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Dante e le peripezie della sublimazione pulsionale Raffaele Pinto 1. Se volessimo ridurre ad una cifra ideale la poesia di Dante, così diversa nelle sue tormentate fasi, una cifra che ne rappresenti l’estrema sintesi, e che al tempo stesso indichi con luminosa evidenza il suo significato storico, credo che non ci sbaglieremmo selezionando, e mettendo criticamente a fuoco, il proposito, solennemente enunciato nel II capitolo della Vita Nuova, di mantenersi fedele al «consiglio della ragione» (poiché l’immagine di Beatrice «nulla volta sofferse che Amore lo reggesse» prescindendone). Il passo si rivela epocale soprattutto se lo si legge accanto a quello del cap. XXV sulla verità delle metafore: una «ragione la quale sia possibile d’aprire per prosa» La fine del capitolo conferma l’idea: «né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse sotto vesta di colore retorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente».. I due passi si illuminano a vicenda. Non ha senso un desiderio suscettibile di razionalizzazione se la poesia che lo esprime non si fa carico di una qualche verità enucleabile dalle sue figure; d’altra parte, una poesia capace di dichiarare i propri contenuti razionali sarebbe impensabile se il suo principio ispiratore, cioè l’amore, non avesse un qualche accesso alla razionalità (che la cultura del tempo intendeva in un senso ampiamente filosofico, se non specificamente aristotelico). Che fra desiderio e poesia (in volgare) esista una implicazione tale che nulla si possa predicare dell’una senza che venga predicato anche dell’altra, risulta evidente se si pensa che il primo rimatore usò il volgare per farsi capire da una donna, «e questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa» (ibid.). Per la verità, l’assioma che Dante deduce qui ha una originalità limitata, poiché è fondativo della lirica volgare «Chantars no pot gaire valer, / si d’ins dal cor no mou lo chans; / ni chans no pot dal cor mover, / si no i es fin’amors coraus» (Bernart de Ventadorn).. Ma in continuità con esso, e anzi potenziandone la portata dottrinale, scriverà: «… I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg., XXIV, 52-54) Sul ‘razionalismo’, cioè sulle fonti aristotelico-modiste, della definizione di dolce stil novo, rinvio al mio Gentucca e il paradigma poetico del ‘dolce stil novo’, in «Tenzone. Revista de la asociación complutense de Dantología», 3, 2002, pp. 191-215.. Il decisivo contributo di Dante alla cultura letteraria moderna è l’istanza razionalizzatrice di cui la poesia si fa carico, una istanza cocciutamente riproposta in momenti diversi, ed all’interno di registri di scrittura così differenti como sono il Convivio (che distingue tra le favole e la bella menzogna della lettera poetica e la veritade che si nasconde sotto il loro manto) e la Commedia (che distingue fra la dottrina ed il velame che la occulta). Non intenderemmo, però, la genesi di tale istanza se non ricostruissimo il tormentato itinerario che conduce dall’antica idea patologica del desiderio alla idea, tutta dantesca, di un desiderio che non solo non è in conflitto con la razionalità ma addirittura ne è la condizione. Si colgono gli aspetti problematici e conflittuali di tale itinerario se si adotta una prospettiva medica sul tema del desiderio, utilizzando da una parte concetti propri della medicina antica e medievale e dall’altra concetti propri della medicina moderna, cioè la psicoanalisi. Il fatto che la medicina antica e quella moderna rispondano a paradigmi scientifici diversi non è un ostacolo, poiché gli elementi letterariamente pertinenti dell’una sono agevolmente traducibili negli elementi letterariamente pertinenti dell’altra. Si veda, per esempio, la sopravvalutazione di cui è oggetto la donna amata secondo Freud (nella costellazione edipica che orienta la scelta oggettuale di desiderio) Psicologia della vita amorosa, in Sigmund Freud, Opere, Bollati-Boringhieri, Torino, 1989, VI, p. 415: «si inserisce nel contesto infantile il tratto della sopravvalutazione che fa dell’amata un essere unico, insostituibile, giacché non c’è chi possieda più di una madre e la relazione con essa poggia su un evento sottratto ad ogni dubbio e non ripetibile». E si vedano anche i Tre saggi sulla teoria sessuale, ibid., IV, p. 464: «La valutazione psichica che è conferita all’oggetto sessuale come meta di desiderio della pulsione sessuale si limita in casi rarissimi ai suoi genitali, e invece si estende a tutto il corpo dell’oggetto sessuale e ha la tendenza a comprendervi tutte le sensazioni che si dipartono dall’oggetto sessuale. La medesima sopravvalutazione si estende al campo psichico e si mostra come cecità logica (debolezza di giudizio) nei riguardi delle prestazioni e delle qualità psichiche dell’oggetto sessuale e parimenti come credula docilità verso i giudizi di quest’ultimo». e la si confronti con la sopravvalutazione della persona amata secondo Arnau de Vilanova (nella costellazione malinconica dell’amor heroicus) De Amore Heroico, «herois est corrupta scientiatio, qua iudicatur apprehensum delectabilius aut excellentius esse, quam sit, quapropter excitat vehemens desiderium ad quaerendam rem illam, et suam cogitationem in ea frequenter».. Quando Dante scrive (La dispietata mente, 47-48): «…’l sì e ‘l no di me in vostra mano / ha posto Amore…», ripete la totale dipendenza esistenziale dell’Io dall’oggetto, sopravvalutato nei suoi meriti tanto da alienarsi in lui, come leggiamo in tanti lirici. Nella canzone, con ogni probabilità la prima che Dante scrisse, la sudditanza morale dell’Io dalla donna si riflette nella tensione pragmatica del testo, in cui l’appello alla destinataria apre tutte le strofe centrali: «14. Piacciavi, donna mia, non venir meno; 27. Se dir voleste, dolce mia speranza; 40. E voi pur siete quella ch’io più amo; 53. Dunque vostra salute omai si mova». Il dato è tanto più rilevante se si pensa che questa canzone è l’unica, di quelle note, nella quale l’amata è anche interlocutrice (se si eccettua Aï faus ris). Ne avvertiamo il significato se pensiamo che la sublimazione pulsionale (il «consiglio de la ragione») dipende dalla distanza dell’oggetto di desiderio, di cui è segno, nel testo, la sua scomparsa dall’orizzonte comunicativo dell’Io. Nella prima canzone di Dante tale distanza è minima, ed a ciò allude l’apostrofe che ossessivamente si ripete. L’eccezionalità di lei, e la conseguente, alienante, dipendenza morale dell’Io, è il punto di partenza della esplorazione dantesca, subito trasceso, però, in direzione delle più gravi patologie di eros e del conseguente inasprimento dei sentimenti. Le due canzoni dell’amor doloroso, Lo doloroso amor che mi conduce ed E’ m’incresce di me sì duramente, sono una rassegna della sintomatologia dell’amore eroico che riprende la tradizione sul tema, accentua cavalcantianamente la conversione delle pulsioni sessuali in pulsioni di morte ed aggiunge, innovativamente, la dimensione metafisico-trascendente (che implica, però, anche lo spostamento della donna alla terza persona, che è già un principio di sublimazione). In E’ m’incresce di me, la condanna a morte dell’io coincide con la nascita di lei, il che significa che la infelicità e la morte del poeta sono in certo modo voluti dal destino (57-70): «Lo giorno che costei nel mondo venne, / secondo che si trova / nel libro della mente che vien meno, / la mia persona pargola sostenne / una passïon nova, / tal ch’io rimasi di paura pieno; /ch’a tutte mie virtù fu posto un freno / subitamente, sì ch’io caddi in terra / per una luce che nel cuor percosse». L’allusione alla visione paolina Atti degli apostoli, 9, 3-5: «et subito circumfulsit eum lux de caelo. Et cadens in terram audivit vocem dicentem … Ego sum Iesus». è parodia scritturale, da intendere, alla maniera di Guinizzelli e Cavalcanti, come cifra stilistica del «nuovo stile» (che, deducendo canzoni «per forsa di scrittura», secondo l’accusa di Bonagiunta al primo Guido, lungi dal ridurre, semmai incrementa la valenza delirante del testo). In Lo doloroso amor, tale declinazione metafisica della sintomatologia erotica è implicita nel nome di lei, ossimorica allusione ad una infelicità che non è solo mentale ma anche escatologica (l’anima, per volere di lei, «partirassi col tormentar ch’è degna», 36). Sono già poste, qui, le premesse per la esegesi teologizzante di Donne che avete intelleto d’amore, che dovrà solo invertire di segno l’escatologia negativa delle prime tre