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Elton Kalica Ergastolo ostativo e negazione degli affetti Una prospettiva interna sul 41 bis Life sentence and the denial of affections. A convict perspective on «41 bis» After two decades of «war on organized crime», the number of lifers in Italy has notably increased. More than 1.200 convicts are potentially lifers without parole (ergastolani ostativi). Moreover, most of them have spent several years in isolation regime, known as «41 bis regime». Inspired by the New School of Convict Criminology, this article seeks to explore the many elements of sufferance that long time confinement produces on the affective dimension of lifers, regarding parental relationships. Using an ethnographic approach, and his own personal prison experience, the author has interviewed twenty lifers. Focusing on their daily deprivation, this article shows some restrictive practices aiming at the ban of the communications between convicts and their families. These deprivations have negative consequences on parental relationships that become almost formal as visits become more sporadic. Long time confinement is a prison system that punishes primarily the family members of convicts; it turns a life sentence into a real torture. Keywords: prison life, prison visit, prison parenthood, long time confinement, life sentence, convict criminology 1. 1. Introduzione Tra le pene previste dal codice penale italiano permane la condanna a vita1. In Italia, il numero dei condannati alla pena perpetua è in costante crescita. Se al 31 x Elton Kalica, Department of Philosophy, Sociology, Education and Applied Sociology (FISSPA), University of Padova. Via M. Cesarotti, 10/12 – 35123 – Padova (Italy). eltonkalica@hotmail.com 1 Artt. 17 e 22 C.P.. Si tratta di una condanna che dovrebbe essere inflitta per reati di particolare gravità, come i delitti contro la personalità dello Stato, contro l’incolumità pubblica e nei casi di omicidi accompagnati dalle aggravanti previste dagli artt. 567 e 577 del codice penale, oppure nel caso in cui il reato di omicidio concorre con i reati previsti dall’art. 73, secondo comma della legge sugli stupefacenti. In realtà la condanna all’ergastolo viene inflitta sempre più spesso anche per reati considerati di «particolare allarme sociale». Ad esempio, ETNOGRAFIA E RICERCA QUALITATIVA - 2/2016 ELTON KALICA dicembre del 2001 i condannati all’ergastolo erano 868, solo tre anni più tardi i condannati a vita erano saliti a 1.161 su un totale di 35.033. Oggi si contano 1.589 ergastolani su un totale di 33.682 detenuti condannati definitivamente2. L’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario3, esclude dall’accesso ai benefici diverse categorie di reati che sono considerati: 1) di particolare pericolosità, 2) commessi in contesti di criminalità organizzata o terroristica e 3) che presuppongono il rifiuto del condannato di collaborare con la giustizia4. La collaborazione può avvenire anche dopo la condanna se il condannato si «adopera per aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati» (Art. 58 ter O.P). Tale esclusione di legge osta la concessione delle misure alternative al carcere rendendo inammissibile ogni domanda avanzata dal condannato. Per gli ergastolani, l’esclusione dalle misure alternative al carcere, compresi i permessi premio giornalieri in strutture protette, produce una condanna a vita «effettiva». Da qui anche la definizione di «ergastolo ostativo». Si stima che più di 1.200 condannati siano ergastolani ostativi. L’articolo 41 bis O.P.5 assegna al Ministro della Giustizia il potere di sospendere il trattamento penitenziario agli indagati o condannati per reati di criminalità organizzata, terrorismo o eversione, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica6. In concreto, le misure applicabili riguardano restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui visivi e telefonici, la limitazione dell’ora d’aria e la censura della corrispondenza. Dopo una prima applicazione, il 41 bis può essere prorogato con un altro provvedimento del Ministro. Il detenuto può avanzare reclamo al magistrato di sorveglianza avverso la proroga. Il magistrato, sentito anche il parere della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Distrettuale Antimafia sull’esistenza di legami del soggetto con la criminalità organizzata, decide sul reclamo. La revoca del regime interrompe l’isolamento ma non cancella la qualifica di «detenuto speciale» e il detenuto viene assegnato a un circuito separato dal resto della popolazione x alcuni casi di cronaca riguardanti omicidi in famiglia sono stati ripresi dai mass-media con grande clamore, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica, concludendosi poi con condanne all’ergastolo. 2 Fonte: Dati pubblicati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato statistica ed automazione di supporto dipartimentale – Sezione Statistica. 3 Legge del 26 luglio 1975, n. 354. L’art. 4 bis prevede che «L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, e le misure alternative alla detenzione (…) possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale (…) nonché per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, (…) e all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter». 