientale, con l’invasione della Birmania. La campagna birmana (1766-69) si
rivelò più difficile del previsto e i Cinesi fecero pochi progressi nella valle dell’Irrawaddy, mentre una forza di
spedizione nello Yunnan dovette fermarsi a Kengtung. Nel 1767-68 i Cinesi ripresero l’offensiva e avanzarono
verso Mandalay, ma non furono in grado di tenere i territori conquistati341. In seguito (1791-92) i Cinesi
invasero pure il Nepal, da cui i Gurkha compivano incursioni contro il Tibet, e che dovette dichiararsi vassallo
della Cina. Ma i Manciù, privi di interesse per i profondi cambiamenti che avvenivano in Europa, non
cambiarono la politica dei Ming né riguardo alla selezione dei funzionari dello Stato né riguardo ai rapporti con
il mondo esterno. Nel 1805 comunque anche i Manciù misero al bando il cristianesimo, ma allora la Cina non
era più in grado di opporsi alle potenze europee.
D’altra parte, anche il vasto e potente impero moghul all’inizio del XVIII secolo era in piena decadenza. La
chiave del successo di Akbar era stata l’organizzazione militare, incentrata sul sistema denominato mansabdar342
I mansabdar erano comandanti locali direttamente responsabili nei confronti dell’imperatore. Ciascuno di loro
doveva fornire un numero di uomini (che, secondo il sistema usato dai Mongoli, era sempre un multiplo di
dieci). I fondi per il reclutamento dei soldati provenivano o dal tesoro imperiale o da rendite terriere (il che ricorda
il timar ottomano). I mansabdar dovevano anche provvedere a fornire un certo numero di cavalli ed elefanti.
Durante una campagna militare l’imperatore sceglieva tra i suoi generali quelli a cui affidare il comando delle
truppe dei mansabdar, i quali erano responsabili della disciplina nonché dell’approvvigionamento dei propri
uomini. Questo sistema permetteva durante una campagna di trasformare dei nemici in mansabadr e integrarli
rapidamente nell’esercito dei Moghul, che era pur sempre imperniato sulla cavalleria (benché i cavalieri
fossero addestrati a combattere a piedi), anche se dalla fine del XVI secolo disponeva di pezzi di artiglieria così
pesanti che dovevano essere trainati da elefanti (ma la mancanza di nemici provvisti di grandi quantità armi da
fuoco non stimolò i Moghul a migliorare la propria artiglieria). Gli elefanti potevano trasportare dei fanti armati
di archibugi o moschetti, ma perlopiù la fanteria aveva compiti secondari (di guardia, di presidio o di
sorveglianza). Nel XVII secolo i Moghul furono impegnati in diverse guerre che misero seriamente alla prova
i loro eserciti. Particolarmente duri furono i conflitti con gli Ahom, un popolo di origine birmana che occupava
la regione dell’Assam. Si trattava di guerrieri che facevano ottimo uso di archi o di armi di fuoco, sfruttando alla
perfezione il terreno impervio, con improvvisi attacchi notturni. La guerra che i Moghul combatterono contro
gli Ahom nel 1636-38 si concluse con un compromesso, sebbene l’espansione dell’impero continuasse con
successo in altre zone (come il Deccan e il Bijapur).
Secondo uno storico dell’epoca nel 1647 l’esercito moghul contava 200.000 cavalieri e 40.000 artiglieri
e moschettieri343. Nemici tradizionali dei Moghul erano però gli Uzbechi che abitavano in una regione tutt’altro
che facile da conquistare, come fu dimostrato allorché una guerra civile tra Uzbechi fornì ai Moghul l’occasione
per un intervento. Un esercito forte di 60.000 uomini, sotto il comando del principe Aurangzeb, nel 1647 occupò
la provincia di Balkh, ma le difficoltà di approvvigionare un esercito di tali dimensioni in un territorio così
inospitale si mostrarono insuperabili e Aurangzeb fu costretto a ritirarsi, subendo gravissime perdite tra le
montagne innevate dell’Hindu Kush. Il fallimento di questa spedizione facilitò la riconquista da parte dei
Persiani di Kandhar e tutti i tentativi per riconquistarla fallirono. L’artiglieria dei Persiani si rivelò nettamente
migliore di quella dei Moghul e anche quando questi ultimi con alcuni speciali pezzi di artiglieria aprirono delle
brecce nelle mura della città, l’inizio della stagione invernale e la pessima situazione logistica dell’esercito non
diedero loro la possibilità di cogliere alcun successo. Era insomma chiaro che la conquista di regioni dell’Asia
centrale era al di là delle possibilità dell’impero moghul, in cui scoppiò pure una guerra civile per succedere al
sovrano (che era gravemente malato); la lotta si concluse con la vittoria a Samugarh di Aurangzeb, grazie
soprattutto ai suoi cannoni e alla sua disciplinata cavalleria, contro i Rajput che combattevano dalla parte di
Dara, l’erede designato al trono.
Con l’ascesa al potere di Aurangzeb, il corso politico inaugurato dal sovrano Shah Jahan, il quale aveva
abbandonato la politica di conciliazione verso gli Indù seguita da Akbar, non solo non cambiò, ma le condizioni
per i non musulmani si fecero ancora più dure. Nondimeno, fu sotto questo imperatore che l’impero moghul
raggiunse il suo apogeo. Aurangzeb, dopo essere riuscito a prevalere anche sugli altri suoi fratelli pretendenti al
trono, intraprese una guerra di conquista che lo portò ad imporre il suo dominio nella parte meridionale della
Per quanto concerne l’Asia sud-orientale, si deve ricordare che lo scontro tra Birmani e Mon portò questi ultimi a fondare un impero con capitale
Pegu e a conquistare la capitale birmana (Ava) nel 1752. I Mon vennero a loro volta sconfitti da un capo locale, Alaungpaya, con l’aiuto dei Francesi.
Alaungpaya, fondò Rangoon e distrusse lo Stato dei Mnaipur (1759), ma perì nel corso di una campagna contro il Siam, che venne comunque invaso e
distrutto dai Birmani nel 1767. Nel 1784-85 i Birmani si spinsero nell’Arakan e presero parte del Laos.
342
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 333.
341
343
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., p. 38.
122
penisola indiana. Gli avversari più difficili da sconfiggere si rivelarono i Maharatti, contro i quali Aurangzeb
dovette combattere anche negli ultimi anni del suo regno. Il sistema militare dei Maharatti era basato sulla
cavalleria leggera e su un corpo di moschettieri; il loro modo di combattere era assai flessibile ed erano
particolarmente abili nel condurre dei raids in territori nemici. Nel 1670 riuscirono con questo sistema di
combattimento a riscuotere dei tributi in territorio moghul. Aurangzeb decise allora di attaccare
sistematicamente tutte le loro fortezze, facendo proteggere le forze che assediavano le fortezze nemiche da
armate mobili. Nel frattempo, però gli Ahom inflissero una severa sconfitta ai Moghul nella battaglia di
Itakhuli e scoppiò una pericolosa rivolta nel Bengala che non fu facile domare. Anche l’ostinata resistenza degli
Indù non prometteva nulla di buono per l’impero moghul, sebbene nel 1698 la fortezza di Jnjin cadesse dopo
un lungo e duro assedio. E infatti alla morte di Aurangzeb nel 1707 l’impero moghul si disgregò rapidamente: i
Maharatti arrivarono a minacciare Dehli, che nel 1737 venne messa a sacco da Nadir Shah (un soldato sciita di
origine turca), dopo che, preso il potere in Persia, aveva sconfitto gli Afghani344. Nadir Shah fece ritorno in
Persia con un immenso bottino, ma Dehli venne nuovamente saccheggiata nel 1757 dall’afghano Ahamd
Durrani. Pertanto, nel XVIII secolo anche la penisola indiana era diventata un “frutto maturo” per il colonialismo
europeo.
Velieri e cannoni. Il XVI e il XVII secolo non furono solo i secoli di innovazioni tecnologiche e di importanti
scoperte scientifiche, ma anche i secoli che videro il continente europeo dilaniato dalle guerre di religione,
connesse con il tentativo degli Asburgo di conquistare la supremazia in Europa. La Riforma produsse
mutamenti politici che naturalmente andavano al di là delle questioni di fede e le guerre di religione, che
durarono grosso modo dal 1547 al 1610, segnarono una svolta altrettanto netta nella storia dell’umanità europea. Il
primo Paese in cui divampò la lotta fu la Germania, in cui nel 1524-25 era scoppiata una rivolta contadina repressa
nel sangue con l’assenso di Lutero. I principi tedeschi protestanti costituirono la Lega di Smalcalda quando
l’imperatore Carlo V ordinò loro di riconoscere l’autorità dei vescovi e di restituire i beni confiscati agli
ecclesiastici. La decisione dei principi tedeschi provocò l’intervento di Carlo V che, al comando di un esercito
spagnolo, sconfisse l’Elettore Federico di Sassonia a Mühlberg nel 1547; ma nel 1552 scoppiò un’altra rivolta,
sostenuta dal nuovo re di Francia, Enrico II, cui fece seguito nel 1555 la Pace di Augusta che sancì il principio cuius
regio, eius religio, in base a cui ogni principe stabiliva qual era la religione dei suoi sudditi. L’anno dopo Carlo
V abdicava e con la sua scomparsa dalla scena politica europea, finiva anche il suo impero plurinazionale. A Carlo
succedevano Ferdinando I in Germania e Filippo II in Spagna. Sia Ferdinando I che il suo successore
Massimiliano II si mostrarono piuttosto tolleranti verso i protestanti, anche perché preoccupati per la minaccia
ottomana, ma con Rodolfo II la lotta contro la Riforma riprese vigore, benché il nemico implacabile dei
protestanti fosse Filippo II, deciso ad imporre l’egemonia della Spagna cattolica su tutto il continente europeo.
Intanto, la lotta tra cattolici e protestanti coinvolgeva pure la Francia, in parte a causa della debolezza di Enrico
II e dei suoi successori, che si rivelarono incapaci di mettere fine alle discordie che dividevano la nobiltà
francese. La guerra procedé tra alterne vicende, ma nel 1589 Enrico III venne ucciso, dopo che aveva fatto
assassinare i Guisa, essendosi alleato con Enrico IV di Navarra, capo dell’esercito protestante, che così,
scomparso Enrico III, divenne de iure re di Francia. Enrico IV riuscì a vincere i cattolici ad Arques e ad Ivry
(1590). Nel conflitto ora s’intromise la Spagna che soccorse Parigi e Rouen assediate dai protestanti, ed Enrico
IV, resosi conto che era impossibile far accettare ai Francesi un re protestante, nel 1593 si convertì al
cattolicesimo, entrando in Parigi da trionfatore. La Francia giunse così alla pace con la Spagna (trattato di
Vervins del maggio 1598, che confermò quello di Cateau-Cambrésis). Pochi mesi prima (aprile 1598), con
l’Editto di Nantes, Enrico IV aveva riconosciuto il cattolicesimo come religione di Stato, sia pure accordando
numerosi privilegi ai protestanti.
La Spagna però non doveva combattere solo contro i protestanti francesi. L’orientamento religioso di Filippo
II e la sua politica fiscale avevano indotto gli Olandesi, guidati da Gugliemo I d’Orange, a ribellarsi nel 156667. La Spagna inviò allora contro i ribelli olandesi il duca d’Alba, un comandante assai capace, che ristabilì
l’ordine in buona parte dei Paesi Bassi, e nel 1574 l’esercito spagnolo, che contava oltre 80.000 uomini, inflisse
una schiacciante sconfitta a Luigi di Nassau a Mook, sebbene il controllo delle regioni costiere si dimostrasse
344
Nel 1722 un gruppo di ribelli afghani era riuscito ad occupare la capitale della Persia, Isfahan, mandando in frantumi l’impero safavide. Le province
occidentali della Persia furono allora spartite tra Russi e Ottomani. Nadir riuscì a cacciare gli Afghani e a riconquistare i territori occidentali, ma, dopo
che venne assassinato (1747), la Persia ripiombò nel caos. In questo torno di tempo, gli Ottomani che erano ancora pericolosi avversari della cristianità
europea, non poterono evitare che in Arabia Saudita, in qualche modo protetta da una fascia desertica che la separava dalle altre terre dell’impero
ottomano, sorgesse la potenza del clan dei Saud, che allora controllavano solo una piccola oasi dell’Arabia centrale. Un fanatico hanbalita, Muhammed
ben Abd al-Wahhab (1703-92), riuscì a convertire il capo del clan dei Saud e nel giro di alcuni decenni i Sauditi wahhabiti giunsero a dominare l’intera
Arabia centrale.
123
essere ancora al di là delle possibilità della Spagna345. Nel 1576 però i soldati dell’armata delle Fiandre si
ammutinarono e saccheggiarono la città, non ricevendo la paga a causa delle difficoltà finanziarie di Filippo II
che aveva sospeso i pagamenti ai banchieri genovesi. Nonostante queste difficoltà la Spagna continuò a
combattere, contando pure sul sostegno della nobiltà cattolica della Vallonia. E a Gembloux nel 1578 la
cavalleria spagnola, respinta quella nemica, travolse le file dei soldati olandesi infliggendo loro parecchie
perdite. Sotto il comando dell’abile e spietato duca di Parma, Alessandro Farnese, gli Spagnoli riuscirono
anche a conquistare numerose città ribelli e dopo 14 mesi d’assedio cadde la stessa Anversa. Del resto, la
Spagna, pur essendo impegnata perfino contro l’Inghilterra, sosteneva, come sappiamo, anche i cattolici francesi,
tanto che nel 1592 Alessandro Farnese dovette lasciare le Fiandre per intervenire in Francia con 30.000 soldati,
dando così un po’ di respiro agli Olandesi. Dopo il 1598 gli Spagnoli tornarono e la lotta riprese, ma adesso gli
Olandesi erano guidati da Maurizio di Nassau, che a Nieuport (nel 1600) colse una brillante vittoria. Ciò
malgrado, sei anni dopo gli Spagnoli, comandati da Ambrogio Spinola, riuscirono a conquistare Ostenda. La
situazione finanziaria della Spagna comunque era di nuovo pessima e nel 1609 venne negoziata con gli Olandesi
una tregua di 12 anni a causa degli ammutinamenti nell’esercito e di un’ulteriore bancarotta. Invero, la Spagna di
Filippo II doveva sostenere uno sforzo finanziario eccezionale dovendo combattere anche sul mare, sia contro
i corsari barbareschi nel Mar Mediterraneo, che contro Olandesi e Inglesi nell’Oceano Atlantico. Il costo per
mantenere l’armata delle Fiandre era già enorme intorno al 1570 e nel 1596, dopo aver ottenuto prestiti a
interessi astronomici, Filippo II fu ancora inadempiente. D’altronde, con l’entrata in guerra dell’Inghilterra a
fianco delle Province Unite era logico che i rapporti di forza fossero più favorevoli ai nemici della Spagna,
sebbene l’Inghilterra fino al XV secolo non fosse certo una grande potenza marittima.
Dopo la sconfitta nella guerra dei cent’anni con la Francia, l’Inghilterra aveva conosciuto il sanguinoso
conflitto tra i Lancaster e gli York, finché Riccardo III venne sconfitto a Bosworth nel 1485 da Enrico Tudor,
capo della casa dei Lancaster, che divenne sovrano con il nome di Enrico VII. La cosiddetta “guerra delle due
rose” aveva causato la rovina della vecchia nobiltà, ma la corona uscì dalla guerra civile notevolmente
rafforzata. Cominciò così un periodo di profonde trasformazioni che avrebbero portato l’Inghilterra nel giro di
pochi decenni a rivaleggiare sul mare con la Spagna. Nella prima metà del Cinquecento comunque l’Inghilterra
venne ancora coinvolta in due guerre con gli Scozzesi che confermarono appieno la solidità del regno di Enrico
VIII. La prima scoppiò nel 1512 a causa della rinnovata alleanza tra Francia e Scozia, e gli Scozzesi vennero
nettamente a battuti. Seguì una tregua, ma nel 1542 Enrico VIII, volendo rendere più sicura la frontiera
settentrionale del suo regno, decise di invadere la Scozia. Gli Scozzesi reagirono e contrattaccarono, ma vennero
respinti a Solway Moss (1542) anche se si presero una rivincita ad Ancrum Moor (1545). Tuttavia, nella
battaglia di Pinkie (1547), un esercito inglese forte di 16.000 arcieri e artiglieri fece a pezzi un esercito scozzese
di 25.000 soldati (perlopiù picchieri). Gli Scozzesi lasciarono sul terreno oltre 6.000 caduti contro 800 soldati
inglesi. Ancora una volta l’indisciplina degli Scozzesi si rivelò un grave fattore di debolezza, benché si debba
riconoscere che anche la maggiore potenza di fuoco degli Inglesi (che erano anche più esperti nell’uso delle
armi da fuoco) contribuì in notevole misura alla sconfitta degli Scozzesi. Gli Inglesi avrebbero voluto occupare
l’intero Paese, ma le numerose guarnigioni che dovevano essere lasciate a presidiare la Scozia (tra l’altro ancora
alleata della Francia) non solo rendevano i soldati inglesi assai impopolari, ma soprattutto erano un impegno
troppo costoso per l’Inghilterra che allora nutriva altri propositi e altre ambizioni.
Infatti, l’Inghilterra sotto l’aspetto economico era ormai un Paese assai diverso rispetto al secolo precedente,
tanto che in seguito all’afflusso di numerosi profughi dei Paesi Bassi, che portarono i segreti della loro industria
della lana, da Paese esportatore di lana ma importatore di prodotti ricavati dalla lana, l’Inghilterra era diventata
un Paese esportatore di pannilani. Inoltre, la corona inglese seppe trarre vantaggio dalla Riforma, creando una
chiesa nazionale e arricchendosi con l’abolizione dei monasteri e la confisca dei beni ecclesiastici, proprio
allorquando con le scoperte geografiche si presentavano nuove occasioni per l’espansione economica e
commerciale del Paese. Una trasformazione senza dubbio agevolata dalla posizione geografica dell’Inghilterra,
ma pure dal fatto che la cultura inglese si era già differenziata da quella dell’Europa continentale fin dal Medioevo
presentando caratteristiche proprie (basti pensare a Duns Scoto, a Ruggero Bacone o ad Ockham). Per gli
Inglesi perciò fu persino più facile che per gli Olandesi sviluppare la forma mentis dell’homo oeconomicus, tutto
intento ad agire in vista dell’utile, secondo gli schemi concettuali di una “ragione mercantile” priva di autentico
“interesse” per tutto ciò che essa non può “com-prendere”. Peraltro, nel prendere in esame la questione
dell’homo oeconomicus, non è possibile non tener conto anche della nota tesi di Max Weber, secondo cui il
protestantesimo, in quanto considerava l’arricchimento un segno della grazia divina, favorì la nascita dello spirito
capitalistico. Secondo Braudel invece «lo sviluppo del capitalismo lo si può considerare figlio di una
345
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., p. 57.
124
congiuntura economica straordinariamente favorevole ai Paesi protestanti. Il Settentrione non inventò nulla: si
limitò a riprendere le pratiche mercantili e soprattutto bancarie dei grandi affaristi italiani, specie dei Genovesi.
La congiuntura mise i Paesi protestanti alla testa di quel movimento che, fin dal secolo XV, aveva cominciato
a lanciare gli Europei su tutti mari del mondo creando e rafforzando le basi del primo capitalismo mercantile»346.
Per quanto riguarda l’Inghilterra decisivo fu infatti che gli Inglesi, per così dire, eleggessero il mare a propria
dimora, trasformando le isole britanniche in un gigantesco “covo di pirati”. Rispetto ad altri popoli europei, gli
Inglesi iniziarono a navigare più tardi, ma presto superarono tutti e dominarono gli oceani. Tutte le altre potenze
europee, ad eccezione delle Province Unite, privilegiarono sempre il rapporto con la terra rispetto a quello con il
mare. Vero che solo alcuni spiriti geniali come Tommaso Moro, il cardinale Wolsey o Francesco Bacone ebbero
piena coscienza del mutamento storico in atto, ma vero pure che i tesori che pirati e corsari portarono in Inghilterra
fecero sì che nobili e borghesi partecipassero al “gigantesco business”, e «uomini e donne inglesi si
trasformarono allora in “capitalisti corsari”, in corsairs capitalists»347. Come sintetizzò assai efficacemente Walter
Raleigh, «chi domina il mare domina il commercio; chi domina il commercio, domina le ricchezze del mondo
e, di conseguenza, il mondo stesso». Ragion per cui lo Stato inglese promosse la costituzione di compagnie privilegiate cui
concedere il monopolio del commercio in una determinata zona: si formarono così la Muscovy Company (1555) che si
occupava del traffico commerciale con la Russia, la Eastland Company (1579) per il commercio nel Baltico, la
Levant Company (1581) per il traffico nell’impero ottomano e anche una Venetian Company, cosicché le navi
veneziane cessarono di fare la spola con l’Inghilterra, mentre i velieri inglesi frequentavano in maggior numero
e con maggiore frequenza il porto di Livorno, senza che gli Spagnoli riuscissero ad impedirlo. La corona
promosse pure una riforma monetaria per rendere meno instabile il sistema dei prezzi e arrestare l’inflazione
che si era scatenata durante il regno di Enrico VIII e si preoccupò di proteggere la propria manifattura mediante
una serie di leggi e provvedimenti che anticipano i tratti essenziali del mercantilismo settecentesco. Ma nella
società elisabettiana anche il mondo contadino era sconvolto da un vento nuovo, «alimentato dai trapassi di
proprietà dei beni ecclesiastici e di quelli di buona parte dell’antica nobiltà feudale rovinata che [portarono] alla
costituzione di un largo strato di possidenti, fittavoli e piccoli proprietari, ognuno dei quali [si affannava] a
guadagnare di più a mettere a coltura intensiva nuove e terre, strappandole alla foresta, al pascolo e all’uso
comune irrobustendo quella gentry e quella yeonmanry che assieme ai mercanti, agli imprenditori, alla gente di mare
[formavano] la spina dorsale dell’Inghilterra elisabettiana»348. Si formò così pure un ceto proletario, i cui membri
provenivano in gran parte dal mondo contadino e che adesso erano sempre minacciati dalla disoccupazione e dalla fame. Criminalità
e vagabondaggi abbrutivano il proletariato urbano e rurale, al punto da rendere necessaria una Poor Law per
combattere il pauperismo dilagante ed evitare che la situazione degenerasse. Ma l’aspetto più saliente
dell’Inghilterra del XVI secolo naturalmente fu la creazione di una potente marina da guerra “al servizio” di
quello che si suole definire “capitalismo di rapina”. Come ricorda Schmitt, «nel quattordicesimo anno del regno
della regina Elisabetta la maggior parte del naviglio inglese era in viaggio per spedizioni di rapina o per affari
illegali e nel complesso appena poco più di 50.000 tonnellate di stazza erano impiegate per il traffico commerciale
legale»349.
Del resto, già durante il regno di Enrico VII si costruì un bacino di carenaggio a Portsmouth, che divenne la
base della marina inglese, e furono promosse diverse spedizioni navali. Con Enrico VIII si passò dalla grande
nave mercantile armata con cannoni sui castelli alla caracca armata con cannoni sulle fiancate. Dalle caracche
si passò a navi assai più manovrabili, i galeoni, una volta che i cannoni vennero montati su affusti muniti di
ruote che scorrevano su guide inchiodate al ponte, di modo che si poterono migliorare anche gli scafi delle
navi (ma si impiegavano pure vascelli più piccoli dei galeoni che erano chiamati “pinacce”). Gli Inglesi
cominciarono così a fare spedizioni assai redditizie nel Mar dei Caraibi, fino a quando una loro flotta venne
intercettata da una flotta spagnola a San Juan de Ulúa (nel Golfo del Messico) e quasi completamente distrutta.
Si iniziò così la guerra anglo-spagnola, ma solo di fatto, dato che la regina Elisabetta, pur incoraggiando e
appoggiando i corsari inglesi, non intendeva ancora aprire formalmente le ostilità con la Spagna. E per
vent’anni brillò alto l’astro di Francis Drake, indubbiamente il corsaro inglese più abile e famoso. Prima di
compiere la circumnavigazione del globo tra il 1577 e il 1580 e attaccare le colonie spagnole del Pacifico per
tornare in patria carico di bottino, tanto da ripagare 67 volte il costo della spedizione, imperversò nel Mar delle
F. Braudel, Il mondo attuale, Einaudi, Torino, 1966, p. 409. Meno nota della tesi di Weber è quella di Werner Sombart che nell’opera del 1911 Gli
Ebrei e la vita economica (Die Juden und das Wirtschaftsleben), sottolinea invece il ruolo degli Ebrei per quanto concerne lo sviluppo del capitalismo.
346
347
C. Schmitt,op. cit., pp. 51-52. Dal punto di vista giuridico vi è differenza tra corsaro e pirata: il primo ha una lettera formale di corsa del suo
governo e la propria nave può battere la bandiera del suo Paese; il secondo naviga senza delega giuridica e a lui si addice la bandiera nera dei pirati
(ivi, p. 50).
348
G. Spini, Storia moderna, Einaudi, Torino, 1982, p. 382.
349
Vedi C. Schmitt, op. cit., p. 54
125
Antille e riuscì ad attaccare con successo Nombre de Dios, una base di notevole importanza per la flotta
spagnola. Gravissimi per la Spagna erano in particolare i tentativi di colonizzazione della Virginia, compiuti dagli
Inglesi a partire dal 1583. Difatti, se a questa politica di guerra da corsa si aggiunge che l’Inghilterra aveva
sposato la causa dei ribelli olandesi, è palese che lo scopo degli Inglesi consisteva nell’interrompere le
comunicazioni marittime tra Paesi Bassi e Spagna, e, in generale, nel “tagliare” le principali rotte dell’impero
spagnolo, che ora doveva fare affidamento su regolari convogli scortati da squadre di galeoni. Si giunse quindi
fatalmente alla guerra aperta tra Spagna e Inghilterra.
Ancora prima però che gli Spagnoli potessero radunare una gigantesca flotta allo scopo di invadere
l’Inghilterra e annientare il “covo dei pirati”, Drake, inaugurando quella strategia navale che sarebbe stata tipica
della marina inglese, ossia quella di distruggere la flotta nemica nella sua stessa base, si diresse verso Cadice,
ove, cogliendo di sorpresa gli Spagnoli, distrusse navi e arsenali della flotta di Filippo II, causando così un
ritardo nella preparazione della spedizione contro l’Inghilterra. L’anno dopo (ossia nel 1588) comunque
l’Armada Invencible salpò verso le coste della Manica, composta da 130 navi, inclusi 22 galeoni e 4 galeazze
(tipo di grosse galee, a remi e a vela, con discreto numero di pezzi d’artiglieria, e già impiegate con successo dai
Veneziani nella battaglia di Lepanto), 19.000 soldati, 8.500 marinai e 2.400 pezzi d’artiglieria. Avrebbe dovuto
imbarcare l’esercito del duca di Parma e poi invadere l’Inghilterra. Una impresa temeraria, pressoché
impossibile. E infatti non riuscì. Gli Inglesi, benché disponessero di minore potenza di fuoco, avevano un
maggior numero di navi (197 di tutti i tipi), più rapide e manovriere dei galeoni nemici (che erano pure carichi di
soldati), e i cannoni inglesi avevano una gittata maggiore. Inoltre, operando vicino alle proprie basi, gli Inglesi,
a differenza degli Spagnoli, non avevano problemi di rifornimento. Ma il fattore decisivo fu la maggiore perizia
tattica dei marinai inglesi. Gli Inglesi rifiutarono di combattere come gli Spagnoli, che cercavano di speronare
le navi nemiche per poi abbordarle, ma sfruttarono il vento per arrivare a traverso delle navi spagnole e
smantellarle con l’artiglieria (in sostanza questa tattica consisteva nell’avvicinarsi alla nave avversaria sfruttando
il vento e colpendola prima con l’artiglieria di prua, poi con quella di una fiancata, infine ci si doveva allontanare
rapidamente sparando con l’artiglieria di poppa). Quando la flotta spagnola arrivò a Calais, in grave disordine
dopo essere stata bersagliata dal cattivo tempo, non poté imbarcare le truppe di Alessandro Farnese, che pure
aveva radunato uomini e navi per la spedizione in Inghilterra, dato che lo impedivano le navi olandesi. Dopo aver
subito un attacco di “brulotti incendiari” la notte del 7 agosto, gli Spagnoli dovettero prendere il largo e a
Gravelines trovarono gli Inglesi, che incendiarono il San Salvador e catturarono due altre navi, scompaginando
la flotta spagnola, che a questo punto decise di spingersi verso il Mare del Nord allo scopo di far ritorno in
Spagna, circumnavigando Inghilterra e Scozia, e passando poi ad ovest dell’Irlanda.