canzoni, per prospettare una idea soteriologica del desiderio che si precisa come cristologia erotica in Donna pietosa e di novella etate e come desiderio luttuoso in Li occhi dolenti per pietà del core. Quest’ultima, riprendendo strofa per strofa la struttura argomentativa di Donne che avete, mostra la perfetta deducibilità del lutto dalla lode, in quanto entrambi finalizzati ad un allontanamento dell’oggetto dall’Io, necessario per la sua sacralizzazione e razionalizzazione. Si osservi, al riguardo, che questi due aspetti della sublimazione pulsionale (la trasformazione che subisce l’energia libidica quando le sue mete originariamente sessuali vengono sostituite da mete affettive o ideali “Le pulsioni sessuali si caratterizzano per la loro capacità di assumere funzioni in larga misura vicarianti le une rispetto alle altre, e per la facilità con cui mutano i propri oggetti. In base a queste ultime proprietà sono capaci di prestazioni che si allontanano considerevolmente dalle mete originarie delle loro attività (sublimazione)” (Sigmund Freud, Le pulsioni e loro destini, VIII, 22).), quello religioso e quello filosofico, non sono necessariamente antitetici, soprattutto se si adotta una prospettiva scolastica (e, meglio ancora, tomista) sul rapporto ragione - fede. L’iniziale pedaggio pagato alla tradizione medico-feudale della lirica (La dispietata mente) e l’attraversamento della innovazione ‘scritturale’ introdotta dai due Guidi (Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me), tendono al superamento dell’una e dell’altra, rese obsolete da una concezione che riscrive, polarizzandola, l’esperienza del desiderio, e la riscatta, così, dalla marginalità cui la condannano la medicina da un lato e la religione dall’altra. I forti legami intertestuali fra le tre canzoni dell’amor doloroso con le altre tre, della lode e del lutto, farebbero addirittura sospettare un itinerario programmato fin dall’inizio, come confermerebbero le prefigurazioni della morte dell’amata in sonetti come A ciascun’alma presa e Un dì si venne a me. Questa ipotesi va però esclusa, perché altri testi, contemporanei a quelli finora citati (ed anteriori alla Vita Nuova), mostrano difficoltà e ripensamenti nel processo di sublimazione pulsionale. Tali difficoltà non sono solo rivolte al passato (di fedeltà ad un modello tradizionale). Esse si incarnano nei versi del «primo amico», che sperimenta in una direzione opposta: se Dante ha in mente una esperienza di desiderio «retta dal consiglio de la ragione», Guido radicalizza gli aspetti di patologica alienazione, di delirio nel quale sono somatizzati i sintomi più atroci della malinconia (quelli che i medici descrivono come licantropia o cicubus, cioè, ante litteram, la freudiana pulsione di morte Ho trattato questi temi in Dante e le origini della cultura letteraria moderna, Champion, Paris, 1994, pp. 7-55 e in Poetiche del desiderio. Saggi di critica letteraria della modernità, Aracne, Roma, 2010, pp. 227-250.). La differenza di prospettive è testimoniata dai suoi sonetti a Dante, soprattutto Vedeste al mio parere onne valore, S’io fossi quelli che d’amor fu degno e (con ogni probabilità) Certo non è de lo ‘ntelletto accolto, nei quali la contrapposizione all’amico viene argomentata sempre a partire da una condizione di dolore estremo, che significa la impossibilità di aderire al progetto di razionalizzazione dell’amico. A tali obiezioni, agevolmente deducibili dai suoi testi, rispondono le due canzoni Amor che nella mente mi ragiona (che spiega l’apparente mutamento della donna, da disdegnosa a benigna, come effetto apparente di una malattia dell’anima che offuscava la percezione di lei) e Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, che oppone al fantasma di Beatrice morta la presenza di una donna viva che ne occupa il posto nei pensieri del poeta. Si osservi che le due canzoni affiancano e mettono in discussione i due momenti in cui si articola il progetto dantesco di sublimazione pulsionale: Amor che nella mente ‘ripensa’ la poetica della lode, Voi che ‘ntendendo ‘ripensa’ la poetica del lutto. La autoesegesi del Convivio, che attribuisce alle due canzoni intenzioni allegoriche, ha sviato l’attenzione degli studiosi da due testi capitali per comprendere tanto la novità del mito di Beatrice quanto le difficoltà teoriche che la sublimazione pulsionale, di cui tale mito è veicolo, suscitava. La prima, e più clamorosa, di tali difficoltà è relativa al brusco cambiamento di significato morale del fantasma femminile. Come è possibile che una donna finora crudele fino al sadismo (la Beatrice di Lo doloroso amor) sia improvvisamente divenuta una santa? La risposta di Amor che nella mente, nel congedo, è che si trattava solo di una apparenza soggettiva, dovuta ad una offuscazione della mente del poeta (non del tutto risolta, se l’anima «teme ancora» -v. 85). Dante avrebbe potuto rappresentare il mutato oggetto di desiderio con una donna diversa, il che gli avrebbe risparmiato la palinodia cui è costretto. E invece ha preferito assumere soggettivamente la responsabilità dell’errore, introducendo una istanza storico-narrativa nella coscienza di sé poeta che gli consente di salvare tutto ciò che aveva scritto prima, di cui la ballata Voi che savete ragionar d’amore, sorella della canzone (74), è testimonianza riassuntiva. La scoperta del nuovo significato morale del desiderio si ribalta così, retrospettivamente, sulla tradizione lirica, mostrandola inficiata dalla stessa offuscazione di cui lui è stato vittima, e quindi implicitamente proiettata verso la scoperta ed il chiarimento che lui per primo ha realizzato Sulle palinodie, intese come «ritrattazioni esplicite –da parte dell’autore- di comportamenti o affermazioni precedenti: anticorpi fabbricati proprio a sanare ferite del passato, errori o momenti di fragilità» (p. 15), si veda il bel volume di Emilio Pasquini Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Bruno Mondadori, Milano, 2001.. Credo che in tale istanza storico-narrativa culmini la sublimazione pulsionale che Dante si propone. Si pensi al significato che ha nella psiconalisi la narrabilità della esperienza di sé: il sintomo, per Freud, è il segno di eventi divenuti traumatici perché l’Io non ha potuto verbalizzarli ed integrarli nella coscienza di sé; li ha ‘dimenticati’, cioè seppelliti nell’inconscio, perché troppo penosi. La cura consiste nel recupero memoriale di quegli eventi e nella loro ricollocazione nella storia con cui l’Io si narra a se stesso. È appunto alla ricostruzione dell’Io che mira Amor che nella mente, un Io che nella nuova situazione di felicità (la salute che Beatrice dona) prospettata da Donne che avete, deve però confrontarsi con una parte di sé così diversamente atteggiata nei confronti del fantasma femminile da apparirgli estranea ed anzi doloramente incompatibile. Nel riconoscersi ammalato (e poi guarito), Dante si comporta come il nevrotico che scopre l’origine dei suoi sintomi, e riannette all’Io quella parte di sé che l’Io aveva dovuto espellere dalla coscienza. La sua guarigione consiste nella narrabilità di tale esperienza pregressa. È proprio questo il miracolo che Beatrice mostra. La necessità di ricostruire l’Io, di saldare narrativamente i frammenti in cui è lacerato dal desiderio, è certo imposta dalla legittima volontà del poeta di non sconfessare la parte iniziale della propria carriera letteraria. Non dall’inconscio la parte malata deve essere riscattata, ma dalla teoria tradizionale dell’amore, che ha inquinato le prime sperimentazioni di Dante. Ma ciò che conta è la visione storica che di sé il poeta ha acquisito; l’errore della ballata, e di tutte le poesie anteriori a Donne che avete, è provvidenziale, se gli consente di approdare ad una teoria antitetica, di cui però quell’errore è in certo modo la condizione. Proprio nella ‘narrabilità’ di tale evoluzione la poesia rivela la sua moderna funzione ermeneutica: nella personale vicenda di Dante noi vediamo come ‘poetica’ sia ogni costruzione dell’Io, in quanto basata su una narrazione capace di annettere e giustificare tutti i momenti dello sviluppo del soggetto, cosa che, d’altra parte, lo stesso Freud intuí quando riconobbe che le esperienze infantili che configurano l’Io (sia quello normale che quello nevrotico) sono sempre filtrate e ricomposte dalla fantasia Si osservi come, in un articolo immediatamente successivo alla Interpretazione dei sogni, alla fantasia venga attribuita la funzione di «ordinare gli elementi onirici» (secondo una