4 Il rifiuto di collaborare fa riferimento alle norme introdotte con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (convertito dalla l. 12 luglio, 1991 n. 203), il d.l. 8 giugno 1992 n. 306, (convertito dalla l. 7 agosto 1992 n. 356) , e con il d.l. 14 giugno 1993 n.187 (convertito in l. 12 agosto 1993 n.296). 5 Art. 41 bis della legge (Gozzini) 10 ottobre 1986 n. 663. 6 Art.19 del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306. – 326 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI detenuta chiamato Alta Sicurezza n.1 (A.S.1). Attualmente, almeno quattrocento detenuti si trovano nei circuiti di A.S.1. Dato che sono tutti condannati alla pena dell’ergastolo, possiamo dedurre che la loro ostatività sia in un certo senso certificata dal trascorso di 41 bis. In questo articolo, vengono presentati alcuni risultati di una ricerca condotta attraverso interviste con detenuti condannati all’ergastolo. Dopo un’introduzione relativa all’ergastolo ostativo e un approfondimento della prospettiva «convict» a partire dalla quale è stata realizzata la ricerca (in particolare, la realizzazione di venti interviste a ergastolani è stata possibile grazie alla mia precedente esperienza di detenzione), i materiali biografici raccolti vengono esplorati in merito a tre temi. Dapprima, viene descritto il passaggio dal trattamento penitenziario ordinario al regime del 41 bis; in secondo luogo, viene affrontato il tema delle restrizioni relative a corrispondenza, colloqui e telefonate; infine, vengono esplorate le drammatiche conseguenze di questo regime detentivo sulla dimensione affettiva e sui rapporti familiari dei detenuti. 2 2 Cenni teorici In molti Paesi, l’organizzazione delle carceri prevede la creazione di circuiti speciali per contenere i detenuti ritenuti un pericolo per gli altri detenuti e per lo staff. Il carattere punitivo di questi luoghi assegna la sorveglianza a corpi speciali individuati dall’istituzione, rendendo difficile l’accesso allo stesso personale interno, e quasi impossibile l’ingresso di persone esterne per scopi ispettivi o di studio. La disposizione del carcere diviso tra vari regimi ha orientato la ricerca su unità specifiche, come i reparti creati per accogliere condannati per reati sessuali, persone tossicodipendenti, detenuti particolarmente violenti oppure affiliati a gruppi organizzati. Per me, questa divisione comporta una segmentazione del campo. La selezione della popolazione detenuta secondo categorie di reati, insieme alla differenziazione dei regimi, struttura in modo differente le relazioni e i rapporti di potere. Possiamo pertanto affermare che ciascun segmento penitenziario costituisce un campo a sé. Evocando il suggerimento bourdieusiano (Bourdieu, Wacquant, 1992) di pensare il carcere in termini di campo, occorre muoversi su una linea d’indagine che supera la descrizione formale, in termini di normative e regolamenti, per ricostruire le relazioni e le trame che sostengono il funzionamento più generale dell’istituzione (Ferreccio, Vianello, 2015). Detto questo, riteniamo che i circuiti speciali costituiscano un campo difficile da studiare. Il presente lavoro si muove all’interno di questo campo analizzando in modo particolare la dimensione affettiva, fortemente ristretta a causa della sospensione del trattamento penitenziario. Il carcere non solo non rieduca, ma si ritrova a dover contenere un numero crescente di persone in regimi sempre più duri, con una grande quantità di persone escluse dalle misure alternative e altre con l’ergastolo ostativo, fino alla morte. Anche nel panorama italiano, la crescita delle condanne all’ergastolo, specie quando eseguito nella sua forma perpetua, risponde a istanze meramente retributive a scapito di ogni finalità di recupero, all’interno di una cornice in- – 327 – ELTON KALICA foltita dalla «vertiginosa crescita delle incarcerazioni e del derivante sovraffollamento penitenziario, all’interno di spazi architettonici che riflettono il modo di interpretare la pena privativa della libertà» (Anastasia et al., 2011). Mentre il grave problema del sovraffollamento italiano ha messo in ombra la pena estrema del regime di 41 bis (Corleone e Pugiotto, 2013) cioè l’ergastolo ostativo (Vianello, 2015), alcuni condannati all’ergastolo sperimentano forme di comunicazione per richiamare l’attenzione verso la loro condizione. Sono loro a scrivere di regimi speciali e di fine pena mai. Si raccontano rivelando le torsioni mortificanti della reclusione e le forme di sopravvivenza messe in atto: storie incise sui muri delle istituzioni totali o pubblicate nei testi letterari, raccolte dalla memoria orale, nella scrittura testimoniale o in altre forme espressive (Curcio et al., 1990). Scrivono lettere e petizioni per l’abolizione dell’ergastolo, raccogliendo l’adesione di centinaia di persone, molte delle quali artisti, scrittori e intellettuali7. Quello che chiedono è un fine pena, poiché l’assenza di un fine pena si prende la vita di una persona (Mele, 2005). Pubblicano libri, urlando a bassa voce (Musumeci, 2013) parole capaci di aprire una finestra sul mondo complesso e contraddittorio degli ergastolani ostativi e di portare qualche giornalista a interrogarsi se sia è giusto, qualsiasi cosa sia stata commessa, essere «condannati per sempre» (De Carolis, 2012). Si tratta degli uomini ombra, invisibili e dimenticati da tutti, morti viventi, perché irreali come le ombre condannate