A settembre solo 63 navi poterono rientrare in Spagna. Enorme naturalmente era anche la perdita di uomini
e di marinai esperti. Ma la guerra con l’Inghilterra non terminò subito. Gli Inglesi, in particolare, temevano
che la Spagna potesse attivamente sostenere i ribelli cattolici dell’Irlanda (quelli inglesi erano stati sterminati
nel 1549). La ribellione contro l’occupazione inglese dell’isola era incominciata nel 1595. La corona inglese
inizialmente deteneva solo il controllo del Pale, ovvero dell’area intorno a Dublino. Poi Enrico VIII si era
proclamato re d’Irlanda, onde scoraggiare qualsiasi intervento di Roma o della Spagna a favore dei cattolici, e
l’estensione dell’area delle “piantagioni” inglesi cominciò ad ingrandirsi. Ne derivò una serie di sommosse
che culminarono con l’insurrezione dell’Ulster nel 1595, alla guida della quale vi era Hugh O’ Neill.
Quest’ultimo riuscì a mettere insieme un esercito di 10.000 uomini ben armati e addestrati a condurre delle
azioni di guerriglia350. Gli Inglesi allora affidarono il comando a Lord Mountjoy che non esitò a ricorrere alla
tattica della “terra bruciata” per cercare di affamare gli insorti. Eppure, anche se il nuovo comandante inglese
poteva contare su una superiorità numerica, il suo tentativo di invadere l’Ulster venne respinto presso Moyry
Pass (1600) dagli Irlandesi, che da posizioni ben fortificate fecero un ottimo uso dei loro moschetti. A questo
punto gli Spagnoli decisero di aiutare i ribelli occupando la fortezza di Kinsale, che venne però subito assediata
dagli Inglesi. O’Neill questa volta fece l’errore di cercare la battaglia decisiva combattendo alla maniera degli
Spagnoli. Il risultato fu che gli Irlandesi persero 1.200 soldati e O’Neill fu costretto alla resa (1603). Ma sul
mare, dopo la sconfitta dell’Armada spagnola, il corso della guerra non era stato più favorevole agli Inglesi.
Un tentativo di far sollevare il Portogallo contro la Spagna era fallito miseramente e alle Azzorre la flotta
inglese era stata messa in fuga da quella spagnola. Si arrivò così alla pace tra Spagna e Inghilterra nel 1604,
ossia cinque anni prima della tregua tra la Spagna e le Province Unite.
Nondimeno, la situazione in Europa rimaneva incandescente: la rivalità tra protestanti e cattolici era più
forte che mai e gli Asburgo, difensori dei cattolici, erano considerati ancora una minaccia da parte di tutti i
loro non pochi nemici; ma soprattutto la Spagna era vista come una potenza che ambiva ancora a conquistare
l’egemonia sul continente europeo. Mezzi, risorse ed energie non mancavano agli Spagnoli. La colonizzazione
350
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., p. 55.
126
dell’America, attuata attribuendo agli Spagnoli tutte le funzioni amministrative e riservando allo Stato il
monopolio del commercio con le colonie, aveva anche portato a criticare le disumane condizioni di vita degli
Indios, nei confronti dei quali nel 1542 vennero varate leggi (le nuevas leyes) improntate a un vero senso
umanitario, benché i coloni si opponessero tenacemente al punto da renderle di difficile applicazione. D’altro
canto, la Spagna aveva speso cifre enormi per la propria politica di potenza. I metalli preziosi affluivano
copiosamente nelle casse dello Stato, ma ne uscivano in fretta e in modo caotico. Il “bullionismo”, ovvero la
concezione secondo cui la ricchezza di un Paese dipendeva dalla quantità di metalli preziosi che possedeva,
innescò un’inflazione che penalizzò l’industria, già fortemente provata dall’espulsione dei moriscos (la ribellione,
nel 1566-70, dei musulmani rimasti - che avevano probabilmente solo fatto finta di convertirsi - fu repressa senza
pietà) e degli Ebrei (nel 1492 furono costretti a scegliere: o diventare cattolici o andarsene e circa 16.000
preferirono andarsene). Peraltro, veramente troppi erano gli ostacoli che la Spagna avrebbe dovuto superare
per creare un sistema fiscale efficiente, mentre la guerra divorava le ricchezze d’oltreoceano. Troppo vasto e
complesso l’impero da governare, troppo estesi e diversi i fronti su cui combattere. Lo spirito della
Controriforma poi era così radicato nella classe dirigente spagnola che ogni compromesso era considerato come
un cedimento imperdonabile. Tutto ciò rendeva estremamente complicato mantenere un “apparato bellico”
efficiente e al tempo stesso avere una economia solida e “fiorente”. Per di più, la pratica di ipotecare le entrate
dello Stato non aveva fatto altro che aggravare il problema del debito, dato che rendeva indispensabile la ricerca
di entrate straordinarie e di nuove tasse. Indicativo è il fatto che la Spagna dipendeva in buona misura dalle
importazioni di manufatti stranieri, tanto che «nel 1640, tre quarti delle merci che giungevano nei porti spagnoli
erano trasportate da navi olandesi», ossia dagli acerrimi nemici della Spagna351. Dal punto di vista geopolitico pare
ancora più significativa l’impossibilità di imporre all’Europa una sola “identità politico-culturale”, quale che essa fosse, a
scapito delle molteplici e complesse “differenze” che caratterizzavano il Vecchio Continente. Nessuna forza avrebbe
potuto costringere a stare insieme quel che insieme non poteva o voleva stare. Per questo occorreva un “salto
di qualità”, trovando un denominatore comune che tutti stimassero superiore agli interessi di parte. Nulla di
ciò però era possibile allora. Sicché, la parola passò di nuovo alle armi.
All’origine della guerra vi erano le tensioni politiche e religiose che “scuotevano” l’impero, rese ancora più
forti dalla posizione chiave della Germania negli equilibri europei. Causa occasionale del conflitto fu invece
l’elezione dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo a re di Boemia e la conseguente ribellione dei protestanti
(defenestrazione di Praga del 1618), che prima subirono una devastante sconfitta nella battaglia della Montagna
Bianca presso Praga; poi, benché aiutati dagli Olandesi, vennero nuovamente sconfitti da Tilly nel Palatinato.
(1623). Né l’intervento di Cristiano IV di Danimarca risollevò le sorti dei protestanti, che nel 1626 furono
battuti, presso il ponte di Dessau, da Wallenstein, che aveva offerto all’imperatore di impiegare delle proprie
truppe, a condizione che potessero rifornirsi a spese della regione in cui operavano (Wallenstein si trovò così al
comando di un esercito imperiale di 30.000 uomini, saliti poi a 50.000). I Danesi vennero sconfitti da Tilly e
in poco tempo Wallenstein riconquistò la Germania settentrionale, costringendo i Danesi ad accettare la pace di
Lubecca nel 1629. Wallenstein aveva salvato l’impero, grazie anche alla sua libertà d’azione, che presupponeva
che lo Stato non avesse quel controllo degli “affari militari” che avrebbe acquistato cinquant’anni dopo.
La vittoria degli imperiali complicava non poco però il problema degli equilibri europei, la Francia
aspirando ormai a diventare la potenza egemone del Vecchio Continente. Dopo un’epoca di disordini, in cui
venne dissipata la ricchezza ammassata da Sully, che aveva saputo riordinare le finanze dello Stato e
incrementare lo sviluppo del commercio352, la politica francese adesso era dominata dalla forte personalità del
cardinale Richelieu, il quale non solo riuscì ad imporsi, con metodi spietati, alla nobiltà riottosa e a far valere
l’autorità dello Stato rispetto alle contese private, ma sconfisse gli ugonotti, prendendo la roccaforte di La
Rochelle (1627-28). E saggiamente fece la pace con gli Inglesi di modo che si astenessero dall’intervenire in
favore degli ugonotti. Il vero scopo di Richelieu era di trarre il massimo profitto dalla guerra in corso, cosicché,
dopo la Pace di Lubecca, si adoperò per far intervenire contro gli imperiali il re di Svezia, Gustavo Adolfo.
Impegnata contro una coalizione formata da Danimarca, Russia e Polonia, la Svezia era riuscita a concludere la
pace con la Danimarca (1613) e poi (1617) con la Russia (cui aveva sottratto l’Estonia e la Carelia orientale),
potendo affrontare così solo la Polonia e conquistare Riga e i porti della Prussia occidentale. Ma la diplomazia
francese seppe lavorare assai bene, facendo prima firmare alla Svezia la tregua di Altmark (1629) - che mise
fine alle ostilità con i Polacchi e assegnò agli Svedesi gran parte della Livonia (in attesa di una definizione della
vertenza sui porti prussiani) - e poi il trattato di Bärwald (1631), con cui Gustavo Adolfo si impegnò a muovere
guerra contro gli Asburgo, in cambio di un notevole aiuto finanziario da parte francese. Frattanto, gli animi in
351
P. Kennedy, op. cit., p. 101. Ma questa politica di tolleranza verso gli Olandesi venne spesso cambiata (ivi, p. 735).
Anche l’industria francese nacque per volontà dello Stato, che si occupò di richiamare artefici specializzati dall’estero, cercando di strappare agli
Italiani il controllo dell’industria serica (vedi G. Spini, op. cit., pp. 444-445).
352
127
Germania si erano ancora più infiammati con l’Editto di Restituzione (1629) con cui si ordinava la restituzione
di tutti i beni ecclesiastici presi dai protestanti dal 1559 in poi. La Lega cattolica mandò il suo esercito nella
Germania settentrionale per far rispettare l’Editto, anche se venne sciolto l’esercito di Wallenstein, le cui
ruberie colossali non erano più tollerate. L’esercito di Tilly pose l’assedio a Magdeburgo, roccaforte dei
protestanti, che si concluse nel 1631 con un saccheggio tra i più spaventosi che si ricordino: gli abitanti, tranne
poche migliaia vennero massacrati, le donne inchiodate alle panche delle chiese luterane e bruciate con esse.
Nemmeno i bambini vennero risparmiati. E la tragedia immane ebbe l’effetto di porre fine alle esitazioni dei principi
protestanti La Sassonia e il Brandeburgo decisero di accogliere le richieste degli Svedesi, che dopo avere inflitto
una durissima sconfitta a Tilly nella battaglia di Breteinfeld (combattuta nel novembre del 1631), attraversarono
tutta la Germania, arrivarono nella Renania, presero Francoforte e invasero il Palatinato. Perfino Tilly perse la
vita sul Lech tentando invano di impedire l’invasione della Baviera. I Sassoni nel frattempo invadevano la
Boemia, arrivando ad occupare la stessa Praga, mentre Gustavo Adolfo con una serie di trattati di amicizia, che
prevedevano anche l’introduzione di una moneta coniata con il rame svedese, mirava a creare un’area economica
dominata dalla Svezia. Sembrava adesso perciò che solo Wallenstein, richiamato in servizio d’urgenza, potesse
fermare gli Svedesi. Seguirono mesi di manovre e contromanovre finché gli eserciti dei due condottieri si
scontrarono, in una nebbiosa giornata del novembre 1632, a Lützen, presso Lipsia. La battaglia fu indecisa fino
all’ultimo, allorché in una carica di cavalleria perse la vita lo stesso Gustavo Adolfo, colpito involontariamente
dai suoi uomini, che conquistarono infine la vittoria sia pur di stretta misura.
Lo straordinario successo dell’esercito svedese si dovette certo alle riforme attuate da Gustavo Adolfo, che
tenne conto, pur sviluppandole secondo nuovi principi, delle riforme militari di Maurizio di Nassau. In primo
luogo, l’esercito svedese era basato sulla coscrizione nazionale, configurandosi come un esercito permanente,
armato ed equipaggiato dallo Stato, benché, a causa dello scarso numero degli Svedesi, includesse anche
numerosi mercenari, in specie tedeschi e scozzesi. Di fondamentale importanza era l’artiglieria, cui Gustavo
Adolfo prestò grande attenzione, avvalendosi della collaborazione dell’industriale, finanziere e mercante Louis de
Geer e di un brillante ufficiale, Torstensson. Per la prima volta l’artiglieria da campagna era nettamente distinta
da quella d’assedio e vennero assegnati due o tre pezzi da tre libbre ad ogni squadrone (l’equivalente del
battaglione olandese), il che conferì maggiore manovrabilità e flessibilità all’esercito svedese, che era un “tutto
organico”, ben addestrato e ben inquadrato, con un ottimo corpo di ingegneri (ma gli uomini che lavoravano
nelle preziose industrie svedesi erano esentati dal servizio militare), un buon servizio sanitario ed efficienti
servizi logistici (ma questo non impedì che anche i soldati svedesi si dessero al saccheggio, dacché si era lontani
da quella centralizzazione ed efficienza che avrebbero contraddistinto i servizi logistici degli eserciti europei
dopo il 1660). Spirito di corpo e cameratismo erano altri aspetti essenziali, rinforzati da uniformi e distintivi.
Unità tattica fondamentale era la compagnia eq uattro compagnie formavano un battaglione, di oltre 500 uomini
(288 moschettieri e 216 picchieri) benché 100 moschettieri di solito fossero distaccati per altri compiti353. Due
battaglioni formavano un reggimento e da due a quattro reggimenti una brigata. Lo schieramento della fanteria
era su sei righe, ma la tattica era offensiva: se i moschettieri nell’esercito di Maurizio dopo avere sparato si
ritiravano per ricaricare le armi, mentre altri prendevano il loro posto, ora questi ultimi avanzavano e sparavano
a loro volta mentre i primi ricaricavano. In generale, sparavano tre righe: i soldati della prima linea inginocchiati,
quelli della seconda curvi e quelli della terza tra i varchi della seconda linea. Il moschetto era così leggero che non
era più necessaria la forcella e la picca venne accorciata (da cinque metri venne portata a tre metri e mezzo). I
picchieri nella “formazione a T” formavano un blocco centrale avanzato e altre unità di picchieri coprivano il
fianco dei moschettieri che potevano così attaccare con scariche micidiali il fronte nemico (come quelle dei
Giapponesi nella battaglia di Nagashino). Del tutto nuovo era il modo di combattere della cavalleria, dato che
i dragoni non erano che moschettieri montati il cui compito era anche quello di proteggere i corazzieri, i quali
dopo avere scaricato le loro armi (pistole) contro il fronte nemico, dovevano caricare lo schieramento avversario
con il maggiore impeto possibile e all’arma bianca. Non bisogna però pensare che mentre l’esercito olandese e
quello svedese adottavano nuove tattiche, gli eserciti degli altri contendenti continuassero ad impiegare grosse
e poco articolate formazioni. La disposizione e la composizione degli eserciti, invero, variavano a seconda delle
situazioni e del terreno. Peraltro, anche adesso capacità di manovra e flessibilità erano fattori fondamentali.
Spesso le vittorie furono anche (ma “non” solo) conseguenza di una netta superiorità numerica. A Lützen
Wallenstein ordinò alla propria cavalleria di fronteggiare quella svedese e i due eserciti contrapposti erano di
pari forza (19.000 uomini ciascuno), e anche questo spiega il motivo per cui lo scontro fu nella sostanza
inconcludente (l’esercito di Wallenstein si ritirò, ma le perdite furono gravi da ambo le parti).
Comunque sia, dopo la morte di Gustavo Adolfo, scomparve anche Wallenstein che, dopo essere riuscito a
sconfiggere gli Svedesi a Steinau, pare avesse tramato per diventare re di Boemia. Messo al bando dall’imperatore
353
Vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., p. 317.
128
e circondato ormai da avventurieri d’ogni risma (in specie irlandesi, scozzesi e inglesi), venne infine ucciso nel
1634 da due di costoro. Ciononostante, la guerra non terminò e a Nördlingen si confermò l’eccellenza
dell’esercito spagnolo: i tercios spagnoli, dopo aver resistito a 15 attacchi degli Svedesi, contrattaccarono
cogliendo un’altra vittoria. D’altronde, i limiti della potenza svedese erano evidenti. In confronto al numero di
abitanti dei più potenti Stati europei, la popolazione svedese era troppo esigua: 900.000 individui (cui si
possono aggiungere 250.000 Finlandesi), in buona parte contadini (circa il 95%) sparpagliati su un vastissimo
territorio, benché ricco di rame, ferro e legname354. Questa ricchezza venne sfruttata da un sistema assai
efficiente, basato su una nobiltà disposta a servire lo Stato, unificato anche sotto il punto di vista religioso. La
corona poté quindi avere una flotta sufficientemente forte da garantire la sicurezza del Paese e finanziare un
esercito numeroso e ben equipaggiato. Ma in definitiva l’esercito svedese dipendeva dall’aiuto dei Francesi e
aveva necessità che i territori in cui operava fornissero foraggio, alloggiamenti e cibo per decine di migliaia di
soldati. Allorché venne firmata la pace di Vestfalia l’esercito svedese stava facendo razzia in Boemia e si ritirò
solo grazie ad un cospicuo compenso. La Svezia era insomma, nonostante tutto, una potenza regionale e per
battere gli Spagnoli non bastava che una media potenza sostenesse i protestanti. Ma con l’entrata in guerra
della cattolica Francia contro la cattolica Spagna fu chiaro a chiunque che la lotta non era più (solo) religiosa,
ma era una lotta per la supremazia in Europa.
Anche gli Svedesi comunque continuarono a combattere contro gli imperiali, cogliendo alcuni successi e
solo un nuovo conflitto con i Danesi (1643-45) impedì loro di marciare su Vienna. Ma ormai anche i Francesi,
dopo una serie di sconfitte, cominciarono a mietere successi. Nel 1642 occuparono il Rossiglione e nel 1643
Condé riuscì addirittura a sbaragliare in campo aperto gli Spagnoli, infiggendo a Rocroi (vicino a Sedan) un colpo
durissimo al prestigio militare della Spagna. Ciononostante, la Spagna si riprese rapidamente, ragion per cui non
si deve sopravvalutare l’importanza di questo successo delle armi francesi. I Francesi vennero sconfitti più
volte, ma approfittarono di una rivolta nel 1640 in Catalogna (scoppiata contro il dispotismo dell’Olivares),
cogliendo una vittoria importante con la conquista di Perpignan (1642). Un altro duro colpo per la Spagna fu la
ribellione del Portogallo che, con l’aiuto di Richelieu, si rese nuovamente indipendente nel 1640. Inoltre, nel
1645 lo svedese Torstensson vinse a Jankov e i Francesi colsero un brillante successo ad Allerheim, anche se non
riuscirono a marciare su Vienna come speravano. Due anni dopo, Svedesi e Francesi invasero la Baviera e
sbaragliarono un esercito austro-bavarese a Zusmarshausen (1648). L’imperatore venne allora costretto a firmare
la pace di Vestfalia (1648), che pose fine alla guerra dei trent’anni e riconobbe l’indipendenza delle Province
Unite dalla Spagna e della Confederazione svizzera dall’Impero, ma non mise fine alla guerra franco-spagnola
che durò ancora alcuni anni.
I Francesi a Lens (1648) inflissero un’altra severa sconfitta agli Spagnoli (sempre grazie alla loro cavalleria),
ma gli Spagnoli trassero vantaggio dai disordini civili (noti come la Fronda) scoppiati in Francia nel 1648, e
originatisi dal fatto che la nobiltà e il Parlamento cercarono di approfittare della minore età di Luigi XIV per
limitare il potere della corona355. Anche i tentativi di Mazarino di estendere l’influenza francese in Lombardia
furono nettamente frustrati dagli Spagnoli. Mazarino però era deciso a “liquidare” definitivamente la potenza
della Spagna, al punto che non rinunciò a servirsi degli Inglesi per riuscirvi. E l’intervento inglese mutò
radicalmente il rapporto di forza: «Blake sbaragliò la flotta avversaria alle Canarie (1657), mentre l’esercito
puritano sbarcato sul continente disfece […] gli Spagnoli nella battaglia delle Dune (1658)»356. Si giunse così
alla pace dei Pirenei, che vide la Francia prendere il posto della Spagna come maggiore potenza continentale.
Certo non si trattò di un improvviso collasso politico-militare della Spagna. Si deve tener presente che nella
stessa battaglia delle Dune, gli Spagnoli erano numericamente inferiori, l’artiglieria non era arrivata sul campo di
battaglia, il terreno non favoriva la loro cavalleria (superiore di numero) e l’esercito spagnolo ebbe pure a subire
un bombardamento sul fianco da parte dell’artiglieria navale inglese357. Eppure, è innegabile che la fine della
guerra sanciva il declino della Spagna e l’ascesa della Francia358. La pace dei Pirenei completava sotto il profilo
diplomatico la pace di Vestfalia, che non solo gettò le basi per un ordinamento dell’Europa che a grandi linee
rimase in vigore fino a Napoleone, ma che si considera come l’atto di nascita di un equilibrio europeo che si
sarebbe successivamente consolidato con la pace di Utrecht. Atto di nascita cioè del moderno Stato nazionale
354
Vedi P. Kennedy, op. cit., pp. 114-115.
355
Turenne, abbandonata la Fronda e passato dalla parte della regina, riuscì a sconfiggere Condé, che dovette rifugiarsi in Spagna; la Fronda terminò
comunque nel 1653 con il rafforzamento del potere monarchico, che si mostrò capace di rappresentare una guida sicura per il Paese mettendo fine
all’anarchia (i rivoltosi cercarono di resistere a Bordeaux, ma ben poco poterono fare contro l’esercito regolare).
356
G. Spini, op. cit., p. 692.
357
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., p. 77
Tutto cospirava a trascinare nel baratro la Spagna ora che il fiume dell’argento americano cominciava ad inaridirsi (vedi G. Spini, op. cit., p.584).
Una catastrofe anche per l’Italia, ove l’oligarchia genovese già “pagava” le conseguenze della sconfitta nella guerra dei trent’anni, aggravate
dall’insediamento dei Francesi a Casale.
358
129
europeo, caratterizzato dalla detenzione da parte dello Stato del monopolio dell’uso legittimo della forza e di
conseguenza dalla presenza di un esercito permanente, che si avvaleva di un complesso sistema di magazzini e
depositi, e di un corpo ufficiali affidabile (composto perlopiù dalla piccola nobiltà). Si veniva quindi a
configurare quello jus publicum europaeum che avrebbe contraddistinto l’Europa fino alla Grande guerra
(nonostante alcune “fratture” durante la rivoluzione francese e il periodo delle guerre napoleoniche), un niovo
ordinamento spaziale che si lasciò alle spalle definitivamente la “guerra giusta” della respublica christiana, segnando il
passaggio da una sistema di pensiero ecclesiastico-teologico ad uno giuridico-statale359. Ma ordinamento
spaziale tanto più necessario dopo la guerra dei trent’anni in cui si erano compiuti delitti, stragi e scelleratezze
d’ogni genere (basti pensare che l’impero vide crollare la popolazione da 20 milioni nel 1618 a 15/16 milioni nel
1650)360. Il nemico (lo Stato) contro cui si muoveva guerra adesso era considerato justus hostis, essendo legittima
ogni guerra interstatale condotta da sovrani che sul piano del diritto erano eguali. Con la nozione tipicamente
giuridico-formale dello justus hostis la guerra venne “messa in forma”, “razionalizzata” e “umanizzata”, e
netta divenne la distinzione tra combattenti e non combattenti. La guerra tendeva ad assumere così il carattere
di un duello. Infatti, un duello «non è giusto perché in esso vince sempre la causa giusta, ma perché nella tutela
della forma sono assicurate determinate garanzie […] l’osservanza di una determinate procedura […] giusta
nel senso del diritto internazionale europeo dell’epoca interstatale è pertanto ogni guerra interstatale che sia
condotta da eserciti militarmente organizzati appartenenti a Stati riconosciuti dal diritto internazionale europeo
sul suolo europeo e secondo le regole del diritto bellico europeo»361. Elemento di continuità quindi e non di
rottura rispetto al Medioevo è la discriminazione spaziale tra l’area dei “popoli civili e quella dei “barbari” (verso
questi ultimi le guerre sarebbero state condotte senza limiti e con ogni mezzo).
L’espansionismo europeo e il New Model Army. Nel continente africano, prima dell’introduzione delle armi da
fuoco, il modo tipico di fare la guerra consisteva nel muovere contro un esercito nemico in ordine chiuso, con i
lanciatori di giavellotto davanti e gli arcieri dietro. I giavellotti potevano essere scagliati contro i nemici o usati
come picche e spesso vi erano duelli tra i soldati (armati anche di spade) delle prime file dei due eserciti
contrapposti. Sarebbe del tutto errato però ritenere che in Africa non vi fossero prima dell’arrivo degli Europei
degli imperi ricchi e potenti. Basti pensare all’impero del Ghana che oppose una strenua resistenza alla dinastia
berbera degli Almoravidi, che solo nel 1076 riuscirono a conquistare e mettere sacco la capitale del Ghana; o
all’impero del Mali o al Songhai. Il primo si estendeva dalla «capitale di Niani sull’Alto Niger, fino all’Atlantico
a ovest […] e a est, lungo la valle del Niger, sino ai confini dello Hausaland. Fra i suoi vassalli principali c’erano
i re del Songhai che monopolizzarono le attività di pesca e di trasporto sulle canoe lungo il medio corso del
Niger»362. Il controllo dei Songhai permetteva al Mali di avere accesso alle basi meridionali del commercio
transahariano, quali Timbuctù e Gao. Ma i Songhai, che aspiravano a liberarsi da questo giogo, alla fine
sconfissero il Mali e il risultato finale di tale conflitto fu un impero ancora più vasto. Nel XVII secolo anche in
Africa cominciarono a diffondersi le armi da fuoco, gli eserciti diventarono più grandi e le guerre adesso
potevano durare più tempo e interessare aree più vaste. Questo nuovo modo di fare la guerra favorì l’ascesa del
regno di Ashanti (l’odierno Ghana) e del Dahomey. Ma oltre ai conflitti tra Africani, vi erano naturalmente
quelli tra non Africani e Africani. In particolare, furono i Portoghesi che fondarono importanti colonie in
Angola e Mozambico e da qui si spinsero verso lo Zambesi per cercare di sottomettere il regno di Monomotapa
(nell’odierno Zimbabwe). La scarsa celerità di tiro dei moschetti e la capacità dei guerrieri africani di combattere
in ordine aperto, di modo da non essere un facile bersaglio per i moschettieri, rappresentarono un ostacolo
insuperabile per i Portoghesi che cercavano di stabilirsi nell’alto corso dello Zambesi. Anche la vittoria contro il
Congo fu favorita da una guerra civile che divideva gli Africani (e la vittoria portoghese a Mbumbi nel 1622 fu
frutto della soverchiante superiorità numerica degli Europei). I Portoghesi erano effettivamente superiori solo
se potevano avvalersi di alleati africani. Il loro esercito in Angola era di fatto un esercito africano con ufficiali e
alcuni soldati europei. Senza la fanteria leggera africana, le forze portoghesi potevano andare incontro a dure
sconfitte come accadde a Ngolomenc nel 1644, allorquando i Portoghesi vennero battuti dalle truppe della
regina dello Ndongo, Nzinga. La stessa regione centrale dell’Angola non venne conquistata prima del tardo
Ottocento. Ma scontri vi furono anche tra Europei, dato che i domini portoghesi ora facevano parte dell’impero
359
Sullo jus publicum europaeum, fondamentale, ovviamente, è C. Schmitt, Il Nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991. Per quanto concerne la
“messa in forma” della guerra in Europa, vi furono ancora violenze e saccheggi nella seconda metà del Seicento, ma è indubbio che tra il 1688 e il 1792
la barbarie della guerra fu ridotta a un livello relativamente basso.
360
Vedi G. Parker, La guerra dei trent’anni, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 337-338. Un tale calo dipese essenzialmente dalle epidemie e dalla
mancanza di cibo (in particolare nelle regioni in cui operavano gli eserciti che si mantenevano con il saccheggio e le razzie).
361
C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., pp. 167-168.
362
R. Oliver, J. D. Fage, Breve storia dell’Africa, Einaudi, Torino, 1974, p. 84.
130
spagnolo contro cui combattevano gli Olandesi. Nel 1640 questi ultimi espulsero i Portoghesi dal capo di Buona
Speranza e a partire dal 1652 cominciò la colonizzazione da parte dei Boeri che, sulla base di una
“interpretazione calvinista” della Bibbia, si ritenevano “in diritto” di dominare sulle popolazioni locali
(Boscimani e Ottentotti furono decimati e in seguito i Boeri si scontrarono pure con i Cafri). Gli Olandesi
conquistarono anche la base di Elmina sulla Costa d’Avorio nel 1637 e in seguito presero altre basi, che vennero
però riconquistate dai Portoghesi nel 1648. La lotta tra Europei era dovuta in primo luogo al controllo del
commercio di schiavi della Guinea: i negrieri inglesi s’insediarono alle foci del Gambia (1618) e nel Senegambia
(1631), i Francesi del Richelieu giunsero nel Senegal (1638) e gli Olandesi si stabilirono sull’isola di Gorea, al
largo del Capo Verde. Dapprima l’impiego di schiavi fu limitato alla zona zuccheriera dal Brasile a Cuba,
successivamente si sarebbe esteso fino in America settentrionale. Alla lotta per il controllo dello zucchero, del
tabacco e poi del cotone si aggiunse quella più terribile e ignominiosa per il controllo del commercio del
cosiddetto “avorio nero”, che fu la fonte di guadagno principale degli Europei in Africa e raggiunse il massimo
sviluppo nella seconda metà del XVII secolo, in seguito alla richiesta di manodopera destinata alle piantagioni del
Nuovo Mondo. Si venne quindi a creare un traffico commerciale particolare tra l’Africa e l’America: rum
fabbricato nelle distillerie europee o nordamericane finiva in Africa, per essere scambiato con schiavi negri che
venivano venduti in cambio di melasse che si dovevano trasformare in rum. E il ciclo commerciale ricominciava,
con i vascelli europei che portavano carichi di schiavi negri nel continente americano.