logica di tipo temporale), e che in tale funzione consista la “considerazione della intelligibilità” del sogno (Il sogno, 1900, vol IV, pp. 32-33): «L’operazione [della fantasia] consiste nell’ordinare gli elementi onirici di modo che questi si congiungono per così dire tra loro, formando una connessione, una composizione onirica. Così il sogno acquista una specie di facciata (che per la verità non ne copre il contenuto in ogni punto) e subisce una prima interpretazione provvisoria, sostenuta da interpolazioni e leggere modifiche… La motivazione di questa parte del lavoro onirico è singolarmente trasparente. È la considerazione della intelligibilità che induce a quest’ultima rielaborazione: ma di qui se ne svela anche l’origine. Rispetto al contenuto onirico che ha di fronte, essa si comporta come la nostra attività psichica normale di fronte a un contenuto percettivo qualsiasi. Lo coglie utilizzando certe rappresentazioni d’attesa e lo ordina sin dal momento della percezione, presupponendone la intelligibilità…».. La piccola storia di sé che il congedo di Amor che nella mente narra è un embrionale principio di ordinamento (fantastico da un lato, intelligibile dall’altro) della propria esperienza lirica, destinato a svilupparsi, in futuro, in una compiuta e globale storia della propria vocazione poetica Un notevole e felice tentativo di dedurre dalla psicoanalisi freudiana la logica narrativa delle finzioni letterarie è in Peter Brooks, Trame (Einaudi, Torino, 1984) in cui leggiamo, per esempio, (p. 282): «Conviene … analizzare come la narrabilità della struttura esplicativa impiegata in un genere non narrativo, il caso clinico, implichi necessariamente la presenza di elementi di finzione proprio per la necessità di strutturare queste vicende, di dare loro una ‘trama». E più avanti (p. 293): «la maniera in cui narriamo una vita, perfino la nostra a noi stessi, è … il tentativo di incorporare in una narrazione ordinata una trama ben più deviante, ostinata e potente, la cui logica è dettata dal desiderio».. Meno clamorosa, ma più insidiosa, è la questione che implicitamente pone Voi che ‘ntendendo: se il prezzo da pagare alla sublimazione pulsionale è la morte di lei, cioè la conversione della tensione sessuale in lutto, non viene meno l’essenza stessa del desiderio, che, per definizione, si dirige verso un oggetto presente e quindi vivo? Non è fatale che, scomparso un oggetto, un altro ne prenda il posto, come meta della pulsione? È vero che la natura fantasmatica del desiderio implica, in partenza, una perdita di realtà, giacché l’idealizzazione che lo trasfigura sottrae all’Io desiderante la presa sul reale, e in ciò convengono tanto la medicina antica (che considera l’amore come una modalità della malinconia) quanto la psiconalisi (che vede nell’oggetto d’amore la proiezione allucinatoria, da parte dell’Io, del proprio ideale). Ma l’oggetto, presente e vivo, è necessario proprio perché sul suo sacrificio possa erigersi il fantasma che lo surroga (sia esso malinconico o ideale). Giacomo da Lentini descrisse magistralmente tale processo nel sonetto Amor è uno desio che ven da core, collegando in un vincolo necessario la visione di un oggetto reale alla immaginazione che, «con furore», aliena l’Io. E nel Convivio, nel commento a Voi che ‘ntendendo (II,viii,4-6), la questione viene posta e risolta, d’accordo con la logica pulsionale del desiderio, affermando che l’amore, in quanto passione indotta dal cielo di Venere, quindi naturale e non soprannaturale, non può avere oggetti che non siano fisicamente presenti, e dunque è logico che l’amore per Beatrice, alla sua morte, venga dirottato su un’altra donna, viva: Lo effetto di costoro [le intelligenze di Venere] è amore, come detto è; e però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti alla loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v’è dentro, cioè dell’anima partita d’esta vita in quella che è in essa. Ma la soluzione, filosoficamente ovvia, del Convivio, risulta inutilizzabile all’altezza di Voi che ‘ntendendo, quando lo sforzo del poeta è tutto proteso a legittimare poeticamente, attraverso il lutto, la razionalizzazione del desiderio. L’insorgenza del nuovo amore viene rappresentata come un conflitto fra l’anima afflitta dalla perdita di Beatrice ed il pensiero d’amore che si rivolge ad un’altra donna. Ciò che Dante ha rappresentato, in tale conflitto, è la difficoltà di sublimare la pulsione attraverso una idealizzazione radicale del suo oggetto (idealizzazione che solo la morte garantisce, in quanto libera l’oggetto dalle scorie materiali). Bisogna, naturalmente, tener conto della cultura teologica dell’epoca, all’interno della quale la spiritualizzazione dell’oggetto implica la soppressione del corpo e della sua materialità. La donna che occupa il posto di Beatrice, secondo la canzone, rivaleggia con lei sul piano delle connotazioni religiose: «Mira quant’ella è pietosa e umìle, / saggia e cortese nella sua grandezza» (46-47); «Ché se tu non t’inganni, tu vedrai / di sì alti miracoli adornezza…» (49-50), ma può aspirare a sostituirla con successo perché è viva e presente. Se la lode metteva alla prova la storia poetica di Dante, il lutto ne mette alla prova la tenuta filosofica: il teologismo di Beatrice sconta qui la scarsa plausibilità teorica (cioè: aristotelica) di un progetto che sovverte i fondamenti ‘scientifici’ delle moderne teorie dell’anima, di cui le passioni, come l’amore, sono corollario. Ed è questo conflitto che Dante tratta (al di là della favola degli amori in contrasto), in cui si riflette e traduce il conflitto fra teologia e filosofia che infiammava l’alta cultura europea. La genialità dell’operazione consiste nel fatto di trascrivere in una scissione emozionale dell’Io la frattura ideologica che si è aperta con l’irruzione dell’aristotelismo nella cultura accademica, frattura che non è componibile sul piano della storia di sé, poiché nessuna delle due prospettive possiede il monopolio della verità a scapito dell’altra (soprattutto se si adotta una prospettiva aristotelico-radicale, o averroista, sulla questione). Il lutto obbliga il poeta a prendere atto della scissione che il desiderio ha prodotto in lui: da una parte l’amore ‘filosofico’ per una donna viva, dall’altra l’amore ‘teologico’ per una donna morta. Ed egli deve alternativamente prendere partito per una posizione o per l’altra, senza riuscire a comporre la lacerazione. Di ciò parlano, fra le righe, i due sonetti di accompagnamento a Voi che ‘ntendendo, cioè Parole mie (che fa ammenda del tradimento di Beatrice) e O dolci rime (che sconfessa il precedente): la intertestualità che lega le tre poesie manifesta, senza risolverla, la dicotomia che il lutto installa nell’Io di Dante, obbligato ad oscillare fra amori diversi e fra opposte istanze che alludono alla filosofia e alla teologia. 2 Tutte le dicotomie si compongono nella prosa della Vita Nuova, la quale, sviluppando in una trama l’embrionale storia sé del congedo di Amor che nella mente, organizza narrativamente ciò che le liriche non erano in grado di strutturare. Troppo deviante rispetto all’idea antica della malattia d’amore, la sublimazione dell’eros appariva, nelle liriche, come un cumulo di frammentarie ed irrelate esplorazioni immaginarie, incapaci di preservare l’Io da ‘ricadute’ nella alienatio costitutiva del desiderio, e comunque assimilabili ai deliranti squarci metafisici di Cavalcanti (Chi è questa che vèn, Veggio negli occhi della donna mia). La Vita Nuova corregge la frammentarietà istituzionale del discorso lirico proiettandolo sul piano del reale, attraverso la prosa autobiografica e romanzesca (il cui modello più ravvicinato sono le Vidas dei trovatori, che hanno la stessa finalità correttiva). Essa da una parte crea un coerente sfondo esistenziale alle immagini liriche, dall’altro le giustifica nella loro pretesa veritativa, creando l’illusione che non siano farneticazioni di una mente malata, come gli viene contestato in qualche occasione (per esempio da Dante da Maiano, in risposta al sonetto A ciascun’alma presa). Che non si tratti di un semplice cambiamento di registro di scrittura, e che Dante consideri la prosa, in quanto tale, una istanza di razionalizzazione al servizio della sublimazione pulsionale, lo manifesta a chiare lettere il capitolo XXV, dove si afferma che «degno è lo dicitore per rima di fare lo simigliante [cioè usare, come i poeti classici, «alcuna figura o colore rettorico»], ma non senza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile di aprire per prosa». Strumentalmente al servizio del testo lirico, la prosa ne garantisce la verità (il «verace intendimento», che appare quando i versi siano denudati della loro «veste di figura o colore retorico», ibid.). La prosa è necessaria al poeta perché la poesia dimostri la verità di cui è portatrice. Le liriche della Vita Nuova sarebbero irrelati frammenti di una esperienza priva di seri fondamenti esistenziali se la prosa del libello non intervenisse, esplicitandoli, a legittimarli. Credo che la vocazione ‘critica’ caratterizzi la lirica italiana fin dai Siciliani, e che il divorzio della musica dal testo, da una parte, e l’invenzione del sonetto, dall’altro, siano espressioni di questo originario intellettualismo che nel giro di due sole generazioni (i siculo-toscani e gli stilnovisti) trasforma la cultura letteraria (prima italiana e poi, in prospettiva, europea) Ho sviluppato questo tema in Poetiche del desiderio…, pp. 99-129.. La Vita Nuova rappresenta il punto d’arrivo di questa tendenza, che sfocia in uno sdoppiamento di discorso letterario per il quale la prosa sta alla poesia come il discorso critico sta al testo interpretato; entrambi, però, tanto la prosa quanto la poesia, hanno il compito di ricostruire razionalmente l’Io attorno alla sua funzione poetica essenziale, che è la verbalizzazione del desiderio (come Dante afferma, nel cap. XVIII della Vita Nuova, quando scrive che il fine del suo amore è costituito dalle «parole che lodano la donna mia»). In termini freudiani, la prosa è l’equivalente della elaborazione secondaria del sogno, che consiste, come si è visto, nell’ordinare cronologicamente e narrativamente le immagini frammentarie del contenuto manifesto, preverbali ed atemporali. Stupefacente è l’intuizione della funzione ordinatrice della prosa di commento nel cap. XXXIX, dove Dante scrive: Contra questo avversario de la ragione si levoe in un die, quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi. Allora cominciai a pensare di lei; e ricordandomi di lei secondo l’ordine del tempo passato… Nella memoria in quanto funzione ordinatrice del passato riconosciamo il senso ultimo del mito di Beatrice, la cui finalità è la ricostruzione dell’Io secondo il tempo Rinvio, per altri chiarimenti su questo aspetto temporalmente (e spazialmente) ricostruttivo della Vita Nuova, al mio Dante e le origini … pp. 85-108. . Il soggetto, sconvolto dal turbine dei desideri, si ricompone attraverso la narrazione in prosa dei traumi che l’hanno lacerato, il cui potere distruttivo viene disattivato dal controllo che la ragione può finalmente esercitare su di essi. Ma la ragione deve il suo successo alla vittoria che il fantasma della donna morta riporta sulla donna viva, che proprio perché presente e viva impedisce che la ragione faccia prevalere il suo consiglio, secondo una teoria del desiderio che considera l’energia delle pulsioni (la passione) inversamente proporzionale alla distanza dell’oggetto (Convivio, III, ix): È da sapere che quanto l’agente più al paziente sé unisce, tanto e più forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello De Generatione si può comprendere; onde quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l’anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondo l’apparenza, non discernendo la veritade. Il distanziamento dell’oggetto di desiderio cui Beatrice, morendo, dà luogo, sprigiona il suo salutare influsso sull’Io attraverso la prosa che, narrandolo, lo ricostruisce. Si sa che la Vita Nuova è dedicata a Cavalcanti, evocato come amico e come complice della iniziativa letteraria che l’opera rappresenta. Di grande rilievo sono le allusioni a Guido del capitolo III (nel quale il «primo amico» appare come interlocutore privilegiato) e del cap. XXIV (nel quale viene simbolicamente prospettato un rapporto di analogia e superamento fra le due poetiche). Anche il capitolo XXV, così decisivo nell’illustrare le ipotesi metodologiche e storiografiche del testo, si conclude con un richiamo all’amico: «E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente». Di particolare interesse è l’allusione a Guido del cap. XXX, dove appare come dedicatario, se non destinatario, dell’opera. Qui Dante si scusa di non trascrivere l’intera Epistola inviata ai «principi de la terra» dopo la morte di Beatrice, ma solo l’inizio, cioè le prime parole del Proemio alle Lamentationes di Geremia: «Quomodo sedet sola civitas», «allegato di sopra [nel cap. XXVIII], quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene». L’epistola non viene riportata per intero perché lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare; onde, con ciò sia cosa che le parole che seguitano a quelle che sono allegate, siano tutte latine, sarebbe fuori dal mio intendimento se le scrivessi. E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico a cui io ciò scrivo, cioè che li scrivessi solamente volgare. Sul carattere fittizio di questa Epistola non credo che si possano nutrire dubbi: con quali reazioni avrebbero accolto i «principi della terra» (vuoi fiorentini, vuoi internazionali) una lettera sulla desolazione di Firenze per la morte di una fanciulla? Come (credo) il sirventese del cap. VI (che associa Beatrice al Cantico dei Cantici), anche l’epistola è una invenzione romanzesca che proietta il mito di Beatrice in una dimensione scritturale. Se la sua morte, e la poetica del lutto che ne dipende, carica il personaggio di valori cristologici, è romanzescamente plausibile che il poeta adotti un registro profetico, e che il mito si colori, così, di suggestioni politiche. La scusa della mancata trascrizione della immaginaria Epistola fa però gioco con la teoria storico-linguistica del cap. XXV: in omaggio al principio per cui la poesia moderna è in volgare perché si rivolge a donna, è logico che sia in volgare anche la autobiografia che la narra. D’altra parte, come lì l’autorità di Guido era invocata per denunciare «quelli che rimano stoltamente», ignari dei requisiti filosofici della poesia d’amore, qui essa viene invocata per ribadire il carattere ermeneutico della opposizione latino/volgare. Credo che si possa dedurre dall’insieme di queste allusioni all’amico che la presenza di Guido nella Vita Nuova è elemento non estrinseco, ma struttrale. Il progetto di sublimazione pulsionale che la prosa romanzesca del libello enuncia ha senso, ossia è ideologicamente plausible, nella misura in cui Guido possa sentirsene partecipe. Dante non aspira a riorientare in senso spirituale (e quindi filosofico-teologico) solo la propria esperienza di desiderio, ma anche quella dell’amico, che dovrebbe sentirsi coinvolto in una iniziativa di cui Dante è più l’esecutore materiale che non l’esclusivo protagonista. La glossa teologizzante, e la conseguente palinodia, valgono non solo in riferimento ai propri testi, ma anche in riferimento a quelli di Guido (come mostra la sciarada su Giovanna-Primavera del cap. XXIV). Che a queste due personalità (Guido e Dante) possano poi accodarsi altri rimatori, è possibilità che il testo non esclude, anzi suggerisce attraverso gli altri vari anonimi amici. Guido, però, delude subito le aspettative di Dante scrivendo il suo testo più famoso, Donna me prega, in cui l’ipotesi centrale della Vita Nuova, che il desiderio possa essere retto dal «consiglio de la ragione» (come il mito di Beatrice prescrive), viene smontata, e viene dimostrata a fil di logica (aristotelico-averroista) la natura alienante dell’amore e quindi la impossibilità di conciliare il desiderio con la razionalità: «for di salute giudicar mantene / ché la ‘ntenzione per ragione vale» (32-33). Il radicalismo irrazionalista della canzone è troppo noto perché qui ne ripercorra i passaggi. Sottolineo solo due elementi, pertinenti all’iter della poetica dantesca: da una parte il fatto che, trattandosi di un trattato “filosofico”, sia scritto in versi; dall’altra l’impatto (letterariamente traumatico) che la canzone ebbe su Dante. Relativamente al primo aspetto, osservo che il virtuosismo tecnico della canzone, celebrato in ogni tempo, non è semplice sfoggio di abilità versificatoria (cosa che, se fine a se stessa, avvicinerebbe Guido all’odiato Guittone), ma messaggio diretto proprio a Dante che ha creduto, con la prosa della Vita Nuova, di legittimare un’idea ‘razionalistica’ del desiderio. Si è visto come, secondo il cap. XXV, il «verace intendimento» dei versi è enucleabile (per il lettore avvertito) solo attraverso la prosa, e che questa risulta, così, necessaria