alla «Pena di Morte Viva»: così viene chiamato l’ergastolo ostativo senza nessuna possibilità futura di uscire (Musumeci, 2010). I racconti degli ergastolani si rivelano una preziosa testimonianza alla quale attingono i pochi studiosi – ispirati ad una cultura della carcerazione minima che favorisce il maggior utilizzo di misure alternative – che teorizzano l’abolizione dell’ergastolo. L’approccio abolizionista in sé pone al centro il principio del rispetto della dignità della persona umana. Sotto tale prospettiva, la sanzione penale deve attenersi al principio di stretta necessità, intesa sì come sofferenza più svantaggiosa del vantaggio procurato dal reato, ma in misura minima (Mosconi, 2009). Da qui anche il rifiuto dell’ergastolo, in quanto strutturalmente incompatibile con il principio della dignità umana. Pur riconoscendo la complessità della tipologia di reati puniti con l’ergastolo, il carcere in quanto sanzione estrema, proprio perché distrugge ogni rete sociale e familiare, non può essere concepito come reclusione a vita. Un terreno teorico su cui si muove anche il mio lavoro. 3. 3. Una prospettiva «convict» Lo spazio penitenziario statunitense ha attirato a lungo l’interesse di studiosi stimolati specialmente dalle politiche panpenaliste degli ultimi trent’anni. Recentemente si è distinto un piccolo gruppo di ricercatori che, accomunati dal x 7 La campagna «Firma contro l’ergastolo» è una la proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo. Lanciata nel 2011 da Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolano ostativo, e appoggiata dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, aveva raccolto oltre ventimila adesioni (cfr. Vianello, 2015). – 328 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI trascorso detentivo, realizzano ricerche empiriche all’interno del carcere. Partendo da una posizione critica verso la letteratura, le politiche e le pratiche esistenti, questi autori cercano di offrire una nuova prospettiva sulla criminologia e sulla concezione della giustizia penale. Per questo motivo si reputano teorici della New School of Convict Criminology (Ross, Richards, 2003). Entrare in carcere per scontare una condanna, riprendere in mano i libri e portare a termine gli studi universitari, utilizzare gli strumenti scientifici acquisiti per progettare e pubblicare ricerche etnografiche, sono attività che richiedono una determinazione particolare. Eppure tanti detenuti (Kalica, 2011), nonostante la costrizione di espiare la propria condanna in luoghi spesso inumani, hanno avuto la capacità di appassionarsi alla ricerca per scavare prima di tutto negli aspetti di umanità che il carcere nasconde. Allo stesso tempo questi autori assumono una posizione critica verso quella criminologia che, finanziata da fondi ministeriali, ha legittimato le politiche responsabili dell’aumento della popolazione carceraria. Ispirato dal lavoro di questi docenti e ricercatori statunitensi, il mio lavoro ha trovato i necessari stimoli nella mia esperienza detentiva. Prima di essere incarcerato in una sezione di detenuti comuni, sono stato rinchiuso per cinque anni in una sezione di Alta Sicurezza e, quando racconto di me, ripeto sempre che lo status di «detenuto A.S.» mi ha perseguitato fino all’ultimo giorno della mia carcerazione. Fui arrestato a metà anni novanta. Avevo da poco compiuto vent’anni e di crimine organizzato sapevo tanto quanto possono imprimere nella mente di un liceale i film sulla mafia. Accusato di sequestro di persona, sono stato automaticamente inserito in una sezione con persone accusate per mafia. Sin dai primi mesi ho potuto arricchire il mio italiano scolastico con il dialetto di Gela, di Catania, poi con quello di Catanzaro, di Reggio, ancora con quello di Lecce, di Foggia, e anche con quello di Caserta e di Scampia: a seconda di chi veniva «appoggiato» nella mia cella per il tempo necessario di un’udienza nell’aula bunker per poi essere trasferito da un’altra parte, per un’altra udienza. Ho imparato così i loro usi e i loro codici, ho mangiato con loro, ho litigato con loro, ma ero diverso da molti di loro: forse per la tranquillità della mia infanzia «garantita», lontana dalle loro travagliate infanzie; forse perché io avevo un fine pena, diversamente da molti di loro; di certo mi vedevano come un «turista» del carcere, uno che non avrebbe dovuto starci. Molte delle persone che ho conosciuto nella sezione di Alta Sicurezza erano condannate a una forma insolita di ergastolo: esclusi da ogni misura alternativa al carcere. Finché ero detenuto avevo visto quegli uomini come compagni di un viaggio che non avevo scelto ma con i quali ero stato costretto a stare. Oggi, il mio interesse per la ricerca in carcere ha risvegliato in me la curiosità di conoscere quelle persone alla luce della ricerca accademica. Da qui anche la decisione di ritornare in carcere per studiare gli ergastolani attraverso una prospettiva convict. A tal fine mi sono interessato alle narrazioni con cui i detenuti descrivono le pratiche d’isolamento all’interno del 41 bis e gli effetti che tali pratiche producono sui rapporti affettivi e nella ridefinizione del ruolo genitoriale. Trattandosi di un’indagine qualitativa ho lavorato su interviste individuali. Sono stato – 329 – ELTON KALICA autorizzato dalla Direzione del carcere di Padova a intervistare alcuni detenuti ergastolani utilizzando gli ambienti della redazione di Ristretti Orizzonti. L’accesso al campo mi ha permesso di superare quegli ostacoli che incrocerebbe un qualsiasi ricercatore proveniente dall’esterno e realizzare venti interviste a ergastolani. Di questi, sedici erano ergastolani collocati nella sezione A.S.1. Altri due ergastolani erano stati da poco declassificati, e quindi trasferiti in una Sezione Comune, e gli ultimi due si trovavano in una sezione a regime attenuato, il Polo universitario. 