Tuttavia, bisogna distinguere le vicende dell’America settentrionale da quelle del resto del continente
americano. Nell’area dominata dalla Spagna, alla politica di conquista si sostituì progressivamente quella della
población, di modo che alla fine del XVI secolo si contava già una popolazione spagnola di 200.000 anime. I
cacciatori d’oro e d’argento lasciarono il posto ai latifondisti e ai grandi allevatori; si giunse così al sistema
denominato dell’encomienda, basato sulla riduzione in schiavitù dei peones indigeni. A questo sistema, che
suscitava non poca indignazione e raccapriccio anche tra i cattolici, si opposero i gesuiti con la creazione (in
Paraguay) di una sorta di Stato “comunistico”, simile al modello descritto da Campanella nella Città del Sole. Qui
i gesuiti non solo abolirono ogni tipo d’oppressione coloniale e difesero gli Indios dai mercanti di schiavi
portoghesi, ma organizzarono una trentina di reducciones in cui concentrarono un centinaio di migliaia di Indios
che dovevano lavorare la terra, allevare bestiame o svolgere mestieri artigianali sotto la direzione attenta di un
centinaio di sacerdoti, i quali raccoglievano i frutti di questo lavoro (la proprietà del suolo era comune e quella
privata delle famiglie ridotta al minimo: vestiario, oggetti personali, etc.), per distribuirli equamente tra le varie
famiglie indigene, e istruivano ed “educavano” gli indigeni, onde evitare che sorgessero egoismi, rivalità e
brama di ricchezze. Il lavoro era obbligatorio ma limitato ad otto ore al giorno, e i compensi erano in natura. I
gesuiti fecero anche del guaraní una lingua scritta, creando numerose tipografe e conservando una cultura
indigena che dura fino ai nostri giorni. Era un mondo certo “chiuso”, ma contraddistinto da un profondo senso
di giustizia, nonostante la presenza di un muro invalicabile tra sacerdoti e indigeni, dato che nessuno di questi
ultimi poté diventare membro del gruppo dominante, composto appunto solo da gesuiti. Malgrado ciò, i
Guaraní, guidati dai sacerdoti, seppero respingere un attacco dei Portoghesi nel 1641 e si difesero
accanitamente anche nella metà del XVIII, allorché gli Spagnoli concessero sette reducciones ai Portoghesi, tanto
che fu necessaria una guerra di sei anni per aver ragione della loro resistenza (1750-56). Ma lo Stato del Paraguay
sarebbe scomparso solo con lo scioglimento della Compagnia nel 1767. Allora la maggior parte dei Guaraní
venne sterminata o ridotta in schiavitù.
Accanto all’America spagnola vi era anche un Brasile portoghese, ricco di piantagioni di canna saccarifera.
Ovvero una terra che faceva gola al “mercante olandese” che tentò la grande impresa di prendere tutto il Paese.
E in effetti il Brasile olandese dal 1635 in poi si andò rapidamente espandendo, da Maranaho a Recife, grazie
anche all’appoggio degli Ebrei di origine iberica, che disponevano di attrezzature industriali e di notevole
esperienza in fatto di zucchero. Ma il Brasile olandese ebbe vita breve. Troppo esosi e intolleranti, i nuovi
padroni dovettero affrontare una insurrezione guidata da un valoroso meticcio, Vieria, e dopo una lunga lotta
(1647-61) gli Olandesi vennero spazzati via dal Brasile, che tornò quindi sotto il dominio dei Portoghesi.
Ciononostante, gli Olandesi rimasero insieme con gli zuccherieri ebrei, nel Surinam e nelle isole vicine, tra
cui Curaçao, e le loro navi continuarono a “scorrazzare” in questo tratto di mare. Ma non vi erano solo le navi
degli Olandesi. Nelle Antille infatti si era formata una sorta di malavita oceanica, denominata la Filibusta,
formata da “lupi di mare” francesi e inglesi, che razziavano o trafficavano di contrabbando. Parecchi di loro,
invero, si procacciavano da vivere anche in altro modo. Nelle Antille, ricche di piante commestibili ignote agli
Europei, i buoi portati dagli Spagnoli si erano moltiplicati, cosicché era diventato redditizio cacciare i buoi
selvatici (bucan, da cui deriva il termine “bucaniere”) per venderne le pelli agli Olandesi (denominati i “carrettieri
del mare”). Ma un buon numero di Europei si insediarono in questa zona perché attratti dai guadagni che si
potevano realizzare con la canna da zucchero. Sotto Richelieu venne fondata la Compagnia delle isole
d’America e nel 1642 vi erano già 7.000 Francesi, benché i bianchi delle Antille fossero in tutto 15/16.000 con
131
oltre 12.000 schiavi negri, impiegati perlopiù nelle piantagioni di canna da zucchero. Il fatto è che gli sforzi di
Richelieu come quelli posteriori di Colbert (che difese un mercantilismo “duro” contribuendo, senza ombra di
dubbio, allo sviluppo della manifattura e del commercio francesi), aventi lo scopo di promuovere la fondazione
di nuove colonie, urtavano contro la scarsa propensione dei Francesi all’espatrio, cosicché le colonie francesi
non furono colonie di popolamento in senso stretto, a differenza di quelle inglesi in America settentrionale.
Qui, in Virginia, nel 1607, ossia dopo l’arrivo degli “avventurieri” del tempo della regina Elisabetta, sbarcò
un gruppo di coloni il cui sogno era quello di trovare l’oro o il favoloso passaggio di Nord-ovest. Non trovarono
né l’uno né l’altro, bensì delle preziose foglie di tabacco, che fecero rapidamente prosperare la piccola colonia,
nella quale, nel 1619, sorse anche un embrione di autogoverno con una assemblea rappresentativa autorizzata
dalla Compagnia della Virginia. Nel 1620 arrivarono, a bordo della Mayflower, i cosiddetti “Pilgrim Fathers”, 102
emigranti in tutto, con un buon numero di fanatici puritani. E nel 1626 nacque anche la Compagnia del
Massachusetts, di cui si impossessarono presto gli affaristi puritani. Il conflitto con gli indigeni, che
difendevano la propria terra, era comunque cominciato subito. Già nel 1607 i coloni dovettero respingere un
attacco degli Indiani che cercavano disperatamente di difendersi dall’aggressività dei coloni britannici. L’attacco
venne condotto con decisione e causò 357 vittime, un quinto dei membri della piccola comunità britannica. Ma
i rapporti di forza tra coloni e indigeni rimasero in sostanziale equilibrio fino al secolo seguente. Anche gli
Spagnoli, tuttavia, avanzarono nell’America settentrionale a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento. Dopo aver
occupato la zona dell’alto corso del Rio Grande nel 1598, si spinsero nella California meridionale e alla fine del
XVII secolo si stabilirono anche in Florida, a Pensacola.
Furono però i Francesi a incontrare la resistenza più forte quando si addentrarono nella regione di San
Lorenzo. Il comandante della spedizione francese decise allora di appoggiare gli Uroni e gli Algonchini, che
erano in guerra con gli Irochesi (il motivo del confitto era il controllo del commercio delle pellicce di castoro; i
cacciatori di queste pellicce erano dei nativi americani che risiedevano oltre la regione dei Grandi Laghi, mentre
gli Uroni e gli Algonchini svolgevano un ruolo di intermediari). Svaniva così il sogno di un’integrazione
pacifica tra nativi e Francesi. Un sogno, si badi, che gli Inglesi, a differenza dei Francesi, non ebbero mai,
comportandosi anche in questo continente secondo quella marcata “attitudine razzista” che ha sempre portato
gli Anglosassoni a rifiutare di integrarsi con altri popoli, compresi quelli da loro soggiogati. Comunque sia, nel
1645, la tribù dei Mohawk, indubbiamente la più forte tribù indiana (appartenente alla confederazione delle tribù
irochesi) nell’intera zona, dopo aver attaccato e sconfitto anche una forza composta da coloni olandesi e
Algonchini nel 1645 costrinse i Francesi ad abbandonare il Forte Richelieu363. Ciò malgrado la presenza degli
Europei e l’aumento dei traffici commerciali che ne derivò (come quello delle pellicce) fomentavano nuove
discordie tra le tribù indigene. D’altra parte, i mercanti olandesi non si astennero dal vendere delle armi da fuoco
agli Amerindiani e di conseguenza anche i Francesi cominciarono a distribuire armi da fuoco alle tribù indigene
loro alleate. E quando i Mohawk, provvisti di almeno 800 moschetti forniti loro dagli Olandesi, sterminarono i
loro nemici tra cui gli Uroni (già indeboliti da un’epidemia di vaiolo), i Francesi si risolsero a sferrare
un’offensiva (1665) contro tutte le tribù degli Irochesi costringendo quattro delle quali a chiedere la pace. Invece
i Mohawk, che aveano cercato di resistere, furono massacrati: un piccolo esercito composto di 600 soldati
regolari, oltre a 600 miliziani e 100 Indiani, distrusse i quattro principali villaggi dei Mohawk, bruciando il loro
raccolto e costringendoli alla resa. Gli Inglesi però riuscirono ancora a sobillare gli Irochesi contro i coloni
francesi, causando a questi ultimi non poche difficoltà. Ricevuti dei rinforzi dalla madrepatria, i Francesi furono
però in grado riprendere l’iniziativa: in un raid compiuto nell’inverno del 1693 distrussero nuovamente i villaggi
dei Mohawk e tre anni dopo pure quelli degli Onondaga e degli Oneida, costringendo gli Irochesi a venire a
patti (1701). In questi scontri le imboscate e i raids si erano dimostrati essere la tattica vincente. Fondamentale
era anche la capacità di muoversi in un terreno sconosciuto agli Europei, i quali peraltro erano in competizione
anche tra di loro. La rivalità maggiore era quella tra Francesi e Inglesi, i quali cercarono perfino di affamare il
Québec francese, mentre la lotta divampava nella regione dell’Hudson e nella Nuova Scozia. Nel 1686 i Francesi
comunque sferrarono un colpo durissimo agli Inglesi a James Bay, catturando diversi forti e 50.000 castori, che
erano essenziali per il commercio delle pellicce364. Gli Inglesi ripresero Fort Albany ma due attacchi contro il
Québec francese fallirono (il primo nel 1690, il secondo nel 1701). Le colonie inglesi crescevano però assai
più rapidamente di quelle francesi e ciò fu indubbiamente un fattore cruciale nel conflitto anglo-francese in
America settentrionale durante metà del secolo XVIII.
Di non minore importanza dell’espansione occidentale in Africa e in America fu la crescita della potenza
della Russia in questo periodo, finché “emerse”, all’inizio del XVIII, come grande potenza continentale. Dopo
363
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., p. 44.
364
Ivi, p. 45.
132
essersi liberata definitivamente del giogo tartaro365, la Russia stabilì relazioni diplomatiche con vari Paesi
europei avviandosi ad essere retta da un’autocrazia, giacché il sovrano russo si riteneva l’erede del basileus
bizantino (il granduca di Mosca Ivan III aveva sposato nel 1472 la nipote dell’ultimo imperatore di
Costantinopoli), considerandosi di conseguenza, con il sostegno dei suoi teologi, il difensore supremo della
religione ortodossa. Questa politica, insieme con quella tesa all’unificazione nazionale (nel 1493 Ivan III si
proclamò zar di tutte le Russie)366, portò ad una rigida sottomissione della nobiltà dei boiari, per limitare il
potere dei quali la corona cercò di diminuire le terre ereditarie, promuovendo la nascita di una nobiltà di servizio
(ossia di funzionari ed ufficiali al servizio della corona), mediante l’assegnazione di terre in concessione
vitalizia. In questo modo i contadini vennero a trovarsi nella condizione di servi della gleba, dacché ora non
potevano più abbandonare le terre della nobiltà di servizio, e passavano da un assegnatario all’altro con la terra
da essi lavorata. Con Ivan IV, detto il Terribile, questa politica si rafforzò, anche se durante la sua giovinezza i
boiari dominavano lo Stato attraverso la duma. Preso il titolo di zar nel 1547, Ivan il Terribile si impegnò in una
dura lotta contro l’aristocrazia magnatizia e intraprese una serie di riforme per una vasta riorganizzazione dello
Stato, tra le quali si deve annoverare l’istituzione del corpo degli streltzy (un embrione di esercito regolare),
il rafforzamento dell’apparato amministrativo e la creazione di una legislazione uniforme. In questa politica lo
zar si appoggiò anche al popolo convocando lo zemskij sobor (una sorta di “Stati generali”), e adottò delle misure
che portarono alla nascita di una borghesia mercantile (con una propria organizzazione corporativa), facendo
buona accoglienza agli Inglesi della “Muscovy Company”. Naturalmente, adesso per la Russia era vitale sbarazzarsi
del dominio teutonico sulla Livonia. Nel 1558 i Russi quindi presero d’assalto Narva e poi Polotsk, ma vennero
fermati dai Lituani sei anni dopo. Nella zona del Baltico la Russia doveva confrontarsi con tre altre potenze: la
Danimarca, la Svezia e la Polonia (benché quest’ultima in quanto cattolica si contrapponesse alle altre due,
entrambe protestanti). Dopo la conquista della maggior parte della Livonia, l’esercito russo venne sconfitto da
una coalizione polacco-svedese nella battaglia di Wenden (1578); poi gli Svedesi avvalendosi di un abile
mercenario francese, Pontus de la Gardie, attraversarono il Golfo di Finlandia che era ghiacciato,
conquistarono Wesenber nel 1581, ripresero Narva, massacrandone gli abitanti, ed entro la fine dell’anno erano
padroni dell’Estonia. Nel frattempo i Polacchi riconquistarono Polotsk nel 1571 e riuscirono pure a conquistare
sia Velikie Luki che Cholm, venendo fermati solo davanti a Pskov (1581). Lo zar fu costretto prima a firmare la
pace con i Polacchi, poi ad una tregua con gli Svedesi. Ma alla scadenza della tregua, nel 1590, la guerra con la
Svezia riprese. Un attacco svedese in direzione di Novgorod fallì, anche se la guerra si estese fino alla costa
del Mar Bianco, senza che gli Svedesi fossero in grado di occupare la penisola di Kola. Il trattato di Teusina
nel 1595 mise fine a questo conflitto e i Russi dovettero rinunciare all’Estonia e a Narva, ma gli Svedesi
restituirono ai Russi l’Ingria (poi nuovamente ceduta agli Svedesi).
Le truppe russe in questi anni non furono impegnate solo in numerosi conflitti nell’area del Baltico. Infatti,
sotto Ivan il Terribile i Russi cominciarono ad espandersi verso la zona del Volga, dapprima conquistando il
Canato di Kazan. Dopo la caduta di Kazan367 i Russi presero di mira anche Astrakan, che conquistarono grazie
all’aiuto dei Nogai, una popolazione che viveva nel Caucaso settentrionale. Nel 1571 però i Russi vennero
attaccati dal khan di Crimea, Devlet Girej, che giunse fino a Mosca, benché venisse ricacciato indietro dallo
zar (l’incursione di Devlet Girej indusse Ivan IV ad abolire l’istituto dell’opričnina e a sciogliere le truppe degli
opričniki). In ogni caso, con la presa di Kazan e di Astrakan i khan mongoli furono severamente indeboliti e la
successiva campagna militare di Ermak in Siberia segnò l’espansione russa in quella regione. Nella
colonizzazione della Siberia il “ gap” tecnologico fu essenziale, se non determinante: l’uso di cannoni e la
costruzione di forti muniti di artiglieria diedero ai Russi la possibilità di avere la meglio sulle (assai disorganizzate)
365
I Russi furono quindi sottomessi dai Mongoli, ai quali dovevano pagare un pesante tributo. Nel 1326 il metropolita ortodosso però fissò la sua sede
a Mosca che divenne così il centro politico e spirituale della Russia. E fu appunto il principe di Mosca, Dmitrij Donskoj, che inflisse una netta sconfitta
ai Mongoli nel 1380 nella battaglia di Kulikovo. Ma la lotta dei Russi contro i Mongoli durò ancora un secolo, mentre già Dmitrij Donskoj dovette
subire l’umiliazione di pagare un tributo a un luogotenente di Tamerlano che diede alle fiamme la stessa Mosca. Fu solo nel 1476 che Mosca, sotto Ivan
III, smise definitivamente di pagare il tributo all’Orda d’Oro.
366
Nel 1478 il granducato di Mosca aveva potuto annettere Novgorod, che nel 1471 aveva subito una grave sconfitta ad opera Ivan III sul fiume Shelon,
e sette anni dopo venne annessa pure Tver.
367
La presa di Kazan nel 1552 costituisce uno dei momenti topici del capolavoro del regista Sergej M. Ejzenštejn Ivan il Terribile, con lo zar che guida
l’esercito fino alla sua visione ieratica sulla collina di fronte alla città, prima della sua conquista. Di Ejzenštejn è anche il film Aleksandr Nevskij, che
racconta la vittoria nel 1242 del principe russo – così chiamato per aver sconfitto due anni prima sulla Neva gli Svedesi, impiegando una forza mista di
cavalleria e fanteria (difatti il ruolo della fanteria era diventato maggiore in questi anni) - nella cosiddetta “battaglia sul ghiaccio” (sul Lago Peipus)
contro i cavalieri teutonici (peraltro, nel 1268 le forze russe di Novgorod e Pskov avrebbero battuto di nuovo i cavalieri teutonici nella battaglia di
Rakovor o Wesenberg). Questi ultimi raggiunsero l’apogeo della loro potenza nel XIV secolo, la sconfitta subita da Russi segnando solo una tappa
d’arresto della loro espansione. Dopo la conquista della Pomerania, avversaria irriducibile dei cavalieri teutonici divenne però la Polonia. Con il passare
del tempo l’Ordine, che era in continua lotta anche con la Lituania, si indebolì e divenne in pratica una potenza mercantile. Nel 1410 i cavalieri teutonici
subirono una disastrosa sconfitta a Tannenberg da parte di Polacchi e Lituani e da allora cominciò la decadenza dell’Ordine, finché nel 1511 venne
attuata la sua secolarizzazione dal Gran Maestro Alberto Brandeburgo, che aveva aderito alla Riforma.
133
tribù locali, ma alcune di esse opposero una strenua resistenza, che non permise ai Russi di fare significativi
progressi fino al XVIII secolo. Le condizioni ambientali erano poi proibitive per un esercito che doveva operare
a grande distanza dalle sue basi principali. E vi era anche il problema dei rapporti con la Cina, con cui però nel
1689 la Russia firmò il trattato di Nerčinsk. I Russi riconobbero la sovranità della Cina nella valle dell’Amur,
anche se non si ritirarono dal Pacifico come avrebbero voluto i Cinesi. A metà del Seicento comunque i Russi
erano ancora lontani dal Mar Nero. Tra la Russia e questo mare si interponevano, oltre a varie comunità
autonome di Cosacchi, il Canato di Crimea e la Polonia, che deteneva il controllo dell’Ucraina. I Polacchi avevano
preso come modello l’esercito svedese, che, prima di intervenire nella guerra dei trent’anni, in una serie di
conflitti contro i Polacchi era riuscito ad occupare l’importante porto baltico di Riga e a travolgere la Livonia
(1625). Negli anni Trenta del XVII secolo pertanto i Polacchi sostituirono gli archibugieri con unità di
moschettieri e introdussero cannoni reggimentali. Anche i Russi consapevoli delle innovazioni che
caratterizzavano l’esercito svedese e dell’inefficienza del corpo degli streltzy formarono delle nuove unità
comandate da ufficiali stranieri. Dieci di tali unità (circa 17.000 soldati) rappresentavano la metà dell’esercito
russo che combatté la cosiddetta guerra di Smolensk (1632-34) contro i Polacchi368. L’assedio di Smolensk si
rivelò, tuttavia, un insuccesso e i Polacchi distrussero l’esercito. I Russi allora sciolsero i reggimenti di nuova
formazione e licenziarono gli ufficiali stranieri. Allorché dei Cosacchi, ribellatisi ai Polacchi, chiesero aiuto allo
zar, la Russia si prese però la rivincita contro la Polonia imponendole, nel 1667, una pace che assicurò alla
Russia il controllo di Kiev e della sponda orientale del Dnepr.
Era un accordo comunque che non poteva non dare luogo ad una nuova tensione con Turchi, tanto che questi
ultimi invasero l’Ucraina e assediarono la fortezza russa di Chigirin. La guarnigione russa resistette
eroicamente al bombardamento turco fino all’arrivo dei rinforzi, ma infine i Russi dovettero cedere. L’esercito
russo si era battuto con valore, ma la cattiva prova degli streltzy, nonché i difetti dell’organizzazione militare e
dell’equipaggiamento dei Russi, favorirono non poco i Turchi. I Russi riuscirono comunque a rimanere padroni
sia di Kiev che della riva orientale del Dnepr, pagando un tributo al Canato di Crimea. E l’insuccesso degli
Ottomani davanti a Vienna nel 1683 portò a nuovi scontri tra Turchi e Russi, i quali andarono incontro ad alcuni
gravi insuccessi che favorirono la presa del potere di Pietro il Grande. E con questo zar acquisì
maggioreimportanza la Russia europea, al punto che Pietro postò la capitale della Russia da Mosca a Pietroburgo.
Ma se nell’Europa orientale sorgeva una grande potenza che avrebbe preso il posto dell’Austria nel conflitto
con l’impero ottomano, in Europa occidentale si verificò un cambiamento degli equilibri geopolitici, che vide
l’Inghilterra (rimasta fuori dalla guerra dei trent’anni) sconfiggere l’Olanda e diventare di conseguenza la
potenza marittima predominante nonché il centro propulsivo del capitalismo europeo.
Nel XVII secolo la corona inglese, facendosi paladina dell’anglicanesimo, mirava a combattere sia gli eccessi
del puritanesimo sia il cattolicesimo. I cattolici furono duramente perseguitati dopo la Congiura delle Polveri
del 1605 (ossia il tentativo da parte di un gruppo di cattolici di assassinare il re inglese Giacomo I), ma anche i
calvinisti, fortissimi tra i piccoli proprietari, furono oggetto di persecuzione. Questa situazione era aggravata da
difficoltà finanziarie che costrinsero il re Carlo I, sospettato di simpatie per il cattolicesimo, a convocare il
Parlamento. Il sovrano dovette cedere all’opposizione e firmare la Petition of Right che ribadiva i limiti del
potere regio. Comunque, Carlo I fece rinascere la potenza della marina inglese, sia pure imponendo il pagamento
dello ship money (un tributo per la flotta che si esigeva di solito in tempo di guerra) e di conseguenza creandosi
non pochi nemici. Ma avvalendosi dell’abilità finanziaria di Thomas Wentworth, già leader dell’opposizione
passato dalla parte della corona, riuscì a governare per dieci anni senza convocare il Parlamento. Strumento del
potere della corona era anche l’arcivescovo di Canterbury, William Laud, il quale, imponendo ai presbiteriani
scozzesi il libro dei riti e delle preghiere della chiesa anglicana, indusse l’opposizione presbiteriana scozzese
a unirsi nel Covenant del 1630 e ribellarsi a Carlo I. Avendo adesso la corona inglese necessità di fondi per far
fronte alla guerra contro la Scozia, il re dovette convocare nuovamente il Parlamento, che si rifiutò di cedere alle
richieste della corona e quindi venne rapidamente congedato. Ma la guerra intanto procedeva e gli Scozzesi,
invasero il Northumberland e Durham e poco dopo si impadronirono di Newcastle. Pertanto, nel 1640 venne
firmata una pace, ma a condizioni così onerose che la corona inglese dovette ancora convocare il Parlamento
per ottenere nuovi fondi. Con un Parlamento dominato dai puritani, Carlo I dovette far giustiziare Laud e
Weentworth, ma reagì ordinando l’arresto di cinque membri dell’opposizione. Fu la scintilla che incendiò il
Paese, facendo scoppiare la guerra civile: da una parte vi erano i sostenitori della corona (grande nobiltà, molti
contadini e anglicani), ovverosia i “cavalieri”, dall’altra borghesia, piccola nobiltà e puritani, ovverosia le
“teste rotonde”. Carlo I, che aveva commesso l’errore di allontanarsi dalla capitale in cerca di fondi, vinse di
I Polacchi durante la cosiddetta “guerra polacco-moscovita” (1612-1618) erano riusciti addirittura ad occupare Mosca, ma ne furono cacciati da una
rivolta popolare (1612). Nel 1617 i Polacchi, sempre guidati da Ladislao IV, puntarono di nuovo su Mosca, ma senza successo, dovendo accontentarsi
di cospicue acquisizioni territoriali, tra cui appunto il territorio di Smolensk.
368
134
stretta misura ad Edgehill ma venne fermato a Turnham Green. Incapace di continuare nella spinta verso
Londra, decise di ritirarsi ad Oxford, perdendo così l’occasione di mettere fine alla guerra civile, schiacciando
subito i rivoltosi. Dopo alcuni scontri inconcludenti, le “teste rotonde” trovarono infatti in Oliver Cromwell
(un gentiluomo di campagna e fervente puritano) un capo d’eccezione. Cromwell capì che per aver ragione
dell’esercito del re aveva bisogno di uomini validi e di un nuovo tipo di esercito. Incaricato di reclutare cavalieri
nell’East Anglia, pretese che i suoi soldati fossero pagati con regolarità scrupolosa e che la paga fosse buona, in
modo da poter esigere da loro una altrettanto scrupolosa disciplina e attrarre uomini che non fossero la solita
marmaglia, di cui erano composti gli eserciti del tempo. Essendo egli stesso puritano, creò quindi il primo
nucleo dei suoi squadroni con uomini simili a lui. E furono i suoi cavalieri, gli ironsides (“fianchi di ferro”), a
cogliere la prima grande vittoria contro i “cavalieri”: a Marston Moor, il 2 luglio 1644, l’esercito parlamentare
di sir Thomas Fairfax, gli Scozzesi di David Leslie e gli ironsides di Oliver Cromwell si trovarono di fronte ai cavalieri
del principe Rupert. Gli ironsides, caricando non al galoppo ma ad un trotto serrato, con la prima fila che fece
fuoco solo all’ultimo momento, sbaragliarono l’esercito di Carlo I.
Nacque così, nel 1645, sulla base del modello degli ironsides, il nuovo esercito parlamentare inglese. In
origine era costituito da 11 reggimenti di cavalleria di 600 uomini ciascuno, da un reggimento di dragoni di 1.000
uomini e da 12 reggimenti di fanteria di 1.000 uomini ciascuno, in cui il rapporto tra moschettieri e picchieri
era di 2:1. I picchieri indossavano pesanti corazze, mentre i moschettieri indossavano giubbe rosse, la
caratteristica uniforme dell’esercito inglese. La fanteria combatteva schierata su sei linee e l’artiglieria era
numerosa, non mobile come quella svedese ma assai precisa, ed era divisa in parco d’assedio e artiglieria da
campagna. Fu questo esercito che a Naseby, nel 1645, sconfisse di nuovo l’esercito dei partigiani del re. Circa
5.000 uomini vennero presi prigionieri: le “teste rotonde” avevano annientato un intero esercito nemico. I
“realisti” subirono altre sconfitte e alla fine del 1645 presidiavano solo alcune zone dell’Inghilterra. L’anno
successivo si arresero Chester, Exeter e Oxford. Infine, Carlo I riparò in Scozia ma i covenanters scozzesi lo
consegnarono al Parlamento. Il re tentò poi una fuga, ma non riuscì ad andare oltre l’isola di Wight. Ciò
malgrado, la rivolta “realista” incendiò il Galles e il Kent, mentre gli Scozzesi prendevano le parti del re
convinti (dallo stesso sovrano) che Carlo I potesse regnare da monarca presbiteriano. La parola quindi passò
ancora alle armi. I partigiani della corona, dopo che Cromwell e Fairfax ebbero ripreso rispettivamente il
controllo del Galles meridionale e del Kent, si concentrarono a Colchester aspettando gli Scozzesi. Cromwell
invece non perse tempo e si diresse verso Preston, prendendo alla sprovvista l’esercito assai più numeroso ma
assai male coordinato di Hamilton, tanto che la cavalleria scozzese non fu in grado di combinare nulla. La
sconfitta degli Scozzesi comportò la resa dei “realisti” a Colchester. A questo punto Cromwell risolse pure la
questione della monarchia. “Purgato” il Parlamento, venne istituita una commissione che condannò a morte
Carlo I e il 30 gennaio del 1649 la testa del re inglese fu mozzata come quella di un criminale qualsiasi. Quanto
restò del Lungo Parlamento decretò quindi la fine della monarchia e l’instaurazione della repubblica
(Commonwealth). Il vento rivoluzionario che si era alzato durante la guerra civile minacciava di sconvolgere
anche l’ordine borghese: i “veri livellatori”, avrebbero voluto andare ben oltre l’abbattimento della monarchia,
poiché sostenevano che vi è vera uguaglianza solo se vi è uguaglianza economica e sociale Ciò a cui miravano
era insomma l’instaurazione di un “comunismo agrario”, mentre Cromwell non solo era un borghese e non un
radicale rivoluzionario, ma era pure consapevole che aveva bisogno del “suo” esercito per combattere contro
Irlandesi e Scozzesi. La disciplina militare quindi non poteva in nessun modo essere messa in discussione e
Cromwell non esitò a mettere in prigione John Lilburne, uno dei capi dei “livellatori”, mostrandosi pronto ad
usare il “pugno di ferro” ai primi segni di ammutinamento.