per dimostrare che il desiderio ha un contenuto di verità che i versi, in se stessi, sarebbero incapaci di manifestare. Ebbene Guido dimostra, con Donna me prega, non solo che l’amore è irrazionale, in quanto malattia, ma anche che tale dimostrazione può e anzi deve essere fedele, nella sua esposizione, alla natura lirica del suo oggetto. L’ipotesi di Dante viene smentita su due piani: quello degli argomenti (per cui il mito dei Beatrice viene denunciato nelle sue assurdità) e quello della espressione: se Dante ha bisogno di argomenti filosofici per capire cos’è l’amore, Guido gliene offre in abbondanza, e per di più senza uscire dal recinto lirico in cui il desiderio è, e necessariamente sarà sempre, imprigionato. La prosa è superflua, in materia amorosa, perfino quando si tratta di spiegare, in termini medico-filosofici, in cosa consista questo accidente. Relativamente al secondo aspetto, cioè l’impatto traumatico di Donna me prega sulla poetica di Dante, la scomparsa di Beatrice nella sua ispirazione (fino alla Commedia), e della prosa nei suoi registri di scrittura (fino all’esilio) sono indizi, per la verità clamorosi, che Guido sconvolse, con la sua canzone, i progetti letterari di cui la Vita Nuova doveva essere l’annuncio. Il proposito formulato alla fine del libello, di «scriver di lei quello che mai non fue detto d’alcuna», cioè un’opera di grandi pretese e dimensioni, se alla sua composizione, aggiunge, sarebbe stato necessario «che la mia vita duri per alquanti anni», resta inevaso per circa 13 anni, cioè fino alla redazione della Commedia (ammesso che quel progetto avesse qualcosa in comune, oltre il nome ed il mito di Beatrice, con il Poema). Ma al di là del silenzio su Beatrice, ciò che mostra inequivocabilmente che Dante interruppe il suo progetto di sublimazione pulsionale, accettando quindi le critiche dell’amico, è che i fantasmi femminili che popolano la sua poesia fra il 1294 e il 1307 sono non solo estranei alla gentilissima, ma vanno in una direzione diametralmente opposta a ciò che il suo mito rappresentava: lungi dal perseguire una concezione dell’amore che ne illustri gli aspetti spirituali e razionali, Dante va progressivamente inasprendo le caratteristiche del desiderio, fino al punto di rivelarne, con insuperata maestria, gli elementi di più primaria ed animalesca istintività. Con Beatrice scompaiono infatti anche quelle donne provviste di «intelletto d’amore», «che sono gentili e che non sono pure femmine» (Vita Nuova, XIX), che fanno da coro alla gentilissima, interlocutrici necessarie di un discorso lirico che ruota intorno alla idealizzazione dell’oggetto di desiderio. Con il mito di Beatrice, cade, così, anche l’ideale filogino che di quel mito era ideologica estensione. 3. La prima reazione di Dante a Donna me prega sembra opporre all’amico una rinnovata e più potente teoria sulla razionalità del desiderio. L’identificazione dell’amore con uno dei motori celesti (nel quadro teorico del neoplatonismo del De Causis Rinvio, sulla questione, al mio La seconda poetica del disdegno e il “Liber de causis”, “Grupo Tenzone”, Amor che movi tua virtù dal cielo, ed. Carlos López Cortezo, Departamento de Filología Italiana UCM. Asociación Complutense de Dantología, Madrid, pp. 61-104) trasforma, in Amor che movi tua vertù dal cielo, l’amore da accidente in intelligenza (e quindi viene ribaltata l’idea di Voi che ‘ntendendo: non passione dell’anima indotta dai cieli ma energia celeste che informa virtuosamente l’universo). Ma si tratta di un colpo di genio che darà i suoi frutti molto più tardi (quando l’intero sistema emanatistico del neoplatonismo verrà letto sub specie erotica: «in sua etternità di tempo fore, / fuor d’ogne altro comprender, come i piacque, / s’aperse in nuovi amor l’etterno amore», Par. XXIX 16-18). Nella canzone, la vertù dell’amore si scontra con una donna che per la sua gioventù è incapace di corrispondere ai sentimenti del poeta, che vengono così penosamente frustrati (“non soffrir che costei / per giovanezza mi conduca a morte”, 56-57). In termini freudiani, potremmo dire che secondo Amor che movi la libido (cioè l’energia pulsionale) è in sé positiva e naturalmente orientata alla sua sublimazione, poiché da essa “convien che ciascun ben si mova” (9); è la meta, o l’oggetto, ciò che ne distorce la finalità, poiché la bellezza cui necessariamente tende si incarna in una donna troppo giovane, e quindi immatura, che frustra la tensione dell’Io, bloccando ed imprigionando il desiderio nelle sue mete più primarie (sessuali). Di tale esegesi pedofilica del desiderio, noi comprendiamo il senso (esclusivamente) immaginario se pensiamo che un requisito della ‘signora’ amata (la midons dei trovatori) era la condizione di coniugata, condizione che una donna acquisiva appena raggiungeva la maturità sessuale (dal nostro punto di vista, ancora adolescente). Ciò determinava la caratteristica triangolazione di desiderio rappresentata nella lirica e nel romanzo, ed il conseguente significato rischiosamente sovversivo dell’amore in quella cultura. Freud ha descritto alla perfezione tale modalità di innamoramento (l’unica pertinente nella letteratura del medioevo), distinguendola, come «condizione del terzo danneggiato», fra i vari tipi di scelta oggettuale del soggetto maschile (Contributi alla psicologia della vita amorosa, VI, p. 412): il suo contenuto sta nel fatto che la persona interessata non sceglie mai per oggetto amoroso una donna che sia ancora libera, vale a dire una ragazza o una donna sola, ma soltanto una donna su cui un altro uomo, in veste di marito, fidanzato, amico, possa far valere un diritto di possesso. In alcuni casi questa condizione si dimostra talmente inesorabile che in principio, fintantoché non appartiene a nessuno, la medesima donna può essere ignorata o addirittura disdegnata, mentre diventa di colpo oggetto d’innamoramento appena entra in uno dei suddetti rapporti con un altro uomo Si osservi la coincidenza con Freud, su questo punto, di Pietro Abelardo, il quale nella sua Etica (Scito te ipsum, I, 10, 5-7), distingue nitidamente il desiderio direttamente orientato verso una donna (pulsionale e quindi eticamente irrilevante) da quello obliquamente orientato alla violazione dei diritti maritali (questo sì eticamente perverso): “Sepe eciam contingit, ut, cum velimus concumbere cum ea, quam scimus coniugatam, specie illius illecti, nequaquam tamen adulterari cum ea vellemus, quam esse coniugata nollemus. Multi e contrario sunt qui uxores potentum ad gloriam suam eo magis appetunt, quia talium uxores sunt, quam si essent innupte, et magis adulterari quam fornicari appetunt, hoc est magis quam minus excedere”.. La giovane donna che appare per la prima volta in Amor che movi è vocazionalmente destinata a deludere le aspettative del poeta proprio per la sua gioventù, cioè per la sua immaturità sessuale e quindi matrimoniale, il che implica la impossibilità non solo di realizzare il desiderio sul piano fisico, ma anche quella di sublimarlo sul piano ideale (perché incapace di comprendere e dirottare la pulsionalità del poeta, come fa appunto Beatrice, la quale deve essere immaginata già sposata, quando incontra Dante per la seconda volta). Si tratta, com’è noto, del mito della pargoletta, che nella canzone rivela la matrice cavalcantiana della sua insorgenza. Antitetico a quello di Beatrice perché orientato verso il potenziamento della sensualità, cioè di una pulsionalità non suscettibile di sublimazione, il mito della pargoletta è una antibeatrice in potenza: come lei è una adolescente, quando il poeta se ne innamora, e come di Beatrice il poeta attende che maturi perché sia in grado di riconoscere il suo desiderio (Io sento sì d’amor la gran possanza, 46-48): «E se merzé giovanezza mi toglie, / i’ spero tempo che più ragion prenda, / pur che la vita tanto si difenda». Si osservi, qui, la identificazione della giovanezza con la irrazionalità, e la analogia con la situazione descritta nella Vita Nuova del primo incontro con Beatrice: anche lì si trattava di una bambina. Mentre, però, il successivo incontro, a diciotto anni, lì segnava l’inizio di una storia destinata alla suprema sublimazione del desiderio, qui l’attesa di una maturazione che razionalizzi l’atteggiamento della fanciulla è destinata ad essere delusa. Come se il tempo per questa fanciulla non passasse, il suo atteggiamento invece di addolcirsi si inasprisce. Le petrose insistono, difatti, sulla sua irriducibile impermeabilità ad ogni movimento affettivo, che