4. 4. Ristrettamente 41 bis Il regime di 41 bis è legittimato da un provvedimento che autorizza la sospensione del trattamento penitenziario ordinario. Chi ha vissuto in prima persona la nascita dei regimi di 41 bis ricorda tuttora di quella mattina di venticinque anni fa, quando i primi duecento detenuti individuati come capimafia vennero svegliati e caricati su furgoni blindati per essere collocati in tre carceri segnalate come più appropriate: Ascoli, Spoleto e Cuneo. Io ero in carcere dal 1986. Nel luglio del 1992, sono venuti, ci hanno chiamato dal passeggio, e la cosa bella ti davano due fogli con tutti i nomi di tutte le persone sottoposte al 41 bis, erano tutti fotocopiati e non si capiva nulla… effettivamente quello è stato il momento, perché anche loro pensavano che fosse una cosa temporanea. (G. D.) Tuttavia, le carceri individuate si sono rivelate inadatte a dare seguito alle disposizioni prescritte dal nuovo regime. Ad esempio, nel carcere di Spoleto, dove fu trasferito il gruppo più cospicuo di detenuti, mancava l’area dei passeggi. Quindi tutti i detenuti del 41 bis facevano l’ora d’aria nello spazio dei passeggi per i detenuti «comuni». Il clima nelle carceri diventa irrespirabile. La sospensione del trattamento era ancora un concetto astratto che doveva trovare attuazione, e quindi fu interpretato piuttosto liberamente dallo staff del carcere. I detenuti provenivano da regimi di Alta sicurezza nei quali, pur essendo separati dal resto del carcere, avevano potuto usufruire di alcune pratiche comuni alle quali ora dovevano imparare a rinunciare. Gli spostamenti all’interno del carcere sono ridotti al minimo per i detenuti del 41 bis. Quando uno di loro deve recarsi in infermeria oppure incontrare l’avvocato, viene sospeso il transito di detenuti e di volontari nei corridoi. Diverso il caso del carcere di Ascoli, già strutturato come «carcere speciale». Qui c’erano già le celle singole, i cancelli automatici, passeggi suddivisi in piccoli cubicoli. Anche il carcere di Cuneo era un vecchio «speciale» usato per ospitare i detenuti cosiddetti «brigatisti». Tuttavia lo staff del carcere non era ancora abituato all’idea e alle pratiche del «nuovo regime duro». Allora era a discrezione del comandante, magari un comandante ti concedeva di tenere in cella un prodotto in più… ti concedeva di stare al passeggio al – 330 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI posto di quattro persone in dieci… c’erano queste diverse misure a seconda dell’esigenza. (G. D.) La custodia e la sorveglianza di questa nuova categoria di detenuti viene attualmente gestita da una troupe d’élite chiamata Gruppo Operativo Mobile (GOM) ed è composta da seicento agenti scelti dal personale di polizia penitenziaria che presidiano tutti i 12 reparti di 41 bis distribuiti sull’intero territorio nazionale8. La traduzione pratica della sospensione del trattamento introdotto dall’art. 41 bis si manifesta in pratiche volte a costringere le persone a trascorrere più tempo possibile in cella e allo stesso tempo fare in modo che esse incontrino meno persone possibile. Pertanto, la quotidianità di un detenuto del 41 bis si svolge principalmente in cella. Viene effettuato un maggior utilizzo della perquisizione straordinaria che, a differenza della perquisizione ordinaria effettuata con strumenti di controllo non invasivi, come il metaldetector, si concretizza nel denudamento del detenuto ad ogni suo spostamento. Gli effetti personali che si possono tenere in cella sono limitati a due paia di scarpe, due di pantaloni, due camice, quattro boxer, quattro magliette intime, quattro calzini e due giubbini. Viene redatta una lista di tutto ciò che il detenuto ha in cella per un totale che non può superare i 30 pezzi. Ho fatto 9 anni in 41 bis, 8 in AS3. Il 41 bis è che devi rimanere 23 ore in cella chiuso, un’ora d’aria e 23 ore chiuso, un’ora d’aria e una di saletta che vai a parlare con le solite tre persone, perché loro ti danno un gruppo e loro ti dicono che da oggi uscirai solo con loro. (T. R.) In conformità con la logica della gestione di reparto, anche all’interno dei reparti di 41 bis sono istituiti degli spazi destinati a isolare come forma punitiva oppure a proteggere i detenuti. Si tratta di mini-sezioni chiamate «Aree Riservate». In Italia si contano ventidue Aree Riservate, delle quali soltanto tre sono destinate a ospitare detenuti collaboratori della giustizia. Questi mini-reparti ospitano complessivamente una cinquantina di detenuti9 i quali sono costantemente monitorati da parte del personale anche attraverso telecamere installate all’interno delle celle e dei bagni. La collocazione nell’Area Riservata vieta ogni contatto con gli altri detenuti del 41 bis. Nonostante tale separazione abbia le caratteristiche dell’isolamento, il collocamento nell’Area Riservata non può essere considerato una pratica di isolamento a lungo termine poiché il condannato può fare l’ora d’aria ed eventualmente l’ora della socialità, in compagnia di un altro detenuto, scelto dall’amministrazione. x 8 Al dicembre 2012 vi erano 700 detenuti gestiti dal GOM (tra i quali tre donne e tre detenuti collaboratori di giustizia), che risultavano così suddivisi: mafia «Cosa Nostra» (232), Camorra (278), Ndrangheta (123), Altre Mafie (38), Sacra Corona Unita (21), Organizzazione Terroristica B.R. (3), mafia «Stidda» (5). 