Ristabilito l’ordine in Inghilterra, nel 1649 Cromwell si recò in Irlanda, deciso a schiacciare la ribellione
che infuriava nell’isola da otto anni.Nel 1641 i cattolici irlandesi avevano massacrato i coloni protestanti e poi
il loro capo, Rory O’More, li aveva guidati alla vittoria a Julianstown. Dopodiché gli Irlandesi si allearono con
i “realisti” del Pale e si impossessarono dell’Ulster. Ma dopo l’arrivo di un esercito scozzese, cattolici irlandesi,
soldati scozzesi e “realisti” cominciarono a farsi la guerra tra di loro. Ma con l’arrivo di Cromwell cominciò
una campagna tra le più feroci di tutta la guerra, tanto che l’artiglieria fu impiegata contro le città irlandesi con
pochi scrupoli. I 2.500 difensori di Dogheda vennero massacrati e con loro il clero cattolico e buona parte degli
abitanti. I pochi sopravvissuti furono mandati ai lavori forzati nelle piantagioni di canna da zucchero nelle
Barbados. Un mese dopo fu la volta di Wexford. L’esercito di Cromwell era appoggiato dalla flotta inglese ed
era assai meglio equipaggiato di quello dei ribelli, che di fatto non erano in grado di opporre una valida
resistenza agli invasori. Nel 1650 Cromwell lasciò l’isola diretto in Scozia e il comando passò a suo cognato
Ireton. Tra carestie, emigrazione, pestilenze e stragi la sottomissione dell’Irlanda causò la scomparsa di circa il
40% della popolazione dell’isola. Una “ferita” che non si sarebbe più rimarginata.
In Scozia Cromwell si trovò in difficoltà, rinchiuso in una valle vicino al mare, tagliato fuori dall’Inghilterra
e “pressato” da un esercito il doppio del suo e comandato dal suo ex alleato David Leslie. Ma Cromwell non
135
perse la testa, anzi sfruttò un errore compiuto da Leslie e sferrò un attacco che disorientò del tutto gli Scozzesi
che lasciarono 3.000 caduti sul campo e altri 10.000 circa vennero fatti prigionieri369. La strada per Edimburgo
era aperta. Ma gli Scozzesi che sostenevano il figlio di Carlo I, Carlo II, l’anno seguente invasero addirittura
l’Inghilterra, puntando verso il Galles meridionale anziché su Londra, onde reclutare altri soldati. Si andò allora
radunando un esercito di 30.000 uomini sotto il comando di Cromwell che investì Worcester da diverse
direzioni. I 12.000 Scozzesi lanciarono coraggiosamente un assalto frontale contro gli uomini di Cromwell,
ma furono fatti a pezzi e Carlo II riparò in Francia. Nel 1652 l’intera Scozia era sottomessa e nel 1707 l’unione
tra Inghilterra e Scozia divenne definitiva. Tuttavia, le Highlands rimasero a lungo il centro della resistenza
scozzese al dominio inglese. E i cosiddetti “giacobiti”370 furono protagonisti di due ribellioni: la prima nel
1715, ma vennero battuti a Preston; la seconda nel 1750, allorché Carlo Eduardo Stuart sbarcò in Scozia
riuscendo a far insorgere le Highlands, ma subirono anche questa volta una disastrosa sconfitta nella battaglia
di Culloden.
Nel 1653 Cromwell prese il titolo di Lord Protettore e instaurò una dittatura che sarebbe durata fino alla sua
scomparsa nel 1659. Gli successe il figlio, ma l’Inghilterra ne aveva abbastanza della dittatura militare e la
monarchia venne restaurata con la salita al trono di Carlo II Stuart. Ma dato che il fratello ed erede, Giacomo II,
nutriva simpatie per il cattolicesimo, venne proposto un bill per escludere i cattolici dal trono. La proposta fu
respinta dai Lord, ma il conflitto divenne ancora più aspro, formandosi due partiti, i tories, sostenitori della
corona, e i wighs che costituivano l’opposizione. Gli animi si surriscaldarono a tal punto che il re sciolse il
Parlamento (1681) e, forte degli aiuti di Luigi XIV, si appoggiò ai tories per sbarazzarsi dei wighs, la cui sorte toccò
il suo punto più basso allorché venne scoperto un complotto per uccidere il re e suo fratello. In questa situazione
sopravvenne la morte del re, cui successe Giacomo II. L’Inghilterra fu di nuovo sull’orlo di una guerra civile,
ma il duca di Monmouth, sbarcato per sollevare una rivolta, trovò pochi seguaci e la rivolta venne brutalmente
repressa dall’esercito regolare. Giacomo II però si mostrò sordo ad ogni richiamo alla moderazione e cominciò
a sostituire gli anglicani che ricoprivano i ruoli più importanti con dei cattolici. Quando Giacomo II ebbe dalla
moglie Maria di Modena un figlio maschio fu chiaro che non vi era più la possibilità di veder succedere al re la
figlia protestante. La misura era colma: whighs e tories, non essendo più disposti a tollerare la politica e le scelte
dello Stuart, rivolsero un appello a Guglielmo III d’Orange, lo statolder d’Olanda, perché sbarcasse in Inghilterra
con un esercito. Alla notizia dello sbarco di Guglielmo III d’Orange, Giacomo II fuggì e Guglielmo III divenne
reggente. Si compiva così la cosiddetta “rivoluzione gloriosa”, senza spargimento di sangue. In definitiva,
l’errore più grave di Giacomo II fu di non comprendere che l’Inghilterra non poteva più essere quel che era
stata prima di Cromwell. Un giudizio pienamente confermato dal corso della storia dell’Inghilterra.
A partire dal 1689, infatti, il sovrano inglese senza il consenso del Parlamento non poté più né imporre tasse
né disporre di un esercito e con il Triennal Act del 1694 si rese obbligatoria la convocazione del Parlamento
entro un determinato periodo di tempo. Era nata cioè la democrazia parlamentare inglese e con essa, non
casualmente, si iniziava i n E u r o p a l’“ascesa” dell’Inghilterra, di cui era certo un segno inequivocabile
anche la fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694. Limitati così i poteri della corona e consolidato il potere
di una nuova classe sociale (giacché adesso, come afferma Giorgio Spini, la proprietà privata era il pilastro
fondamentale dello Stato inglese, ossia lo Stato costituzionale della rivoluzione era anzitutto lo Stato dei proprietari), il
Parlamento «[avrebbe votato] crediti immensamente superiori che nel passato e quindi [dando] al governo la
possibilità di attuare una grande politica estera [giacché] il regno inglese si trovava ora nella possibilità di
disporre di risorse finanziarie incomparabilmente superiori a quelle del resto degli Stati europei [e che
sarebbero state] concentrate tutte su scopi direttamente interessanti la prosperità, la potenza e la sicurezza della
nazione […] In questa radicale modificazione del congegno della pubblica finanza è racchiuso in germe il
destino imperiale dell’Inghilterra»371. Si coglie bene in questo passo (al di là di una certa retorica liberale) il nesso tra
l’ascesa di una nuova classe sociale, la sua “volontà di potenza” e il ruolo del capitale finanziario. Neppure la guerra poteva
mettere in dubbio questo rapporto. Anzi, fondamentale era che «la Royal Navy proteggesse il commercio
nazionale oltremare e nello stesso tempo strangolasse quello del nemico»372. L’Inghilterra cioè poteva aspirare
ad una supremazia mondiale soprattutto perché la sua flotta, militare e commerciale, alla fine del Seicento aveva
superato quella degli Olandesi. D’altronde, fu proprio Cromwell a volere la conquista delle colonie delle Indie
occidentali e ad incoraggiare il commercio di legname con l’America settentrionale, affinché i cantieri navali
inglesi non dipendessero solo dal legname che proveniva dal Baltico. E Cromwell, con il Navigation Act del
1651, che proibiva l’importazione in Inghilterra di merci se non trasportate da navi inglesi, mirava in primo
369
Vedi B. L. Montgomery, op. cit., p. 464.
370
Dopo la rivoluzione del 1688, vennero chiamati così i sostenitori di Giacomo II e i suoi successori.
371
G. Spini, op. cit., pp. 838-839.
372
P. Kennedy, op. cit., p. 135.
136
luogo a colpire duramente il commercio olandese e a fare dell’Inghilterra la “regina dei mari”. Con le guerre
anglo-olandesi dunque si verificò, almeno dal punto di vista geopolitico, il passaggio dalla prima fase dell’età
moderna alla seconda, che avrebbe visto l’Inghilterra diventare la principale Potenza occidentale.
137
CAPITOLO VI. IL LEVIATANO
Talassocrazia inglese e conflitti tra grandi potenze. Tra il 1652 e il 1674 vennero combattute tre guerre navali
fra Inglesi e Olandesi per il dominio dei mari. Del resto, era evidente che la rivalità anglo-olandese non poteva
non sfociare in guerra aperta dopo il Navigation Act del 1651. Il mercantilismo di Cromwell era, di fatto, un
pugnale puntato alla gola dell’Olanda e non lasciava alternativa all’Olanda, la cui marina, benché indubbiamente
forte, nel complesso era inferiore a quella inglese, dacché le navi inglesi erano (in generale) migliori di quelle
olandesi, le quali avevano anche minor pescaggio a causa della scarsa profondità delle acque costiere olandesi.
Questo però presentava pure dei vantaggi per gli Olandesi, sia perché le loro navi potevano sfruttare come
rifugio i banchi di sabbia della Manica, sia perché le navi inglesi non potevano attuare un “blocco” della costa
olandese. In ogni caso, gli Inglesi, pur se battuti a Dungeness, ebbero nettamente la meglio nella cosiddetta
“battaglia dei tre giorni”, combattuta da Portland a Calais. Nel 1653 gli Olandesi distrussero una squadra inglese
al largo di Livorno, ma gli Inglesi vinsero anche a Gabbard Bank e poi nelle acque tra Scheveningen e Ter Heyden,
scontro in cui perì lo stesso ammiraglio olandese Tromp. D’altro canto, le condizioni dei due Paesi erano tali da
consigliare ad entrambi una soluzione pacifica, sicché nel 1654 Inghilterra e Olanda si risolsero a firmare la
pace. A conferma della potenza e della capacità della marina inglese, che ormai adottava la formazione in linea
di fila373, si deve ricordare che negli anni seguenti Blake, sconfisse i corsari barbareschi presso Tunisi nel 1655 e
due anni dopo distrusse una flotta spagnola a Tenerife. Nondimeno, la guerra con le Province Unite scoppiò di
nuovo nel 1665. Gli Olandesi adesso però avevano il sostegno della Francia, e i loro cantieri navali tra il 1665
e 1667 costruirono ben 60 navi di linea, che potevano competere con quelle inglesi.
Nella prima battaglia di un certo rilievo furono gli Inglesi comunque ad avere la meglio, sconfiggendo la
flotta dell’ammiraglio Jacob Wassaner-Obdam, ma gli Inglesi non seppero sfruttare questa vittoria. Gli Olandesi
vinsero successivamente nella cosiddetta “battaglia dei quattro giorni”, ma subendo numerose perdite. Gli
Inglesi nell’estate del 1666 riuscirono a distruggere parecchi mercantili olandesi, benché i corsari olandesi a
loro volta danneggiassero il commercio inglese. Non solo. Gli Olandesi guidati dall’ammiraglio de Ruyter
compirono addirittura un raid contro la base inglese di Chatam e un’altra squadra olandese s’impadronì del
Surinam. Pur tuttavia, il trattato di Breda del 1667 confermò il possesso inglese di New York (la New
Amsterdam olandese), ma gli Olandesi, anche se persero i loro possessi nell’America settentrionale, ottennero
il ristabilimento della libertà di commercio. La guerra anglo-olandese del 1672-74 avvenne invece in un
contesto storico- geopolitico assai diverso, determinato dall’aggressione di Luigi XIV, che metteva fine alla
tradizionale amicizia tra le Province Unite e la Francia. Il conflitto ebbe origine dalla decisione di Colbert (presa
nel 1667) di colpire il commercio olandese con tariffe elevate che provocarono ritorsioni da parte degli Olandesi.
Guerra economica quindi, mentre l’alleanza tra Carlo II e Luigi XIV era ormai contraria agli interessi
dell’Inghilterra che non poteva permettere che la Francia conquistasse l’egemonia sul continente europeo. Gli
Olandesi, dovendo combattere contro Francesi e Inglesi, adottarono la strategia della “fleet in being”,
consistente nel conservare gelosamente la propria flotta (ma senza rinunciare a infliggere colpi micidiali agli
avversari nel caso che se ne presentasse l’occasione), mentre gli Anglo-Francesi miravano, com’è logico, a
distruggerla. Anche questa volta l’Olanda sul mare si batté benissimo, trovando in de Ruyter un ammiraglio
d’eccezione, ma si trattava pur sempre di un Paese con meno di 2 milioni di abitanti e che doveva far fronte alla
minaccia della Francia di Luigi XIV. Per di più, l’Olanda, oltre a non poter sempre difendere i propri interessi
in mari così lontani, vedeva compromessa la sua posizione dominante nell’area commerciale del Baltico, per la
crescita di altri rivali. L’alleanza con l’Inghilterra era quindi una scelta in qualche modo obbligata per l’Olanda.
Perciò osserva Kennedy: «L’alleanza con l’Inghilterra, che Guglielmo aveva cementato nel 1689, fu nello stesso
tempo la salvezza delle Province Unite e un contributo determinante al loro declino come grande potenza
indipendente; quasi nello stesso modo in cui, due secoli più tardi, il Lend-Lease e l’alleanza con gli Stati Uniti
avrebbero contemporaneamente salvato e concorso a indebolire l’impero britannico che stava lottando per la
sopravvivenza»374.Si spiega allora perché gli Olandesi anche prima della presa del potere in Inghilterra da parte
di Guglielmo III, si batterono ostinatamente contro la Francia. Peraltro, gli Olandesi, confidavano nel fatto che
Questa tattica (line ahead) richiedeva un’elevata standardizzazione delle navi da guerra e, rispetto alla formazione (line abreast) che vedeva schierate
le navi l’una di fianco all’altra (formazione tipica di una squadra navale di galee), massimizzava la potenza di fuoco e facilitava il controllo della
squadra navale in combattimento. Dopo che Blake usò questa tattica con successo contro Tromp nella “battaglia dei tre giorni”, vennero stabilite delle
istruzioni per schierare una squadra navale in combattimento, note nella marina inglese come “The Fighting Instructions”. La vittoria a Gabbard Bank
contro Tromp nel mese di giugno del 1653 confermò la validità di tali istruzioni, tanto che vennero prese a modello dalla maggior parte delle marine
europee (vedi S. Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., pp. 387-388).
374
P. Kennedy, op. cit., pp 144-145.
373
138
le eccessive ambizioni di Luigi XIV non potevano non sollevare contro la Francia le altre potenze europee.
Grazie a un lungo periodo di stabilità, la Francia aveva potuto incrementare considerevolmente la propria
potenza nel corso della seconda metà Seicento. Fu il ministro di Luigi XIV, Jean-Baptiste Colbert, a
comprendere, come Cromwell, lo stretto rapporto fra commercio e potenza, anche se Colbert vedeva nel
commercio mondiale una sorta di “gioco a somma zero” in cui decisiva doveva essere l’azione dello Stato:
«Riguardo al commercio estero, Colbert riteneva che esso fosse quantitativamente limitato, che se la Francia
ne voleva una quota maggiore doveva togliere qualcosa agli altri, e che per farlo la via più rapida era di
prendersela con la forza»375. Fautore perciò di un mercantilismo rigoroso, adottò una serie di misure per
promuovere il settore manifatturiero e per introdurre delle nuove industrie, tra cui «appoggio nella raccolta dei
capitali, esenzioni fiscali, privilegi monopolistici, protezioni doganali, commesse da parte della corte
edell’esercito, franchigie da vincoli corporativi, richiamo di specialisti stranieri»386. Grazie a Colbert le
manifatture reali conobbero un eccezionale sviluppo, tanto che alcune di esse divennero dei veri colossi,
arrivando ad impiegare diverse centinaia o perfino più di mille lavoratori. Per migliorare la rete viaria della
Francia, Colbert costruì strade, ponti e canali. Cercò di mettere ordine anche nelle finanze dello Stato, benché
non riuscisse mai a colmare il deficit per le ingenti spese necessarie alle guerre e alla costosa diplomazia di
Luigi XIV. Favorì in ogni modo anche il commercio estero, creando compagnie commerciali e potenziando i
porti francesi. Il suo dirigismo e il suo mercantilismo erano quindi del tutto coerenti con la politica di potenza
e l’assolutismo di Luigi XIV. L’accentramento amministrativo in questi anni raggiunse altissimi livelli, di modo
che il potere centrale potesse avere il pieno controllo della macchina statale tramite intendenti di polizia, di
giustizia e di finanza.
Colbert incoraggiò pure il matrimonio tra giovani, con premi di nuzialità e di natalità, consapevole che parte
costitutiva della potenza di un Paese era la demografia. La Francia con i suoi quasi 20 milioni di abitanti era
infatti il Paese europeo con l’esercito più numeroso. I 125.000 soldati al tempo di Richelieu (1636) erano
diventati 253.000 durante la guerra con l’Olanda, e negli anni successivi sarebbero arrivati a 350.000. Non si
mirò però solo ad un aumento del numero dei soldati. L’intera “macchina bellica” francese venne posta sotto il
controllo di ispettori, si cercò di eliminare in ogni modo corruzione e anche il corpo ufficiali e la gerarchia
vennero riformati, stabilendo una serie precisa di gradi. Si procedé pure a un intenso addestramento dei soldati e
venne istituito il corpo dei granatieri376. Inoltre venne potenziato il sistema logistico, che divenne il più
avanzato d’Europa, di modo che l’esercito non mancasse di uomini, denaro, munizioni e rifornimenti di vario
genere. E a questo scopo venne costruita anche una rete di magazzini vicino alla frontiera.
La dimensione stessa di questo apparato militare allarmava gli altri Paesi europei e rese possibile agli
Olandesi trovare un buon numero di alleati: principi tedeschi, Danesi, Spagnoli e l’impero asburgico. Unico
alleato di rilevo della Francia era Carlo XI di Svezia e, sorprendentemente, dal cosiddetto “grande elettore” (der
grosse Kurfürst) del Brandeburgo, Federico Guglielmo Hohenzollern, a Fehrbellin. (Faceva così il suo ingresso
come media potenza sulla scena europea, il Brandeburgo, denominato regno di Prussia, a partire dal 1701,
ossia sotto il figlio di Federico Guglielmo, Federico I di Prussia. Federico Guglielmo rafforzò e consolidò
l’autorità dello Stato creando un esercito efficiente e forte di 45.000 uomini, grazie ad un’audace riforma
finanziaria, con cui affidò la riscossione delle imposte al “Commissariato generale della guerra”, ma garantendo
una serie di privilegi all’aristocrazia terriera, ossia agli junkers che formavano i vertici dell’esercito e
dell’amministrazione dello Stato, di modo che la pressione fiscale gravava soprattutto sui borghesi e sui
contadini)377. La Francia riuscì a respingere un esercito imperiale al comando di Montecuccoli, che aveva
invaso l’Alsazia dopo avere sconfitto Turenne a Sasbach nel 1675 (in questa battaglia trovò la morte lo stesso
Turenne). I Francesi in seguito riuscirono a conquistare Friburgo e una serie di piazzeforti nei Paesi Bassi
spagnoli, ma la vulnerabilità delle frontiere francesi sul frontedel Reno e il fatto che la marina olandese, insieme
con quella danese, dominasse il Baltico, rendevano difficile a Luigi XIV conseguire una vittoria definitiva.
Pertanto, con la pace di Nimega, i combattimenti cessarono, ma la tensione rimaneva alta. Il conflitto aveva anche
mostrato i progressi che si erano fatti nella guerra ossidionale. Nell’assedio di Maastricht, che cadde nel giro di
375
S. B. Clough e R.T. Rapp, op. cit., p. 242.
In questo periodo, oltre all’adozione dell’acciarino a pietra focaia al posto dell’accensione a miccia, si diffuse l’uso della baionetta, prima ad innesto
(plug bayonet) - ossia la baionetta si infilava direttamente nella canna del moschetto - poi ad incastro (socket bayonet). Con la baionetta ad innesto era
impossibile sparare e per questo potevano verificarsi spiacevoli inconvenienti, come accadde ai sostenitori di Guglielmo III, che non fecero in tempo a
togliere le baionette dai moschetti, allorché vennero attaccati dagli Highlanders a Killiecrankie nel 1689 (vedi J. Black, War. A Short History, cit., p.
67). Con la diffusione dell’uso della baionetta in tutti gli eserciti europei, verso la fine del XVII secolo, scomparvero anche i picchieri. Nondimeno, i
moschetti non erano ancora del tutto affidabili, tanto che si stima che quelli francesi potessero avere seri problemi dopo avere sparato sei colpi (vedi S.
Morillo, J. Black, P. Lococo, op. cit., pp.- 410-411).
377
Vedi M. Howard, War in European History, Oxford University Press, Oxford, 1976, pp. 68-69.
376
139
un mese, l’ingegnere militare francese Vauban aveva provato come poteva avere successo un sistema di trincee,
parallele e a zigzag, che avanzasse progressivamente verso la piazzaforte assediata, sotto la copertura della
artiglieria. Fu lo stesso Vauban ad introdurre il tiro di rimbalzo, mediante il quale i proietti d’artiglieria
rimbalzavano sul parapetto per colpire poi i difensori che si trovavano dietro di esso. Nel 1678 Vauban fu
nominato supervisore per la costruzione o la ristrutturazione di 33 piazzeforti. Le fortificazioni di Vauban erano
assai complesse e si estendevano in profondità, di modo che, se l’opera esterna cadeva, rimanesse entro il raggio
dell’artiglieria dell’opera principale. L’elemento fondamentale del tracciato era un triangolo con il vertice
rivolto verso l’esterno, al fine di poter coprire ogni punto della cortina che si estendeva fino al saliente successivo.
I grandi bastioni su ogni angolo del poligono principale erano inframmezzati, lungo le cortine, da opere più
piccole, ciascuna delle quali copriva l’elemento vicino, mentre altre opere più avanzate e coperte dalla struttura
principale si sostenevano a vicenda378. A protezione dei muri di pietra vi erano inoltre scarpate di terra. Com’è
ovvio, l’opera di Vauban non era fine a sé stessa, ma era parte della strategia di Luigi XIV.
Ciò malgrado, con la revoca dell’Editto di Nantes nel 1685 la Francia si indebolì gravemente sul piano
economico causando l’emigrazione di circa 300.000 ugonotti e inimicandosi di conseguenza i protestanti
europei. Per di più, l’impero asburgico, una volta sconfitti i Turchi, poté interessarsi con maggiore attenzione
alle questioni europee, cosicché quando la Francia invase la Germania, la guerra tra potenze europee scoppiò di
nuovo. Ma questa volta nel campo dei nemici della Francia vi era anche l’Inghilterra. Vi erano quindi risorse
finanziarie e navi sufficienti a controbilanciare quelle di cui disponeva il Re Sole, anche perché dopo la
scomparsa di Colbert nel 1683, la situazione economica della Francia non era certo migliorata. Con l’entrata
in guerra dell’Inghilterra al fianco delle Province Unite, la Francia si trovò ad affrontare una coalizione che
comprendeva pure Spagnoli, principi tedeschi, l’impero asburgico e il duca di Savoia Vittorio Amedeo II. Luigi
XIV comprese che il nemico da battere erano gli Inglesi tanto che nel 1692 allestì una forza di spedizione,
composta da 25.000 soldati, per invadere l’Inghilterra, ma le chiatte e le navi del Re Sole vennero distrutte dagli
Inglesi a Barfleur-La Hougue. La marina francese, che aveva vinto a Beach Head due anni prima, non aveva
saputo sfruttare questa vittoria. La guerra sul mare aveva come scopo principale quello di distruggere i traffici
commerciali degli avversari, mentre sul continente si combatteva una guerra d’assedio, per la conquista di
fortezze nemiche che costringevano i contendenti a mettere in campo eserciti numerosi e costosi. Anche gli
scontri nei teatri non europei (Terranova, Indie occidentali, etc.) non mutarono i rapporti di forza tra i
belligeranti, mentre le condizioni economiche della Francia peggioravano e gli affari dei mercanti olandesi e
inglesi non andavano “a gonfie vele”. Anche se Vittorio Amedeo, sconfitto a Staffarda e nella cosiddetta
“battaglia della Marsaglia” da Catinat, abbandonò la coalizione nel 1693379, non per questo la situazione della
Francia migliorò considerevolmente. E con il trattato di Ryswick del 1697 la Francia conservò Strasburgo ma
dovette accettare la presenza di numerose fortezze olandesi sul confine.
La pace durò però pochissimo e la lotta riprese nel 1701 per la questione della successione spagnola. Che un
nipote del Re Sole (Filippo V) sedesse sul trono di Spagna non poteva essere accettato dalle altre potenze
europee. E anche questa volta fu l’Inghilterra a “fare la differenza”. L’impero asburgico si trovò subito a mal
partito e solo la vittoria alleata a Blenheim nel 1704 salvò l’Austria dalla disfatta. Vittoria che gli “alleati”
dovettero soprattutto all’intervento di Marlborough380, che comandava un esercito continentale composto da
soldati inglesi e mercenari. Due anni dopo Eugenio di Savoia e Vittorio Amedeo sconfissero un esercito
francese che assediava Torino, mentre gli Spagnoli persero Napoli. Gli Inglesi presero pure Gibilterra (1704),
Barcellona (1705) e Minorca (1708), ma la Castiglia si rivelò un “osso troppo duro” e i Francesi, nella battaglia
di Almanza (1707), inflissero una batosta alle forze alleate che cercavano di mettere sul trono di Spagna l’arciduca
Carlo III. In seguito, Carlo III giunse perfino ad occupare Madrid, ma la precarietà delle sue linee di
comunicazione lo convinse ad abbandonare la capitale. Una parte del suo esercito venne attaccata e costretta alla
resa da Vendome e anche la resistenza che Carlo III oppose in Catalogna fu vana. Nel teatro dell’Europa centrosettentrionale il conflitto fu ancora più aspro. Con la battaglia di Ramillies (1706) le forze anglo-olandesi presero
il controllo della parte meridionale dei Paesi Bassi e due anni dopo venne frustrato un tentativo francese di
riconquistare il terreno perduto.
Nondimeno, le fortezze di Vauban mostrarono tutta la loro utilità. Lilla resistette infatti 120 giorni e solo il
378
Vedi B. L. Montgomery, op. cit., pp. 480-481.
379
La fortuna della casa dei Savoia si doveva soprattutto a Emanuele Filiberto, vincitore, al comando di un esercito spagnolo, contro i Francesi a Saint
Quentin (1557) e che stabilì la capitale del Ducato di Savoia a Torino. A partire dagli anni Trenta del Seicento il Ducato di Savoia però era diventato
una sorta di protettorato del potente vicino d’Oltralpe. Il che contribuisce a spiegare le oscillazioni della politica dei Savoia in questo periodo.