conduce l’Io alla disperazione, cioè alla esacerbazione del desiderio. Nell’ultima, probabilmente, delle canzoni petrose, ma la prima nel Libro delle canzoni, cioè Così nel mio parlar vogli’esser aspro, il desiderio si manifesta come un ferino istinto di violenza e sopraffazione (in termini freudiani: impasto di pulsioni sessuali e pulsioni di morte, nel quale sono queste ultime ad avere il sopravvento). Se volessimo cercare una giustificazione filosofica all’amore di cui è questione nelle “petrose”, ne troveremmo una più calzante della teoria esposta in Donna me prega? L’accecamento dell’Io in preda alla (sognata) voluttà del desiderio, quale si esprime nelle liriche più straordinarie di Dante (e della poesia moderna), potrebbe essere più rigorosamente motivato che dalle argomentazioni svolte da Guido nella sua canzone filosofica? Direi proprio di no. A Guido dobbiamo non solo la lirica più “filosofica” della nostra tradizione poetica; a Guido dobbiamo anche lo stimolo che indusse Dante a verificare gli assiomi dell’amico sul terreno della poesia, con una serie di canzoni di stupefacente violenza verbale ed emozionale. Che la “giovane donna” di Amor che movi sia nata come una antibeatrice lo dimostra la ballata I’ mi son pargoletta bella e nova, nella quale la protagonista si dichiara venuta dal cielo e ad esso destinata, proprio come la gentilissima. A differenza di quest’ultima, però, lungi dal portare la salute al suo amante, ella gli è stata destinata «per dar essempro altrui ch’uom non si metta / i· rischio di mirar la sua figura» (Chi guarderà giammai senza paura, 7-8). Ferma restando l’origine divina della fanciulla (si tratta pur sempre di un’angioletta, secondo la ballata -19), il poeta è condannato ad esser sedotto da lei per mostrare al mondo i rischi mortali dell’innamoramento. Gli elementi caratterizzanti di Beatrice, la giovinezza e l’origine divina, vengono quindi scrupolosamente riproposti, ma in chiave negativa, cioè cavalcantiana Si osservi come i versi citati di Chi guarderà risuonino in Inf. XXVI (106-109) per indicare un analogo, metafisico, rischio di morte, in un brano di cui la critica più attenta ha avvertito le implicazioni averroistiche e quindi indirettamente cavalcantiane: «Io e’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta».. Ma il blocco della sublimazione pulsionale, con il conseguente potenziamento delle mete puramente sessuali, celebra il suo trionfo nel Fiore (scritto da Dante dopo la Vita Nuova), nel quale il capovolgimento della ipotesi razionalistica del libello viene risolutamente proclamato come rifiuto, da parte dell’amante, del “consiglio de la ragione” (son. XXXVIII, L’Amante, 1-11): «Ragion, tu sì mi vuo’ trare d’amare / e di’ che questo mi’ signor è reo, / e ch’e’ non fu d’amor unquanche deo, / ma di dolor, secondo il tu’ parlare. / Da llui partir non credo ma’ pensare, / né tal consiglio non vo’ creder eo, / chéd egli è mi’ segnor ed i’ son reo / fedel, sì è follia di ciò parlare. / Per ch’e mi par che ‘l tu’ consiglio sia / fuor di tu’ nome troppo oltre misura, / ché sanza amor nonn-è altro che ‘nuia». Sono note le intemperanze sessuali del poemetto. Nei versi citati si allude, da una parte e negativamente, alla Vita Nuova, dall’altra e positivamente, a Donna me prega. È, infatti, «oltre misura» il «consiglio di Ragion», come «oltra misura» è l’amore secondo Guido: «L’essere è quando lo voler è tanto / ch’oltra misura di natura torna» (43-44). Lo stesso sintagma viene utilizzato da Dante per smentire quanto egli stesso aveva affermato nella Vita Nuova e per confermare, invece, quanto è affermato in Donna me prega (nella prospettiva delirante dell’innamorato, la Ragione è irrazionale). Nel Fiore, Dante proclama (selezionando per la sua parafrasi i brani di più violenta satira sessuale ed anticlericale della Rose) la natura puramente passionale dell’amore, irriducibile a qualunque sublimazione. In analoga direzione il poeta sperimenta nella Tenzone con Forese, il cui primo sonetto, Chi udisse tossir la mal fatata, costituisce uno sfottò sulla potenza sessuale dell’amico (e sulla lussuria insoddisfatta della moglie). Nella palinodia del Purgatorio, l’invettiva di Forese avrà per oggetto, appunto, la spudoretezza delle “sfacciate donne fiorentine” (XXIII, 101), la cui lussuria nessuna legge è in grado di frenare. Il Fiore e la Tenzone appartengono allo stesso momento creativo, susseguente, come le petrose, alla demolizione del mito di Beatrice operata da Cavalcanti, e consistente nella esplorazione delle pieghe più crudamente sessuali dell’amore (patologicamente ossessive nelle petrose, cinicamente edonistiche nel Fiore e nella Tenzone). In direzione apparentemente opposta lavora il poeta nelle due dottrinali, che, attraverso l’analisi della nobiltà (o leggiadria), sembrano correggere in senso ‘virtuoso’ l’oltranza sessuale. Ma basta considerare le premesse che in entrambe fungono da condizioni soggettive del discorso, per rendersi conto che il tema etico-politico dipende, anch’esso, dal rinnegamento della teoria relativa alla sublimazione pulsionale. In Le dolci rime d’amor ch’io solea, gli «atti disdegnosi e feri» apparsi sul volto di lei inducono il poeta ad abbandonare la poesia d’amore, e, in attesa che il suo atteggiamento cambi, «poi che tempo mi par d’aspettare» (9), dichiara che tratterà le origini della gentilezza. Siamo nell’area sematica della pargoletta, poiché anche in Io sento sì d’amor il poeta «spera tempo che più ragion prenda3 (47). Ciò che stupisce è che Dante smentisca quanto lui stesso aveva dichiarato in Vita Nuova XXV, e cioè che la poesia volgare non può trattare temi che non siano l’amore, poiché la poesia in volgare fu un «modo di parlare» che «dal principio fu trovato per dire d’amore». Le sorprendenti scoperte, in ambito etico-politico, della canzone smentiscono uno degli assiomi stilnovisti, e che lo stesso Dante aveva fatto suo: «Amor e il cor gentil son una cosa» (Vita Nuova, XX). Come spiegare questa ritrattazione, cioè la ricerca di un fondamento teorico per la gentilezza diverso dall’amore, se non attraverso la chiusura di un cammino teorico, la sublimazione del desiderio sessuale, e la ricerca di cammini alternativi alla legittimazione del merito personale? La canzone Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato, che descrive la leggiadria svolgendo sul piano concreto dei comportamenti la teoria della gentilezza formulata in Le dolci rime, ribadisce fin dal titolo che il ragionamanto parte da una condizione disamorata (7), ed anche qui il poeta si aspetta che, in un tempo futuro, l’amore gli conceda di nuovo i suoi benefici (19). Sebbene l’amore sia, unitamente al sollazzo e all’opera perfetta, uno dei requisiti del valore celebrato (85-92), esso non è più la condizione unica ed esclusiva della nobiltà; anzi, in sé considerato, l’amore è quella pulsionalità priva di freni descritta da Cavalcanti, e quindi solo da una condizione di disinnamoramento il ragionamento può essere svolto. Ma qui la ritrattazione, rispetto all’universo morale della Vita Nuova, è clamorosa, e rivelatrice, soprattutto in rapporto alla considerazione del genere femminile. Se nel libello le «donne che hanno intelletto d’amore» rappresentano «l’avanguardia … di un nuovo schieramento» intellettuale (De Robertis Dante Alighieri, Rime, a cura di Domenico De Robertis, Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2005, pp. 174-175).), cioè le interlocutrici necessarie del discorso in lode di Beatrice, nella canzone «’n donne è sì dispento / leggiadro portamento / che paiono animal’ sanza intelletto» (55-57). La misoginia che caratterizza la produzione di Dante a partire da Amor che movi è il segnale più evidente della svolta irrazionalistica che, sul piano erotico, ha determinato in lui Donna me prega. I fantasmi femminili che si aggirano nella mente di Dante, fantasmi documentati da Amor che movi e Io sento sì d’amor, dalle petrose, dal Fiore, dalla tenzone con Forese, dalle due dottrinali, riflettono la impossibilità di pensare il genere femminile, e al suo interno l’amata, come veicolo di razionalità e virtù. 