9 Nella relazione sulla amministrazione della Giustizia nell’anno 2012, pubblicata in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2013, veniva riferito di 48 detenuti collocati in Area riservata. – 331 – ELTON KALICA 5. 5. Affetti ristretti 5.1. 5.1. Corrispondenza e censura Gli strumenti di controllo «ordinari» sulla corrispondenza dei detenuti10 sono l’ispezione e il trattenimento. L’ispezione serve a verificare che la corrispondenza in busta chiusa, in arrivo o in partenza, non contenga oggetti non consentiti. Nel caso durante l’ispezione si rilevino nella corrispondenza epistolare elementi che costituiscono pericolo per l’ordine o la sicurezza, ovvero che integrano fattispecie di reato, si procede con il trattenimento. Quando la direzione dell’istituto trattiene la missiva, inoltra immediata segnalazione all’autorità giudiziaria per i provvedimenti del caso11. All’interno del regime di 41 bis, la corrispondenza epistolare di ogni singolo detenuto, oltre alla solita ispezione della busta, è sottoposta al visto di controllo dei contenuti della missiva. L’attività di controllo viene svolta dall’amministrazione penitenziaria e in genere non mira al controllo personalizzato della corrispondenza di un detenuto. In altri termini, all’interno degli scritti del detenuto non si cercano contenuti specifici considerati pericolosi, quindi che riguardano indagini giudiziarie su fatti specifici. Tale assenza di personalizzazione del controllo assume particolare importanza in quanto lascia ampi spazi nella scelta dei criteri adottati dall’amministrazione per definire i contenuti censurabili. I criteri non sono comunicati per iscritto al detenuto, il quale deve sperimentare e adattarsi man a mano che si vede trattenuta la corrispondenza. Più delle volte, all’inizio, quando scrivevo a mia moglie o mia madre, quasi tutto quello che avevo scritto all’inizio nel 41 bis è stato censurato, poi ho capito cosa dovevo scrivere, solo: «ciao amore come stai? Stai bene anche io, ci sentiamo alla prossima», se prolungavi trovavano sempre qualche difetto e la bloccavano. Se per esempio mia moglie mi dice che ieri è stata a cena da mia madre, la censuravano. Mi hanno bloccato delle lettere e delle cartoline di auguri prestampati che io avevo comprato nella spesa, che sopra sono scritti gli auguri di compleanno e, io sotto ho scritto solo: «ciao ti amo amore» a mia moglie, l’ho imbucata e loro me l’hanno bloccata. (E. G.) In assenza di indicazioni precise su contenuti ritenuti pericolosi, qualsiasi frase appare pericolosa. La decisione di trattenere la corrispondenza viene notificata al detenuto attraverso un verbale di censura. Successivamente il carcere invia la corrispondenza trattenuta al Magistrato di sorveglianza che decide sulla convalida del trattenimento. Non c’è un termine per la decisione di convalida. Quando il trattenimento viene confermato, la missiva viene sequestrata. Non solo hai la censura, devi stare anche attento che, magari una parola normalissima, loro la interpretano diversamente e ti sequestrano la lettera, x 10 11 Cfr. art. 38, comma 5, D.P.R. 230/00. Cfr. art. 18, comma 7, Ordinamento Penitenziario. Si veda anche Florentin (2003). – 332 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI intanto te la sequestrano, poi vedono che non c’è niente, ma intanto passa del tempo, poi te la restituiscono, capito cosa fanno? (A. P.) Il controllo viene spesso svolto dagli stessi agenti impegnati nella sorveglianza dei detenuti. L’ampia discrezionalità nella scelta dei criteri di valutazione dei contenuti può essere influenzata dal rapporto personale con l’agente di turno. Hai la posta bloccata, la posta è stata bloccata, per chissà quale mistero. Poi te la davano dopo 5 o 6 mesi, se te la davano, dopo un anno. Alla fine non c’era niente di… era solo un modo per farti scattare… (G. Z.) In altri termini l’assenza di regole precise sui contenuti ammessi allo scambio epistolare rende la corrispondenza una fonte di frustrazione. E la pratica della censura ha un effetto demotivante e demoralizzante sui detenuti a tal punto da costringerli inizialmente a snaturare il linguaggio nei rapporti affettivi e successivamente a rinunciare quasi completamente a uno strumento importante per coltivare i rapporti con i propri cari. …tu scrivi una lettera a tua moglie, sai, quando uno scrive a sua moglie o ti scrive, ti parla dei problemi familiari… oppure delle cose intime tue, e lei ha visto che io ho cambiato anche nel dire, ciao ti amo! ciao ti voglio bene! perché ero psicologicamente… sapevo che le leggevano anche perché davano il visto. Poi erano gli stessi agenti che tu vedevi in sezione o venivano lì a dirti «’sta lettera non parte perché questa parola non sappiamo che cosa vuol dire». Una parola normale, se gli dicevi due volte ti amo dicevano che forse era un messaggio. Allora ho cominciato a non scrivere più nella normalità. Mia moglie se ne accorge, come mai non mi scrive più ti amo, e spiegare a una moglie, sai che non te lo scrivo perché… si è creata tutta questa difficoltà. Allora il tuo cervello come dicevo prima se ne va in autodifesa. (G. D.) 5.2. 