380
In questa durissima battaglia (oltre 30.000 perdite su 108.000 combattenti) Marlborough lanciò all’assalto contro il centro dello schieramento
avversario le truppe che aveva tenuto di riserva, scompaginando le file nemiche anche con il fuoco di 40 cannoni, cui seguì una decisa carica di
cavalleria (peraltro, Marlborough, aveva addestrato la fanteria a formare dei quadrati vuoti al centro, per resistere alle cariche della cavalleria)
140
fuoco concentrato di tutta l’artiglieria degli “alleati” ebbe ragione dei difensori, e la vittoria degli “alleati” a
Malplaquet (1709) venne definita dal generale francese Villars una vittoria di Pirro, per le perdite che gli
inflissero i Francesi. Di fatto, Parigi si rivelò al di là della loro portata. Di maggior rilevo fu invece la vittoria
della marina inglese a Malaga nel 1704 che sancì la supremazia marittima dell’Inghilterra. Eppure, nonostante
questo indubbio successo, gli Inglesi furono costretti a scortare i propri mercantili per difendersi dai corsari
francesi. Gli “alleati” potevano sì colpire duramente la Francia ma non debellarla, dato che l’impero di Luigi
era largamente autosufficiente. Sicché, allorquando l’arciduca Carlo, il candidato degli alleati al trono di Spagna,
salì sul trono imperiale per l’improvvisa scomparsa dell’imperatore Giuseppe, l’Inghilterra non esitò a ritirarsi
dalla coalizione (1712). La guerra durò ancora per poco e con i trattati di Utrecht (1713) e Rastatt (1714) si
consolidò un nuovo equilibrio europeo, benché la potenza che ne trasse i maggiori vantaggi fu l’Inghilterra, che
ottenne Gibilterra, Minorca, la Nuova Scozia, Terranova, la baia di Hudson, concessioni di pesca in America
Latina, nonché l’asiento a condizioni di particolare favore (4.800 schiavi negri all’anno, per trent’anni, e permesso
di esportare oro e argento dall’America spagnola)381. Anche la finanza inglese aveva svolto un ruolo di primo piano
nel conflitto: nel 1710-11 sul libro paga dello Stato inglese si contavano ben 171.000 ufficiali e soldati (di cui
113.750 stranieri). La fondazione della Banca d’Inghilterra, la crescita dell’economia, grazie ai traffici marittimi,
e una solida finanza pubblica furono essenziali nella lotta contro la Francia del Re Sole e permisero all’Inghilterra
di aumentare considerevolmente il proprio debito. Sul mare poi il ruolo dell’Inghilterra era stato determinante e
per alcuni decenni i vascelli inglesi avrebbero dettato legge pressoché incontrastati. Se nel 1689 gli Inglesi erano
ancora impegnati a lottare per la supremazia sul mare, nel 1739 praticamente la marina inglese aveva una forza pari
alle tre principali marine europee382. Inoltre, ora i Francesi si trovavano con le campagne impoverite e con un
debito nazionale aumentato di sette volte, dovendo di conseguenza riservare le loro risorse alla sicurezza delle
proprie frontiere e rinunciare a una politica di potenza marittima.. Se questa era la situazione creatasi nell’Europa
occidentale all’inizio del Settecento, si deve tener presente che mentre si combatteva la guerra di successione
spagnola, si combatteva anche un’altra guerra, altrettanto importante, nell’Europa orientale.
L’ascesa al trono del quindicenne Carlo XII di Svezia nel 1697, indusse Danimarca, Polonia e Russia ad
accordarsi per attaccare gli Svedesi, nella convinzione che fosse giunto il momento propizio per spartirsi buona
parte dell’impero baltico della Svezia. Attaccando contemporaneamente speravano di obbligare gli Svedesi a
dividere le proprie forze. La Svezia però poteva contare, oltre che sull’appoggio anglo-olandese sul mare, su un
forte esercito e sulla perizia del suo comandante, cioè lo stesso Carlo XII, che non affatto intimorito reagì
prontamente, occupando la Zelanda e minacciando Copenaghen. La Danimarca dovette allora firmare il Trattato
di Travendal e uscire dal conflitto, mentre le truppe svedesi respinsero l’invasione della Livonia da parte dei
Sassoni. Gli Svedesi poterono quindi costringere i Russi a togliere l’assedio alla fortezza di Narva, che
proteggeva la via d’accesso all’Estonia. Invero, l’assedio era stato condotto assai male dall’esercito russo, che
dovette ritirarsi precipitosamente perdendo 8/10.000 uomini e tutta l’artiglieria. Sconfitti i Russi, Carlo XII
attaccò i Polacchi e conquistò Varsavia. Dopodiché sbaragliò un esercito sassone-polacco a Klissow . In questa
battaglia si manifestarono ancora l’abilità e la determinazione degli Svedesi, i quali, dopo una marcia silenziosa
in un terreno difficile, piombarono addosso ai Sassoni di sorpresa: la cavalleria attaccò senza sparare un colpo,
mentre la fanteria condusse con successo un assalto alla baionetta, approfittando del fuoco della propria
artiglieria, messa in posizione prima di quella nemica. Dopo questa vittoria, Carlo XII pose sul trono della
Polonia Stanislao Leszczynski e l’anno seguente sconfisse nuovamente un esercito sassone, che era il doppio
di quello svedese. Il tempo impiegato dal re svedese a combattere contro i Sassoni non venne però sprecato
dallo zar Pietro, il quale, ispirandosi proprio al modello svedese, istituì nel 1705 un sistema di leva che
prevedeva che venisse reclutato un soldato per ogni 20 capifamiglia. Pietro poté così radunare, nel 1707, un
esercito di circa 200.000 uomini383, armati con nuovi moschetti e baionette ad incastro. E lo zar non trascurò
nemmeno di creare una marina militare.
Quando Carlo XII attaccò la Russia nel 1708 si scontrò quindi con un nemico che era assai diverso da quello
sconfitto a Narva nel 1700 e che non aveva alcuna intenzione di perdere la propria “finestra sul Baltico”. Tuttavia,
il re svedese ebbe successo nell’attraversare la Berezina e sbaragliò un esercito russo che cercava di sbarrargli
la strada verso Smolensk e Mosca. La vittoria aveva avuto però un costo assai alto per gli Svedesi, che persero
1.250 uomini. Inoltre, il loro sistema logistico, non affatto perfetto, venne messo a durissima prova, dato che i
Russi fecero “terra bruciata” distruggendo raccolti e fattorie, non solo in Livonia ma anche nella stessa Russia.
381
Vedi J. Black, European Warfare, 1660-1815, cit., p. 109.
382
P. Kennedy, op. cit., p. 160.
383
Si stima che nel 1700 la popolazione russa non superasse i 17,5 milioni e quindi fosse ancora inferiore a quella francese (19/20 milioni). Per queste
stime vedi P. Kennedy, op. cit, p. 159.
141
Nella speranza di sollevare l’Ucraina di Ivan Mazepa e i suoi Cosacchi contro i Russi, Carlo XII nel terribile
inverno 1708-09 puntò verso sud. La risposta di Pietro non si fece attendere: inflisse un severissima punizione
ai Cosacchi di Mazepa, facendo radere al suolo la città di Baturyn. Per di più, a Lesnaya una colonna di
rifornimenti per l’esercito svedese era stata distrutta rendendo ancora più precaria la situazione di Carlo XII, il
quale non riuscì a coinvolgere nella guerra contro i Russi né gli Ottomani né i Cosacchi del Don. In queste
condizioni l’esercito svedese si scontrò a Poltava (giugno 1709) con l’esercito di Pietro: gli Svedesi disponevano
solo di quattro cannoni da opporre ai 102 pezzi d’artiglieria (di cui 21 pesanti) dei Russi, che, non avendo problemi
di munizioni, poterono sparare 1.450 colpi facendo a pezzi l’esercito svedese, che ebbe 6.900 morti, mentre gli
Svedesi che riuscirono a fuggire, inseguiti per tre giorni dai Russi, vennero pressoché tutti catturati384. La sconfitta
di Carlo fu disastrosa per la Svezia: il re svedese riparò in Turchia, ove rimase fino al 1714. Augusto riprese il
trono di Polonia e Federico IV invase la Svezia. Anche se i Danesi non ebbero fortuna (Magnus Stenbock li
batté nella Scania e anche una flotta danese venne sconfitta), lo zar Pietro occupò la Curlandia, assediò e prese
diverse città, tra cui Vyborg e Riga. Un altro tentativo di un esercito di Danesi e Sassoni nel 1712 venne
respinto da Stenbock, ma un esercito svedese venne ancora battuto l’anno seguente dai Russi (questa volta con
l’aiuto di Danesi e Sassoni), che vinsero pure una battaglia navale nelle acque di Hangö, mentre la Svezia veniva
aggredita dalla Prussia, che svolse la parte decisiva nella presa di Straslund (1715). Nel 1718 Carlo XII venne
colpito a morte nell’assedio della fortezza norvegese di Fredrikshald e gli Svedesi dovettero ritirarsi anche dalla
Norvegia. L’anno successivo i Russi saccheggiarono la costa orientale della Svezia, che infine dovette
rassegnarsi a tornare ad essere una potenza di secondo piano. La Russia invece con la pace di Nystad (o Nyborg)
del 1721 vide riconosciuti i principali guadagni territoriali nella guerra combattuta contro gli Svedesi,
conservando la costa baltica, dall’istmo della Carelia fino a Riga, e sostituendo la Svezia come grande potenza
del Nord.
Le riforme di Pietro avevano dato i loro frutti, ma non si limitarono al mondo militare, lo zar prendendo
come esempio l’Europa occidentale. Pietro, da un lato, riformò l’amministrazione pubblica: divise il Paese in
province governate ciascuna da un funzionario statale, introdusse un codice civile sul modello svedese e rese
ancora più salda la dipendenza della chiesa ortodossa dallo Stato; dall’altro, diede impulso al commercio e
all’industria, proibendo ai mercanti stranieri di commerciare oltre le città costiere o di confine e costituendo
delle compagnie commerciali. Tra mille difficoltà Pietro cercò inoltre di sviluppare il commercio russo nel
Baltico potenziando il porto di San Pietroburgo. Gran parte di questi sforzi sarebbero però risultati vani, le
riforme dello zar essendo calate dall’alto, in un contesto caratterizzato da una cultura assai diversa da quella
dell’Europa occidentale. Inoltre, i contadini vennero assoggettati alla servitù della gleba in modo ancor più
rigoroso: ogni comunità contadina o mir doveva ora obbedienza al proprio signore il quale era responsabile verso
lo Stato per le imposte o le corvées che il mir doveva allo Stato. Ma è indubbio che la Russia si stava avviando
a diventare una protagonista sulla “grande scacchiera” geopolitica.
Del resto, la Russia, come si sa, era impegnata anche contro la Turchia, una rivalità che avrebbe
contrassegnato la politica internazionale fino all’inizio del Novecento. Con il trattato di Adrianopoli del 1713
Russi e Turchi si erano accordati per un periodo di pace di 25 anni, ma con il collasso della dinastia dei Safavidi
in Persia le ambizioni russe riguardo alla costa occidentale del Mar Caspio dovevano nuovamente inasprire i
rapporti tra Russa e Turchia. Vi furono quindi degli. scontri tra I due Paesi, ma la guerra fu momentaneamente
evitata, anche perché i Turchi avevano i loro “guai” a causa di una rivolta a Costantinopoli e la Russia venne
invece coinvolta nella guerra di successione polacca, che vide i Russi invadere la Polonia, conquistare Danzica
e sconfiggere un esercito francese che era accorso in aiuto ai Polacchi . Ma il conflitto con i Turchi riguardo al
Caucaso non poteva essere evitato a lungo e la Russia, dopo un inutile tentativo di riprendere Azov, nel 1736
dichiarò guerra alla Turchia conquistando la città contesa. Nondimeno, la guerra del 1736-39 terminò senza che
la Russia avesse conseguito il suo principale obiettivo strategico, cioè quello di guadagnare il controllo di un
significativo tratto di costa sul Mar Nero.
Peraltro,anche in Europa occidentale, tra la fine della guerra di successione spagnola e la guerra dei sette
anni, vi furono altri conflitti, in particolare la già menzionata guerra di successione polacca e la guerra di
successione austriaca. La prima, originatasi per la salita al trono della Polonia di Stanislao Leszczynski sostenuto
dai Francesi, oppose la Francia e la Spagna all’Austria, alla Russia e alla Sassonia. Questa volta l’Inghilterra,
guidata da Walpole, però non intervenne, nonostante il conflitto interessasse la regione del Reno e la penisola
italiana. E con la pace di Vienna (1738): Stanislao rinunciò al trono di Polonia per quello della Lorena, mentre
l’Austria dovette cedere la Sicilia, Napoli e lo Stato dei Presìdi alla Spagna, ottenendo in cambio il ducato di
Parma. La guerra di successione austriaca, scoppiò invece allorché Maria Teresa d’Austria dovette fronteggiare
384
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas, cit., p. 112.
142
la netta opposizione di Federico II di Prussia, il cui esercito invase la Slesia, sconfiggendo (aprile 1741) quello
austriaco nella battaglia di Mollwitz. Nella guerra però era coinvolta anche la Francia che appoggiava la Prussia in
funzione antiasburgica, e nel 1742 truppe francesi attraversarono il Reno unendosi a quelle bavaresi. I FrancoBavaresi presero Linz, ma non riuscirono a prendere Vienna, anche se si spinsero fino a Praga. Gli Austriaci
comunque ripresero Linz e portarono lo scompiglio nelle retrovie nemiche con incursioni da parte dell’ottima
cavalleria leggera ungherese, di modo che i Franco-Bavaresi, per evitare di essere accerchiati furono costretti
ad una penosa ritirata in pieno inverno.
Anche i Russi attaccati nel 1741 dagli Svedesi, su pressione francese, avevano reagito prontamente, tanto
che, marciando in una zona coperta di foreste, erano riusciti ad accerchiare e distruggere un esercito svedese,
ragion per cui nel 1743 la Svezia dovette accettare le condizioni di pace poste dalla Russia. Nel 1742, tuttavia,
Federico II dopo aver ottenuto da Maria Teresa gran parte della Slesia si era ritirato dal conflitto. Ma
l’Inghilterra, che considerava la Francia come la potenza da battere, decise di sostenere comunque Maria
Teresa (ovviamente in funzione antifrancese) con un sussidio annuo, prima di 300.000 sterline e poi portato a
500.000 sterline. Gli Inglesi quindi imposero alla Francia uno stretto blocco commerciale. Inoltre nel 1744
Federico II rientrò nel conflitto. L’esercito prussiano avanzò verso Praga, ma anche i Prussiani furono messi
in difficoltà dalla tattica austriaca, consistente nell’interrompere le loro linee di comunicazione, e dovettero
ritirarsi. Incoraggiati da questo successo, gli Austriaci, con il sostegno dei Sassoni, passarono al contrattacco,
con l’obiettivo di riconquistare la Slesia, ma vennero sconfitti ad Hohenfriedberg e poi a Soor385. E Federico II
giunse infine ad occupare Lipsia e Dresda. Pertanto, con la Pace di Dresda del dicembre del 1745, la Prussia si
assicurò definitivamente il possesso della Slesia. Ma la guerra continuava contro la Francia, che era impegnata
soprattutto contro gli Anglo-Olandesi, al punto che i Francesi avevano progettato di invadere l’Inghilterra. Un
progetto che poi venne abbandonato, la Francia preferendo concentrare le proprie forze contro i Paesi Bassi
austriaci, ove Maurizio di Sassonia (conosciuto come il Maresciallo di Sassonia) colse una grande vittoria a
Fontenoy nel 1745, sconfiggendo nettamente un esercito anglo-olandese, i cui attacchi frontali si infransero
contro la solida difesa francese. Dopo la vittoria a Fontenoy, cadde rapidamente una serie di piazzeforti, tra cui
Bruges, Ostenda e Nieuport. I Francesi presero poi Bruxelles, Anversa, Mons, Charleroy e Namur, e il
Maresciallo di Sassonia sconfisse di nuovo un esercito anglo- olandese a Roucaux. L’anno seguente (1747) il
più che abile Maresciallo penetrò nelle Fiandre olandesi e batté ancora un esercito anglo- olandese, che cercava
di riprendere Anversa. Nel 1748 Maurizio, al comando di 100.000 uomini, riuscì anche a far cadere Maastricht,
un’operazione che mostrò il grado di preparazione dell’esercito francese nella guerra ossidionale. Ora Francia
aveva l’Olanda alla propria mercé, ma questo non poteva certo compensare la perdita delle principali colonie e il
crollo dei traffici commerciali marittimi della Francia. D’altra parte, a poco sarebbero servite agli Inglesi le
vittorie sul mare e la cattura di Louisburg sul fiume San Lorenzo se la Francia avesse conquistato l’Olanda.. In
effetti, con la pace di Aquisgrana del 1748 venne ristabilito, in sostanza, lo status quo. Tuttavia, pur condividendo
il giudizio di chi sostiene che la Prussia e la Russia furono i veri vincitori della guerra di successione austriaca386,
pare innegabile che si fosse combattuta una guerra inconcludente, giacché non aveva risolto le due questioni di
fondo che agitavano le acque della politica europea, vale a dire la rivalità austro-prussiana da un lato, e soprattutto
quella anglo-francese dall’altro. In palio vi era appunto l’egemonia sul continente europeo. Ma Aquisgrana
segnò anche l’inizio di una lotta furibonda per il dominio degli spazi transoceanici. In defintiva, come spesso
era accaduto e come sarebbe ancora accaduto, questa guerra ne aveva preparata un’altra.
In questo torno di tempo vi furono anche importanti innovazioni per quanto concerne le istituzioni militari,
che occorre conoscere per meglio comprendere i conflitti XVIII secolo. Sotto il profilo sociale, si deve osservare
che la società europea nel Settecento era ancora rigidamente divisa in differenti classi sociali, e l’età del
nazionalismo doveva ancora venire. Perciò, se, in generale, gli ufficiali erano reclutati tra la piccola e media nobiltà
(benché in Inghilterra non vi fosse una aristocrazia militare, essendo meno netta la differenza tra la ricca
borghesia e l’aristocrazia), soldati e marinai venivano reclutati tra i ceti sociali “non produttivi” (vagabondi,
mendicanti, delinquenti, prigionieri di guerra, individui che vivevano di espedienti, disoccupati e così via). La
barriera fra truppa e ufficiali era quindi presente ovunque (Inghilterra compresa) e per i soldati (e i marinai) quel
che contava erano soprattutto il vitto e la paga. Assai numerosi erano i soldati stranieri. Ad esempio, buona parte
dell’esercito prussiano (80.000 uomini in tempo di pace, rispetto ai 160.000 della Francia e ai 100.000
Si ritiene che in queste due battaglie Federico II abbia impiegato la tattica dell’“ordine obliquo”, anche se, di fatto, la tattica impiegata dal sovrano
prussiano consisteva, in una manovra di attacco e aggiramento su un fianco dell’esercito nemico, basata sul rafforzamento di un’estremità dello
schieramento prussiano, pur minimizzando i rischi sul lato più debole. Fondamentale era eseguire tale manovra - che non era affatto facile da effettuare
- celermente e con la massima precisione possibile.
386
«The two Powers which emerged triumphant were Prussia and Russia» scrive J. O. Lindsay in New Cambridge Modern History (=NCMH), vol. VII,
The Old Regime, 1713-63, p. 211.
385
143
dell’Austria che pure avevano una popolazione dieci volte superiore a quella della Prussia) era composta da
prigionieri di guerra o da soldati stranieri che avevano disertato, e per la Prussia era normale reclutare soldati
nei territori conquistati. Inoltre, anche se lo Stato prussiano era diviso in cantoni, e ciascuno di essi doveva
reclutare un reggimento (ossia 5.000 moschetti o 1.800 cavalli) ed essere in grado di farlo tre volte, borghesi
e contadini, in quanto svolgevano lavori “produttivi”, non dovevano prestare servizio militare, mentre gli
ufficiali dovevano provenire dalla aristocrazia terriera, dato che Federico II era convinto che degli ufficiali
borghesi avrebbero inevitabilmente danneggiato lo spirito combattivo dell’esercito e indebolito lo Stato. Una
ferrea gerarchia caratterizzava quindi l’esercito prussiano: gli ufficiali inferiori dovevano temere quelli
superiori, mentre i soldati dovevano temere i propri ufficiali perfino più dei nemici. Comunque, in tutti gli eserciti
i soldati erano perlopiù mediocri combattenti e solo una durissima disciplina militare garantiva un certo ordine
e una certa efficienza (sebbene sembri che la severità delle punizioni avesse poca incidenza sul tasso delle
diserzioni).
Si deve anche tener presente che, a differenza dell’esercito prussiano, l’esercito francese, eccellente
all’inizio del secolo XVIII, conosceva a metà del secolo un grave declino. Gli ufficiali erano assai numerosi
rispetto ai e tutt’altro che capaci (sebbene, com’è ovvio, le eccezioni non mancassero). Un terzo di loro
proveniva dalla classe media, ma si diventava ufficiali non per merito bensì per nascita o per denaro, grazie alla
“venalità delle cariche” (un sistema in uso anche nell’esercito inglese). E gli ufficiali nobili erano quasi sempre
assenti dai reparti, né avevano stimoli per imparare o per migliorarsi. Più competenti erano gli ufficiali di marina,
giacché nella marina francese, come in quella inglese, non era prevista la “vendita delle cariche”, un sistema
di selezione che non favoriva certo i più capaci. Ciononostante, vi era necessità di scuole o accademie militari
per creare un corpo di professionisti, essendo sempre più indispensabile disporre di ufficiali preparati e di
specialisti, specialmente per quanto riguardava l’artiglieria e l’ingegneria militare. Tra i Paesi europei fu forse
l’Austria quello che più si dedicò a riformare le istituzioni militari, anche per far fronte alla difficile sfida con la
Prussia. La famosa accademia di Wiener Neustadt venne creata nel 1752 e Maria Teresa si preoccupò anche di
migliorare la condizione sociale degli ufficiali, benché ormai la carriera militare conferisse un notevole
prestigio sociale in qualsiasi Paese europeo, mentre si diffondeva pure quel particolare “codice d’onore”
militare, che avrebbe contrassegnato la società europea nei secoli seguenti. Peraltro, anche la Russia si prodigò
parecchio per migliorare l’addestramento e la preparazione degli ufficiali, istituendo regolamenti per la fanteria
e la cavalleria, ma soprattutto rafforzando il corpo d’artiglieria. Per quanto riguarda invece il potenziamento della
marina militare, è degno di nota lo sforzo fatto dalla Spagna, che nel 1753 giunse a destinare il 20,4% delle spese
governative per la propria flotta387. Anche la Francia si impegnò notevolmente nel settore navale, obbligando
la marina inglese a fare altrettanto. In definitiva, il costo di una forte flotta da guerra divenne tale che solo pochi
Paesi potevano sostenerlo, ma il divario tra i diversi Paesi europei si andava allargando anche per quanto
concerneva le dimensioni e la “forza” degli eserciti. Paesi come la Svezia, la Danimarca, il Piemonte, o la
Sassonia non potevano che rassegnarsi a svolgere un ruolo secondario senon marginale. Vale a dire che, di
fatto, la guerra dei sette anni fu essenzialmente una guerra tra grandi potenze europee.
La scintilla che provocò il grande incendio fu il sequestro in vari porti di 300 vascelli francesi da parte degli
Inglesi. Lo scopo strategico dell’Inghilterra era la distruzione dell’impero coloniale francese, ma la “trama”
dei conflitti coloniali si venne ad “intrecciare” con quella dei conflitti del continente europeo a seguito di un
trattato di neutralità tra Inghilterra e Prussia, che si sentiva “stretta” tra Russia e Austria. Perciò la Francia, che
si trovò isolata, replicò alleandosi con l’Austria. S’iniziò così la guerra dei sette anni, che vide la Prussia,
l’Hannover e l’Inghilterra battersi contro la Francia, l’Austria, la Russia, la Spagna, la Svezia e la Sassonia. Ma
se nel Vecchio Continente la guerra fu soprattutto quella della Prussia contro le altre potenze continentali
europee, nei territori extraeuropei invece decisivo fu il conflitto tra la l’Inghilterra e la Francia (e la Spagna).
Dato però che questo era un conflitto che opponeva i Paesi europei già da lungo tempo, ci occuperemo prima
della guerra nel continente europeo.
Federico II, pur essendo al corrente che la zarina Elisabetta considerava la Prussia un ostacolo alla politica
russa in Europa orientale, decise di passare all’attacco per primo (anziché rimanere su posizioni difensive come
gli consigliavano gli Inglesi), invadendo il più debole alleato dell’Austria, la Sassonia, inducendo così la Russia,
ad allearsi con l’Austria. Minacciato da ogni lato, sconfitto dagli Austriaci a Kolin e persa gran parte della Slesia,
Federico II, manovrando per linee interne, sconfisse comunque i suoi nemici separatamente, infliggendo loro
(1757) due terribili “mazzate”: i Francesi furono nettamente battuti a Rossbach e gli Austriaci a Leuthen388; e a
387
Vedi J. Black, European Warfare, 1660-1815, cit., p. 132.
388
A Rossbach, i Francesi, in netta superiorità (30.000 soldati e altri 10.900 alleati tedeschi contro 21.000 soldati prussiani), non si aspettavano
l’attacco di Federico II, che riuscì a nascondere i movimenti del suo esercito dietro un colle. La cavalleria di von Seydlitz prima mise in fuga quella
144
Zorndorf (1758) il sovrano prussiano sbaragliò un esercito russo. La pressione contro la Prussia però era troppo
forte e Federico II, che pure vinse ancora a Liegnitz e Torgau, non poté impedire che gli Austro-Russi
vincessero a Kunersdorf e che i Russi occupassero perfino Berlino (1760); inoltre, nel 1760-61 anche gli Austriaci
consolidavano le loro posizioni in Sassonia e in Slesia. L’asprezza della lotta stava logorando la Prussia che solo
nel 1759 aveva perso 60.000 soldati. Il sostegno finanziario degli Inglesi era prezioso ma non sufficiente a
compensare uno squilibrio di forze così grande. Fu l’improvvisa morte della zarina Elisabetta, acerrima nemica
di Federico II, alla quale successe Pietro III, un ammiratore della Prussia, a salvare Federico II dalla (pressoché
certa) sconfitta. Usciti di scena i Russi, gli Austriaci furono battuti a Burkesdorf e l’anno dopo, ad Hubertsburg
(1763). La Prussia ottenne quindi la conferma del possesso della Slesia, che equivaleva a riconoscere la Prussia
come grande potenza. Il costo della guerra era però stato immane: la Prussia aveva perso 180.000 soldati e
l’impero asburgico 300.000.
La Russia invece, pur vedendo confermato il suo status di grande potenza, non ne aveva tratto vantaggi.
Peraltro, i Russi dovevano risolvere il problema polacco e quello turco. Quello polacco sarebbe stato risolto
insieme all’Austria e alla Prussia con la spartizione della Polonia (1772)389 . Quello turco invece fu risolto senza
l’intervento di altre potenze. E fu proprio a causa di una violazione da parte dei Russi del territorio polacco che
scoppiò la guerra con Turchia nel 1768. I Russi, guidati da Rumyantsev (la cui tattica consisteva,
essenzialmente, nell’uso massiccio dell’artiglieria e nell’impiegare diverse colonne mobili che si
appoggiavano reciprocamente), sconfissero ripetutamente gli Ottomani, spingendosi fino al Prut. Nel 1770, una
flotta russa, circumnavigò l’Europa e distrusse una flotta ottomana nelle acque di Chio, riuscendo così a bloccare
i Dardanelli, benché fallisse nel sostenere una insurrezione greca nella Morea, che venne domata dai Turchi. I
Russi invasero pure la Crimea, assicurandosi il controllo di Kerc, ma Rumyantsev dovette interrompere
l’offensiva oltre il Danubio per mancanza di forze sufficienti (la Russia era adesso impegnata nella prima
spartizione della Polonia e nella repressione della rivolta di Pugacev). La guerra comunque terminò con un
netto successo della Russia che oltre a diverse conquiste territoriali ottenne il libero accesso agli Stretti. Inoltre,
il Canato di Crimea divenne indipendente dalla Turchia e la Crimea fu annessa alla Russia nel 1783 . In seguito
fallì il tentativo turco di riprendere la Crimea e i Russi inflissero nuove sconfitte agli Ottomani, la cui flotta
venne battuta da quella russa del Mar Nero. Inoltre i Russi occuparono il delta del Danubio, spingendosi poi a
sud del grande fiume. Selim III dovette firmare allora la pace di Jassy (1792), che vide la Russia spostare il
confine sino al Dnestr. (Di notevole importanza furono anche gli scontri sul mare con la Svezia in questi anni,
ma le ostilità tra Russsia e Svezia si conclusero con il trattato di Värälä del 1790, non avendo più entrambi i
contendenti né la forza né la volontà di continuare la guerra).
Per quel che concerne la Francia e l’Inghilterra, la guerra dei sette anni ebbe invece come conseguenza
l’eccezionale crescita del loro debito, ma le vittorie dell’Inghilterra contavano assai più di questo problema, sia
sotto il profilo (geo)politico che sotto quello economico (la stessa intensificazione del commercio d’oltremare
faceva aumentare le entrate doganali del Paese). D’altronde, il contributo inglese alla sconfitta dell’Austria e
della Francia non fu solo finanziario ma anche militare (l’Inghilterra arrivò a mettere sul campo 200.000 soldati,
inclusi i mercenari tedeschi). Venne così eliminata la minaccia francese nei confronti dell’Hannover e il duca
di Brunswick costrinse un esercito francese a ritirarsi. Più rilevanti furono però le vittorie inglesi sul mare,
contro la flotta francese di Tolone e contro la flotta francese di Brest. La prima, al comando di La Clue, eluse il
blocco inglese, ma venne bloccata a Lagos, sulla costa portoghese. L’ammiraglio inglese, Edward Boscawen,
non si curò del fatto che i Francesi erano in acque neutrali e assalì la flotta di La Clue, che perse cinque vascelli.