4. Le opere dell’esilio sono caratterizzate da una sorta di almeno parziale rinnegamento del proprio passato lirico ed amoroso, e dalla assunzione di uno nuovo profilo intellettuale, di ‘filosofo’ (intendendo per filosofia’ non solo un esercizio speculativo ma anche un ruolo professionale). Lo stacco fra un profilo e l’altro viene descritto in Conv. I i 16-17 come svolta dovuta alla maturazione adulta del poeta: Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà per propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi [la Vita Nuova], all’entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. Che si tratti, però, non solo di una naturale evoluzione dovuta all’età, ma di una radicale sconfessione e palinodia, lo suggerisce un passaggio successivo (Conv. I ii 16): Temo la infamia di tanta passione avere, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere signoreggiata: la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. Ciò che risulta imbarazzante di tale estremismo antierotico è il fatto che la svolta ‘filosofica’ non guarda solo verso il futuro, ma anche verso il passato, essa, cioè, implica una revisione a posteriori delle opere già scritte perché risultino, grazie alla interpretazione del trattato, ispirate non dalla passione ma dalla virtù. Il nuovo stile ‘antierotico’ si riconosce agevolmente in tutte le opere scritte in questo periodo (cioè fra il 1302 e il 1307, prima della Commedia): in Tre donne intorno al cor mi son venute, i fantasmi femminili si trasformano in pure allegorie; in Doglia mi reca ne lo core ardire, le donne dovrebbero rinunciare alla bellezza, perché non ci sono uomini in grado di apprezzarla (ed hanno, inoltre, un deficit intellettuale che obbliga il poeta, che a loro si rivolge, ad un «parlar …aperto», 59); nel Convivio, l’allegoria coinvolge retrospettivamente, insieme al personaggio della «donna gentile», nella seconda parte della Vita Nuova, i testi lirici scritti a Firenze e non esplicitamente dedicati a Beatrice; nel De Vulgari Eloquentia l’amore viene declassato a tema poeticamente inferiore, rispetto alla Virtus (cioè la dottrina morale), ed il primato che Dante rivendica per se stesso, nella poesia volgare italiana, è relativo solo ad essa, mentre il primato relativo a Venus è lasciato a Cino da Pistoia. In perfetta consonanza con tale revisionismo erotico, nello scambio di sonetti fra i due esuli, Dante e Cino, questi appare come un difensore a oltranza della poetica dell’amore, e Dante è invece rassegnato a considerare la poesia d’amore come cosa del passato (Io mi credea del tutto esser partito. 1-4): «Io mi credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino, / ché si conviene omai altro camino / alla mia nave più lungi dal lito…». Tale rinnegamento è però dovuto anche alle vicende biografiche; è la condizione di esiliato che lo obbliga a mutare registro di scrittura e a trasformarsi da poeta in filosofo, poiché, dopo l’espulsione da Firenze è apparso (I iii 5): alli occhi occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato: nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare. Il segnale più evidente della nuova identità intellettuale è la netta prevalenza della prosa sul verso nelle opere composte durante la prima fase dell’esilio. Se fino al 1301 l’unica prosa di Dante è la Vita Nuova, fra il 1302 e il 1307 gli unici versi sono le due canzoni citate e i sonetti a Cino (liriche che hanno in comune l’assenza di ispirazione amorosa). In questi anni Dante è interamente occupato da una ricerca intellettuale che sia politicamente spendibile al servizio dei centri di potere presso i quali trova ospitalità (in un orizzonte politico che non è più quello del Comune, ma quello ben più ampio dell’Italia e dell’Impero). Nella sua veste di intellettuale organico della aristocrazia laica e filoimperiale, l’amore e, quindi, la poesia occupano un luogo marginale: sono, certo, l’uno e l’altra, oggetto di riflessione politico-letteraria, ma non più attività da coltivare come poeta in esercizio. La poesia, propria e altrui, tanto nel Convivio come nel De Vulgari, è distanziata, idealmente, in quanto tema di ricerca linguistica e politica. La teoria allegorica del Convivio rivendica sì, come il capitolo XXV della Vita Nuova, un contenuto di verità delle metafore poetiche, ma solo a patto di spersonalizzare il fantasma di desiderio, di trasformarlo in un astratto simbolo della Filosofia. E di conseguenza anche il problema delle pulsioni di desiderio e della loro poetica sublimazione è accantonato, perché non più inerente alla propria pratica di scrittura. 5. La genesi della Commedia si chiarisce se la consideriamo alla luce di un rinnovato interesse di Dante per l’amore e la poesia. Se la confrontiamo con le anteriori opere dell’esilio, due elementi immediatamente colpiscono: il ritorno all’amore come fonte di ispirazione (cioè il mito di Beatrice, che ci riporta al tempo della Vita Nuova), ed il ritorno alla poesia (che ci riporta all’epoca fiorentina). Sono elementi strettamente connessi: Dante ridiventa poeta, da filosofo che era, perché si innamora di nuovo; o, meglio, si innamora di nuovo perché ha deciso di tornare alla poesia. Questa ulteriore svolta può essere ricostruita nelle sue fasi iniziali se si presta attenzione ai testi che accompagnano l’inizio della redazione del Poema. Si tratta della canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, del Libro delle canzoni e della Epistola a Moroello, che accompagna la canzone ed il Libro. Sono cosciente che ognuno di questi testi è oggetto di dibattiti che ne mettono in discussione la datazione, la connessione e, nel caso del Libro, la stessa esistenza. Ma, se si avverte l’esigenza di spiegare la poesia di Dante dall’interno e quindi nella sua storia complessiva, piuttosto che localmente (testo per testo) e quindi con criteri estrinseci, credo che la prospettiva qui adottata dia ampiamente ragione sia della loro esistenza che del loro significato. Do quindi per scontati la data di composizione (1307), il vincolo strutturale che li unisce e la loro finalità complessiva, che è quella di narrare, nel modo che si dirà, la genesi della Commedia. Partirò da un elemento apparentemente remoto dai tre testi indicati, e che invece è ad essi idealmente vicinissimo. Si tratta dei rimproveri di Beatrice a Dante nei canti XXX-XXXIII del Purgatorio. Di Beatrice noi lettori sappiamo già che è il fulcro della trama del Poema, poiché è la sua iniziativa che induce Virgilio a soccorrere Dante (Inf. II). L’amore di lei per Dante, e di Dante per lei, è il motore dell’azione del protagonista e la condizione del viaggio narrato. Il suo personaggio, e la vicenda d’amore che la lega a Dante, vengono però romanzescamente svolti solo sulla cima del Purgatorio, attraverso rimproveri che evocano vicende poetico-biografiche che ricapitolano momenti decisivi dell’esistenza del poeta e spiegano il perché del viaggio nell’al di là. Beatrice innesta la genesi della Commedia (del viaggio in essa narrato) nella serie degli eventi biografici e letterari del poeta. Di tali eventi bisogna avvertire da una parte il carattere fittizio, poiché si tratta di aneddoti romanzeschi al servizio della trama del Poema, ma dall’altra anche il carattere documentario, nella misura in cui alludono ad opere effettivamente scritte da Dante. Ciò significa che, scontato il carattere romanzesco dei rimproveri a Dante, dobbiamo invece prestare la massima attenzione alle allusioni letterarie in esse contenute. E sul piano delle allusioni alla propria storia letteraria, emerge con forza un personaggio cui Beatrice attribuisce niente meno che la responsabilità dello smarrimento di Dante nella selva, e quindi niente meno che la causa, almeno indiretta, del viaggio e del testo che la narra. Si tratta di un personaggio che ha la stessa consistenza romanzesca di Beatrice e che come lei è responsabile dell’impresa compiuta da Dante. Ne è responsabile in un senso opposto: mentre Beatrice salva Dante, tale personaggio lo condanna, oppure impedisce che il poeta venga salvato; se, insomma, Beatrice rappresenta la salute, esso è il male (o la malattia). Poiché non viene nominato, bisognerà dare a tale personaggio il nome di ‘Antibeatrice’, poiché rappresenta valori opposti a quelli che Beatrice incarna. I riferimenti a testi scritti prima e dopo la Vita Nuova, dedicati a donne diverse, sono stati già individuati dalla critica. Non è necessario che qui li ricordi. Osservo, invece, che il personaggio della Antibeatrice è strutturalmente legato, sul piano romanzesco, al personaggio di Beatrice, per cui quando questa appare, all’inizio del Poema (Inf. II) come deus ex machina, contiene già, come propria implicita controfigura, il personaggio che lei stessa evocherà in cima al Purgatorio. Noi lettori veniamo a conocenza di tale polarità solo lì (potremmo, tutt’al più, averne avuto sentore nel sogno della «femmina balba» di Purg. XIX, nel