5.2. Colloqui sbarrati Oltre alla corrispondenza, anche i colloqui visivi sono oggetto di restrizioni, in quanto offrirebbero alla persona sottoposta al 41 bis l’occasione di trasmettere all’esterno le proprie determinazioni, e quindi di continuare ad esercitare il proprio potere criminale12. La limitazione consiste nella riduzione del tempo a disposizione e nella separazione della stanza con un vetro alto fino al soffitto. Il numero dei colloqui visivi è fissato in uno o due al mese secondo la disposizione indicata nei singoli provvedimenti di applicazione del regime speciale. …la cosa più brutta del 41 bis è stato il colloquio. Dacché a colloquio abbracciavo a mia moglie, a mia madre, ai miei fratelli, mi sono ritrovato con il vetro davanti, ed è stato uno shock, sia per me che per la mia famiglia. Per la x 12 Circolare DAP n. 3592-6042, anno 2003. – 333 – ELTON KALICA regola è un’ora e mezza, ma non la facevi mai, ti fanno fare solo 45 minuti, al massimo 50 minuti. Io in 8 anni non ho mai fatto un’ora. C’è un vetro e il citofono sempre rotto, quando parlavi dovevi gridare e se stavano due in sala, non si capiva nulla. (E. G.) Nel caso di presenza di figli minori di 12 anni, il detenuto può incontrarli senza vetro divisorio per una durata che non può superare un sesto della durata complessiva del colloquio. Se togliere lo sbarramento per concedere un breve contatto fisico tra padre e prole sembra un atto di umanità, in concreto, i pochi minuti di abbraccio sono la conclusione di una procedura complessa e traumatizzante per il minore. I parenti non possono venire a contatto col detenuto nemmeno per un attimo, pertanto il minore deve essere accompagnato da un agente penitenziario. Il genitore che accompagna il figlio deve allontanarsi dalla stanza lasciandolo da solo nel parlatorio. Poi un agente lo preleva e lo porta dall’altra parte del vetro dove lo attende il padre. Tu devi pensare che già un bambino piccolo che non ti vede quasi mai… una volta all’anno quell’ora lì il bambino vuole la mamma vicino, se tu la togli dalla stanza, poi aprigli il vetro, quel bambino era sempre nervoso piangeva è un trauma per il bambino. (T. R.) Il colloquio con i familiari viene costantemente sorvegliato attraverso telecamere e microfoni. Nonostante tale dispositivo di vigilanza, viene effettuata anche la perquisizione corporea, prima e dopo il colloquio. …a volte ti fanno uscire la lingua, ti fanno alzare i piedi… queste sono pressioni psicologiche, torture psicologiche, sennò non mi spiego altrimenti, perché come fai, tu alzi la lingua, nella lingua che puoi avere? Inoltre sei sempre guardato, perché sei solo in cella. Con i miei figli non ho avuto nessun tipo di contatto per otto anni, attraverso quel vetro. (A. P.) Un altro aspetto strettamente legato ai colloqui è costituito dai trasferimenti. I detenuti intervistati hanno ammesso di aver sperimentato almeno quattro trasferimenti. Poiché quasi tutti gli ergastolani ostativi provengono dal sud Italia, tale pratica riguarda maggiormente i trasferimenti verso le carceri del nord e in Sardegna e produce una distanza geografica che ostacola ulteriormente i colloqui per la famiglia. 5.3. 5.3. Telefonare I detenuti sottoposti al 41 bis non possono telefonare nei tempi e nelle modalità concesse al resto della popolazione detenuta. Il detenuto intenzionato a comunicare telefonicamente deve fare richiesta fornendo i dati e la residenza del famigliare. Indicare dove abitano i propri cari è fondamentale poiché al momento della telefonata il parente deve recarsi al carcere più vicino ed effettuare la telefonata attraverso un telefono posto dentro il carcere. – 334 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI …io fino al 2009 facevo una telefonata e più un colloquio al mese. Nel 2009 Angelino Alfano ha messo una regola: fai il colloquio o fai la telefonata. Devi fare una delle due. Se facevi la telefonata non fai il colloquio o il contrario. Come anche gli avvocati non potevano stare più di un’ora. Per esempio, il mio avvocato viene da Napoli fino ad Ascoli e doveva fare un’ora e andare via. Poi doveva rientrare il giorno dopo per fare un’altra ora. (E. C.) A parte le difficoltà che questa pratica causa a una famiglia che vive in Italia, non si è posto il problema che dovrebbe affrontare una famiglia che abita all’estero la quale, ovviamente, non avrebbe modo di recarsi in un carcere italiano per consumare i dieci minuti di telefonata con il proprio caro. 6. 