La flotta di Brest venne invece intrappolata nella baia di Qiberon e i Francesi persero sette vascelli. Il vero
obiettivo di Pitt consisteva però nel ridimensionare l’impero coloniale francese a vantaggio di quello inglese.
Questo lo poteva ottenere aiutando la Prussia e costringendo i Francesi a disperdere le proprie forze, di modo da
colpire la Francia nei punti più vulnerabili, ossia sul mare e nelle colonie. La lotta decisiva per l’Inghilterra era
quindi quella che si combatteva in India e in America.
avversaria, poi travolse la fanteria francese, le cui file erano già state scompaginate dal fuoco di una batteria di cannoni e da quello dei moschettieri
prussiani (sempre i più rapidi a manovrare sul campo di battaglia). I Prussiani persero poco più di 500 uomini contro 10.000 soldati nemici, molti dei
quali vennero presi prigionieri. Anche a Leuthen i Prussiani erano in inferiorità numerica, 35.000 contro i 54.000 uomini di Carlo di Lorena, e la vittoria
di Federico II è considerata un magnifico esempio di impiego dell’“ordine obliquo”. Profittando di un rilievo del terreno, l’esercito prussiano finse un
attacco contro l’ala destra austriaca mentre aggirava l’ala sinistra. Un contrattacco della cavalleria austriaca venne respinto e i Prussiani rimasero padroni
del campo di battaglia. Le loro perdite non furono leggere ma ben più gravi furono quelle dell’esercito di Carlo di Lorena (vedi J. Black, The Cambridge
Illustrated Atlas, cit., pp. 123-124. Queste vittorie furono ottenute grazie al talento di Federico II, ma anche allo spirito d’iniziativa dei suoi ufficiali che
avevano facoltà di agire per il meglio sul campo di battaglia, pur essendo responsabili di fronte al sovrano delle conseguenze delle proprie decisioni.
389
La Lituania seguì la sorte della Polonia. La confederazione polacco-lituana risaliva al 1385, anche se si era perfezionata nei due secoli successivi.
La Lituania comunque aveva raggiunto il suo apogeo con il granduca Vytautas (XIV/XV secolo) che estese il suo dominio (che comprendeva pure Kiev)
fino al Mar Nero.
145
Un conflitto mondiale e la rivoluzione americana. La penetrazione inglese in India cominciò all’inizio del Seicento
ad opera della Compagnia inglese delle Indie orientali, ma per lungo tempo si trattò di una penetrazione
puramente commerciale che necessitava solo di alcune basi, come quelle di Madras e Bombay. La penetrazione
francese cominciò invece più tardi, dopo l’istituzione della Compagnia francese delle Indie orientali nel 1668.
La politica francese in India era simile a quella inglese, finché nel 1742 responsabile degli insediamenti
francesi venne nominato un capace funzionario, Joseph-François Dupleix,. Durante la guerra di successione
austriaca Dupleix riuscì addirittura ad impadronirsi di Madras e a frustrare un tentativo inglese di assediare
Pondichéry, ma la pace di Aquisgrana gli impose di restituire Madras agli Inglesi. Ciononostante, Dupleix
riteneva che le forze militari di cui disponeva (relativamente numerose e ben armate) gli permettessero di
sfruttare il declino dell’impero di Dehli per consolidare le posizioni francesi in India.
La lotta di successione per il trono di Hyderabad gli offrì l’opportunità di intervenire nel conflitto per
sostenere un suo “protetto”, e nel 1749, la lotta per la “nabibia” del Carnatico, permise a Dupleix di mettere a
capo di questa regione un altro suo “protetto”, Chanda Sahib. Ovviamente i progetti di Dupleix erano in
contrasto con quelli degli Inglesi, che non si limitarono a guardare le “mosse” dei Francesi. Gli Inglesi, guidati
da Robert Clive, infatti, non solo catturarono la capitale di Chanda Sahib, ma costrinsero quest’ultimo alla resa
(1752). Lally-Tolendal tentò allora di rovesciare il governo del Carnatico messo in piedi da Clive, ma dopo
l’insuccesso nell’assedio di Madras, venne sconfitto a Masulipatam e poi a Wandewash (1760). Pertanto, nel
gennaio del 1761 fu costretto a capitolare a Pondichery. Gli Inglesi intervennero anche nel Bengala, dato che il
“nababbo” del Bengala, Siraj-ud-Daulah, aveva catturato il forte della Compagnia britannica a Calcutta. Clive
liberò i prigionieri ed occupò pure la base francese di Chandernagore. Poi rivolse la propria attenzione contro
lo stesso Siraj, che era sostenuto dai Francesi, e lo sconfisse in una battaglia decisiva a Plassey (l’esrcito di Siraj
si fece prendere dal panico e si ritirò, lasciando gli Inglesi padroni del campo di battaglia).
La posizione britannica si rafforzò con le vittorie nelle battaglie di Patna (in cui l’artiglieria fece a pezzi la
cavalleria indiana) e Buxar nel 1764. Ancora una volta la maggiore potenza di fuoco dell’esercito della Compagnia
inglese ebbe ragione della cavalleria degli Indiani, che persero circa 6.000 uomini contro i 733 perduti dalla
Compagnia inglese390. Le vittorie inglesi resero possibile giungere al trattato di Allahbad (1765) con cui la
Compagnia inglese ottenne l’amministrazione finanziaria del Bengala, una delle più ricche regioni dell’India,
ma soprattutto eliminarono (di fatto) la possibilità che i Francesi impedissero all’Inghilterra di conquistare
l’India.391. Nella guerra dei sette anni gli Inglesi sottrassero pure agli Spagnoli le Filippine, con il loro prezioso
emporio di Manila (che però sarebbe tornata alla Spagna dopo la guerra). Inoltre, i Francesi furono costretti a
cedere il Senegal con gli importanti stabilimenti di Saint-Louis per il traffico degli schiavi. Pur tuttavia, dacché
nel XVIII secolo l’Africa interessava agli Europei pressoché solo in relazione al traffico degli schiavi, il ruolo
geopolitico e geoeconomico del continente africano era (tutto sommato) ancora marginale rispetto al continente
americano, il cui “peso geopolitico” invece diventava sempre maggiore392.
Invero, nel Settecento, in America la lotta sia tra Europei che tra questi ultimi e gli Amerindiani fu assai più
dura di quanto non lo fosse stata nei due secoli precedenti. Per quanto concerne l’America meridionale, la
colonizzazione spagnola avanzò sia in Cile che in Patagonia, benché più importante fosse la colonizzazione
portoghese dell’interno del Brasile, in specie dopo la scoperta di miniere d’oro e di diamanti nella zona di Minas
Gerais. Si deve anche notare che le colonie dell’America meridionale nel Settecento crebbero anche dal punto
di vista militare con la creazione di milizie locali, certo assai utili contro tribù indigene ostili, ma che avrebbero
390
Vedi J. Black, The Cambridge Illustrated Atlas. Warfare, cit., p. 160.
391
Rimaneva, per gli Inglesi, il problema dei Maharatti pur indeboliti dopo la sconfitta patita ad opera degli Afghani di Ahamd Durrani, che tra il 1747
e il 1769 aveva invaso l’India non meno di dieci volte e sconfitto duramente i Maharatti a Pampat (vedi NCMH, vol. VII, op. cit., p. 24). Ma non era un
problema di facile soluzione. Un esercito inglese venne accerchiato a Wadgaon e dovette venire a patti con i Maharatti. Dopo una serie di combattimenti
inconcludenti, gli Inglesi riuscirono però a portare i Maharatti dalla propria parte contro il Mysore. Dopo aver vinto una serie di scontri, le truppe di
Cornwallis avanzarono su Seringapatam e poterono congiungersi con quelle di Abercromby, che avevano occupato il Malabar. Le operazioni inglesi
furono favorite pure dal fatto che la Francia, a causa della rivoluzione, non poteva aiutare il sultano Tipu, che dovette cedere agli Inglesi il controllo di
gran parte del Mysore. Nel 1799 comunque anche Seringapatam venne conquistata. All’inizio dell’Ottocento la Compagnia, che agiva per conto del
governo britannico, intraprese la conquista dell’intera India. Lord Hastings prese il Deccan e sconfisse i Maharatti (1818). La guerra contro i Gurkha
assicurò agli Inglesi il controllo effettivo del Nepal, mentre la Birmania dovette cedere l’Assam, l’Arakan e il Tennaserim (1826).
392
L’area africana interessata al commercio degli schiavi, nel XVIII secolo, era soprattutto quella dell’Africa occidentale, che si estendeva per 3.500
miglia, dal Senegal all’Angola (vedi NCMH, vol. VII, op. cit., p. 24). In questo secolo nel Nord Africa l’autorità dell’impero ottomano andò declinando,
tanto che i Mamelucchi erano di fatto indipendenti e Ali Bey ul-Kebir estese il suo dominio dall’Alto Egitto fino alla Siria. Solo nel 1786 i Turchi
ripresero il controllo di quest’area. All’inizio del Settecento anche la Tripolitania, la Tunisia e l’Algeria si resero in pratica indipendenti. L’Algeria,
tuttavia, fu coinvolta in un serie di scontri con la Spagna, che subì parecchie perdite e dovette cedere Orano agli Algerini nel 1792. Nella Colonia del
Capo invece gli Olandesi, che nella seconda metà del Settecento avevano cominciato a spostarsi verso est, dovettero fronteggiare la forte resistenza
degli Xhosa (un gruppo etnico di origine Bantu), che però furono sopraffatti presso il fiume Great Fish, a circa 500 miglia a est di Città del Capo (vedi
R. Oliver e J. D. Fage, op. cit., p 130).
146
pure potuto rappresentare in futuro un problema per la Spagna o il Portogallo. Diverse e indubbiamente più
complesse furono però le vicende delle colonie europee nell’America settentrionale. Qui le popolazioni
indigene opponevano una resistenza maggiore agli Europei, tanto che le colonie britanniche della Carolina del
Sud furono quasi distrutte nel 1715. D’altra parte, anche i coloni francesi, dopo avere fondato New Orleans e
Baton Rouge, dovettero far fronte agli attacchi di alcune tribù indigene. I Francesi reagirono ferocemente,
incendiando i villaggi e i raccolti dei Chickasaw e massacrando i Natchez in una impegnativa campagna militare,
che durò dal 1729 al 1731. Pure gli Spagnoli si scontrarono con alcune tra le più bellicose popolazioni indigene,
come gli Apache e i Comanche, per difendersi dalle quali costruirono una serie di capisaldi, denominati
presidios. Oltre a combattere contro gli Amerindiani, gli Europei però combattevano tra di loro anche prima
che scoppiasse la guerra dei sette anni. Motivo di discordia era il controllo dei commerci e dell’entroterra. Già
nel 1724 il governatore del Massachusetts aveva cercato di distruggere una missione francese e in seguito i
Britannici cercarono di sollevare delle tribù indiane contro i Francesi che portarono alla distruzione del Forte di
Miami e all’incendio di Detroit. I Francesi reagirono insediandosi nell’Alto Ohio, ma i loro insediamenti vennero
distrutti durante la guerra dei sette anni e i coloni britannici presero il posto di quelli francesi, suscitando una
rivolta (1763-64), nota come la rivolta di Pontiac, il capo degli Ottawa. Molti fortini inglesi dovettero essere
evacuati e i soldati britannici caddero in numerose imboscate. I ribelli uccisero più di 2.000 coloni, la maggior
parte dei quali occupavano abusivamente i territori indiani. La vittoria inglese in Canada privò però gli Indiani
della possibilità di rifornirsi di armi da fuoco e di contare sull’appoggio dei Francesi. Fu allora che lord Jeffrey
Amherst, che nel 1760 (dopo la conquista di Montreal) era stato nominato governatore generale dell’America
settentrionale britannica, decise di punire i ribelli. Diede dunque «istruzioni di “non fare prigionieri” e iniziò una
specie di rudimentale guerra batteriologica ordinando “di diffondere il vaiolo tra le tribù scontente”. Il suo
tentativo di arruolare per lo sforzo bellico inglese il più micidiale nemico delle popolazioni indigene funzionò:
il comandante di Fort Pitt invitò a parlamentare alcuni Delaware assediati e, in segno di stima, regalò loro delle
coperte infette di vaiolo prelevate appositamente dall’ospedale del forte»393. Ovviamente la resistenza degli
Indiani scemò rapidamente con il diffondersi dell’epidemia e nel 1764 furono obbligati ad accettare il trattato
di Detroit, con il quale riconobbero la sovranità inglese sulle loro terre. Ma il grande successo degli Inglesi
consisté soprattutto nello sconfiggere i Francesi per il controllo del Canada.
Per gli Inglesi, che dominavano allora solo la costa dell’America settentrionale, era di vitale importanza
impedire che i Francesi si insediassero stabilmente nella valle dell’Ohio e potessero così unire i loro possedimenti
in Canada con quelli della Louisiana. I Francesi respinsero il primo tentativo inglese di cacciarli da questa zona.
Gli Inglesi inviarono quindi una forza di spedizione in direzione di Fort Duquesne, composta di soldati regolari
al comando del maggior generale Edward Braddock, che però venne annientata presso il fiume Monongahela
(9 luglio del 1755). Tuttavia, la guerra con la Francia scoppiò formalmente solo l’anno successivo. I Francesi
preoccupati per la sicurezza delle loro colonie in Canada avevano rafforzato le proprie posizioni con 2.000
soldati regolari e una squadra navale, ma si trattava di forze esigue rispetto ai 23.000 uomini dell’armata
regolare inglese in Nord America. Furono però i Francesi a prendere l’iniziativa e a conseguire una serie di
successi, catturando diversi forti inglesi. Le vittorie francesi indussero Londra ad affidare a William Pitt speciali
poteri per ristabilire la situazione in favore dell’Inghilterra. Il piano di Pitt consisteva, in sostanza, nello sferrare
tre offensive: su Carillon (Lago Champlain), su Louisbourg e su Fort Duquesne, benché lo sforzo maggiore
dovesse essere fatto contro Carillon. L’attacco a Louisbourg e la puntata contro Fort Duquesne ebbero
successo, ma l’offensiva verso il Lago Champlain si concluse con uno scacco. Di conseguenza gli sforzi degli
Inglesi si concentrarono in questo settore. Infine, il Fort Niagara venne conquistato e i Francesi dovettero
abbandonare pure Carillon che venne ribattezzata Ticonderoga. L’obiettivo degli Inglesi adesso era la conquista
del Canada francese. Ancora una volta fu un’operazione anfibia a decidere le sorti della campagna. Montcalm
fece l’errore di abbandonare le sue forti posizioni per accettare battaglia, e le sue forze vennero fatte a pezzi
dall’artiglieria inglese. I Francesi non si rassegnarono alla sconfitta e l’armata francese che era ancora in Canada
cercò di riprendere Québec. L’inglese Murray fece lo stesso errore di Montcalm, ovvero affrontò i Francesi
in campo aperto, i quali con un deciso assalto alla baionetta costrinsero gli Inglesi a ritirarsi. Eppure, la Francia,
dopo la sconfitta della propria flotta a Qiberon, non poteva fare granché per la difesa del Canada. Nell’aprile del
1760 un convoglio partito da Bordeaux venne intercettato dalla marina inglese e le prime navi che (a maggio)
risalirono il San Lorenzo fino a Québec erano inglesi. I Francesi dovettero quindi ripiegare su Montreal. La
caduta del Canada francese era solo una questione di tempo e l’8 settembre i 3.520 difensori di Montreal si
arresero ai 17.000 uomini di Amherst. Sicché, anche se alla fine del conflitto la Spagna (entrata in guerra nel
1762) recuperò Cuba e Manila, e la Francia riprese la Guadalupa e la Martinica, gli Inglesi occupavano
393
J. Wilson, La terra piangerà. Fazi Editore, Roma, 2003, pp. 128-129.
147
posizioni formidabili: si erano aggiudicati il Canada e la Florida, nonché tutto il territorio alla sinistra del
Mississippi, i capisaldi dell’Honduras. La sconfitta della Francia fu dunque gravissima. Le ragioni di tale
disfatta sono evidenti se si considera che quando la lotta ebbe fine, nel 1762, c’erano solo 70 mila Francesi
circa che potevano opporsi ai quasi due milioni di coloni inglesi in America settentrionale. La fortuna inglese
o “americana” era di aver realizzato, in seno all’accerchiamento franco-spagnolo, questa esplosiva accumulazione
di forze394. Nondimeno, l’orientamento della corona francese era ancora nettamente antibritannico, di modo
che la Francia era decisa e «pronta a sfruttare a proprio vantaggio qualsiasi difficoltà la Gran Bretagna avesse
incontrato oltremare»395. E non passò molto tempo perché tale occasione si presentasse.
Una volta sconfitti i Francesi in Canada, per le tredici colonie americane la presenza dell’esercito inglese
venne a significare sempre più nient’altro che la prevalenza degli interessi inglesi rispetto a quelli americani.
Malgrado ciò, il forte debito, causato dalla guerra dei sette anni, spinse Londra ad adottare delle misure
economiche che esasperarono i coloni americani, che si difesero appellandosi al principio “no taxation without
representation”, obbligando Londra, nel 1765, ad abolire l’imposta del bollo. Ma L’Inghilterra non
intendeva rinunciare alla propria politica coloniale e assegnò il monopolio della vendita del tè alla Compagnia
delle Indie, danneggiando così l’economia delle colonie americane. Ne seguirono dei disordini (a Boston, i
coloni assalirono le navi della Compagnia e ne gettarono in mare il carico), che inasprirono i rapporti con
Londra, che, decisa ad andare sino in fondo, approvò delle leggi conosciute in America come Intolerable Acts
(“leggi intollerabili”). Di conseguenza si arrivò allo scontro di Lexington (aprile 1775) e poi a quello più
importante di Bunker Hill (giugno 1775), in cui gli Inglesi ragione degli Americani, che però causarono notevoli
perdite agli attaccanti. Per l’Inghilterra cominciava un conflitto troppo difficile da vincere, nonostante le
numerose debolezze che affliggevano l’armata di George Washington, nominato comandante in capo
dell’esercito americano. L’aspetto nuovo e “rivoluzionario” era il fatto che la guerra l’avrebbe dovuta
combattere una “nazione in armi”, benché non fossero pochi gli ostacoli che George Washington doveva superare,
dacché i coloni concepivano l’uso della forza come una questione privata e tendevano a vedere in un esercito
regolare uno strumento d’oppressione tipico del Vecchio Continente. Il Congresso americano decise dapprima
di imporre un servizio militare di un solo anno, ma i continui rinforzi che arrivavano ai Britannici e i successi
dell’inglese Howe alla fine portarono a formare un’armata americana di 75.000 uomini, anche se si poteva
evitare il servizio militare pagando una multa o trovando un sostituto, cosicché la maggior parte dei combattenti
americani proveniva dai ceti popolari, per i quali una buona paga e un buon vitto costituivano pur sempre un
ottimo motivo per arruolarsi. All’inizio il numero di volontari fu sufficiente, ma in seguito le colonie dovettero
ricorrere alla coscrizione396. Eppure, l’armata di Washington, anche se non ben equipaggiata e con carenze
logistiche di vario tipo, era un avversario assai difficile da battere, giacché si poteva spostare in un territorio
immenso, che una potenza essenzialmente marittima, come quella inglese, aveva difficoltà a controllare
completamente. Difatti, non appena le truppe regolari abbandonavano una zona, i ribelli la riconquistavano. E
la natura del terreno (strette valli circondate da fitti boschi, fiumi con pochi guadi e, a settentrione, “muri di
pietra” che erano ottime postazioni difensive) facilitava i ribelli e il loro modo di combattere. Londra cercò di
risolvere tali problemi ricorrendo anche alla milizia composta da “lealisti”, ma non poteva aggirare l’ostacolo
principale, ovvero quello di dover rifornire un’armata a 4.500 chilometri di distanza dalla Gran Bretagna. Gli
Inglesi, comunque, dapprima tentarono di “contenere” lo slancio degli Americani, fermandoli davanti a
Québec e obbligandoli a fare marcia indietro. Poi passarono alla controffensiva. Sbarcarono, al comando di
William Howe, a Staten Island, entrarono a New York e a Long Island aggirarono e sconfissero le truppe di
Washington, che dovette battere in ritirata. Successivamente, presero Rhode Island e si spinsero fino a Trenton,
anche se un attacco di sorpresa degli Americani li obbligò ad abbandonare gran parte del New Jersey.
Nuovamente inseguito dagli Inglesi, Washington si scontrò ancora con una colonna inglese a Princeton, ma
Washington, riordinate le file degli Americani che avevano ceduto, contrattaccò con successo gli Inglesi.
Questa vittoria diede modo a Washington di stabilire i quartieri inverali della sua armata a Morristown.
Nel 1777 però l’inglese Howe puntò sulla Pennsylvania sconfiggendo Washington a Brandywine. Così
Filadelfia cadde in mano agli Inglesi. Howe però non poteva appoggiare l’offensiva dal Canada di Burgoyne,
il quale presa Ticonderoga avanzò nelle foreste dell’Hudson, in cui si stava radunando un forte esercito
americano. Incurante del pericolo che correva, Burgoyne proseguì nella sua marcia, finché si trovò di fronte
una resistenza troppo forte perché potesse averne ragione. Subite numerose perdite, Burgoyne, dopo che un
tentativo di soccorrerlo era fallito, dovette arrendersi a Saratoga.
394
F. Braudel, Il mondo attuale, cit., p. 52
395
P. Kennedy, op. cit., p. 181.
396
Vedi J. Black, European Warfare, 1660-1815, cit., pp.159-160.
148
Latenacia degli Americani indusse ad entrare in guerra i nemici europei dell’Inghilterra: la Francia vi entrò
nel 1778, la Spagna nel 1779 e i Paesi Bassi nel 1780 (gli Olandesi entrarono in guerra per l’azione del partito
dei “patrioti”, i quali reagirono ad una politica eccessivamente anglofila, che era contraria all’interesse olandese).
Fu però l’entrata in guerra della Francia a mutare le sorti del conflitto. A differenza degli Inglesi, dopo la guerra
dei sette anni, i Francesi si erano impegnati in un serio e vasto, benché assai costoso, programma di
rafforzamento della propria flotta. La marina inglese era sempre la più forte, ma nel complesso si trovava in
svantaggio e doveva pure badare a difendere le acque territoriali, non potendo perciò interrompere le linee di
comunicazione tra la Francia e l’America settentrionale. Inoltre la Francia poteva concentrare tutte le sue risorse
nella guerra coloniale e marittima, non avendo l’Inghilterra nessun alleato continentale disposto a far la guerra
contro i Francesi. E dovendo combattere da soli, in un teatro di guerra così distante e senza poter bloccare gli
aiuti ai ribelli, gli Inglesi sarebbero andati incontro ad una netta sconfitta. Adesso quindi gli Americani potevano
contare su una flotta potente (benché anche i velieri da corsa americani costituissero un serio pericolo per gli
Inglesi) e pure sull’aiuto di soldati francesi al comando di La Fayettte. D’altra parte, l’esercito americano (che
dopo la perdita di Filadelfia si era ritirato a Valley Forge) venne sottoposto ad una riorganizzazione e ad un
severo addestramento sotto la guida del prussiano von Steuben. L’intervento francese costrinse gli Inglesi (che
a nord si trovavano bloccati a New York) ad abbandonare la Pennsylvania e a puntare verso sud, ove portarono
a termine con successo un’operazione anfibia a Savannah nel e un’altra a Charleston. Successivamente
Cornwallis sconfisse Horatio Gates a Camden. Ma agli Inglesi era precluso il controllo dell’entroterra, come
aveva confermato la sconfitta del colonnello Tarleton a Cowpens (gennaio 1781), un sconfitta che si
aggiungeva a quella che gli Americani avevano inflitto ai “lealisti” di Patrick Ferguson, presso King’s Mountain
nel 1780. Cornwallis decise allora di prendere posizione a Yorktown, dato che vi era un ottimo approdo per le
navi di linea. Ma la flotta di Paul de Grasse riuscì a sconfiggere quella inglese nella battaglia di Chesapeake del
settembre 1781, mentre un contingente francese al comando di Rochambeau rafforzava i coloni, mettendo così
Cornwallis “con le spalle al muro”. Stretto d’assedio, da terra e dal mare, senza possibilità di ricevere rinforzi,
Cornwallis si dovette arrendere il 19 ottobre del 1781. Si trattava di una resa che equivaleva alla sconfitta
dell’Inghilterra, dacché la vittoria di George Rodney nella battaglia della Saintes fece sì fallire il progetto
francese di invadere la Giamaica, ma arrivò troppo tardi (aprile 1782) per influire sulle sorti della guerra, che
terminò con il trattato di Versailles nel novembre del 1783, con cui venne riconosciuta l’indipendenza degli Stati
Uniti.
Ma la rivoluzione americana ebbe notevoli conseguenze anche sotto altri aspetti. Infatti, l’impero coloniale
inglese spostò decisamente il suo “centro di gravità” dall’Atlantico verso l’India e l’Estremo Oriente (non
casualmente nel 1788 venne fondata la prima colonia inglese in Australia). D’altro canto, anche se il debito
britannico era passato da 131 milioni di sterline nel 1775 a 232 milioni di sterline nel 1783397, la posizione
dell’Inghilterra era assai solida dal punto di vista finanziario, al contrario di quella della Francia (il cui debito nel
1780 era più o meno lo stesso di quello inglese, ma il pagamento degli interessi costava ai Francesi circa il doppio).
Il commercio inglese non era stato danneggiato dall’esito della guerra, anzi le esportazioni verso gli Stati Uniti
erano in forte aumento, e la domanda estera alimentava la rivoluzione industriale ormai in atto. Fu proprio
«l’aumento della spesa pubblica e l’enorme continua domanda che i contratti firmati dall’ammiragliato
crearono per ferro, legno, tessuti e altri prodotti che generarono un “circolo chiuso” che sostenne la produzione
industriale e favorì le innovazioni tecnologiche che diedero al Paese un ulteriore vantaggio nei confronti dei
Francesi»398. Anche la Francia pareva aver tratto vantaggio dalla rivoluzione americana riequilibrando la
“bilancia strategica” a vantaggio degli interessi francesi. Ma la situazione della Francia era ben diversa da
quella dell’Inghilterra, benché fosse un Paese ricco e forte di circa 25 milioni abitanti, a causa di non lievi
squilibri che affliggevano il grande Paese europeo.
La rivoluzione francese e le guerre napoleoniche. Come ricorda Soboul, «il XVIII secolo fu sì [per la Francia] un
secolo di prosperità: ma il suo apogeo economico va posto alla fine degli anni ’60 e al principio degli anni ’70.
Se fino alla guerra d’America ci fu un innegabile movimento di ascesa, dopo il 1778 […] cominciò un periodo
di contrazione, poi di regresso dell’economia»399. D’altra parte, i “frutti” della crescita economica erano andati
all’aristocrazia e alla borghesia, non ai ceti popolari che ora invece pagavano più di tutti le conseguenze della
397
Vedi J. Black, European Warfare, 1660-1815, cit., p. 165.
398
Vedi P. Kennedy, op. cit., p. 137 (Kennedy tiene conto anche delle spese sostenute nelle guerre contro la Francia fino al 1815).
A. Soboul, La Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, 1974, p. 100. Com’è noto la storiografia di orientamento marxista ha dato particolare rilevo
alle cause economiche e sociali della rivoluzione francese, secondo François Furet invece furono determinanti gli aspetti ideologici (di di Furet, su
questo argomento, vedi in specie Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, 2003).
399
149
recessione, aggravata dal cattivo raccolto del 1788 e dalla crisi del 1788-89. Né si deve trascurare che alla
vigilia della rivoluzione il regime della proprietà terriera era di tipo feudale e la classe dirigente francese era
composta da aristocratici. Condizioni che spiegano, a giudizio di Soboul, perché la rivoluzione fu sì borghese
ma con un sostegno delle masse popolari, mosse dall’odio per il privilegio e desiderose di mettere fine al
regime feudale. Regime ancora più intollerabile se si considera che il Settecento era il secolo dei “Lumi” le cui
idee – fondate in gran parte sul “mito del progresso” (che faceva apparire l’intero passato e ogni “tradizione”
avvolti nelle tenebre dell’ignoranza e del pregiudizio) - erano diffuse oltre che nell’aristocrazia liberale, nei vari
ceti borghesi. Vale a dire che erano diffuse soprattutto in quei ceti per i quali le istituzioni dell’ancient régime
rappresentavano sempre più una sorta di “camicia di Nesso”. Contribuiva inoltre ad inasprire i rapporti (già
assai tesi) tra le diverse classi sociali la pessima condizione delle finanze pubbliche, a causa delle costose
guerre intraprese dallo Stato francese nella seconda metà del Settecento nonché per le s p e s e e c c e s s i v e
e d i s s e n n a t e d e l l a c o r t e . S e c o n d o il Compte du Trésor du 1788 le entrate dello Stato assommavano a 503
milioni contro 629 milioni di spese, di cui 318 milioni per il servizio del debito (che nel 1789 il debito
assommava a circa cinque miliardi). Malgrado ciò, il deficit non poteva essere colmato con l’aumento della
pressione fiscale, non solo perché questa era già fin troppo onerosa, ma perché il clero e l’aristocrazia godevano
di molti privilegi e di esenzioni fiscali, cui non avevano alcuna intenzione di rinunciare. In questo contesto,
con il Paese prossimo alla bancarotta, la decisione del re di convocare gli Stati Generali non poté che “dar
fuoco alle polveri”.