quale una «donna santa» si oppone ad una «antica strega»); ma il poeta ne era ben cosciente quando progettava la Commedia, ed attorno a questa dicotomia, Beatrice-Antibeatrice, ha strutturato il romanzo che il Poema racconta. Torno ora ai testi da cui sono partito. Credo che siano stati scritti, a Commedia già iniziata, per creare un antefatto del Poema. In essi possiamo cogliere da una parte la creazione di un personaggio, dall’altra la narrazione della genesi di un progetto poetico in atto. Alla creazione del personaggio è finalizzata la ‘montanina’, che descrive un innamoramento nei termini squisitamente cavalcantiani e petrosi di un offuscamento della intelligenza e di un abbandono dell’Io ad una sfrenata passionalità: «Quale argomento di ragion raffrena / ove tanta tempesta in me si gira?» (26-27). Gozzuta o no (il dettaglio è irrilevante), la donna qui desiderata è l’antitesi di Beatrice. Lo smarrimento nella «selva oscura» è, prima di ogni altra cosa, l’abisso di desiderio, cioè di pulsionalità non sublimata, in cui Dante è precipitato, secondo la canzone. La genesi del Poema è invece narrata nella Epistola a Moroello, nel quale il nuovo e folgorante innamoramento che distoglie Dante dal servizio al Marchese e lo costringe ad interrompere le opere che sta scrivendo (il Convivio e il De Vulgari) allude alla sua ideazione, ma non in modo allegorico, come per primo suggerì Pascoli, e sì invece in modo romanzesco, indicando cioè l’innamoramento che assorbe ogni facoltà del poeta come condizione morale e poetica di scrittura. Un dettaglio intertestuale chiarirà questo punto. Si osservino le coincidenze verbali e concettuali fra l’Epistola e un manuale sull’amore come malattia mentale (il De Amore heroico di Arnau de Vilanova): Epistola (3): “Amor terribilis et imperiosus me tenuit. Atque hic ferox tamquam dominus pulsus a patria post longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius contrarium fuerat intra me vel occidit vel expulit vel ligavit”. De Amore heroico (1): “Dicitur autem amor heroicus, quasi dominalis, non quia solum accidat dominis, sed quia aut dominatur subiiciendo animam et cordi hominis imperando, aut quia talium amantium actus erga rem desideratam similes sunt actibus subditorum erga proprios dominos”. L’Epistola spiega l’innamoramento descritto dalla canzone con i termini della malattia d’amore: ed è appunto questo l’inizio della Commedia, secondo la requisitoria di Beatrice, che interpreta lo smarrimento nella selva come ricaduta nell’abisso dell’amore-passione Se ne accorse perfettamente Benvenuto da Imola, che interpretò la selva come allusione a "aliis mulieribus" (in riferimento al verso “questi si tolse a me diessi altrui”).. E poiché l’amore coincide, in volgare, con la poesia, come Dante sa benissimo, è logico ed anzi necessario che dalla condizione di innamoramento scaturisca l’ispirazione poetica, e con essa l’antica alternativa fra un desiderio inteso come pura sessualità ed un desiderio (teologicamente) sublimato. Il ritorno a Beatrice e alla poesia riporta dunque in primo piano la questione sulla quale fin dal principio il poeta si era tormentosamente interrogato, cioè la possibilità di sublimare le pulsioni libidiche, di superare, ma dopo averla di nuovo attraversata, la penosa e frustrante esperienza della fascinazione che su di lui esercita, e non ha mai smesso di esercitare, la Antibeatrice, per essere così di nuovo, e definitivamente, salvato dalla sua antagonista. È all’interno di tale rete autoesegetica ed intertestuale che rivela il suo significato la composizione del Libro delle canzoni, le cui esclusioni (cioè le tre canzoni della Vita Nuova e Lo doloroso amor, in cui il nome di Beatrice appare in rima) e il cui ordinamento (le tre invernali al centro, Così del mio parlar in apertura, la ‘montanina’ in chiusura) sono strettamente funzionali ai rimproveri di Beatrice nel Purgatorio ed hanno quindi il compito di creare un personaggio, la Antibeatrice, alla cui maligna influenza sarebbero dovute tutte le esperienze liriche non ispirate dalla gentilissima Domenico De Robertis intuì il nesso fra l’ordinamento del Libro e i rimproveri di Beatrice: “il nuovo ‘personaggio’ della donna pietra … rappresenta uno scoglio alla scadenza dell’incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre. Non si può escludere che la posizione centrale di queste tre canzoni [le petrose] nel corpus, comunque costituito, delle 15 canzoni sia la figura proprio di questo nodo (op. cit., pp. 104-105).. Si consideri, ora, la differenza fra la autoesegesi del Convivio e quella che risulta invece dall’ordinamento del Libro: nel trattato le canzoni sono spogliate di ogni consistenza personale e romanzesca, poiché la donna che li ispira è una astrazione; nel Libro i testi riacquistano il loro originario significato erotico, ma vengono idealmente unificati nel segno del personaggio che funge da necessaria controfigura romanzesca di Beatrice, in funzione del progetto-Commedia. Se ci chiediamo perché Dante abbandoni il ruolo intellettuale adottato nell’esilio per tornare alla poesia, che sembrava legata a Firenze, al fiume «lungo ‘l qual sempre sopra me sè forte» (Amor, da che convien, 64), credo che la risposta si trovi nei versi iniziali della ‘montanina’: «Amor, da che convien pur ch’io mi doglia / perché la gente m’oda…». Dante vuole essere udito, nel senso imperativo ed autorevole con cui il suo rapporto col lettore appare, per esempio, nella ballata Voi che savete ragionar d’amore: «udite la ballata mia pietosa» e nella canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete: «udite il ragionar ch’è nel mio core» (oppure, in seguito, in tanti luoghi della Commedia Sugli appelli al lettore nella Commedia, e sul loro significato, dal punto di vista della storia della letteratura moderna, si veda il classico studio di Erich Auerbach Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina en el Medioevo, Feltrinelli, Milano, 1960, pp. 217 sgg.). Dopo anni di sperimentazione ‘filosofica’, si rende conto che la prosa trattatistica non ha presa sul pubblico, perché priva dell’energia necessaria per attrarre e commuovere il lettore. Per quanto innovatrici siano le sue tesi ideologiche, ed aperte a un ampio pubblico laico e volgare, i testi filosofici hanno una circolazione necessariamente ristretta, e fanno comunque appello a motivazioni e interessi astrattamente intellettuali: nel migliore dei casi dimostrano, ma difficilmente persuadono o avvincono. Ben altro è il coinvolgimento emotivo e ideale che Dante pretende dai suoi lettori, e che sa di poter mobilitare per la potenza della sua lingua. Decide quindi di tornare allo stile che gli «ha fatto onore» a Firenze, la poesia. Ma fare poesia significa, come ha sostenuto nella Vita Nuova, e contrariamente a quanto ha affermato, da poeta-filosofo, del De Vulgari, rimettere l’amore al centro dell’ispirazione, come sua fonte esclusiva, ricadere, cioè, in quella malattia dalla quale si dichiarava guarito nel già citato sonetto a Cino Io mi credea, significa cioè, semplicemente, innamorarsi, ossia sentire di nuovo il dolore del desiderio e la sua violenza pulsionale, «com’egli afrena e come sprona / e come sotto lui si ride e geme» (Io sono stato con amore insieme, 3-4). È questo il prezzo da pagare per tornare alla poesia. L’ammonimento di Guido, implicito in Donna me prega, che l’amore si esprime solo in versi, unitamente all’assioma della Vita Nuova, che in versi si può parlare solo d’amore, ridiventano concetti operativi nella sua coscienza di scrittore. La ‘montanina’ descrive, e testimonia, appunto questa svolta e i suoi motivi. Ma con l’innamoramento si ripropone a Dante la questione della sublimazione pulsionale, della trasformazione dell’energia sessuale (la passione) in energia morale al servizio della virtù e la conoscenza. La dicotomia Beatrice-Antibeatrice è lo schema romanzesco grazie al quale un nuovo progetto di poesia può essere articolato, narrando un viaggio che rappresenti, sul piano sia personale che collettivo, le peripezie della sublimazione pulsionale dal suo livello di istintualità animalesca (le tre fiere di Inf. I ne sono una magnifica allegoria) fino al supremo grado di razionalità e spiritualità (l’ «amor che move il sole e l’altre stelle»). Si tratta, però, sempre e soltanto di amore, quello da cui dipende «ogne buono operare e ‘l suo contraro» (Purg. XVIII 15), cioè di energia pulsionale esplorata, verso il basso e verso l’alto, in tutte le forme poetiche del suo manifestarsi.