6. Padri al 41 bis In una prospettiva di tutela dei diritti, nel suo rapporto su Guantánamo, lo Human Rights Watch (2008) evidenzia gli effetti negativi che i colloqui attraverso il vetro divisorio producono sui familiari delle persone detenute in regimi duri. Dal punto di vista sanitario, mi sembra interessante menzionare il rapporto annuale del comitato nazionale neozelandese sulla salute (National Health Committee, 2009), il quale analizza anche l’impatto del carcere sui familiari del detenuto, specialmente sui figli. Osservando il fenomeno da un punto di vista medico, il rapporto prende in considerazione sia l’ansia e il senso di smarrimento prodotti nel genitore detenuto, sia le esperienze emotive e psicologiche vissute negativamente dai famigliari. I detenuti/padri ergastolani collocati nei regimi speciali esprimono un aumento della frustrazione che è in rapporto diretto con l’aumento delle pratiche restrittive che colpiscono i loro famigliari: con le lettere costantemente censurate, i colloqui svolti tramite un citofono e le telefonate effettuate solo dall’interno di un carcere, i rapporti familiari assumono contorni surreali: «Non capisco come mai da 23 anni circa non posso scambiare una carezza o un bacio con la mia compagna, non capisco perché non posso passare una giornata con i miei nipotini». Questa domanda retorica di un ergastolano restituisce l’immagine della frustrazione enorme prodotta dalle forti limitazioni ai rapporti familiari. Rimanere per anni nel regime produce un continuo sentimento di colpa nei confronti della famiglia. Vedere i familiari affrontare viaggi lunghi per un colloquio al mese di 40 minuti separati sempre dal vetro, oppure vedere la propria moglie consegnare a un agente i figli per portarli dall’altra parte del vetro negli ultimi dieci minuti, vengono vissuti come una tortura nei confronti dei propri cari, vittime di una sofferenza inutile. …ho deciso all’Asinara di non fare i colloqui perché lì era un dramma fare i colloqui. Io sono stato un anno senza fare i colloqui e senza vedere i miei figli per scelta. (C. M.) I sensi di colpa si sviluppano anche rispetto all’impossibilità di essere stato presente durante i momenti più importanti della vita dei propri figli. Momenti – 335 – ELTON KALICA immortalati nelle foto che conservano gelosamente, ma dove gli unici assenti sono sempre loro. Le foto del battesimo, della prima comunione, della cresima o del diploma diventano così le pietre miliari di un percorso di sofferta separazione. Quando lasciai mia figlia aveva 11 anni.... Ed è venuta per la prima volta al carcere di Voghera. E lì ho avuto paura. Sai perché? Perché ho lasciato una bambina e ho trovato una donna. Ho trovato una donna con due bambini, e questo mi ha fatto paura, perché non avevo più la cognizione del tempo, sapevo che erano passati tanti anni, ma nella mia mente il tempo era fermo. Quando vidi mia figlia coi bambini, è stato sconvolgente, è stata una cosa devastante, poi i bambini erano ancora piccolini, «nonno, nonno…» (G. Z.) L’album fotografico, uno strumento così importante per tenere insieme i ricordi, restituisce all’ergastolano la consapevolezza di essere per la propria famiglia un congiunto invisibile, assente, come se fosse realmente morto. Mentre i figli forse non hanno più forze per continuare a seguire un padre che in carcere ci rimarrà per tutta la vita. Mia moglie viene quando c’è qualche problema con i miei figli. Due dei miei figli sono tanti anni che non li vedo più. Si sono sposati. Mi mandano qualche foto dei nipotini… Invece c’è la piccola che mi segue sempre… abita con mia mamma e me la porta a colloquio due volte all’anno. (B.C.) 7. 7. Figli che non assomigliano ai padri Lo studio dell’affettività in carcere costringe il ricercatore ad analizzare le declinazioni delle pratiche restrittive sui famigliari. Una situazione in cui sicuramente le donne – figlie, mogli e madri – dei detenuti ostativi sono vittime. Parlando con i detenuti, si ottengono descrizioni diverse da quelle che emergono sui mass media in occasione di alcuni fatti di cronaca, che ci hanno restituito immagini di donne forti, capaci di riprendere in mano gli affari dei mariti. In assenza del padre, è la madre che si fa carico dell’assistenza e della gestione dei bambini. Alcune ricerche (es. Saulini, Valastro, 2008) dicono che il 30% dei figli dei detenuti è destinato a entrare in carcere, anche perché l’assenza del padre fa mancare la principale fonte di reddito della famiglia rendendo precaria la situazione economica. Se il 70% non va in carcere è sicuramente grazie allo sforzo delle madri per tenere i figli nella legalità. Dai miei fratelli alle mie sorelle, a mia madre, a mio padre, ai miei figli, nessuno c’ha un reo, sono cresciuti nella massima educazione, studiano, ora si sono sposati… io ho una famiglia onestissima, ma sono stato io sempre così, io da bambino picchiavo mio fratello, «devi andare a lavorare», cioè, ci tengo. Ma non c’ho nessuno che ha precedenti, ma neanche per una canna, un verbale… tutti lavoratori… perfetti! (B.C.) – 336 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI Le traiettorie di vita dei figli rivelano degli aspetti interessanti. Parlando dell’educazione ricevuta dai figli, molti dei detenuti intervistati hanno espresso una visione critica rispetto alle proprie scelte di vita. Inoltre, raccontavano orgogliosi che i propri figli hanno finito gli studi, che lavorano, oppure semplicemente, che conducono una vita da «regolare». Con mio figlio ha funzionato la sofferenza di avere un padre in carcere. Lui i suoi due figli li accompagna a scuola, non esce alla sera con gli amici, si dedica ai figli. Perché vuol dare secondo me quello che è mancato a lui… ma sono stato fortunato… uno di noi che ha un figlio ha sempre paura che prenda una brutta strada... (C.M.) Se ci sono frutti che cadono lontano dall’albero, sono spesso quei figli di ergastolani ostativi che, oltre a non avere mai avuto problemi con la