Dapprincipio, il moto rivoluzionario si presentò come una rivoluzione liberale, ma con episodi drammatici,
come la presa della Bastiglia, e la “grande paura”, vale a dire il diffondersi del panico e della rabbia nel mondo
contadino a causa di voci secondo cui bande di briganti erano pronte a prendere il raccolto e ad ammazzare i
contadini. La paura spinse questi ultimi ad assalire castelli e a sfogare la propria rabbia contro intendenti e
funzionari regi. A Parigi, nel frattempo, la borghesia aveva costituito la guardia nazionale (che divenne
veramente popolare solo dopo la proclamazione della repubblica), e il processo di disgregazione dell’esercito
era diventato inarrestabile, tanto che a Nancy vi fu un ammutinamento (che venne però duramente represso). A
questo punto l’abolizione di privilegi e diritti feudali fu inevitabile. Si proclamò la nota “Dichiarazione dei diritti
dell’uomo”, la chiesa cattolica divenne “chiesa nazionale” e i beni del clero vennero confiscati. Per coprire il
disavanzo, si emisero gli “assegnati”, che dovevano fruttare un interesse del 5% ed essere pari al valore dei beni
ecclesiastici messi in vendita. Ben presto invece l’“assegnato” divenne un “assegno-cartamoneta”, un biglietto
di banca che non dava alcun interesse e l’emissione di “assegnati” crebbe a dismisura, innescando così un grave
processo inflazionistico. Ma a conferma che la prima fase della rivoluzione era ancora liberale si devono
ricordare la legge Le Chapelier, che vietava gli scioperi e le associazioni sindacali, e una serie di misure di politica
economica, che erano ispirate al principio laisser faire, lasser passer e che sconvolgevano l’ordine economico
feudale. D’altro canto, la trasformazione della monarchia francese in monarchia costituzionale nel settembre
del 1791 sanzionò nel modo più chiaro il carattere borghese e liberale di questa fase. Pur tuttavia, la fuga e
l’arresto del re (allontanatosi di nascosto da Parigi per raggiungere il confine, ove vi erano unità militari ancora
a lui fedeli) mutarono nettamente il quadro politico generale, mettendo il Paese di fronte al problema della
reazione delle monarchie europee e a quello degli emigrati cui dava protezione l’Austria. Né un buon numero di
rivoluzionari (tra cui si metteva in luce in specie Brissot) faceva ormai mistero che era necessario “esportare
la rivoluzione” in tutta Europa, ma il re vedeva nella guerra l’occasione per sconfiggere la Francia rivoluzionaria
date le condizioni in cui si trovava l’esercito francese. E «di fronte al pericolo, la borghesia dovette, non senza
riluttanza, far appello al popolo [che] dopo aver distrutto il privilegio della nascita, non voleva subire più a
lungo quello del denaro: reclamò il suo posto nella nazione. Da quel momento problema politico e problema
sociale si posero in termini nuovi»400.
Adesso difesa della nazione e guerra contro i nemici della rivoluzione si presentavano come due facce della
medesima medaglia agli occhi dei rivoluzionari (tranne pochi, tra cui Robespierre, che non si fidavano dei
generali, i quali, La Fayette incluso, in effetti volevano una guerra breve per poi alla testa dell’esercito vittorioso
metter fine alla rivoluzione). Ma spingevano verso la guerra anche la corte, per i motivi già noti, e la borghesia
d’affari che pensava di arricchirsi con le commesse militari. Sicché, nell’aprile del 1792 la Francia dichiarò guerra
al re di Boemia e d’Ungheria, ossia alla sola Austria, anziché all’impero, ma ciò non impedì che all’imperatore
si unisse subito la Prussia. L’esercito francese allora era in pieno disfacimento: almeno metà degli ufficiali
(12.000) emigrati e gli effettivi ridotti a 150.000 fra truppe di linea e volontari arruolati nel 1791. E la lotta
politica era penetrata anche tra le file dell’esercito, con grave nocumento per la disciplina, mentre i capi
parteggiavano più per la corona che per la Francia. In queste condizioni l’esercito francese andò incontro ad
400
A. Soboul, op. cit., p. 217.
150
una serie di sconfitte che fecero degenerare la lotta politica in guerra civile. Il re era ormai considerato alleato
dello straniero, mentre ai primi di luglio compariva l’esercito prussiano guidato dal duca di Brunswick seguito
dall’armata degli emigrati. Nell’imminenza del pericolo, il 30 luglio, furono ammessi nella guardia nazionale
i cittadini “passivi”, cioè i cittadini non abbienti che non avevano diritto di voto. Il 10 agosto si arrivò
all’insurrezione popolare contro la monarchia, colpevole di patteggiamenti con gli invasori. La guardia svizzera
non fu in grado di sopprimere la rivolta, cui partecipò anche la guardia nazionale marsigliese, e il trono venne
rovesciato: «Con il suffragio universale e l’armamento dei cittadini passivi, questa “seconda rivoluzione”,
immise il popolo nella nazione e segnò l’avvento della democrazia politica»401.
Intanto la guerra rendeva ancor più dura lotta politica all’interno del Paese. Dopo la caduta di Longwy e un
primo tentativo d’insurrezione nella Vandea, si procedé all’arresto di migliaia di sospetti e poi ci furono i
“massacri di settembre”. Invero, le pessime notizie dal fronte avevano generato il panico, e il timore del
disfattismo alimentava ogni sorta di paura, ma non è che non si fosse fatto nulla per porvi rimedio. Il 12 luglio
erano stati arruolati 50.000 uomini, cui si erano aggiunti 15.000 volontari parigini e alla fine del mese nei
dipartimenti orientali vennero precettate 40.000 guardie nazionali. In definitiva, se i rovesci militari avevano
alimentato la passione nazionale rendendola inseparabile da quella rivoluzionaria, avevano pure posto le
premesse per la creazione di una autentica forza popolare, della quale gli aristocratici si facevano beffe. A
settembre, comunque l’avanzata prussiana era la minaccia principale: Verdun capitolò e la strada per Parigi era
aperta. Il generale francese Kellermann allora riunì le sue forze a quelle di Dumouriez, per avere almeno la
superiorità numerica (55.000 soldati francesi contro 34.000 soldati prussiani). Ora non rimaneva che dar battaglia.
E i Francesi lo fecero soprattutto con l’artiglieria. A Valmy cannoneggiarono le truppe prussiane e quando
queste si prepararono ad attaccare, i sanculotti al grido “Viva la nazione!” tennero duro e raddoppiarono il
fuoco, obbligando Brunswick a desistere dall’attacco. Dopo una breve tregua, i Prussiani si ritirarono. La
vittoria infiammò la Francia. Il fatto d’armi in sé non fu granché, ma sotto il profilo politico fu d’importanza
eccezionale. La guerra diventava guerra “d’annessione e di liberazione” al medesimo tempo. Contraddizione che si sarebbe
ancor più acuita con le conquiste di Napoleone. Ma la fiducia dei rivoluzionari in sé stessi aumentò ancora dopo Valmy,
allorché le truppe francesi inflissero una severa sconfitta agli Austriaci, che vennero costretti addirittura ad
evacuare Bruxelles e Anversa.
I rivoluzionari dovevano però risolvere il problema della monarchia e l’unico modo per segnare la definitiva
rottura con il passato non poteva che essere quello di “giustiziare” il re. Anche se il compito fu reso più facile
dal fatto che il sovrano aveva tramato con lo straniero contro la rivoluzione, la decapitazione di Luigi XVI e la
proclamazione della repubblica provocarono la nascita della prima coalizione contro la Francia, e all’Austria e
alla Prussia si unirono Inghilterra, Spagna e Olanda (febbraio 1793). Così al caro vita e alla crisi interna si
aggiunse la grave minaccia esterna, tanto più perniciosa in quanto gli eserciti della repubblica avevano perso il
vantaggio numerico. Se alla fine del 1792 l’esercito francese contava 400.000 uomini, un anno dopo ne restavano
220.000. Non solo la legge consentiva ai volontari di tornare a casa, ma questi (i bluets per la divisa blu)
eleggevano i loro capi (anche se il principio d’elezione era temperato dall’anzianità) e avevano un trattamento
assai migliore dei soldati di linea (detti culs blancs per l’uniforme bianca), i quali, oltre a prestare servizio per
un periodo più lungo, erano sottoposti ad una disciplina assai più rigida e avevano una paga più bassa dei bluets.
Com’è ovvio, tali differenze davano luogo a risentimenti vari. Nel febbraio del 1793 si mise fine a questa
distinzione (anche se occorsero alcuni mesi per applicare la legge dell’“amalgama”) e si decretò la leva di 300.000
uomini. Ma l’anno era cominciato nel peggiore dei modi per l’esercito francese, che andarono incontro a
diverse sconfitte negli scontri con gli Austriaci, culminate nel mese di marzo con la terribile batosta di
Neerwinden (marzo 1793). Dumouriez il generale francese sconfitto, non volle dimettersi e dopo aver cercato
invano di indurre i suoi uomini a marciare su Parigi passò al nemico. La Francia ora veniva aggredita da tutti lati
e la situazione era non poco complicata dalla rivolta in Vandea scatenata dalla leva dei 300.000. In questa regione
della Francia erano assai forti le radici cattoliche, e i preti “refrattari”, ossia quelli che non accettavano di venire
sottoposti alle istituzioni repubblicane, potevano trovare facile consenso. Inoltre i disagi, le difficoltà del
momento e la miseria che affliggevano i contadini rendevano a questi ultimi insopportabile la leva, vista come
un’ulteriore oppressione da parte di uno Stato di cui non si fidavano più. Il malcontento divenne così rivolta e
l’intera regione prese fuoco.
La rivolta della Vandea non fu l’unica, ma indubbiamente fu la più pericolosa per la repubblica e contribuì
alla svolta della primavera del 1793, che condusse all’istituzione del “Tribunale rivoluzionario”, del “Comitato
di salute pubblica” e infine alla caduta della Gironda. Tale cambiamento suscitò la reazione dei girondini e in
provincia scoppiò l’insurrezione federalista, dietro la quale si nascondevano le forze controrivoluzionarie. Era
401
Nel frattempo, La Fayette, abbandonato dai soldati, passò dalla parte degli Austriaci. Robespierre non ci aveva visto poi così male.
151
così aperta la strada al “regime del terrore”. Il popolo sanculotto avrebbe preso l’iniziativa trascinando i
montagnardi (borghesi come i girondini), mentre infuriava la crisi finanziaria e sociale che nei mesi precedenti
aveva portato al corso forzoso degli “assegnati” (si era cioè obbligati ad accettarli come mezzo di pagamento,
nonostante la loro perdita di valore a causa dell’inflazione) e all’introduzione di un calmiere dei prezzi. I
girondini avevano dichiarato guerra ma non avevano saputo condurla e ora la sorte della repubblica, minacciata
dallo straniero, dalla rivolta nella Vandea e dall’insurrezione federalista, dipendeva dalla “fortuna” della
“nazione in armi”. Il 23 agosto venne quindi decretata la levée en masse.
Si può considerare questa data come l’’inizio dell’irruzione delle masse sulla scena della storia, e fu come se si fosse
liberata un’immensa quantità d’energia, la quale, anche se è vero che richiedeva d’essere controllata e indirizzata
verso scopi precisi, non poteva essere più “ignorata”. Il limite gravissimo dei reazionari, infatti, è stato sempre quello
di non capire che nessuna “restaurazione” e nessuna “reazione” avrebbero potuto più cancellare tale “soluzione di continuità”
rispetto al passato. Non solo con la caduta dell’Ancient Régime terminava il “mondo delle parrucche” (che era
ormai davvero un “vecchio mondo” destinato a cadere), ma si apriva una nuova “dimensione storica” con cui
volenti o nolenti in futuro ci si sarebbe dovuti confrontare. Questo, in sé e per sé, non significava che si fosse
necessariamente in presenza di un progresso rispetto al passato, ma che d’ora in poi il senso di ciò che si sarebbe
giudicato come progresso o regresso non poteva più prescindere dalla questione politica e sociale così com’era
stata posta dalla rivoluzione francese. Enorme comunque fu lo sforzo per trasformare una massa di uomini in un
vero esercito. Magazzini e arsenali erano vuoti, e a fine luglio vi erano già 650.000 uomini sotto le armi, mentre
sarebbero stati addirittura 800.000 nel 1794402. Ma nella primavera dello stesso anno 3.000 operai francesi
avrebbero prodotto 700 moschetti al giorno, ovvero quanti ne produceva il resto dell’Europa ogni giorno 403.
L’organizzazione, pur tra mille difficoltà, procedeva, grazie in particolare all’eccellente opera di Carnot
coadiuvato da giovani capaci ed entusiasti, ma grazie anche al “terrore militare”, ché l’esercito doveva essere
sotto il totale controllo del potere politico. Rappresentanti del potere centrale furono inviati nelle unità militari
per infondere lo “spirito rivoluzionario” in tutto l’esercito e i “commissari politici” distribuirono non meno di 7,5
milioni di copie di giornali, dacché l’educazione politica dei soldati era considerata essenziale tanto quanto il loro
addestramento. Nel frattempo requisizioni e nazionalizzazione dell’apparato bellico andavano di pari passo con
l’epurazione degli alti comandi. Nel corpo ufficiali si contavano ora pochi nobili, benché non fossero scomparsi
del tutto dato che non era loro vietato rimanere nell’esercito. Intanto vennero formate tre armate: quella del
Nord, quella del Reno e quella della Mosella. E negli ultimi mesi del 1793 i “segni” della vittoria si stavano già
delineando.
L’armata cattolica della Vandea, forte di 100.000 uomini, venne sconfitta nell’ottobre del 1793: due forti
colonne dell’armata repubblicana dell’Ovest (costituita appositamente per reprimere l’insurrezione) si
congiunsero a Cholet, ove annientarono gli insorti, tranne 20/30.000 che riuscirono a fuggire, ma per venire
poi in gran parte sterminati presso Le Mans. E anche i resti dell’armata vandeana furono dispersi o annientati
nei mesi seguenti. Pure l’insurrezione federalista venne domata e i repubblicani ripresero Lione e Tolone (in
quest’ultima operazione si mise in luce, come comandante dell’artiglieria repubblicana, Napoleone Bonaparte).
Ma alla fine dell’anno anche gli invasori battevano in ritirata: la Savoia era liberata, gli Spagnoli ricacciati
indietro, gli Austriaci ripiegavano su Mons. Il 29 dicembre Landau venne sbloccata e gli Austriaci ripassarono il
Reno, mentre i Prussiani si ritirarono a Magonza. Pertanto, nella primavera del 1794 l’esercito repubblicano,
completamente “nazionalizzato”, era pronto a intraprendere una nuova offensiva.
L’armamento dei Francesi era ancora quello degli anni Settanta (moschetto modello 1777 - preciso fino
a150 metri circa, con una celerità di tiro, per un moschettiere esperto, di circa due colpi al minuto, - e “cannoni
Gribeauval” che sparavano palle di 4 libbre a circa 400 metri) ma tattica e strategia erano nuove. La colonna
divenne la formazione tipica delle armate rivoluzionarie e la nuova unità tattica adesso era la divisione di
8/9.000 uomini (articolata su due brigate di fanteria, due reggimenti di cavalleria e unità d’artiglieria). L’esercito
francese così strutturato poté quindi passare all’attacco. Tre armate repubblicane sferrarono l’offensiva sulla
frontiera settentrionale. Il duca di Coburgo venne battuto a Tourcoing, a Ypres, e a Fleurs, e le armate di
Pichegru e Jordan dopo essersi riunite a Bruxelles attaccarono e respinsero rispettivamente gli Anglo-Olandesi
e gli Austriaci. Il primo prese Anversa e il secondo Liegi. A sud un’altra armata invase la Catalogna ed era
imminente l’invasione dell’Italia, anche se sul mare gli Inglesi spadroneggiavano e sostenevano la ribellione
della Corsica.
402
Secondo Soboul, nella primavera del 1794 vi erano più di un milione di soldati ripartiti in dodici armate. Assai diversa la loro origine: «Reggimenti
di linea, battaglioni di volontari, e “requisiti” della leva dei 300.000 e della leva in massa raggruppati in mezze-brigate dall’“amalgama” e
dall’“imbrigatamento” decretati il 21 febbraio 1793 e applicati durante l’inverno 1793-94. L’esercito era stato così nazionalizzato»(A. Soboul, op. cit.,
p. 388).
403
Vedi G. Wawro, Warfare and Society in Europe, 1792-1914, Routledge, Londra-New York, 2000, p. 3.
152
Le vittorie della repubblica non potevano però non avere conseguenze politiche. In Francia da mesi imperava
il “Terrore”. Si calcola che il numero di sentenze capitali sia stato di 16.594 e il numero totale dei morti di 40.000
circa404. L’estremismo giacobino arrivò addirittura a voler scristianizzare la società francese per imporre
l’assurdo culto della “Ragione”. Misure tutt’altro che necessarie e che in alcun modo contribuivano alla difesa
della nazione o al miglioramento della condizione sociale dei ceti meno abbienti. Peraltro, a Parigi e nel resto
del Paese la gente comune non ne poteva più di veder le “teste cadere come tegole” e l’insofferenza per il
“Terrore” era accentuata dall’opinione che con la vittoria la repressione non avesse più ragione d’essere. Era
quindi venuto il momento di porre termine alla dittatura giacobina e di inaugurare un nuovo corso politico.
L’estremismo giacobino si era, per così dire, scavato la fossa da sé. Nel mese di luglio Robespierre venne
“giustiziato” insieme ai suoi compagni di partito; il “Comitato di salute pubblica” e il “Tribunale
rivoluzionario” furono soppressi, e il club dei giacobini venne chiuso. S’iniziò allora il periodo dei
“termidoriani” (così chiamati dacché questi mutamenti si verificarono durante il “termidoro”, che per il
calendario rivoluzionario francese corrispondeva al secondo mese estivo), i quali dovevano difendersi sia dai
giacobini che dai “reazionari”. E questo era possibile solo con il sostegno dell’esercito. E fu l’esercito a
reprimere i tumulti popolari causati dalla carestia e poi l’insurrezione dei “realisti” che vennero “mitragliati”
da Napoleone405. Azione per la quale egli venne promosso generale di divisione e gli fu affidato il comando
dell’armata interna. Ormai il “processo rivoluzionario” era inseparabile dalla guerra, anche se di guerra
imperialistica si trattava, dato che la vera posta in gioco era l’egemonia della Francia sul continente europeo. Eppure,
è indubbio che nei conflitti che seguirono, le armate francesi avrebbero sparso i “semi della rivoluzione” in
Europa (e da qui avrebbero raggiunto altri continenti). Ma era lo strumento stesso di cui il genio militare di
Napoleone poteva disporre, ossia l’esercito francese, ad essere “rivoluzionario”, indipendentemente dal fatto
che fossero nuovamente represse le istanze di democrazia sociale che si erano fatte luce con l“entrata in scena”
dei sanculotti, ossia del Quarto Stato. Nondimeno, durante l’estate del 1794 l’offensiva dell’esercito francese
aveva conosciuto una battuta d’arresto, ma in autunno riprese vigore. L’armata di Pichegru prese Maastricht e
gli ussari catturarono la flotta olandese immobilizzata tra i ghiacci. La coalizione antifrancese vacillava, tanto
più che vi era nuovamente la “questione polacca” a creare problemi.
L’economia della Polonia nella seconda metà del Settecento era caratterizzata da una marcata crescita che
favoriva l’ascesa della borghesia, al punto che una parte della nobiltà polacca, vedendo minacciati i propri
privilegi, chiese aiuto alla Russia. Si arrivò così all’intervento delle truppe russe e prussiane e alla seconda
spartizione del Paese nel 1793. L’anno seguente i Polacchi si ribellarono sotto la guida di Kosciuzko,
conseguendo brillanti successi contro i Russi, cui però si unirono Prussiani e Austriaci che avevano intenzione di
farla finita con la “questione polacca”. Varsavia resistette ai Prussiani ma capitolò davanti all’esercito di
Suvorov e a gennaio venne sanzionata la terza spartizione della Polonia, senza consultare la Prussia. Cosicché
anche la crisi polacca contribuì a disgregare la coalizione antifrancese, con l’uscita di Prussia, Olanda e Spagna. Ma
l’Austria, rinforzata da sussidi inglesi per il mantenimento di 200.000 uomini, non aveva intenzione di cedere,
anche se l’“anima” della lotta contro la Francia era appunto l’Inghilterra, contro la quale l’odio di tutta la
Francia crebbe ancor di più dopo il fallito sbarco degli emigrati a Qiberon (giugno 1795), ai quali gli Inglesi
avevano fornito appoggio navale, denari e uniformi. Ma le condizioni dell’esercito francese non erano delle
migliori. L’abbandono dell’economia regolata aveva disorganizzato la difesa nazionale; l’approvvigionamento
delle armate risentiva della crisi finanziaria e della riduzione dell’attività delle manifatture nazionali a
vantaggio dell’impresa privata. La truppa mancava di vestiario e vettovaglie. E le miserevoli condizioni dei
soldati non potevano che essere causa di indisciplina e diserzioni. Nel marzo del 1795 su una forza teorica di
1.000.000 di soldati vi erano solo 400.000 uomini presenti. D’altronde, il mutato clima politico alimentava
l’imperialismo più che il patriottismo. Non a caso, alla vigilia della campagna d’Italia, Napoleone ebbe a
dichiarare: «Soldati, siete nudi, mal nutriti; ma io voglio condurvi nelle pianure più fertili del mondo. Ricche
province, grandi città saranno in vostro potere; vi troverete onore, gloria e ricchezza»406.
Quando Napoleone iniziò la campagna d’Italia disponeva di 38.000 uomini e 30 cannoni. Il piano di Carnot
prevedeva che due armate, , marciassero su Vienna e altre due prendessero il Piemonte e la Lombardia, ma solo
a titolo di pegno. Le esitazioni di Schérer, che doveva comandare una di queste due armate, indussero il
Direttorio a rimpiazzarlo con Napoleone. Questa scelta sconvolse i piani politici e militari del Direttorio.
Napoleone mostrò subito di che pasta era fatto. Con un rapida manovra separò le forze di Beaulieu da quelle di
404
Vedi A. Soboul, op. cit., p. 375.
All’epoca di Napoleone, si usava una “scatola a mitraglia” che si rompeva, una volta uscita dalla canna del cannone, e le pallette che conteneva si
disperdevano entro un raggio di circa 500 metri.
406
A. Soboul, op. cit., p. 499.
405
153
Colli (12.000 Piemontesi), obbligando quest’ultimo a ripiegare su Torino. Messo fuori combattimento in un
batter d’occhio il Piemonte, a metà maggio Napoleone entrò a Milano e obbligò gli Austriaci a ritirarsi nel
cosiddetto “Quadrilatero” (ovvero le fortezze di Peschiera, Verona, Legnago e Mantova), dopo averli battuti a
Lodi. Il fallimento a nord di Moreau, diede comunque agli Austriaci la possibilità, manovrando per linee
interne, di contrattaccare le forze francesi in Italia, ma gli Austriaci vennero battuti, pur se talvolta di stretta
misura, nelle battaglie di Castiglione, Bassano, Arcola e Rivoli. E con quest’ultimo successo francese Wurmser
fu costretto a capitolare a Mantova. I “ricchi frutti” delle vittorie che giungevano a Parigi conferivano ora a
Napoleone un’autorità ben maggiore di quella che aveva prima di invadere l’Italia. Rafforzata l’armata con
nuove truppe, Napoleone passò il Tagliamento presso Udine e si spinse verso Vienna. A Leoben l’Austria,
stremata, gettò la spugna, mentre la situazione politica in Francia offriva a Napoleone l’occasione di appoggiare
il Direttorio contro la reazione dei “realisti”. Con vari pretesti, Parigi fu occupata militarmente, i poteri del
Direttorio furono accresciuti e Napoleone poté imporre le proprie decisioni, dato che solo l’intervento
dell’esercito aveva consentito di sconfiggere i “realisti”. Con il trattato di Campoformio del 18 ottobre 1797
(confermato con trattato di Lunéville) la Francia si annetté il Belgio e la Lombardia, anche se all’Austria toccò
come compenso Venezia (ad eccezione di Bergamo e Brescia incorporate nella nuova Repubblica Cisalpina).
Il Direttorio, che era di parere ben diverso, obtorto collo accettò il fait accompli e ratificò il trattato.
Rimaneva quindi l’Inghilterra, decisa a sconfiggere la Francia a qualsiasi costo. Nel 1793-96 la marina
inglese si era impegnata in operazioni nei Caraibi che erano costate diversi milioni di sterline e, a causa di
un’epidemia, aveva perso 80.000 uomini (di cui la metà rimase uccisa). Si trattò di diversioni strategiche costose
e inutili, tanto più che nel 1797 la Banca d’Inghilterra sospese i pagamenti, causando l’ammutinamento di
alcuni equipaggi. Ma gli interessi che l’Inghilterra difendeva erano tali da garantire agli Inglesi le risorse per
continuare a combattere. Né all’Inghilterra mancava un cospicuo reddito nazionale su cui contare: dazi e imposte
di produzione che nel 1793 fruttavano 13,5 di sterline, nel 1815 avrebbero garantito entrate che assommavano
a 44,8 milioni; le entrate da nuove imposte sui redditi e sulla proprietà balzarono da 1,7 milioni nel 1799 a 14, 6
milioni nel 1815; e tra il 1793 e il 1815 lo Stato britannico ottenne prestiti pari a 440 milioni di sterline407. Una
tale disponibilità finanziaria non era ovviamente senza relazione con il dominio delle rotte marittime, diventato
quasi assoluto nei primi anni della rivoluzione francese, giacché la flotta francese si stava disfacendo, i porti
erano nel caos ed era difficile trovare equipaggi preparati, motivati e disciplinati. Contro la flotta francese, ridotta
in tali condizioni, gli Inglesi potevano schierare circa 400 navi da guerra, di cui 115 di linea408. E a Tolone 42 navi
di ogni tipo furono incendiate o catturate dall’ammiraglio Howe, il quale l’anno seguente intercettò
nell’Atlantico la flotta francese di Brest che scortava un convoglio di grano proveniente dagli Stati Uniti. Howe,
usando una tattica nuova (che consisteva nel rompere la linea nemica in più punti attaccandola sopravvento e
impegnando poi le unità nemiche da sottovento, di modo che non potessero fuggire con il vento in poppa), e un
nuovo ed efficiente sistema di segnalazioni, riuscì a catturare sei navi nemiche e ad affondarne una, anche se
il convoglio francese arrivò a destinazione. Questi duri colpi inflitti alla marina francese non impedirono
comunque alla Francia di intraprendere una grande sforzo per ricostruire una forte marina. Nondimeno,
l’Inghilterra, anche dopo l’entrata in guerra a fianco della Francia della Spagna e dei Paesi Bassi, continuò a
dominare i mari, infliggendo prima una sconfitta agli Spagnoli nella battaglia di CapoSan Vincenzo (nella
quale si mise in luce Nelson) e poi vincendo un’altra battaglia navale contro gli Olandesi al largo di
Camperdown. Eppure era chiaro che non bastavano queste vittorie per sconfiggere la Francia.
La situazione che si era creata ricordava quella già nota della balena contro l’elefante. I Francesi non
potevano battere gli Inglesi sul mare e gli Inglesi non potevano da soli sconfiggere l’esercito francese. Decisivo
con ogni probabilità sarebbe stato il gioco delle alleanze. Intanto, non v’era altro che cercare di colpire il
nemico ai fianchi. Perciò, mentre gli Inglesi cercavano di danneggiare la Francia mediante una strategia
marittima che lasciava intatta la vera potenza militare francese, Napoleone decise di invadere l’Egitto e
minacciare la via per l’India. Anche se fu una mossa pericolosa per l’Inghilterra, era ovvio che chi rischiava
di più era Napoleone che non aveva il controllo del Mediterraneo. La forza di spedizione francese (38.000
soldati, 55 navi da guerra e una flotta di 280 trasporti), presa Malta senza colpo ferire ed elusa la sorveglianza
della squadra di Nelson, raggiunse comunque Alessandria, ove i Francesi, schierati a quadrato, sconfissero la
cavalleria dei Mamelucchi nella battaglia delle Piramidi. Ma Nelson sorprese e distrusse la flotta francese
all’àncora presso Abukir (agosto 1798). Pertanto, con un sol colpo l’Inghilterra diventava padrona del
Mediterraneo e con la conquista del Capo di Buona Speranza nel 1796 gli Inglesi dimostravano di apprezzare
pure l’importanza di Suez per la sicurezza della via dell’India, mentre la Russia e la Turchia si allarmavano
407
Per le condizioni economiche e militari dell’Inghilterra in questi anni vedi le considerazioni di P. Kennedy, op. cit., pp. 190 e ss.
408
Vedi NCMH, vol. IX, War and Peace in an Age of Upheaval, 1793-1830, p. 79.
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per l’impresa di Napoleone, che peraltro dopo Abukir era come prigioniero delle sue vittorie. Egli tuttavia
tentò lo stesso la conquista del Levante: vinse al Monte Tabor ma non gli riuscì di prendere la cittadella di
Acri, appoggiata dal mare dagli Inglesi, anche se ad Abukir, il 25 luglio del 1799, annientò un’armata turca,
trasportata dagli Inglesi da Rodi in Egitto. A questo punto però Napoleone abbandonò il comando a Kléber e
fece ritorno in patria, sfuggendo ancora una volta alla marina inglese. La spedizione in Egitto non solo si era
risolta in un totale fallimento (come del resto quella contro l’Irlanda comandata dal generale Humbert,
cominciata nell’agosto del 1798 e già fallita un mese dopo) ma aveva fatto nascere un’altra coalizione contro la
Francia e nell’estate del 1799 i Francesi avevano anche subito diverse sconfitte in Svizzera e in Italia. Gran parte
del peso degli scontri con i Francesi venne però sopportato dalle forze russe, guidate da Suvorov e Korsakov,
fatto che non favorì i buoni rapporti tra i Russi e i loro alleati. Cosicché, quando Massena respinse i Russi dalla
Svizzera, mentre falliva il tentativo anglo-russo di invadere l’Olanda, lo zar Paolo decise di ritirarsi dalla
coalizione (ottobre 1799).
La Francia era ormai matura per un nuovo corso politico, troppi essendo coloro che avevano molto da perdere
dal ritorno della monarchia o dei giacobini. Con il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) Napoleone
diede alla Francia quel che in particolare la borghesia allora voleva: un capo militare che riportasse ordine e
stabilità nel Paese, che salvasse le conquiste ottenute con la fine della monarchia e che concludesse la guerra
vittoriosamente. La rivoluzione francese doveva dunque concludersi con la dittatura militare di Napoleone. Di
fatto Napoleone poté concentrare tutto il potere nelle sue mani con la Costituzione del 13 dicembre del 1799, e
prepararsi ad una nuova campagna contro l’Austria. Passato il Gran San Bernardo per interrompere le linee di
comunicazione degli Austriaci, che avevano appena preso Genova, egli si spinse troppo in avanti, con i suoi
corpi d’armata distanti l’uno dall’altro, non essendosi accorto che l’esercito austriaco si era radunato ad
Alessandria. Attaccato da Melas a Marengo (14 giugno del 1800), rischiò parecchio finché intervenne l’ottimo
Desaix che ristabilì le sorti di una battaglia che gli Austriaci ritenevano di aver già vinto. Desaix rimase ucciso
nello scontro e Napoleone perse un eccellente generale, ma indubbiamente Marengo fu una grande vittoria
francese, tanto che pochi giorni dopo (il 20 giugno) il ministro degli Esteri austriaco, Thugut, ricevette due
milioni di sterline dagli Inglesi per non firmare una pace separata con Napoleone prima del 28 febbraio 1801409,
ma la vittoria di Moreau ad Hohenlinden del 3 dicembre mise fine alla guerra con l’Austria (cui seguirono dei
cambiamenti territoriali in Italia). L’Inghilterra si trovò di nuovo isolata, perciò, pur avendo preso Malta e
“colpito” la flotta danese a Copenaghen (dato che la Danimarca faceva parte di una lega comprendente pure
Prussia, Russia e Svezia per chiudere il Baltico al commercio britannico), si risolse a firmare l’umiliante pace
di Amiens, (25 marzo 1802). In realtà, per l’Inghilterra si trattava di una tregua, benché la pace venisse accolta
con entusiasmo anche dal popolo inglese.
Al riguardo, non si può ignorare che Napoleone (nominato console a vita con il plebiscito del giugno 1802)
si adoperò anche per la “pacificazione interna” della Francia (concordato con Pio VII, liberazione di preti e
“realisti”), dimostrandosi un vero statista, benché la sua politica fosse caratterizzata dalla forte tendenza
accentratrice. Basti ricordare il riordino dell’amministrazione dello Stato con l’istituzione della figura del
prefetto a capo di ogni dipartimento, la decisione (presa nel mese d’agosto del 1800) di formare una
commissione di giuristi che portò alla elaborazione di vari codici (il Codice civile del 1804, esportato in tutta
Europa, il Codice di procedura civile del 1806, il Codice commerciale del 1807, il Codice di procedura penale del
1808 e il Codice penale del 1810), e quindi l’impegno profuso per garantire che i rapporti sociali fossero fondati
sull’eguaglianza giuridica e che gli aspetti “moderati” della rivoluzione, in specie la tutela della proprietà,
fossero i principi cardine dello Stato francese. Un impegno che si manifestò anche in campo economico con la
creazione della Banca di Francia (febbraio 1800) e soprattutto con l’introduzione (marzo 1803) del “franco
germinale” (pari a 0,29032 grammi d’oro). Ma la politica francese che mirava all’egemonia sul continente, non
poteva non incontrare la radicale ostilità dell’Inghilterra, preoccupata pure da queste misure politiche e
finanziarie. D’altronde, anche la Francia si adoperava per promuovere la propria industria manifatturiera,
cercando pure di stimolare l’invenzione di nuove macchine. Degno di nota al riguardo è che le importazioni di
cotone grezzo salirono da quasi 4,8 milioni di kg nel 1789 a 11 milioni di kg nel 1803-4 Per evitare che ciò
comportasse un’eccessiva “emorragia” di metallo prezioso, che avrebbe penalizzato l’appena costituita Banca
di Francia, Napoleone chiuse agli Inglesi quasi del tutto anche i mercati del Belgio, dell’Olanda, della Svizzera e
della Repubblica Cisalpina, mentre l’Inghilterra ora non poteva nemmeno più contare sulle ricche prede di
guerra. Pertanto, il pretesto per riprendere la guerra contro la Francia venne trovato nel maggio del 1803. Il
governo inglese rifiutò di restituire Malta e da allora l’Inghilterra condusse implacabilmente la guerra contro
la Francia sino alla sconfitta definitiva di Napoleone.
409
Vedi NCMH, vol. IX, op. cit., p. 259.
155
Eppure la Francia di Napoleone era sicura di non poter essere meglio preparata per la guerra, sia per
l’eccellenza del suo esercito che per il genio del suo capo. E che Napoleone fosse un capo militare
eccezionalmente dotato è indiscutibile, benché più che un innovatore egli fosse capace di applicare in modo
geniale le innovazioni di altri, in particolare quelle riguardanti l’artiglieria. E proprio l’artiglieria, che
Napoleone organizzò in reggimenti, venne ad acquisire maggiore peso nell’esercito francese con il passare del
tempo. Anche alla cavalleria comunque venne assegnata una funzione tattica di primo piano: oltre ai
tradizionali compiti di esplorazione (svolti dalla cavalleria leggera, da cacciatori e ussari), doveva essere in
grado di lanciare poderose cariche nei momenti decisivi della battaglia e sfruttare la vittoria inseguendo il
nemico. Inoltre, per agevolare la rapidità e la flessibilità dell’armata francese vennero istituti dei corpi d’armata.
Sotto l’aspetto tattico, altra caratteristica essenziale dell’esercito francese era l’impiego dell’ordre mixte, che
consisteva nello schierare alcuni battaglioni in colonna, altri in linea. Dopo delle azioni di disturbo compiute
da elementi sparsi, si doveva cercare di disorganizzare le linee nemiche, che dovevano poi venire travolte
dall’attacco in colonna. Com’è noto, due erano gli “schemi strategici” impiegati da Napoleone: la manoeuvre
sur les derriéres e la “posizione centrale”. La prima manovra consisteva in una minaccia diretta alle retrovie
dell’esercito nemico costringendolo a combattere in condizioni di inferiorità (venne applicata varie volte, ad
esempio a Lodi, Arcole, Marengo, Ulm, Jena e Friedland). La seconda consisteva nell’inserire la propria armata
tra quelle nemiche e sconfiggere rapidamente prima l’una e poi l’altra (tale manovra venne impiegata da
Napoleone nella sua prima campagna, in Piemonte, e nella sua ultima campagna, a Waterloo). Un altro aspetto
di cui si deve tener conto è che non era solo retorica nell’esercito napoleonico il principio in base a cui la carriera
doveva essere aperta al talento (la carrière ouverte aux talents) e che ogni soldato della Grande Armata aveva nello
zaino un bastone da maresciallo. Promozioni, ricompense, distintivi, gradi e uniformi dovevano concorrere a
motivare ufficiali e soldati. Anche in campo militare l’ègalitè perciò non doveva ostacolare il riconoscimento
del merito e della capacità dei singoli individui. (Questo lo si poteva comprendere e ammettere anche in
un’ottica democratica, diversamente dalla restaurazione delle forme della monarchia, voluta da Napoleone - in
contraddizione con la sua opera legislativa che invece era “in continuità” con il 1789 – onde innalzare alla
nobiltà i suoi familiari e i militari a lui più fedeli).
Il problema geopolitico che la Francia doveva affrontare non poteva però essere risolto solo da un forte ed
efficiente esercito. La Royal Navy manteneva il blocco delle coste francesi e poteva facilmente colpire l’impero
coloniale francese, anche se l’Inghilterra era esclusa dai suoi tradizionali accessi di Anversa e Livorno. La
Francia, che si preparava pure all’invasione dell’Inghilterra, in effetti fece il possibile per contrastare gli Inglesi
anche sul mare, ma la devastante sconfitta subita dalla flotta franco-spagnola a Trafalgar (21 ottobre 1805) ad
opera di Nelson (che perì nella battaglia), rese vani tali progetti. Per rispondere alla sfida con l’Inghilterra, non
potendola sconfiggere né danneggiare seriamente sul mare, Napoleone doveva cercare di recarle il massimo
danno con il blocco continentale, ma per fare questo era necessario acquisire il controllo dell’intero continente,
acuendo così i contrasti tra la Francia e le altre potenze continentali, il che non poteva non fare il gioco
dell’Inghilterra. E una guerra lunga (né poteva essere diversamente, per la posizione geografica di una potenza
marittima come la Gran Bretagna) era inevitabile che mettesse a dura prova l’economia francese. Se l’economia
francese sostenne bene tale sforzo, ciò dipese anche dal fatto che l’imperialismo napoleonico veniva finanziato
in buona parte con indennità e saccheggi. I Paesi sconfitti dovevano pagare una forte indennità (la Prussia pagò
311 milioni dopo Jena) e la pressione fiscale venne aumentata in Francia (aumento delle imposte indirette) e
nei Paesi satelliti (si calcola che metà delle tasse riscosse nella penisola italiana tra 1805 e il 1812 finirono nelle
casse francesi). Ma la politica di conquista della Francia a lungo termine giocava a favore dell’Inghilterra,
rendendo possibile agli Inglesi adoperarsi per formare delle coalizioni in funzione antifrancese (in tutto furono
sei).
Delle implicazioni della politica di Napoleone nel continente europeo l’inglese Pitt era perfettamente
consapevole e per questo cercò di convincere Russia e Austria a riprendere le armi contro la Francia offrendo
loro 1,75 milioni di sterline ogni 100.000 soldati messi in campo. Napoleone, però, ancor prima della sconfitta
a Trafalgar, passò il Reno e con la cavalleria attirò gli Austriaci verso la Foresta Nera, mentre il grosso della
Grande Armata, con una marcia straordinaria di 40 km al giorno, intrappolò l’esercito austriaco ad Ulm, e si
diresse poi rapidamente verso est sconfiggendo ad Austerlitz l’esercito austro-russo, forte di 85.000 uomini410.
Napoleone, ancora senza il corpo d’armata di Davout, lasciò che gli Austro-Russi occupassero la posizione dominante di Pratzen, inducendoli ad
attaccare il suo fianco destro, che aveva indebolito di proposito. Ma, arrivato anche Davout, Napoleone diede ordine a Soult di attaccare al centro lo
schieramento nemico che dal Pratzen attaccava i Francesi, proprio come lui aveva previsto. L’armata austro-russa, spezzata in due, si ritirò
disordinatamente, subendo perdite terribili: 15.000 tra morti e feriti, 12.000 prigionieri oltre a 180 cannoni perduti (Vedi D. G. Chandler, The Campaigns
of Napoleon, Simon&Schuster, New York, 1995, p. 432).
410
156
Messa ancora “fuori gioco” l’Austria con il trattato di Presburgo411 nel dicembre 1805, Napoleone consolidò
le sue posizioni in Italia (mise sul trono di Napoli suo fratello Giuseppe, che nel 1808 fu sostituito da Murat)412
e in Olanda (affidata a Luigi Bonaparte), dopodiché si occupò della Prussia che aveva preso il posto dell’Austria
nella nuova coalizione (la quarta) contro la Francia, infliggendole una devastante sconfitta nella doppia
battaglia di Jena-Auerstadt. A Berlino decise di istituire il blocco continentale (ribadito, ma in forma più dura,
dal decreto di Milano del dicembre 1807). Dopodiché rivolse la sua attenzione ai Russi. Presa Varsavia si scontrò
con l’esercito russo ad Eylau, una battaglia che causò gravi perdite ad entrambi gli eserciti e che non si può ritenere
una vittoria di Napoleone, a differenza della successiva battaglia di Friedland (giugno 1807) che per i Russi si
concluse con una netta sconfitta. Bonaparte decise quindi ad accordarsi con lo zar Alessandro con la pace di
Tilsit, che portò varie modifiche territoriali, sancendo la supremazia francese sull’intero continente europeo.
Nonostante ciò, i saccheggi, la politica d’occupazione, il servizio di leva, l’enorme potere concentrato nelle
mani dell’imperatore e degli uomini a lui vicini, nonché lo stesso sentimento nazionale di molti Europei
gravemente offeso e la necessità di rendere più ampio e inflessibile il blocco continentale erano fattori che
avrebbero concorso ad indebolire l’edificio imperiale francese che dopo Tilsit appariva solidissimo. In questo
contesto, la sostituzione dei Borbone di Spagna con Giuseppe Bonaparte, nel 1808, ebbe conseguenze disastrose
per la Francia, trascinandola in un conflitto interminabile, che non solo sarebbe costato alla Francia quasi
400.000 uomini, ma avrebbe aperto agli Inglesi i mercati dell’America Latina. Anche se l’intervento
dell’imperatore per mettere fine all’insurrezione spagnola sembrò avere pieno successo con la vittoria di SomoSierra e la presa di Saragozza e di Siviglia, la guerriglia non diede mai tregua ai Francesi e offrì pure agli Inglesi
la possibilità di sbarcare sul continente e infliggere numerose sconfitte alle armate napoleoniche. Di fatto la
cosiddetta “ulcera spagnola” non venne mai debellata, nemmeno con 300.000 uomini impegnati a sud dei
Pirenei. E approfittando delle difficoltà della Francia, ancora una volta l’Inghilterra poté convincere l’Austria
a muovere guerra contro Napoleone413.
Ma anche la quinta coalizione durò poco, benché gli Austriaci si battessero bene, tanto che ad Aspern Essling
(21-22 maggio 1809) Napoleone rischiò la disfatta: presa Vienna, forzò il Danubio, presso l’isoletta di Lobau, nel
tentativo di “liquidare” l’esercito austriaco, che invece, superiore di numero, attaccò la testa di ponte francese
e dopo due giorni di feroci combattimenti, in cui il villaggio di Aspern cambiò di mano più volte, i Francesi
dovettero desistere. A questo punto Napoleone preparò un altro piano e, prestando maggiore attenzione al
terreno, forzò ancora il Danubio, ma questa volta di notte e più a valle rispetto alla volta precedente, cogliendo di
sorpresa gli Austriaci e respingendo il loro contrattacco (battaglia di Wagram, 5-6 luglio). L’Austria uscì di
quindi nuovo sconfitta dalla guerra e fu obbligata a firmare la pace di Vienna, subendo ulteriori “amputazioni
territoriali”, anche se Napoleone sposando l’arciduchessa Maria Luisa (1810) cercò di legare a sé gli Asburgo. Ma
l’egemonia francese sul continente era tutt’altro che salda. Nella penisola iberica le truppe francesi, già costrette
a sorvegliare le linee di comunicazione e capaci di controllare solo i territori in cui erano fisicamente presenti,
dovevano ora fronteggiare pure gli Inglesi. Nel 1810 Massena al comando dell’Armée du Portogal avanzò
risolutamente contro Wellington, deciso a ributtarlo in mare, ma venne duramente sconfitto a Bussaco. Gli
Inglesi adesso contrapponevano le loro “linee sottili” alle colonne francesi, di modo che quando i soldati
francesi si approssimavano allo schieramento degli Inglesi (di solito su due linee poste dietro un pendio, per
ripararsi dal tiro dell’artiglieria nemica) venivano investiti da una devastante “grandinata di fuoco”. Passato
l’inverno 1810-11, Wellington cominciò la lenta e dura avanzata che lo avrebbe portato a vincere la campagna
nella penisola iberica, infiggendo ai Francesi due sconfitte decisive, la prima a Salamanca (1812) e la seconda a
Vitoria (1813). Gli Inglesi, in definitiva, seppero sfruttare il grave errore strategico di Napoleone consistente
non solo nell’aver invaso la Spagna, alimentando così una guerriglia che l’esercito francese non poteva
sconfiggere, ma nell’essere venuto meno al principio della concentrazione delle proprie forze. Per di più
Napoleone era convinto che la Spagna fosse un teatro di guerra secondario, mentre in realtà l’esercito francese
doveva confrontarsi con quello di Wellington, ovvero contro l’esercito del suo nemico più tenace, la “perfida
Albione”, comandato da un generale capace, cui non sfuggiva l’importanza né della logistica né di un efficiente
servizio di informazioni. Ma se la campagna di Spagna fu fallimentare per la Francia, quella di Russia si rivelò
addirittura un immane e totale disastro.
Quando lo zar Alessandro si incontrò con Napoleone ad Erfurt (27 settembre-14 ottobre 1808) i rapporti
411
Lo sfaldamento del Sacro Romano Impero e la creazione nel 1806 della Confederazione del Reno ebbero conseguenze notevoli per la Germania,
in quanto prepararono, in un certo senso, l’unificazione del Paese.
412
Napoleone, che era già stato nominato imperatore dei Francesi il 18 maggio 1804, il 26 maggio del 1805 era stato proclamato re d’Italia.
L’Inghilterra non esitava nemmeno ad attaccare dei “nemici potenziali” con azioni preventive, come dimostrò l’attacco della Royal Navy (nell’estate
del 1807) a Copenaghen (attacco che portò alla resa della flotta danese e che fece seguito a quello già ricordato del 1801).
413
157
tra Francia e Russia erano già tesi e l’incontro fu inconcludente. Del resto, se la Russia si annetté la Finlandia,
l’ingrandimento del Granducato di Varsavia (creato da Napoleone dopo Tilsit) era contrario agli interessi
geopolitici della Russia, la cui partecipazione al blocco continentale danneggiava eccessivamente il commercio
russo. Tanto che lo zar, irritato dal fatto che Napoleone aveva esteso il proprio controllo sulla linea costiera
dall’Olanda alle regioni del Baltico, acconsentì che nei porti russi giungessero delle navi mercantili neutrali
scortate da navi da guerra britanniche ed uscì dal blocco economico voluto da Napoleone, imponendo forti dazi
sulle merci francesi. Con la nomina del maresciallo francese Bernadotte ad erede del trono svedese, l’alleanza
con la Russia venne definitivamente rotta. Convinto probabilmente che fosse possibile sollevare il popolo russo
contro lo zar e di infliggere un colpo letale all’Inghilterra, sconfiggendo la principale potenza continentale che
poteva allearsi con gli Inglesi, Napoleone prese la decisione di invadere la Russia, ignorando il fondamentale
principio geostrategico secondo cui il blocco economico presupponeva un “blocco” politico-militare (che si poteva
ottenere solo con l’alleanza tra le maggiori potenze continentali europee).
Pertanto, il 24 giugno del 1822 la Grande Armée forte di 600.000 uomini, di cui meno della metà di
nazionalità francese, oltrepassò il confine con la Russia. Obiettivo Mosca. Lo zar Alessandro aveva avuto però
assicurazioni dalla Prussia e dall’Austria, Paesi in cui il sentimento antifrancese era fortissimo, che i loro soldati
non si sarebbero impegnati più di tanto. Inoltre lo zar in aprile aveva concluso un’alleanza con la Svezia (e
Bernadotte fu fedele più alla causa svedese che a Napoleone). Vincitore di stretta misura a Smolensk e Borodino,
Bonaparte occupò Mosca, ma il grosso dell’esercito russo era intatto e l’apparato logistico della Grande Armée
prossimo al collasso. Un incendio, probabilmente su ordine del governatore russo, distrusse buona parte della
città, provocando il rilassamento della disciplina dei soldati della Grande Armée che compirono furti e
saccheggi aggravando così i danni causati dall’incendio. La situazione appariva tanto più precaria a causa della
lontananza della Grande Armée dalle basi di partenza, e vano fu pure il tentativo di Napoleone di convincere
lo zar a trattare. Napoleone decise allora di non rischiare di svernare a Mosca, nonostante la stagione fosse
avanzata. Per di più scelse di ritirarsi passando nuovamente per la strada già percorsa (cioè in un territorio
devastato dalla guerra), anziché passare più a sud com’era possibile dopo la vittoria nello scontro presso
Malojaroslavec, accrescendo così enormemente le difficoltà della ritirata. Tormentata dai morsi della fame e
del freddo, molestata dai partigiani e aggredita dai cosacchi e dalle truppe russe, la Grande Armée subì perdite
catastrofiche: circa 270.000 morti, 200.000 prigionieri e 200.000 cavalli perduti. Di fatto la Grande Armée
rimase seppellita sotto la neve della Russia e le acque della Beresina. Napoleone, abbandonata la Russia ai primi
di dicembre, non si perse d’animo e in breve tempo radunò un’altra armata con cui cominciò la campagna del
1813, deciso a difendere le proprie posizioni. L’Inghilterra in effetti allora era impegnata in un conflitto con gli
Stati Uniti414, anche se la Prussia era passata dalla parte della Russia, mentre Metternich aspettava il momento
propizio per attaccare. Quel che Napoleone era in grado di fare al comando di un esercito lo dimostrò a Lützen,
a Bautzen e a Dresda, ma nella cosiddetta “battaglia delle nazioni”, a Lipsia (16-18 ottobre 1813), nemmeno
Napoleone poté fare granché contro la schiacciante superiorità numerica delle forze alleate (oltre 350.000 soldati
austriaci, prussiani, russi e svedesi con 1.400/1.500 cannoni contro poco meno di 200.000 uomini con 600/700
cannoni), alle quali non mancarono gli aiuti inglesi (125.000 moschetti, 218 cannoni e diversi articoli
d’equipaggiamento)415. Ormai in netta inferiorità numerica, Napoleone si difese brillantemente infliggendo
diverse sconfitte agli alleati, ma la partita era irrimediabilmente perduta.
Anche il ritorno di Napoleone dall’esilio nell’isola d’Elba assai difficilmente poteva mutare la situazione,
benché non fosse questione di poco conto battere nuovamente Napoleone. L’esercito che egli radunò
frettolosamente era pur sempre temibile. I Francesi a Quatre Bras persero una buona occasione non spingendo
a fondo l’attacco contro gli Inglesi, allorché questi ultimi erano in netta inferiorità numerica, mentre a Ligny
ebbero la meglio sui Prussiani e Napoleone ordinò a Grouchy di “stare alle calcagna” di Blücher (lo scontro è
noto come doppia battaglia di Quatre Bras e Ligny). Ma a Waterloo tutto sembrò congiurare contro Napoleone:
la pioggia che aveva reso fangoso il terreno impedendo il tiro di rimbalzo dell’artiglieria (di importanza
fondamentale, dato che i soldati inglesi erano soliti schierarsi dietro il crinale dei colli); l’attacco dei soldati di
D’Erlon secondo l’antiquato schema colonnes de bataillon par division (una formazione tutt’altro che agile, ogni
414
Anche se rispetto alla guerra contro Napoleone si trattò di un episodio secondario la guerra anglo- americana del 1812-15 non fu di scarsa importanza.
La causa di questo conflitto fu di carattere commerciale, dacché si originò dal fatto che la Gran Bretagna voleva imporre agli Stati Uniti il divieto di
commerciare con la Francia. Gli Inglesi però non ebbero vita facile e furono più volte battuti (gli Americani sconfissero pure una flottiglia inglese sul
lago di Eire), anche se nel corso della guerra giunsero ad incendiare la Casa Bianca. In effetti, la guerra terminò senza vinti né vincitori con il trattato
di Gand,. firmato il 24 dicembre 1814. Ma prima che la notizia pervenisse ai combattenti, Americani e Inglesi si affrontarono nella battaglia di New
Orleans. Qui, vicino al Mississippi, nel gennaio del 1815, gli Inglesi si lanciarono in un dissennato assalto contro i soldati americani, che erano al riparo
dietro un terrapieno. La battaglia non poteva più mutare le sorti della guerra, ma risultò essere una delle più umilianti sconfitte dell’esercito britannico,
che contò oltre 2.000 perdite (quelle degli Americani invece furono meno di 100).
415
P. Kennedy, op cit., p. 208.
158
divisione muovendo con i battaglioni l’uno dietro l’altro) divenendo di conseguenza un facile bersaglio per
l’artiglieria e la fanteria nemica, cosicché, una volta scompagnate dal tiro inglese, le colonne francesi vennero
fatte a pezzi dagli Scots Greys, sbucati con i loro cavalli dalla “sottile linea rossa”; il maresciallo Ney, che
interpretando un movimento inglese come un segno di imminente ritirata, guidò una carica di cavalleria che non
poté nulla contro gli ordinati quadrati della fanteria di Wellington; il prussiano Blücher che giunse al momento
giusto nel posto giusto, a differenza di Grouchy che non combinò nulla né si diresse ove si udiva “il rombo del
cannone”, rendendo quindi vano l’ultimo assalto della Vecchia Guardia, che s’infranse contro un “muro di
fuoco”. E soprattutto a Waterloo si vide un Napoleone decisamente “fuori forma”416. Ma anche se avesse vinto
questa battaglia, Napoleone avrebbe dovuto affrontare altre armate che stavano per essere inviate in Belgio, e
una guerra lunga e costosa. Napoleone aveva dovuto finanziare un esercito di 500.000 uomini, trovare ogni
anno circa 150.000 reclute e le spese militari della Francia che nel 1807 ammontavano ad oltre 450 milioni di
franchi nel 1813 avevano raggiunto sbalorditiva cifra di 817 milioni. Un tale sforzo era irripetibile. La Francia
tornava negli antichi confini mentre pareva levarsi alto nel cielo d’Europa l’astro della Prussia e si confermava
la forza della Russia. Ma il disegno francese di una egemonia sull’intero continente europeo, da conquistare con
la forza delle armi, aveva favorito in particolare la talassocrazia britannica. Questo venne ben espresso da
Gneisenau: «La Gran Bretagna non ha debito più grande di quello nei confronti di questa canaglia [Napoleone].
Poiché attraverso gli eventi di cui lui è stato causa, la grandezza, la prosperità e la ricchezza dell’Inghilterra si
sono accresciute enormemente. Essa è signora del mare e in questa sfera, come in quella del commercio, non
ha ora alcun rivale»417. Nondimeno, se l’Inghilterra adesso era la principale potenza mondiale, ciò si doveva
anche ad una trasformazione sociale ed economica verificatasi nella seconda metà del 1700: la rivoluzione
industriale.
416
417
Su Waterloo vedi D. G. Chandler, Waterloo, Rizzoli, Milano, 1999.
Citato in P. Kennedy, op cit., pp. 211-212.
159
BIBLIOGRAFIA*
Per ovvi motivi oltre ai libri e ai principali articoli citati nelle note si riportano solo opere che sono state di
particolare utilità per scrivere il presente libro o che comunque contengono preziose indicazioni bibliografiche.
Utili sono state anche varie voci dell’Enciclopedia Treccani on line. Si badi che solo in alcuni casi, per
chiarezza, sono riportati anche i sottotitoli, mentre l’edizione è sempre quella effettivamente consultata. I dati
dovrebbero essere comunque sufficienti per reperire, tramite Internet, ulteriori informazioni per quanto
riguarda le diverse edizioni delle opere elencate di seguito (e. d. significa “edizione digitale”).
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