giustizia, hanno lasciato il proprio paese trasferendosi in luoghi dove nessuno li conosce. Hanno studiato, c’è chi ha terminato anche l’università, si sono sposati e lavorano regolarmente nell’anonimato. È chiaro che l’appoggiare simili scelte di vita implica un giudizio negativo verso le proprie scelte illegali. Io ho mandato via le mie figlie e mia moglie dal paese per non farle fare… questa cosa… diciamo…. Quando io capisco che le mie figlie si possono rovinare, non perché sono donne, però si possono sposare con gente di questa cosa… perché nel paese… Allora gli dico che se ne devono andare 100 chilometri lontano, si devono fare la vita da sole, se sono in gamba si trovano senza raccomandazioni, non perché sono le mie figlie o le nipoti di quelli. Loro lo sanno che faccio questa cosa perché le voglio allontanare dall’ambiente familiare, perciò capiscono. (T. R.) Un aspetto particolare delle conversazioni con le persone condannate è che esse non nascondono le proprie responsabilità dichiarandosi innocenti; piuttosto, ammettono i propri percorsi di vita illegali. Essi tuttavia rivendicano una separazione tra la loro responsabilità e i rapporti con la famiglia. E quasi tutti, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, sentono di avere conservato un rapporto profondo con i loro figli. 8. 8. Riflessioni conclusive Scontare la pena in un regime di 41 bis è degradante; spesso questo è il prodotto di una specifica sofferenza sventolata come strumento politico in campagna elettorale, che sottolinea la crudeltà di persone incorniciate all’interno di un’immagine legata a delitti odiosi. E quando sono le famiglie a farne le spese, si ha a che fare con una crudele vendetta istituzionale: l’ergastolo unito al 41 bis spezza definitivamente ogni legame affettivo privando i famigliari del diritto a preservare i rapporti con i propri cari. Gli spostamenti di persone detenute da un capo all’altro dell’Italia costringono le loro famiglie a viaggi sfiancanti, costosi, per vedere i loro cari per poco – 337 – ELTON KALICA tempo in sale colloqui separate dal vetro blindato. Le lettere costantemente censurate, i colloqui svolti tramite un citofono e le telefonate effettuate solo dall’interno di un carcere portano a rinunciare alla comunicazione. Questa decisone può provenire dal genitore detenuto oppure dal genitore libero che decide di non portare il figlio in carcere. Una rinuncia dolorosa, ma vissuta anche come un regalo, un sacrificio fatto nei confronti dei figli per risparmiare loro la fatica e le umiliazioni di seguire il padre in carceri spesso lontane da casa. Le mamme raccontano le reazioni traumatiche dei figli una volta tornati a casa. Essere preso da un estraneo, separato dalla mamma, per essere unito al padre, un altro quasi estraneo, è una violenza che viene vissuta nella pienezza della sua crudeltà dai bambini, ma anche dai genitori. Sicuramente il 41 bis mette il rapporto padre/figlio a dura prova e l’impotenza pare il sentimento comune. Insomma, l’ergastolano può fare poco, se non aspettare che i figli crescano sotto la cura della mamma. E quando i figli diventano grandi, si usano i pochi colloqui per cercare di guadagnare degli spazi nella vita di persone cresciute senza un padre. Questo lavoro mi ha dunque svelato una realtà drammatica non solo per il regime di privazioni riguardante la quotidianità della vita per i detenuti sottoposti al regime di 41 bis, ma soprattutto per le pratiche restrittive nell’ambito dei rapporti con la famiglia. Sicuramente un figlio subisce la devastazione psicologica dovuta al continuo sforzo di convivere con l’idea di avere un genitore o un figlio murato vivo. Se poi i contatti con il famigliare vengono fortemente limitati dalle pratiche restrittive del 41 bis, l’ergastolo-ostativo diventa una forma di tortura perpetua, un trattamento inumano e degradante inflitto alla famiglia del condannato che si trova sottoposta ad una forma di tortura psicologica ma anche fisica e sessuale, dovuta al fatto di non potere mai riabbracciare il proprio caro, nemmeno per qualche ora, in uno spazio di intimità: sofferenze che vanno oltre la privazione della libertà, quindi oltre il senso della pena. La condizione drammatica dei rapporti tra gli ergastolani ostativi e le loro famiglie porta a riflettere sulle ambiguità e le ipocrisie che caratterizzano le punizioni inumane quando coinvolgono persone innocenti, come le famiglie. E allora emerge più di un sospetto che queste privazioni abbiano lo scopo di costringere i condannati a collaborare con la giustizia, nonostante le loro sentenze siano ormai definitive da molti anni. Se così fosse, esse potrebbero essere declinate come tortura, ovvero come esercizio di una violenza fisica e psicologica volta ad ottenere informazioni. Riferimenti bibliografici Anastasia, S., F. Corleone, L. Zevi 2011 Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Roma, Ediesse. Bourdieu, P., L. Wacquant 1992 An Invitation to Reflexive Sociology, Chicago, The University of Chicago Press. – 338 – ERGASTOLO OSTATIVO E NEGAZIONE DEGLI AFFETTI Corleone, F., A. Pugiotto 2013 Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, Ediesse. Curcio R., N. Valentino, S. Petrelli 1990 Nel bosco di bistorco, Roma, Sensibili alle foglie. De Carolis, F. (a cura di) 2012 Urla a bassa voce. 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